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07 agosto 2025

Alastair Crooke - Un altro attacco statunitense contro l'Iran sarebbe un inutile gesto teatrale

 


Traduzione da Strategic Culture, 4 agosto 2025.

Il presidente degli Stati Uniti, angustiato da una vicenda Epstein che non vuole saperne di passare in secondo piano e messo sotto pressione dai falchi a causa del sensibile collasso dell'Ucraina, sta sparando una raffica di minacce geopolitiche su tutti i fronti. Innanzitutto e soprattutto contro la Russia, ma in secondo luogo contro l'Iran.
"L'Iran è proprio malvagio. Le dichiarazioni degli iraniani sono intrise di malvagità. Sono stati colpiti. Non possiamo permettere loro di avere armi nucleari. Stanno ancora parlando di arricchimento dell'uranio. Chi è che parla così? È proprio stupido. Non lo permetteremo".
Una escalation di qualche genere con la Russia è chiaramente all'ordine del giorno, ma Trump ha minacciato anche di attaccare nuovamente i siti nucleari iraniani. Se lo facesse si tratterebbe di un gesto dimostrativo completamente scollegato dalla realtà delle cose sulla situazione in Iran.
Un altrio attacco, direbbero, significherebbe un'ulteriore regressione -o proprio la parola fine- per la capacità dell'Iran di mettere insieme un'arma nucleare.
E questa sarebbe una bugia.
Theodore Postol, professore emerito di scienza, tecnologia e sicurezza internazionale al MIT, viene considerato il massimo esperto statunitense in materia di armi nucleari e loro sistemi di lancio. Postol esprime alcune osservazioni tecniche controintuitive che questo articolo ha l'intenzione di tradurre in termini politici e che indicano con chiarezza come un ulteriore attacco ai tre siti nucleari colpiti dagli Stati Uniti il 22 giugno sarebbe inutile.
Sarebbe inutile per quanto riguarda l'obiettivo ostentato da Trump, ma un attacco potrebbe comunque esserci, sia pure solo come messinscena volta a facilitare altri e differenti obiettivi come il tentativo di rovesciare la Repubblica Islamica e favorire le ambizioni egemoniche dello stato sionista nella regione.
In parole povere la convincente argomentazione del professor Postol è che l'Iran non ha bisogno di ricostruire il suo precedente programma nucleare per costruire una bomba. Quell'epoca è finita. Sia gli Stati Uniti che lo stato sionista credono -e con ragione, afferma Postol- che la maggior parte delle scorte di uranio altamente arricchito dell'Iran siano sopravvissute all'attacco e siano disponibili.
"I tunnel di Esfahan sono profondi. Sono tanto profondi che gli Stati Uniti non hanno nemmeno provato a farli crollare con le bombe bunker buster. Supponendo che il materiale non sia stato spostato, ora si trova intatto nei tunnel. Dopo una settimana dall'attacco l'Iran aveva già sbloccato l'ingresso di un tunnel".
Insomma, l'attacco statunitense non ha ritardato di anni il programma iraniano. È altamente probabile che la maggior parte dell'uranio altamente arricchito iraniano sia sopravvissuto agli attacchi, pensa Postol.
L'AIEA afferma che al momento dell'attacco l'Iran possedeva 408 kg di uranio arricchito al 60%. Probabilmente gli iraniani lo hanno spostato prima dell'attacco di Trump; secondo Postol lo si sarebbe potuto portare facilmente altrove usando il cassone di un pick up ("o anche un carro trainato da un asino!"). Ma il punto è che nessuno sa dove si trovi quell'uranio arricchito. E quasi certamente è disponibile.
L'argomento essenziale del professor Postol -che evita di accennare a implicazioni politiche- è il paradosso per cui più l'uranio è arricchito, più facile diventa arricchirlo ulteriormente. Di conseguenza l'Iran potrebbe accontentarsi di un impianto di centrifugazione molto più piccolo. Esattamente: molto, molto più piccolo degli impianti su scala industriale di Fordow o di Natanz, progettati per ospitare rispettivamente migliaia e decine di migliaia di centrifughe.
Postol ha elaborato lo schema tecnico di una cascata di 174 centrifughe con cui l'Iran potrebbe arrivare in solo quattro o cinque settimane ad avere l'uranio arricchito -sotto forma di gas esafluoruro- sufficiente a realizzare un ordigno. Nel 2023 l'AIEA aveva trovato particelle di uranio arricchito all'83,7%: un livello militare. Probabilmente si è trattato di un esperimento con cui gli iraniani avrebbero dimostrato a se stessi che erano in grado di farlo quando e come volevano, suggerisce il professor Postol.
Lo schema della cascata di centrifughe di Postol aveva lo scopo di sottolineare il fatto che avendo a disposizione dell'uranio arricchito al 60% occorrono pochi o punti sforzi per proseguire l'arricchimento fino all'83,7%. Eccola qui, la storia dell'arricchimento in segreto.
La cosa che potrebbe risultare ancora più scioccante ad occhi inesperti è che Postol ha ulteriormente dimostrato che una cascata di 174 centrifughe potrebbe essere installata in uno spazio di soli sessanta metri quadrati -la superficie di un modesto appartamento cittadino- e consumerebbe solo poche decine di kilowatt.
Insomma, qualche impianto di arricchimento di dimensioni del genere si potrebbe nascondere ovunque in un paese vasto come l'Iran; aghi in un pagliaio. Anche la conversione dell'uranio in uranio metallico 235 comporterebbe il ricorso a impianti di piccole dimensioni; la si potrebbe eseguire in una struttura di centoventi, massimo centocinquanta metri quadrati.
Sempre a proposito di alcuni dei luoghi comuni che circondano la realtà iraniana, la costruzione di una bomba atomica sferica richiede non più di quattordici chilogrammi di uranio metallico 235 circondato da un riflettore. "Non si tratta di alta tecnologia, è roba da capanno degli attrezzi". Basta assemblare i pezzi e non servono test. Postol afferma che "Little Boy è stato sganciato su Hiroshima senza molti test; è sbagliato pensare che servano test". Ecco sfatato l'altro luogo comune per cui "sapremmo se l'Iran fosse arrivato ad avere capacità nucleari militari perché potremmo rilevare sismicamente il test di una qualsiasi arma".
Una piccola bomba atomica di questo tipo peserebbe solo centocinquanta chili. Le testate di alcuni missili iraniani lanciati contro lo stato sionista durante la guerra dei dodici giorni, sia detto per confronto, ne pesavano tra i quattrocentosessanta e i cinquecento.
Ted Postol è attento a non azzardare valutazioni sulle implicazioni politiche. Eppure sono assolutamente chiare: non ha senso un altro bombardamento su Fordow, Natanz e Isfahan. La stalla è aperta e i buoi sono scappati.
Il professor Postol, come massimo esperto tecnico in materia nucleare, fornisce informazioni al Pentagono e al Congresso. Conosce il direttore dell'intelligence nazionale Tulsi Gabbard, e secondo quanto riferito l'ha messa al corrente della situazione prima dell'attacco di Trump contro Fordow il 22 giugno sostenendo che gli Stati Uniti probabilmente non sarebbero stati in grado di distruggere la sala delle centrifughe, che a Fordow è molto profonda. Altri funzionari del Pentagono, pare, non sarebbero stati della stessa opinione.
Sappiamo che gli Stati Uniti non hanno nemmeno provato a far crollare i tunnel sotto Isfahan con le bombe bunker buster e che si sono accontentati di cercare di bloccare i vari ingressi dei tunnel verso il sito di Isfahan ricorrendo ad armi convenzionali, come i vecchi missili Tomahawk lanciati da sottomarini.
Ripetere l'esercitazione del 22 giugno sarebbe un mero gesto teatrale completamente privo di obiettivi concreti e realistici. Allora perché mai Trump ci starebbe ancora pensando? Durante la sua recente visita in Scozia, ha dichiarato ai giornalisti che l'Iran sta inviando "segnali negativi" e che qualsiasi tentativo di riavviare il suo programma nucleare verrebbe immediatamente represso:
"Abbiamo spazzato via il loro potenziale nucleare. Possono ricominciare. Se lo faranno, lo spazzeremo via più velocemente di quanto vi ci voglia per muovere un dito".
Ci sono diverse possibilità: Trump potrebbe sperare che un ulteriore attacco possa finalmente –secondo lui e altri– provocare la caduta del governo iraniano. Potrebbe anche provare l'istinto di rifuggire da un'escalation contro la Russia, per il pericolo di arrivare a un punto in cui il conflitto potrebbe diventare incontrollabile. E alla fine potrebbe concludere che sarebbe più facile presentare un attacco all'Iran come una dimostrazione della "forza" degli Stati Uniti da presentare poi con un'ulteriore dichiarazione del tipo "colpito e affondato", indipendentemente dai risultati concreti.
Infine, potrebbe pensare di attaccare nella convinzione che lo stato sionista voglia questo attacco, e che anzi ne abbia un disperato bisogno.
La motivazione più probabile potrebbe essere proprio questa. Solo che nell'attuale epoca della geostrategia gli impressionanti miglioramenti nell'accuratezza degli armamenti balistici e ipersonici russi e iraniani -che possono distruggere con precisione un obiettivo con danni collaterali trascurabili e che l'Occidente non è praticamente in grado di intercettare- hanno cambiato le regole del gioco.
E hanno fatto cambiare anche tutto il calcolo geostrategico, specialmente per lo stato sionista. Un ulteriore attacco all'Iran, lungi dal rivelarsi vantaggioso, potrebbe scatenare contro lo stato sionista una risposta devastante a mezzo missili.
Del resto tutte le narrazioni di Trump sono un po' un teatrino. Un teatrino in cui si ostenta sostegno allo stato sionista mentre il vero obiettivo è quello di far crollare e di balcanizzare l'Iran e di indebolire la Russia.
Postol riferisce che un colonnello dell'esercito sionista avrebbe detto a Netanyahu che attaccando l'Iran "probabilmente ce la prenderemmo con uno Stato dotato di armi nucleari". È probabile che Tulsi Gabbard abbia detto lo stesso a Trump.
Il professor Postol è d'accordo. L'Iran deve essere considerato una potenza nucleare non dichiarata, anche se la sua situazione effettiva viene accuratamente celata.

10 luglio 2025

Alastair Crooke - Iran. Trump voleva una guerra perfetta e una vittoria sensazionale: il suo è il "Paese delle performance"...



Traduzione da Strategic Culture, 8 luglio 2025.

"A seconda di chi risponde alla domanda, il bombardamento statunitense degli impianti nucleari iraniani a Fordow, Natanz e Isfahan è stato un successo clamoroso che ha gravemente compromesso il programma nucleare di Tehran oppure un vistoso fuoco di paglia i cui risultati sono stati inferiori alle aspettative... Nel quadro generale, tutto questo non è altro che una recita".
Michael Wolff ha scritto quattro libri su Trump; a suo parere la questione principale, seconda solo a cosa succederà in Iran e a come gli iraniani potrebbero reagire, è data da come reagiranno quelli del MAGA.
E penso che [Trump] sia sinceramente preoccupato, [sottolinea Wolff]. Credo proprio che dovrebbe esserlo. Ci sono due temi essenziali agli occhi di questa coalizione: l'immigrazione e la guerra. Tutto il resto non è intoccabile e può essere oggetto di compromesso. Ma non è certo che su questi due temi siano possibili compromessi.
Il segnale lanciato da Hegseth ("non siamo in guerra con il popolo iraniano, ma solo con il suo programma nucleare") riflette chiaramente un messaggio che di fronte alla reazione dei MAGA ha perso ardimento: "Non fateci caso. Non stiamo davvero facendo la guerra"; ecco cosa stava cercando di dire Hegseth.
Quindi cosa succederà? Ci sono fondamentalmente quattro possibilità: la prima è che gli iraniani dicano "Va bene, ci arrendiamo", ma questo non succederà. La seconda è quella di una guerra prolungata tra Iran e stato sionista, con lo stato sionista che continuerà a subire attacchi mai subiti prima d'ora. La terza è il tentativo di rovesciare la Repubblica Islamica, anche se una cosa del genere non è mai successa in seguito ai soli attacchi aerei. Storicamente, iniziative del genere per mano degli statunitensi si sono sempre svolte in un contesto fatto di massacri, periodi di instabilità lunghi molti anni, terrorismo e caos.
Infine, c'è chi avverte che sarebbe in ballo un Armageddon nucleare con l'obiettivo di distruggere l'Iran. Ma sarebbe un caso di autolesionismo, poiché con esso arriverebbe probabilmente anche l'Armageddon di Trump alle elezioni di metà mandato.
“Mi spiego meglio”, dice Wolff:
Ho fatto molte telefonate, quindi credo di avere un'idea del percorso che ha portato Trump al punto in cui siamo [quello degli attacchi all'Iran]. Le telefonate sono uno dei principali metodi con cui cerco di capire cosa sta pensando (uso il termine "pensare" in senso lato).
Parlo con persone con cui Trump ha parlato al telefono. Voglio dire, l'organizzazione cognitiva di Trump è completamente esterna, e si manifesta in una serie continua di telefonate. Ed è piuttosto facile da seguire, perché Trump dice la stessa cosa a tutti. Quindi è un continuo ripetersi...
In sostanza, quando lo stato sionista ha attaccato l'Iran, lui si è eccitato molto e le sue telefonate erano tutte ripetizioni di un unico refrain: "Vinceranno? È una mossa vincente? È finita? Sono così bravi! È davvero uno spettacolo".
Quindi, ancora una volta, siamo nel mondo dello spettacolo. Questo è un palcoscenico e il giorno prima che attaccassimo l'Iran le sue telefonate ripetevano costantemente: Se lo facciamo, deve essere perfetto. Deve essere una vittoria. Deve sembrare perfetto. Nessuno deve morire.
Trump continua a dire ai suoi interlocutori: "Arrivamo, giù bombe e via! Una gran giornata. Una grande giornata, vogliamo. Vogliamo (eccoci, dice Wolff) una guerra perfetta". Poi, all'improvviso, Trump ha annunciato un cessate il fuoco che secondo Wolff "ha segnato la fine della guerra perfetta di Trump".
E così, all'improvviso, con lo stato sionista e l'Iran che sono sembrati proprio collaborare a mettere in scena questo perfetto film di guerra, "Trump si infastidisce, perché proprio perfetto non è".
Wolff continua:
Trump, a quel punto, era già entrato nel ruolo di uno che dice che "questa è la sua guerra". La sua guerra perfetta. Un drammone televisivo della più bell'acqua, una guerra che è servita per tirare fuori un titolo. E il titolo è ABBIAMO VINTO. Ora comando io e tutti faranno quello che gli dico io. Quello che abbiamo visto in seguito è stato il manifestarsi della sua frustrazione per come è andato a finire il drammone con il titolo eccezionale: nessuno sta facendo quello che lui dice.
Quali sono gli sviluppi di più ampia portata di questo episodietto? Beh, Wolff per esempio ritiene improbabile che Trump venga risucchiato in una guerra lunga e complicata. Perché? "Perché Trump, semplicemente, non ha la capacità di attenzione necessaria. È così. Ha già chiuso: arriva, giù bombe e via".
Nelle considerazioni di Wolff si trova un punto fondamentale da afferrare, per coglierne il più ampio significato strategico: Trump è avido di attenzione. Pensa in termini di titoli da generare, ogni giorno, ma non necessariamente alle politiche che derivano da quei titoli. Cerca il dominio quotidiano dei titoli e per questo vuole definirli attraverso un atteggiamento retorico, modellando la "realtà" per darne una sua "interpretazione" spettacolare in linea col suo stile.
I titoli diventano quindi, per così dire, la materia dell'iniziativa politica. Poi possono svilupparsi in politiche vere e proprie, oppure no.
Al contrario di quello che pensa Wolff, per Trump non sarà facile cavarsela togliendo semplicemente l'Iran da sotto i riflettori, nonostante egli sia capace di prove magistrali quando si tratta di trovare nuovi terreni di contesa. Fondamentalmente Trump si è impegnato a rispettare i sottolitoli per cui "L'Iran non avrà mai la bomba". Si noti che Trump non ha definito la questione in termini politici e si è anzi lasciato margini di manovra per una possibile rivendicazione di vittoria in un secondo momento.
Tuttavia c'è un altro punto fondamentale: l'attacco dello stato sionista all'Iran del 13 giugno avrebbe dovuto far crollare la Repubblica Islamica dell'Iran come un castello di carte. Questo si aspettava lo stato sionista, e chiaramente questo era quello che si aspettava anche Trump: "[Le telefonate di Trump alla vigilia dell'attacco a sorpresa dello stato sionista] erano tutte ripetizioni di un unico refrain: "Vinceranno? È una mossa vincente? È finita? Sono così bravi! È davvero uno spettacolo". Insomma, Trump aveva messo in conto il possibile crollo dello Stato iraniano.
Beh... no. Nessuna fine dei giochi. Nello stato sionista si staranno anche abbracciando gli uni con gli altri emozionati per la pièce teatrale del Mossad del 13 giugno, per la "professionalità" delle decapitazioni guidate dal Mossad, per gli omicidi di scienziati, per gli attacchi informatici e per i sabotaggi. Il Mossad è acclamato da molti nello stato sionista, ma si è trattato solo di successi tattici.
L'obiettivo strategico, il fine ultimo, è stato un fallimento: il castello di carte non solo non è crollato, ma ha reagito vigorosamente. Invece di indebolire la Repubblica Islamica dell'Iran, l'attacco è riuscito ad incendiare il sentimento nazionale sciita e iraniano. Ha ridato vigore a un fervore e a una passione nazionale che erano in gran parte sopiti. L'Iran in futuro sarà più risoluto.
Quindi, se l'attacco dello stato sionista del 13 giugno non ha avuto successo, perché mai le cose dovrebbero andare meglio in un secondo tentativo che troverebbe l'Iran prontissimo a reagire? Contro l'Iran Netanyahu potrebbe preferire una lunga guerra di logoramento che contribuisca alla "grande vittoria in cui spera. Ma Netanyahu adesso non può lasciarsi andare a illusioni del genere (né lo stato sionista può sopravvivere a una guerra di logoramento) senza un aiuto sostanziale da parte degli Stati Uniti (che potrebbe anche non arrivare).
Tuttavia, l'atteggiamento vistosamente ansioso (descritto anche dagli interlocutori di Wolff) di Trump nei confronti degli esiti più o meno rapidamente vittoriosi dell'attacco a sopresa sferrato dallo stato sionista è un indice del suo temperamento: "È una mossa vincente? È finita? Deve essere una vittoria: deve sembrare perfetta! Arrivamo, giù bombe e via!".
Questo modo di fare petulante rivolto al suo entourage denota più una mancanza di fiducia in se stesso che la volontà –o la capacità di concentrazione– necessarie a un lungo scontro privo di un ben definito momento in cui si possa dichiarare la fine dei giochi.
Inoltre, Trump sarà preoccupato -e con buoni motivi- degli effetti di una lunga guerra sulla sua base MAGA, così come sui suoi giovani elettori (che stanno già cominciando ad allontanarsi da lui, come suggeriscono i sondaggi centrati su di essi). La maggioranza di Trump in entrambe le Camere è incredibilmente precaria. Trecento milioni di dollari potrebbero ribaltare la situazione, in un senso o nell'altro.
Occorre ricordare anche un secondo dato di fondamentale importanza. Lo stato sionista è stato attaccato in un modo mai visto prima. A tutt'oggi lo stato sionista nasconde l'estensione dei danni inflittigli dai missili iraniani ma anche i suoi esperti in materia di sicurezza, man mano che prendono atto dell'entità dei danni causati al Paese, stanno arrivando all'amara conclusione che distruggere il “programma” iraniano con mezzi militari potrebbe essere impossibile. Sempre che si riesca a farlo, sarà solo tramite accordi diplomatici di qualche tipo.
Anche il rovesciamento della Repubblica Islamica si è rivelato una chimera. L'Iran non è mai stato così unito e risoluto come lo è oggi. Persino la minaccia di uccidere la Guida Suprema ha avuto l'effetto diametralmente opposto. Quattro autorità religiose sciite (Marja'iyya) -tra cui il celebre Grande Ayatollah Sistani in Iraq- hanno emesso sentenze per cui qualsiasi attacco alla Guida Suprema renderebbe valida una fatwa di jihad che obbligherebbe tutta la Ummah (comunità dei credenti) a unirsi alla guerra religiosa contro l'AmeriKKKa e contro lo stato sionista.
I negoziati tra Stati Uniti e Iran sembrano lontani dal raggiungere un accordo. La AIEA si è resa protagonista del problema, invece di contribuire in qualche modo alla soluzione. L'attenzione di Trump per la questione di un cessate il fuoco in Ucraina sembra si stia affievolendo, e anche per l'Iran alla fine il risultato potrebbe essere lo stesso: quello di lunghi negoziati che non portano a nulla, mentre l'Iran riprende silenziosamente il suo programma di arricchimento. E presumibilmente lo stato sionista scaglierà altri attacchi contro l'Iran, provocandone l'inevitabile risposta e una escalation.

08 maggio 2025

Alastair Crooke - Donald Trump, il campione degli accordi che non conclude accordi



Traduzione da Strategic Culture, 5 maggio 2025.

La versione corrente, sia in Ucraina che in Iran, è che il presidente Trump vuole arrivare a un accordo. In tutti e due i casi la cosa è fattibile, ma sembra che Trump sia comunque riuscito a mettersi con le spalle al muro. Trump tiene a presentare la sua amministrazione come un qualcosa di più spiccio, di più cattivo e di molto meno incline ai sentimentalismi. Essa aspira ad affermarsi, a quanto sembra, anche come qualcosa di più centralizzato, coercitivo e radicale.
In politica interna definire l'ethos trumpiano in questi termini può anche essere fondato. In politica estera tuttavia Trump tergiversa. Il motivo non è chiaro, ma è una cosa che offusca le sue prospettive nei tre settori fondamentali per le sue aspirazioni di "pacificatore": l'Ucraina, l'Iran e Gaza.
Certamente Trump deve la sostanza del suo mandato al dilagante malcontento economico e sociale piuttosto che alla sua pretesa di essere un pacificatore; tuttavia gli obiettivi chiave della politica estera rimangono importanti per mantenere un buon livello di consenso e di inziativa.
Si potrebbe rispondere che nei negoziati internazionali un presidente ha bisogno di circondarsi di personalità determinate ed esperte in grado di sostenerlo. E Trump di queste personalità non ne dispone.
Prima mandare il suo inviato Witkoff a parlare con il presidente Putin, pare che il generale Kellogg abbia presentato a Trump una proposta di armistizio in stile Versailles, basata sull'idea che la Russia fosse alle corde: il piano era formulato in termini che sarebbero stati più appropriati a una capitolazione. La proposta di Kellogg sottintendeva anche l'idea che Trump avrebbe fatto a Putin un "grande favore", a toglierlo dal pantano ucraino in cui era andato a cacciarsi. Ed è proprio questa la linea che Trump ha adottato a gennaio. Dopo aver affermato che la Russia aveva perso in guerra un milione di uomini, Trump aveva aggiunto che "con il suo rifiutare ogni accordo, Putin sta distruggendo la Russia". Disse anche che l'economia russa era "alla rovina" e, cosa ancora più significativa, che avrebbe preso in considerazione l'ipotesi di imporre sanzioni o dazi alla Russia. In un successivo post su Truth Social, Trump ha scritto: "Farò alla Russia, la cui economia sta crollando, e al presidente Putin, un FAVORE davvero grosso".
Debitamente imbeccato dai suoi, il presidente potrebbe aver pensato di offrire a Putin un cessate il fuoco unilaterale e, in men che non si dica, di arrivare rapidamente ad un accordo che avrebbe ascritto a proprio merito. Tutte le premesse su cui si basava il piano Kellogg -il fatto che la Russia soffrisse per le sanzioni e che la guerra ormai in stallo fosse costata enormi perdite- erano false. Nessuno nell'entourage di Trump ha quindi svolto le dovute verifiche sulla strategia di Kellogg? Sembra che -per pigrizia- abbiano preso come modello la guerra di Corea, senza stare neanche a chiedersi se si trattasse di un paragone appropriato o meno.
Nel caso della guerra di Corea il cessate il fuoco lungo la linea del fronte precedette le considerazioni politiche, che arrivarono solo in un secondo momento. E che a tutt'oggi permangono irrisolte.
Con questo insistere anzitempo per un cessate il fuoco immediato durante i colloqui con i funzionari russi a Riyadh, Trump li ha invitati a rifiutare. Soprattutto perché gli uomini di Trump non avevano un piano concreto su come attuare un cessate il fuoco, e si sono limitati a dare per scontato che tutti i dettagli potessero essere affrontati a posteriori. Insomma, la questione è stata presentata a Trump come una facile vittoria.
Cosa che non era.
Il risultato era ovvio: il cessate il fuoco è stato rifiutato. Se al lavoro ci fosse stata gente davvero competente non si sarebbe arrivati a tanto. Nessuno dei funzionari di Trump ha sentito cosa aveva detto Putin il 14 giugno dell'anno scorso, quando aveva esposto con molta chiarezza al Ministero per gli Affari Esteri la posizione russa su un cessate il fuoco, posizione da allora regolarmente ribadita? A quanto pare no.
Eppure, quando l'inviato di Trump Witkoff è tornato dal lungo incontro con il presidente Putin per riferire sulla spiegazione dettagliata fornitagli di persona da quest'ultimo sul perché un qualsiasi cessate il fuoco avrebbe dovuto essere preceduto da un inquadramento politico -a differenza di quanto accaduto in Corea- il generale Kellogg gli avrebbe seccamente ribadito che "gli ucraini non accetteranno mai".
Fine della discussione, a quanto pare. Nulla di fatto.
La situazione è rimasta la stessa, nonostante diversi altri voli diretti a Mosca. A Mosca si attendono conferme sul fatto che Trump è in grado di consolidare la sua posizione e di prendere la situazione in pugno. Fino a quel momento, Mosca è pronta ad agevolare un "ravvicinamento delle posizioni", ma non approverà un cessate il fuoco unilaterale. E nemmeno Zelensky.
A rimanere incomprensibile è come mai Trump non interrompa i flussi di armi e di intelligence statunitensi verso Kiev e non dica agli europei di togliersi dai piedi. Kiev dispone forse di una qualche forma di potere di veto? Gli uomini di Trump non hanno capito che gli europei sperano semplicemente di ostacolare l'obiettivo di Trump, che è quello di normalizzare le relazioni con la Russia? Sarà il caso che comincino a capirlo.
Sembra che il "dibattito" -se così si può chiamarlo- all'interno dell'amministrazione Trump abbia in gran parte escluso i dati reali. Si è svolto ad un livello normativo elevato, dove certi fatti e certe verità sono semplicemente dati per scontati.
Forse ha pesato molto una dinamica analoga al fenomeno dei costi irrecuperabili: più si continua con una linea di condotta -non importa quanto stupida- meno si è disposti a cambiarla. Cambiarla sarebbe interpretato come riconoscere l'errore, e riconoscere l'errore è il primo passo verso la perdita del potere.
E c'è un parallelo nei colloqui con l'Iran.
Trump ha in mente di arrivare a un accordo negoziato con l'Iran che raggiungerebbe il suo obiettivo di un Iran senza armi nucleari. Obiettivo che sarebbe esso stesso tautologico, dato che la comunità dei servizi statunitensi ha già stabilito che l'Iran non possiede armi nucleari.
Come si fa a fermare una cosa che non esiste? Beh, l'intenzione è un concetto estremamente difficile da definire. Quindi, l'entourage di Trump riparte dall'inizio, dal punto fermo originario stabilito dalla Rand Organisation per cui non esiste alcuna differenza qualitativa tra l'arricchimento dell'uranio a fini pacifici e quello a fini militari. Quindi, non dovrebbe essere consentito alcun arricchimento.
Solo che l'Iran l'uranio lo arricchisce, grazie alla concessione di Obama nell'ambito del JCPOA, che lo ha permesso sia pure con alcune limitazioni.
Circolano molte idee su come quadrare il cerchio, ovvero il rifiuto dell'Iran di rinunciare all'arricchimento e l'impossibilità di Trump di usare le parole come armi. Nessuna di queste idee è nuova: importare in Iran materie prime arricchite; esportare l'uranio altamente arricchito dall'Iran in Russia (cosa già fatta nell'ambito del JCPOA) e chiedere alla Russia di costruire l'impianto nucleare iraniano per alimentare l'industria locale. Il problema è che la Russia lo sta già facendo. Un impianto è già in funzione e un altro è in costruzione.
Anche lo stato sionista naturalmente ha avanzato le sue proposte: eliminare alla radice tutte le infrastrutture di arricchimento e le capacità missilistiche dell'Iran.
Solo che l'Iran non accetterà mai.
Quindi, la scelta è tra un sistema di ispezioni e sorveglianza tecnica, implementato in un accordo simile al JCPOA -che non farà la felicità né dello stato sionista né la leadership istituzionale ad esso vicina- o un'azione militare.
Il che ci riporta all'entourage di Trump e ai disaccordi all'interno del Pentagono.
Pete Hegseth ha fatto avere all'Iran questo messaggio, pubblicato su un suo account sui social:
Vediamo il vostro sostegno LETALE agli Houthi. Sappiamo esattamente cosa state facendo. Sapete molto bene di cosa è capace l'esercito statunitense e siete stati avvertiti. Ne pagherete le CONSEGUENZE nel momento e nel luogo da noi scelti.
Chiaramente, Hegseth è un frustrato. Come ha osservato Larry Johnson:
Gli uomini di Trump si sono mossi sulla base di [un'altra] falsa supposizione, ovvero che i collaboratori di Biden non abbiano compiuto seri sforzi per distruggere l'arsenale di missili e di droni degli Houthi. I sostenitori di Trump credevano di poter bombardare gli Houthi fino a sottometterli. Invece, gli Stati Uniti stanno dimostrando a tutti i paesi della regione i limiti della loro potenza navale e aerea... Nonostante più di seicento sortite di bombardamento, gli Houthi continuano a lanciare missili e droni contro le navi statunitensi nel Mar Rosso e contro obiettivi all'interno dello stato sionista.
Pare che gli uomini di Trump si siano prima cacciati in un conflitto con lo Yemen e poi in un negoziato complicati con l'Iran, ancora una volta senza aver controllato di essere tutti d'accordo sullo Yemen. Si tratta davvero di un ragionamento di gruppo?
In una situazione di incertezza come quella attuale, la solidarietà viene vista come un fine in sé e nessuno vuole essere accusato di "indebolire l'Occidente" o di "rafforzare l'Iran". Se devi sbagliare, meglio sbagliare in compagnia del maggior numero possibile di persone.
Lo stato sionista lascerà correre? Sta lavorando alacremente con il generale Kurilla (il generale statunitense al comando del CENTCOM) nel bunker sotto il Dipartimento della Difesa, preparando piani per un attacco congiunto contro l'Iran. Lo stato sionista sembra molto impegnato in questa occupazione.
Tuttavia, l'ostacolo fondamentale al raggiungimento di un accordo con l'Iran è ancora più cruciale, in quanto -così come è attualmente concepito- l'approccio degli Stati Uniti ai negoziati viola tutte le regole su come avviare un trattato di limitazione degli armamenti.
Da un lato c'è lo stato sionista, che ha armi nucleari e la capacità per lanciarle con sottomarini, aerei e missili. Lo stato sionista il ricorso alle armi nucleari lo ha anche minacciato, sia recentemente a Gaza sia durante la prima guerra in Iraq, in risposta ai missili Scud di Saddam Hussein.
A mancare, qui, è un minimo di principio di reciprocità. Si dice che l'Iran minaccia lo stato sionista, quando è lo stato sionista a minacciare regolarmente l'Iran. E lo stato sionista ovviamente vuole che l'Iran sia neutralizzato e disarmato, mentre insiste per non dover rendere conto di niente: niente trattato di non proliferazione, niente ispezioni dell'AIEA, nessuna ammissione.
I trattati di limitazione agli armamenti avviati da JF Kennedy e da Krusciov derivavano dal successo dei negoziati con cui gli Stati Uniti ritirarono i propri missili dalla Turchia prima che la Russia ritirasse i propri da Cuba.
Deve essere chiaro a Trump e Witkoff che proposte sbilanciate come quella che rivolgono all'Iran non hanno alcuna relazione con le realtà geopolitiche e sono quindi prima o poi destinate al fallimento. La squadra di Trump si sta mettendo con le spalle al muro da sola, costringendosi ad un'azione militare contro l'Iran di cui poi dovrà assumersi la responsabilità.
Trump questo non lo vuole, l'Iran non lo vuole. Quindi, si è approfondita la questione? L'esperienza dello Yemen è stata presa in considerazione nella sua interezza? Quelli di Trump hanno pensato a qualche via d'uscita? Un modo innovativo per uscire da questo dilemma e di ripristinare almeno in parte una parvenza di trattato di limitazione degli armamenti come lo si intende in modo classico potrebbe essere l'avanzare l'idea, da pare di Trump, che è giunto il momento che lo stato sionista aderisca al trattato di non proliferazione e che sottoponga le sue armi all'ispezione dell'AIEA.
Trump lo farà? No.
Il motivo è ovvio.
La trasformazione degli USA voluta da Trump passa dal ricostruire gli USA innanzitutto.

29 gennaio 2025

Alastair Crooke - Cosa intende fare Trump, vuole arrivare ai ferri corti con la Russia oppure no?



Traduazione da Strategic Culture, 28 gennaio 2025.

La retorica di Trump sulla Russia che avrebbe perso un milione di uomini nel conflitto ucraino non è soltanto assurda (il numero reale non raggiunge nemmeno i centomila): il fatto che abbia tirato fuori roba del genere evidenzia come la consueta giustificazione per cui Trump sarebbe solo malaccortamente disinformato sembri sempre meno plausibile.
Dopo aver parlato di un milione di morti russi, Trump asserisce che Putin sta distruggendo la Russia perché non si risolve ad accordarsi. Aggiungendo (apparentemente a margine) che Putin potrebbe aver già deciso di "non arrivare ad un accordo".
Trump poi nota, in un modo che denoterebbe una curiosa mancanza di interesse, che i negoziati dipendono interamente dal fatto che Putin ne sia interessato o meno. Scrive anche che l'economia russa è alla rovina e, soprattutto, afferma che prenderebbe in considerazione sanzioni o dazi doganali contro la Russia se Putin non accettasse di trattare. In un successivo post su Truth Social, Trump scrive: "Farò alla Russia, la cui economia sta crollando, e al presidente Putin, un FAVORE davvero grosso".
Si tratta, siamo chiari, di una narrazione di tutt'altro ordine. Non sono più le parole del suo inviato Kellogg o di un altro membro della sua amministrazione; sono le parole di Trump stesso, in qualità di Presidente. Trump risponde alla domanda di un giornalista: "Sanzionerebbe la Russia" se Putin non venisse al tavolo dei negoziati? E la risposta è "Sembra probabile".
Potremmo chiederci quale sia la strategia di Trump. Sembra piuttosto che sia lui, a prepararsi all'eventualità che i negoziati vadano male. Del fatto che Putin ha ripetutamente dichiarato di essere interessato e disponibile a trattare deve essere a conoscenza per forza. Su questo non ci sono dubbi.
Tuttavia Trump smentisce i toni con cui ci si rivolge ai perdenti tornando a quanto pare sul discorso: "Voglio dire... è un meccanismo grande, quindi alla fine le cose si sistemeranno...".
Qui sembra dire che il "grande meccanismo" russo alla fine vincerà. La Russia sarà un vincitore, e non un perdente.
Forse Trump sta pensando semplicemente di lasciare che le dinamiche della prova di forza in atto sul piano militare arrivino al loro esito. Se il suo pensiero è questo non può esplicitarlo con chiarezza, perché le élite europee sprofonderebbero ancora di più in una spirale patologica.
Se poi Trump fosse seriamente intenzionato ad arrivare a negoziati costruttivi con Putin, non è certo un bell'esordio quello di mostrarsi profondamente irrispettoso nei confronti del popolo russo dando a intendere che i russi e il Presidente Putin altro non sarebbero che dei "perdenti" che hanno un disperato bisogno di trattare; la verità è che è stato Trump, in precedenza, a parlare di arrivare ad un accordo entro ventiquattro ore. La sua mancanza di rispetto non sarà apprezzata: non solo da Putin, ma anche dalla maggior parte dei russi.
Trattare i russi da perdenti non otterrà altro scopo che quello di irrigidire l'atteggiamento di quanti in Russia si oppongono a un compromesso sull'Ucraina.
Il livello della cosa è che la Russia, in ogni caso, rifiuta collettivamente l'idea di qualsiasi compromesso che "si riduca a congelare il conflitto lungo la linea di ingaggio, perché questo darebbe tempo per riarmare i resti dell'esercito ucraino per poi iniziare un nuovo ciclo di ostilità. A quel punto dovremmo combattere di nuovo, ma questa volta da posizioni politiche meno vantaggiose", ha osservato il professor Sergei Karaganov. Inoltre, "l'amministrazione Trump non ha motivo di negoziare con noi alle condizioni che noi [la Russia] abbiamo stabilito. La guerra è economicamente vantaggiosa per gli Stati Uniti... e [forse] anche per togliere alla Russia il suo ruolo di potente sostegno strategico del principale concorrente degli USA, che è la Cina".
Il professor Dmitri Trenin prevede allo stesso modo che
Il tentativo di Trump di arrivare in Ucraina a un cessate il fuoco lungo le linee del fronte fallirà. Il piano statunitense ignora le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza e non tiene conto delle cause profonde del conflitto. Nel frattempo, le condizioni di Mosca rimarranno inaccettabili per Washington, poiché significherebbero di fatto la capitolazione di Kiev e la sconfitta strategica dell'Occidente. In risposta Trump imporrà ulteriori sanzioni a Mosca. Nonostante la forte retorica antirussa, gli aiuti statunitensi all'Ucraina diminuiranno e gran parte di quest'onere finirà spostato sui Paesi dell'Europa occidentale.
Allora perché considerare la Russia come uno spregevole perdente, a meno che questo non faccia parte della strategia di Trump per chiudere la questione ucraina? La costruzione di una narrazione in cui gli USA sono vincitori senza mezzi termini pare irrealizzabile; allora perché non invertirne i termini? A ostacolare il missione compiuta è solo l'atteggiamento da sconfitti della Russia.
Questo porta inevitabilmente a chiedersi quale sia precisamente il significato del ritorno alla Casa Bianca del "più famoso imputato penale d'AmeriKKKa" e della sua promessa di una "rivoluzione del buon senso".
"Non c'è dubbio che sia rivoluzionario", sostiene Matt Taibbi:
Trump ha galvanizzato il risentimento [che nasce dalla cattiva distribuzione del reddito], mettendo in piedi una versione politica della marcia di Sherman che ha lasciato in fiamme le istituzioni statunitensi. La grande stampa è morta. Il Partito Democratico è a rischio di scissione. Gli ambienti accademici stanno per buttar giù una dose da cavallo di pillole amare, e dopo gli ordini esecutivi firmati lunedì un sacco di responsabili dei programmi per la diversità, l'equità e l'inclusione dovranno imparare a scrivere codice" [cioè, si ritroveranno disoccupati].
 Sì, osserva Taibbi,
mi manda in bestia vedere una serqua da galera di amministratori delegati su cui ci sarebbe parecchio da ridire (in particolare Bezos, Pinchai e il ripugnante Cook) seduti di fronte a Trump, insieme ad altri pezzi grossi di Wall Street... tuttavia, se l'accordo è stato quello per cui il sostegno a Trump avrebbe loro restituito piattaforme che tornano a essere meri e ottusi strumenti di profitto, credo che rimpiangerò la banda che c'era prima. Lo Wall Street Journal è stato probabilmente il più vicino a catturare l'essenza di questa considerazione dell'evento con il titolo in prima pagina di ieri: "La nuova oligarchia è quella vecchia, ma se la passa molto meglio".
Per molti russi, tuttavia, l'impressione lasciata dal discorso in cui Trump li ha trattati da perdenti è che non cambierà nulla: l'idea di infliggere una qualche sconfitta strategica alla Russia è stata una pietra miliare della politica statunitense per così tanto tempo che ha finito per trascendere la linea politica dei partiti e viene perseguita in ogni caso, indipendentemente dall'amministrazione che occupa la Casa Bianca. Oggi avrebbe ripreso nuovo vigore: come avverte Nikolai Patrushev, Mosca si aspetta che Washington fomenti apposta i dissidi tra Russia e Cina.
Steve Bannon tuttavia, con il suo solito linguaggio forbito, spiega in qualche modo la stranezza di questo Trump rivoluzionario e della sua deludente "retorica buona per i perdenti".
Bannon avverte che l'Ucraina rischia di diventare "il Vietnam di Trump", se Trump non riuscirà a imprimere una netta svolta agli eventi e si lascerà risucchiare ancora di più dalla guerra. "È quello che è successo a Richard Nixon. Finì per impadronirsi delle operazioni e quella divenne la sua guerra, non quella di Lyndon Johnson", ha osservato Bannon.
Bannon "sostiene la necessità di porre fine agli importantissimi aiuti militari statunitensi a Kiev, ma teme che il suo vecchio capo cada nella trappola tesa da un'improbabile alleanza tra l'industria della difesa statunitense, gli europei e persino alcuni amici dello stesso Bannon, che secondo lui sarebbero adesso mal consigliati".
In una chiamata su Zoom con Alex Krainer Bannon ha trovato conferma alla premessa dei suoi ragionamenti. Trump e i suoi sarebbero passati all'offensiva fin dal primo giorno di mandato: "I giorni del tuono iniziano lunedì". Bannon non parlava però di un'offensiva di Trump contro i cinesi, gli iraniani o i russi. Trump e la sua squadra si stanno preparando ad affrontare loro.
Loro, nelle parole di Bannon, "sono le persone che controllano l'impero più potente del mondo; elezioni o non elezioni, democrazia o non democrazia, non rinunceranno spontaneamente ai loro privilegi e alle loro prerogative: si andrà allo scontro".
Sì, la guerra quella vera è quella sul piano interno, non quella contro la Russia, la Cina o l'Iran, che potrebbe magari diventare un diversivo rispetto allo scontro sostanziale.
Cercando un paragone, se l'obiettivo di Trump fosse davvero quello di arrivare a negoziare un compromesso sull'Ucraina, dobbiamo contrapporre alla sua retorica infarcita di supponenza quella del tentativo di John F. Kennedy, cinquantanove anni fa, di rompere il ciclo di antipatia reciproca che aveva congelato le relazioni tra Est e Ovest dopo il 1945. Colpito dalla crisi dei missili di Cuba nel 1962, Kennedy voleva infrangere un paradigma sclerotizzato. Kennedy -come Trump- cercava di "porre fine alle guerre" e di essere ricordato dalla storia come un "costruttore di pace".
In un discorso alla American University di Washington il 10 giugno 1963, JFK i russi li elogiò. Parlò dei loro successi nelle scienze, nelle arti e nell'industria e rese omaggio ai loro sacrifici nella Seconda Guerra Mondiale, che era costata venticinque milioni di persone, un terzo del loro territorio e due terzi della loro economia.
Non fu un mero esercizio di retorica. Kennedy propose il Trattato per la messa al bando parziale degli esperimenti nucleari, il primo degli accordi sul controllo degli armamenti degli anni Sessanta e Settanta. L'avvisaglia dell'avvio di un taglio netto -ispirato da Bannon- ci sarebbe anche, come nota Larry Johnson: "Il Pentagono avrebbe licenziato o sospeso tutto il personale direttamente responsabile della gestione dell'assistenza militare all'Ucraina. Tutti quanti dovranno affrontare un'indagine sull'uso dei fondi provenienti dal bilancio statunitense".
 Laura Cooper, vicesegretario del Pentagono per la Russia, l'Ucraina e l'Eurasia, ha già rassegnato le dimissioni segnando l'inizio di quello che alcuni vedono come una svolta strategica. Cooper era una figura chiave nella supervisione di aiuti militari all'Ucraina che assommavano a centoventisei miliardi di dollari. La sua dipartita, unita a quello che sembra essere un repulisti dello staff del Pentagono dedicato allo sforzo bellico di Kiev, mette in dubbio che l'Ucraina possa continuare a godere del flusso di armi e finanziamenti statunitensi che riceveva sotto Biden.
La ristrutturazione getta anche un'ombra sul gruppo di contatto per la difesa dell'Ucraina, che sotto Lloyd Austin era arrivato a coalizzare nell'appoggio a Kiev una cinquantina di Paesi.
 Gli Stati Uniti avrebbero ritirato tutte le richieste ai contraenti per la logistica che passa da Rzeszow, da Costanza e da Varna. Nelle basi NATO in Europa, tutte le spedizioni verso l'Ucraina sono state sospese e interrotte. Questo rientra nell'ordine esecutivo di Trump che blocca l'assistenza globale degli Stati Uniti per novanta giorni, in attesa di una verifica e di un'analisi costi-benefici.
Nel frattempo, Mosca e la Cina si stanno debitamente preparando alla prospettiva di un più intenso impegno diplomatico con l'attuale Presidente Trump. Xi e Putin hanno tenuto una videochiamata di novantacinque minuti poche ore dopo l'improvvisata conferenza stampa di Trump nello Studio Ovale. Xi ha fornito a Putin i dettagli della sua conversazione con Trump, che non era stata programmata per coincidere con l'insediamento di Trump ma era stata in origine decisa per dicembre.
Entrambi i leader sembrano inviare a Trump un messaggio condiviso: l'alleanza tra Cina e Russia non è provvisoria. I due Paesi sono uniti nella causa comune rappresentata dalla collaborazione nella tutela dei rispettivi interessi nazionali. Sono disposti a parlare con Trump e ad impegnarsi in negoziati seri. Tuttavia, rifiutano di farsi intimidire o minacciare.
Nikolai Patrushev, consigliere di Putin e membro del Consiglio di sicurezza russo, ha così ritratto il punto di vista russo su questa videochiamata tra i due leader: "Per l'amministrazione Biden, l'Ucraina era una priorità incondizionata. È chiaro che i rapporti fra tra Trump e Biden sono quelli tra due antagonisti. Pertanto, l'Ucraina non sarà tra le priorità di Trump. A lui interessa di più la Cina".
In particolare, Patrushev ha avvertito:
Penso che gli attriti fra Washington e Pechino si aggraveranno e che gli statunitensi li aggraveranno, anche di proposito. Per noi la Cina è stata e rimane il partner più importante, e alla Cina siamo legati da rapporti di cooperazione strategica privilegiata.
Per quanto riguarda la linea russa in relazione all'Ucraina, essa rimane invariata. Per noi è importante che l'Operazione Speciale assolva ai propri compiti, che sono quelli noti e che rimangono invariati. Credo che i negoziati sull'Ucraina debbano essere condotti tra Russia e Stati Uniti senza la partecipazione di altri Paesi occidentali.
Voglio sottolineare ancora una volta che il popolo ucraino ci è ancora vicino, fraterno e legato da vincoli secolari con la Russia per quanto i propagandisti di Kiev ossessionati dalla "ucrainità" sostengano il contrario. Quello che accade in Ucraina ci riguarda. È particolarmente inquietante [quindi] che la violenta imposizione dell'ideologia neonazista e una russofobia rabbiosa distruggano le città un tempo prospere dell'Ucraina tra cui Charkiv, Odessa, Nikolaev e Dnipropetrovsk.
È possibile che nel prossimo anno l'Ucraina cessi del tutto di esistere.

15 gennaio 2025

Alastair Crooke - Trump, l'Iran e il piano strategico di Obama


traduzione da Strategic Culture, 13 gennaio 2025.

 Come un antico orologio fracassato -con i suoi elaborati ingranaggi, le ruote dentate e le altre parti interne che fuoriescono dall'involucro- così è il Medio Oriente, con i suoi meccanismi esposti e rotti allo stesso modo. Tutta la regione è in gioco: Siria, Libano, Qatar, Giordania, Egitto, Iran.
L'originale piano strategico di Obama per arginare e bilanciare le energie potenzialmente violente dell'Asia occidentale venne passato all'entourage di Biden alla fine del mandato di Obama, e di Obama portava ancora con chiarezza lo imprimatur, fino a quando non è collassato dopo il 7 ottobre 2023.
Netanyahu ne ha deliberatamente distrutto i meccanismi: con iniziative di sfrenata distruzione Netanyahu ha fatto piazza pulita di uno status quo che vedeva come una camicia di forza con cui gli statunitensi avrebbero impedito alla Grande Israele di arrivare alla propria "Grande Vittoria". Netanyahu mal tollerava i vincoli degli USA anche se, mandando in pezzi tutto quanto, invece di liberare la Grande Israele potrebbe aver scatenato dinamiche che si riveleranno molto più minacciose, per esempio in Siria.
La pietra angolare dell'equilibrio regionale di Obama era descritta in una lettera segreta inviata alla Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran nel 2014 e in cui -come riporta il Wall Street Journal, Obama proponeva a Khamenei di agire congiuntamente in Iraq e Siria contro lo Stato Islamico che vi controllava territori. Questa iniziativa congiunta, tuttavia, era subordinata al raggiungimento da parte dell'Iran di un accordo nucleare con gli Stati Uniti.
La lettera riconosceva esplicitamente gli interessi dell'Iran in Siria; per alleviare le preoccupazioni dell'Iran sul futuro del suo stretto alleato, il Presidente al Assad, la lettera affermava che le operazioni militari degli Stati Uniti in Siria non erano rivolte contro il Presidente Assad o contro le sue forze di sicurezza.
L'intesa tra Obama e Khamanei, va notato, si estendeva implicitamente a Hezbollah, che si era unito all'Iran per combattere lo Stato Islamico in Siria:
Tra gli altri messaggi trasmessi a Teheran, secondo i funzionari statunitensi dell'epoca, c'era anche che le operazioni militari degli Stati Uniti in Iraq e Siria non miravano a indebolire Tehran o i suoi alleati.
Ovviamente, gli impegni presi da Obama nei confronti dell'Iran erano menzogne: Obama aveva già firmato nel 2012 (o anche prima) un mandato presidenziale segreto (cioè un ordine) perché i servizi statunitensi fornissero appoggio ai ribelli siriani nel loro tentativo di spodestare il Presidente Assad.
La lettera del 2014 stabiliva che se l'Iran avesse stretto un accordo sul nucleare i suoi interessi nella regione sarebbero stati rispettati e che avrebbero potuto estendersi anche al Libano, nel contesto di un'amministrazione congiunta internazionale (come esemplificato dalla mediazione dell'inviato statunitense Hochstein sui confini marittimi tra Libano e Siria).
Lo scopo di questo progetto molto complesso era una delle ossessioni fondanti di Obama: arrivare all'instaurazione di un proto-stato palestinese, sia pure sotto la forma di protettorato amministrato e sostenuto dalla comunità internazionale piuttosto che sotto la forma di Stato nazionale sovrano.
Perché Obama ha insistito su un assetto che era un tale anatema per la destra dello stato sionista e per i sostenitori ameriKKKani dello stato sionista? Sembra che (a ragione) diffidasse di Netanyahu e conoscesse bene la determinazione di quest'ultimo a impedire che uno Stato palestinese si concretizzasse.
Con questa iniziativa all'insegna dell'equilibrio tra potenze, Obama aveva cercato indirettamente di legare l'Iran e i suoi alleati al concetto di "Stato" palestinese come egli lo intendeva. Il tutto aveva lo scopo di porre sotto crescente pressione lo stato sionista, affinché acconsentisse alla sua instaurazione. Senza una intensa pressione sullo stato sionista era chiaro a Obama che uno Stato palestinese sarebbe rimasto lettera morta.
Netanyahu aveva già messo anche troppo in chiaro già negli anni Settanta che la sua intenzione era quella di assistere al completo svuotamento della presenza palestinese in Cisgiordania. La cosa era evidente nell'intervista che Netanyahu rilasciò allo scrittore Max Hastings, che stava scrivendo un libro su suo fratello.
Netanyahu non amava Obama, e ne diffidava tanto quanto Obama diffidava di lui.
Dopo il 7 ottobre 2023, con l'anello di fuoco rappresentato da sette fronti di guerra che si stringeva attorno allo stato sionista, Netanyahu ha deciso di rompere i vincoli della camicia di forza. E ci è riuscito.
Tuttavia, non è certo che la struttura finemente elaborata da Obama avrebbe mai funzionato. In ogni caso Netanyahu -sfidando apertamente la Casa Bianca- ha deciso di sbarazzarsi delle remore di Obama e di Biden e di distruggere l'intero progetto di Obama incentrato sull'Iran.
La logica della serie di devastazioni che lo stato sionista ha operato nella regione ha fatto pensare a Netanyahu, così come a molti nello stato sionista e tra gli statunitensi che fanno i sionisti di complemento, che l'Iran sia adesso "incredibilmente vulnerabile" -per dirla con il generale Jack Keane- a causa della perdita della Siria, che era lo snodo centrale dell'Asse della Resistenza.
Axios scrive:
Visti i recenti progressi dell'Iran in campo nucleare, il presidente eletto Trump dovrà prendere una decisione cruciale nei primi mesi del mandato: neutralizzare la minaccia [nucleare iraniana] attraverso negoziati e pressioni [crescenti], oppure ordinare un attacco militare. Diversi consiglieri di Trump ammettono in privato che il programma iraniano è ormai così avanzato che questa strategia [iniziale] potrebbe non essere più efficace. Ciò rende l'opzione militare una possibilità reale”. Il ministro sionista per gli Affari strategici Ron Dermer ha incontrato Trump a Mar-a-Lago in novembre. Dermer ha pensato che ci fossero grandi probabilità che Trump appoggiasse un attacco militare sionista contro le strutture nucleari iraniane -cosa che nello stato sionista stanno prendendo in seria considerazione- o che addirittura ordinasse un attacco statunitense. Nelle ultime settimane, alcuni consiglieri del Presidente Biden hanno sostenuto in privato la necessità di colpire i siti nucleari iraniani prima che Trump entri in carica, dato che l'Iran e i suoi alleati sono così gravemente indeboliti.
Solo che tutto questo potrebbe rivelarsi un pio desiderio. Il 7 gennaio 2025 Trump ha ripubblicato un video sulla piattaforma Truth Social in cui, con la partecipazione del professore della Columbia University Jeffrey Sachs, si parla degli sforzi con cui la CIA si sarebbe segretamente impegnata per destabilizzare il governo siriano e rovesciare Assad, dell'influenza di Netanyahu, del ruolo della lobby sionista nello spingere gli Stati Uniti verso la guerra in Iraq e dei continui tentativi di Netanyahu di coinvolgere gli stessi Stati Uniti in un potenziale conflitto con l'Iran. Sachs ha spiegato che le guerre in Iraq e in Siria sono state fabbricate da Netanyahu e che non hanno nulla a che fare con la "democrazia".
"Netanyahu sta ancora cercando di farci combattere contro l'Iran. È un autentico figlio di puttana, perché ci ha fatto cacciare in guerre senza fine", ha detto il professor Sachs nell'intervista ripubblicata.
Tuttavia, come osserva Barak Ravid, "nell'ambiente di Trump c'è anche chi pensa che cercherà di arrivare a un accordo prima di prendere in considerazione un attacco". A novembre, a chi gli chiedeva se c'era la possibilità di una guerra con l'Iran, Trump ha risposto: "Tutto può succedere, è una situazione molto volatile".
Cosa significa questo per l'Iran?
Essenzialmente, l'Iran ha due opzioni: In primo luogo, segnalare agli Stati Uniti la propria disponibilità a stipulare una sorta di nuovo accordo nucleare con l'esecutivo di Trump -un segnale che il suo Ministro degli Esteri ha peraltro già inviato- e poi attendere un successivo incontro Trump-Putin per rifondare una architettura di sicurezza globale postbellica e che sia coronato da successo. A partire da questo accordo globale a grandi linee, Tehran potrebbe sperare di negoziare un proprio accordo separato con gli Stati Uniti.
Naturalmente, questo sarebbe l'esito migliore.
Tuttavia, l'ambasciatore Chas Freeman ha affermato che, sebbene una pace equilibrata tra Stati Uniti e Russia sia (teoricamente) possibile, sarà "molto difficile" arrivarci. Ray McGovern ha aggiunto più volte che Trump è "abbastanza intelligente" da sapere di non avere grandi carte da giocare con la Russia nello spazio eurasiatico e che, da bravo realista, ha altri e più grandi obiettivi.
È per questo che Trump e Musk stanno rimestando in modo tanto rimarcato nel calderone della geopolitica: Canada, Groenlandia e Panama come parte degli Stati Uniti? Saranno anche chiacchiere da Trump, ma la Groenlandia e Canada insieme potrebbero cambiare l'equilibrio con la Russia: forse che Trump è intenzionato ad esercitare maggiore pressione sull'Artico, per minacciare i confini settentrionali della Russia? Dall'Artico, per dei missili diretti contro di essa, il volo sarebbe più breve.
Dall'altra parte, Musk ha scatenato un fuoco di fila in Europa con i suoi tweet e il suo invito a un livestream con Alice Weidel dell'AfD. La Germania è il cuore della NATO e dell'UE. Se la Germania si allontanasse dalla prospettiva di una guerra con la Russia andandosi a unire ad altri Paesi europei che hanno già cambiato orientamento, Trump potrebbe plausibilmente porre fine al considerevole onere economico che grava sull'economia statunitense rappresentato dal dispiegamento di truppe nell'UE. Come dice il colonnello Doug Macgregor, quante volte dobbiamo dire alla gente che "gli ameriKKKani non vivono in Europa: noi viviamo nell'emisfero occidentale!".
Musk ha effettivamente lanciato una bomba in favore della libertà di parola contro l'egemonia mediatica europea che controlla strettamente il discorso in tutto il continente e che obbedisce al deep state anglosassone.
Questo porterà all'accordo con la Russia e con la massa continentale asiatica che Trump sta cercando? Staremo a vedere.
L'opzione alternativa per l'Iran è più rischiosa, e dipende dalla valutazione dei servizi segreti iraniani sulla probabilità che lo stato sionista tenti un attacco preventivo: l'Iran ha cioè l'opzione di un'ulteriore "Operazione Vera Promessa" in cui però lo scopo non è più quello di fare deterrenza, come nelle versioni precedenti, ma -come spiega Shivan Mahendrarajah- quello di mettere in chiaro che una vittoria sionista è improbabile e dimostrare che un conflitto avrebbe costi inaccettabili, smontando così l'illusoria narrazione di uno stato sionista destinato immancabilmente a trionfare.
Nel 2003, come ha notato Mahendrarajah, l'Iran aveva proposto agli Stati Uniti un "grande accordo". L'amministrazione Bush lo rifiutò. Sarebbe possibile richiamarlo in vita non attraverso colloqui sul nucleare, in cui adesso l'Iran ha la mano più debole, ma con l'uso calibrato della forza. Sarebbe una scommessa audace e di vasta portata.

(Questa è la seconda parte dello scritto “Può Trump salvare l'America da se stessa?”. La prima parte può essere letta qui).

28 dicembre 2024

Alastair Crooke - Coloro che assegnano le corone tolgono di nuovo il velo dalla Siria. E inizia una tragedia greca

Traduzione da Strategic Culture, 23 dicembre 2024.

James Jeffrey, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq e in Turchia, in una intervista del marzo 2021 col canale televisivo pubblico statunitense Frontline, ha descritto con molta chiarezza le linee di quanto è successo in Siria in questo dicembre 2024.
La Siria, date le sue dimensioni, la sua posizione strategica, la sua importanza storica, è fondamentale per capire se [può esistere] nella regione un sistema di sicurezza gestito dagli statunitensi... E quindi esiste questa ampia alleanza, legata con noi a doppio filo. Ma. .. in Siria i motivi di tensione hanno ripercussioni di vastissima portata.
Jeffrey ha spiegato -in questa intervista del 2021- perché gli Stati Uniti si sono messi a sostenere Jolani e lo Hayat Tahrir al-Sham (HTS):
Abbiamo ottenuto da Mike Pompeo una deroga che ci consentisse di fornire aiuti allo HTS; io stesso ho ricevuto e inviato messaggi allo HTS. I messaggi con cui lo HTS rispondeva erano del tipo "Noi [HTS] vogliamo essere vostri amici. Non siamo terroristi. Stiamo solo combattendo contro Assad".
L' intervistatore di Frontline chiede: Gli Stati Uniti stavano "sostenendo indirettamente l'opposizione armata"? Al che Jeffrey risponde:
Per noi era importante che lo HTS non si disgregasse... la nostra politica era... di lasciarlo in pace... E in effetti non lo abbiamo mai preso di mira e non abbiamo mai alzato la voce con i turchi riguardo alle loro brighe con lo HTS. In effetti, ho proprio citato questo esempio l'ultima volta che ho parlato con personalità turche di alto livello quando hanno iniziato a lamentarsi dei rapporti che noi [gli Stati Uniti] abbiamo con le SDF [in Siria orientale].
Ho detto loro: "Sentite, la Turchia ha sempre sostenuto che volete che restiamo nel nord-est della Siria, e ancora lo sostiene. Ma voi non capite. Non possiamo essere nel nord-est della Siria senza una base sicura, perché lì i nostri soldati sono solo poche centinaia... è come per voi a Idlib," ho detto. "Noi vogliamo che rimaniate a Idlib, ma non potete restarci senza una base sicura. E questa base sicura è in gran parte costituita dallo HTS. Ora, a differenza delle SDF, lo HTS è un'organizzazione terroristica ufficialmente definita come tale dalle Nazioni Unite. Ci siamo mai lamentati con voi, io o qualche altro funzionario statunitense, di quello che state facendo con lo HTS? Non mi pare...".
David Miller, un accademico britannico, ha notato che nel 2015 l'eminente studioso musulmano sunnita siriano Shaykh al-Yaqoubi (che è contro Assad), non si fidava degli sforzi di Jolani per ribattezzare AlQaeda come Jabhat an Nusra. Jolani, nell'intervista rilasciata ad Al Jazeera nel 2013, aveva ribadito per due volte la sua fedeltà ad AlQaeda affermando di aver ricevuto ordini dal suo capo, il dottor Ayman [al-Zawahiri]... ordini che imponevano di non prendere di mira l'Occidente. Confermò il suo atteggiamento, che era improntato a una inflessibile intolleranza nei confronti di coloro che praticano un Islam "eretico".
Miller commenta:
Mentre lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante si mette il vestito buono, permette che la Siria venga fatta a pezzi dagli Stati Uniti, predica la pace con lo stato sionista, vuole il libero mercato e fa accordi sul gas con i suoi protettori regionali, i suoi "veri credenti"... nella diaspora identitaria sunnita non si sono ancora accorti di essere stati venduti come era nei piani.
Quando non li vede nessuno, quelli che nei paesi della NATO hanno messo in piedi questa guerra si prendono gioco di questa giovane carne da cannone salafita che da tutto il mondo si va a cacciare nel tritacarne. Gli stipendi da duemila dollari sono bruscolini rispetto alle ricchezze in termini di opere edilizie e di gas che dovrebbero tornare nelle casse di Turchia, Qatar, stato sionista e Stati Uniti. Hanno ucciso la Palestina per questo, e passeranno i prossimi trent'anni a giustificarsi sulla base di qualsiasi linea di condotta che le costosissime società di pubbliche relazioni ingaggiate dalla NATO e dagli Stati del Golfo gli propineranno... L'operazione di rovesciamento del governo in Siria è stata il colpo gobbo del secolo.
Naturalmente, James Jeffrey non ha raccontato propriamente qualche cosa di inedito. Tra il 1979 e il 1992 la CIA ha speso miliardi di dollari per finanziare, armare e addestrare le milizie dei mujahiddin afghani -come Osama bin Laden- nel tentativo di dissanguare l'URSS trascinandola in un pantano. Ed è dai ranghi dei mujahiddin che è emersa AlQaeda.
"Eppure negli anni 2010 gli Stati Uniti, nonostante fossero a quanto pareva in guerra con AlQaeda in Iraq e in Afghanistan, stavano segretamente collaborando con essa in Siria per rovesciare Assad. La CIA spendeva circa un miliardo di dollari all'anno per addestrare e armare un'ampia rete di gruppi ribelli a questo scopo. Come scriveva Jake Sullivan al Segretario di Stato Hillary Clinton in una email il cui contenuto è stato rivelato nel 2012, “AQ [al-Qaeda] in Siria è dalla nostra parte", osserva Alan Macleod su Consortium News.
I resoconti della stampa turca confermano ampiamente che lo scenario ritratto da Jeffrey corrisponde al piano messo in atto oggi: Ömer Önhon, una lunga carriera come ambasciatore e vice-segretario responsabile per il Medio Oriente e l'Asia presso il Ministero degli Affari Esteri turco, scrive che
l'operazione per rovesciare il governo di Assad in Siria è stata meticolosamente pianificata per oltre un anno, con il coinvolgimento coordinato di Turchia, Stati Uniti e diversi altri Paesi. Attraverso varie dichiarazioni è emerso chiaramente che la cacciata di Assad è stata il risultato di un'intricata rete di accordi tra quasi tutte le parti interessate. Sebbene lo HTS stia lavorando attivamente per rendersi presentabile, che sia diventato presentabile sul serio è una cosa ancora tutta da dimostrare.
La vicenda dello HTS ha un precedente. Nell'estate successiva alla guerra (persa) dello stato sionista contro Hezbollah nel 2006, Dick Cheney si sedette nel suo ufficio lamentando ad alta voce il fatto che Hezbollah fosse ancora forte e, cosa ancora peggiore, che gli sembrava che l'Iran fosse stato il principale beneficiario della guerra in Iraq condotta dagli Stati Uniti del 2003.
L'ospite di Cheney -l'allora capo dei servizi sauditi principe Bandar- concordò vigorosamente (come riferito da John Hannah, che era presente all'incontro) e, nella sorpresa generale, affermò che l'Iran poteva ancora essere ridimensionato: la Siria era l'anello debole, e si poteva romperlo ricorrendo a un'insurrezione islamista. Lo scetticismo iniziale di Cheney si trasformò in euforia quando Bandar disse che il coinvolgimento degli Stati Uniti avrebbe potuto rivelarsi non necessario. Lui -Bandar- avrebbe messo in piedi e diretto l'operazione: "Lasciate fare a me", disse. Bandar disse poi a tu per tu con John Hannah: "Il Re sa che -a parte il crollo della Repubblica Islamica stessa- nulla indebolirebbe l'Iran più della perdita della Siria".
Bene... quel primo sforzo non ha avuto successo. Ha portato a una sanguinosa guerra civile, ma alla fine il governo del presidente Assad aveva retto. Insomma, Jeffrey nel 2024 non ha fatto altro che riprendere il seguito del piano: il "colpo di mano" wahabita ordito in Siria da parte dei Paesi del Golfo doveva semplicemente essere sostituito in un analogo colpo perpetrato dallo HTS, ad opera di un aggregato dotato di un nuovo nome ma formato da varie milizie, per lo più costituite da ex combattenti (molti non siriani) di AlQaeda/an Nusra e dello Stato Islamico, in questo secondo tentativo diretti dai servizi turchi e finanziati dal Qatar.
La Siria è stata così disintegrata e messa a sacco col pretesto di "liberare" i siriani dalla minaccia dello stesso Stato Islamico che Washington prima ha creato e poi ha usato per giustificare l'occupazione del nord-est della Siria da parte delle forze statunitensi. Allo stesso modo, la parte del piano che passa sotto silenzio è quella che consiste nel trasformare la Siria da laica -il suo sistema giuridico è ispirato a quello francese- a islamica ("...implementeremo la legge islamica..."), per giustificare gli attacchi dello stato sionista e l'occupazione di ulteriori territori, iniziative presentate come "misure difensive contro gli jihadisti".
Naturalmente, è fondato ritenere che da tutto questo qualcuno trarrà anche profitto. Non si sono mai raggiunte prove certe, ma le prospezioni sismiche effettuate nel 2011 prima dell'inizio della prima guerra in Siria sembravano indicare la possibile presenza di giacimenti di petrolio o di gas nel sottosuolo, al di là dei relativamente piccoli giacimenti del nord-est. E sì, la ricostruzione sarà una manna dal cielo per lo stagnante settore edilizio turco.
L'esercito siriano allo sbando non rappresentava di per sé una minaccia militare diretta per lo stato sionista. Ci si può quindi chiedere perché lo stato sionista ne stia facendo piazza pulita. "L'obiettivo dello stato sionista è sostanzialmente quello di distruggere la Siria", sostiene il professor Mearsheimer. "Lo stato sionista oltretutto c'entra fino a un certo punto. Credo che nella distruzione della Siria gli statunitensi e i turchi abbiano avuto un ruolo molto più importante dello stato sionista". "Il Paese è distrutto e non conosco nessuno che pensi che i ribelli che ora controllano Damasco saranno in grado di ristabilirvi l'ordine... Dal punto di vista dello stato sionista, meglio di così non potrebbe andare", aggiunge Mearsheimer.
I falchi antirussi negli USA speravano anche che la Russia abboccasse all'esca di una Siria in pezzi e che si facesse coinvolgere in un pantano mediorientale sempre più vasto.
Tutto ciò ci riporta direttamente alla dichiarazione di Jeffrey: "La Siria, date le sue dimensioni, la sua posizione strategica, la sua importanza storica, è fondamentale per capire se [può esistere] nella regione un sistema di sicurezza gestito dagli statunitensi".
La Siria è stata fin dall'inizio, fin dal 1949, il contrappeso regionale dello stato sionista. Adesso questo contrappeso non esiste più ed è rimasto solo l'Iran a bilanciare la pulsione dello stato sionista verso una "Grande Israele". Non sorprende quindi che lo stato sionista stia chiedendo agli USA di prendere parte insieme a un'altra orgia di distruzione, questa volta a spese dell'Iran.
La Russia era a conoscenza di ciò che stava accadendo a Idlib e del fatto che si stava mettendo in piedi il sovvertimento del potere? Certamente! I servizi russi, molto efficienti, dovevano saperlo, dato che è dalla metà degli anni Settanta che esistevano piani del genere per la Siria (tramite lo Hudson Institute e il senatore Scoop Jackson).
Negli ultimi quattro anni Assad ha disperatamente brigato con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto per passare a una posizione più filosionista e più filooccidentale, nella speranza di normalizzare i rapporti con Washington e ottenere così una riduzione delle sanzioni.
Lo stratagemma di Assad è fallito e in Siria probabilmente si avrà l'equivalente di una tragedia greca, di quelle in cui il punto di svolta è rappresentato dal momento in cui gli attori mettono in scena la propria natura. È probabile che si riaccendano tensioni etniche e settarie sopite e che la situazione deflagri. Il vaso di Pandora è stato aperto. Ma la Russia non avrebbe mai abboccato all'esca tuffandocisi dentro.
USA e stato sionista volevano la Siria da tempo. E ora l'hanno ottenuta. Il conseguente caos è colpa loro. E sì, gli Stati Uniti -in teoria- possono congratularsi con se stessi per aver costruito un "un sistema di sicurezza [e di controllo dei flussi dell'energia] gestito dagli statunitensi".
Solo che le classi dirigenti negli USA non avrebbero mai permesso all'Europa di essere indipendente dal punto di vista energetico. Gli Stati Uniti hanno bisogno delle risorse energetiche dell'Asia occidentale per se stessi, per garantire il debito di cui sono sovraccarichi. Gli Stati europei rimangono a piedi proprio mentre la crisi fiscale morde e la crescita in Europa si allontana.
Qualcun altro potrebbe considerare un effetto collaterale, quello di un Medio Oriente in conflitto e probabilmente di nuovo caratterizzato da un orientamento radicale, pronto a infliggere ulteriori grattacapi a un'Europa dove le tensioni sociali sono già accesissime.
Lo stato sionista comunque si gode la sua vittoria. E cosa ha vinto? L'ex capo di Stato maggiore delle forze armate sioniste e ministro della Difesa "Bogie" Ya'alon la mette così:
L'orientamento dell'attuale governo dello stato sionista è quello di conquistare, annettere, fare pulizia etnica... e fondare insediamenti ebraici. I sondaggi mostrano che circa il 70% dei cittadini dello stato sionista, e in qualche caso anche qualche cosa di più, sostiene tanto questa politica quanto l'idea che lo stato sionista sia una democrazia liberale. Questa [contraddittoria] linea ci porterà alla distruzione",
conclude.
Quale altro può essere l'esito definitivo di questo progetto sionista? Ci sono più di sette milioni di palestinesi "tra il fiume e il mare". Dovranno scomparire tutti dalla carta geografica?

18 dicembre 2024

Alastair Crooke - La fine della Siria (e della Palestina, per il momento) nella nuova mappa geopolitica in corso di definizione




Traduzione da Strategic Culture, 16 dicembre 2024.

La Siria è finita nell'abisso. I demoni di alQaeda, dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante e degli elementi più intransigenti dei Fratelli Musulmani si librano in cielo. Caos, saccheggi, paura, una terribile frenesia di vendetta che fa scorrere il sangue. Le esecuzioni sommarie si stanno moltiplicando.
Forse Hayat Tahrir al Sham (HTS) e il suo leader Al-Joulani, che sono agli ordini della Turchia, pensavano di tenere la situazione sotto controllo. Solo che quella di HTS è un'etichetta ombrello proprio come quelle di AlQaeda, di ISIS e di An-Nusra, e le sue fazioni hanno già iniziato a scontrarsi fra loro. Lo "Stato" siriano si è dissolto in una notte; la polizia e l'esercito hanno disertato in blocco lasciando i depositi di armi aperti al saccheggio degli Shebab. Le porte delle carceri sono state spalancate (o forzate). Alcuni detenuti erano senza dubbio prigionieri politici, ma molti non lo erano. Alcuni fra i detenuti più feroci ora sono a piede libero.
Lo stato sionista ha completamente distrutto in pochi giorni le difese dello Stato, lanciando oltre quattrocentocinquanta attacchi aerei. La contraerea, gli elicotteri e gli aerei dell'aeronautica siriana, la marina e i depositi di armi sono stati tutti distrutti nella "più grande operazione aerea nella storia dello stato sionista".
La Siria non esiste più come entità geopolitica. A est le forze curde -con il sostegno militare degli Stati Uniti- si stanno impadronendo delle risorse petrolifere e agricole dell'ex Stato. Le forze di Erdogan e i corpi armati sotto il loro controllo sono impegnati nel tentativo di schiacciare completamente l'enclave curda, sebbene gli Stati Uniti abbiano ora mediato una sorta di cessate il fuoco. Nel sud-ovest, i carri armati dello stato sionista si sono impadroniti del Golan e delle terre al di là di esso fino a 20 km da Damasco. Nel 2015 la rivista The Economist aveva scritto: "Oro nero sotto il Golan: i geologi dello stato sionista pensano di aver trovato petrolio in un territorio molto insidioso". I petrolieri dello stato sionista e quelli statunitensi sono convinti di aver trovato un tesoro, in quella landa disagevole.
E la Siria, che era un grande ostacolo per le ambizioni energetiche dell'Occidente, si è appena dissolta.
Dal 1948 la Siria era un contrappeso strategico allo stato sionista. Adesso non esiste più. E all'allentamento delle tensioni che ea in atto tra la sfera sunnita e l'Iran è stata posta brusca fine dal rude intervento dei ribelli dell'ISIS e dal revanscismo ottomano che collabora con lo stato sionista tramite intermediari statunitensi e britannici. I turchi non si sono mai veramente rassegnati agli effetti del trattato del 1923 che aveva concluso la Prima Guerra Mondiale, e con il quale avevano ceduto al nuovo Stato della Siria quelli che erano i suoi territori settentrionali.
In pochi giorni la Siria è stata smembrata, spartita e balcanizzata. Allora perché lo stato sionista e la Turchia continuano a bombardare? I bombardamenti sono iniziati nel momento in cui Bashar Al Assad ha lasciato il paese perché la Turchia e lo stato sionista temono che i conquistatori di oggi possano rivelarsi effimeri e che presto possano essere a loro volta spodestati. Non è necessario possedere qualche cosa per esercitarvi un controllo. In quanto potenze regionali, stato sionista e Turchia vorranno esercitare il controllo non solo sulle risorse, ma anche su quel vitale crocevia che era la Siria.
Probabilmente è inevitabile che prima o poi la "Grande Israele" si scontri con il revanscismo ottomano di Erdogan. Allo stesso modo, il fronte costituito da Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti non vedrà di buon occhio la rinascita dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante sia pure sotto altre spoglie, né di una versione ottomanizzata dei Fratelli Musulmani di ispirazione turca. Quest'ultima rappresenta una minaccia immediata per la Giordania, ora confinante con una nuova entità rivoluzionaria.
Tali preoccupazioni potrebbero spingere questi Stati del Golfo ad avvicinarsi all'Iran. Il Qatar, in quanto fornitore di armi e finanziamenti al cartello dello Hayat Tahrir al Sham, potrebbe subire nuovamente l'ostracismo degli altri leader del Golfo.
La nuova mappa geopolitica pone molti interrogativi diretti su Iran, Russia, Cina e BRICS. La Russia ha ordito un gioco complicato in Medio Oriente, da un lato portando avanti una escalation difensiva contro le potenze della NATO e gestendo interessi energetici chiave, e dall'altro cercando di moderare le operazioni di resistenza verso lo stato sionista per evitare che le relazioni con gli Stati Uniti si deteriorassero del tutto. Mosca spera -senza grande convinzione- che in futuro si possa arrivare a dialogare con il prossimo Presidente degli Stati Uniti.
Mosca probabilmente arriverà a concludere che "accordi" di cessate il fuoco del tipo di quello di Astana che avrebbe contemplato la permanenza degli jihadisti entro i confini della zona autonoma di Idlib in Siria non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti. La Turchia era garante degli accordi di Astana e ha pugnalato Mosca alle spalle. Probabilmente questo renderà la leadership russa più dura nei confronti dell'Ucraina e di qualsiasi discorso occidentale su un cessate il fuoco.
La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran così ha parlato l'11 dicembre: "Non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che ciò che è accaduto in Siria è frutto delle trame ordite nelle sale di comando degli Stati Uniti e dello stato sionista. Ne abbiamo le prove. Anche uno dei Paesi confinanti con la Siria ha avuto un ruolo, ma i pianificatori principali sono gli Stati Uniti e il regime sionista". In questo contesto, l'ayatollah Khamenei ha respinto le speculazioni su un eventuale indebolimento della determinazione alla resistenza.
La vittoria per procura conseguita dalla Turchia in Siria potrebbe tuttavia rivelarsi anche una vittoria di Pirro. Il ministro degli Esteri di Erdogan Hakan Fidan ha mentito alla Russia, agli Stati del Golfo e all'Iran sulla natura di ciò che si stava preparando in Siria. Ma è Erdogan ad essere rimasto col cerino in mano. Chi ha subito questo doppio gioco prima o poi si vendicherà.
L'Iran, a quanto pare, tornerà a dedicarsi come prima al ricollegare i vari fili della resistenza regionale per combattere la reincarnazione di AlQaeda. Non volterà le spalle alla Cina, né al progetto BRICS. L'Iraq -ricordando le atrocità dell'ISIS nella guerra civile- si unirà all'Iran, così come lo Yemen. In Iran sanno che le compagini superstiti del vecchio esercito siriano a un certo punto potrebbero prendere le armi contro il cartello dello Hayat Tahrir al Sham: la notte in cui Bashar al Assad ha lasciato la Siria, Maher al Assad ha portato con sé in esilio in Iraq una intera divisione corazzata.
La Cina non sarà certo soddisfatta per quanto successo in Siria. Gli uiguri hanno avuto un ruolo di primo piano nella rivolta siriana e secondo certe stime ci sarebbero stati trentamila uiguri a Idlib, addestrati da una Turchia che considera gli uiguri come una componente originaria della nazione turca. Anche la Cina probabilmente vedrà il sovvertimento della Siria come una minaccia occidentale alla sicurezza delle proprie linee di approvvigionamento energetico che passano attraverso Iran, Arabia Saudita e Iraq.
Infine, gli interessi occidentali hanno combattuto per secoli per le risorse mediorientali; in ultima analisi, questo è quello che sta alla base della guerra di oggi.
Ci si chiede se Trump sia o meno a favore della guerra, dal momento che ha già indicato che il predominio energetico sarà una strategia chiave sotto la sua amministrazione.
Ora, i Paesi occidentali sono indebitati, i loro margini di manovra in campo fiscale si stanno riducendo rapidamente e i detentori di obbligazioni cominciano a spazientirsi. C'è la corsa a trovare un nuovo collaterale per le valute fiat. Una volta era l'oro; dagli anni Settanta era diventato il petrolio, ma ormai il petrodollaro vacilla. Gli anglosassoni vorrebbero rimettere le mani sul petrolio iraniano -dove le avevano avute fino agli anni '70- per mettere in piedi e per garantire un nuovo sistema monetario legato al valore reale delle materie prime.
Ma Trump dice di voler "porre fine alle guerre" e non di volerne iniziare. Il ridisegno della mappa geopolitica rende più o meno probabile un'intesa globale tra Est e Ovest?
Per quanto si parli di possibili "accordi" di Trump con l'Iran e la Russia, è probabilmente troppo presto per dire se si concretizzeranno o se potranno concretizzarsi.
A quanto pare, Trump dovrà prima "accordarsi" sul fronte interno, prima di sapere se avrà la possibilità di concludere accordi in politica estera. Sembra che le strutture di governo -in particolare la corrente senatoria del movimento Never Trump- lasceranno a Trump una notevole libertà di manovra sulle nomine chiave per i ministeri e le agenzie nazionali che gestiscono gli affari politici ed economici degli Stati Uniti -che sono la preoccupazione principale di Trump- e gli lasceranno anche una certa discrezionalità negli ambienti -diciamo così- più riottosi. Quelli che hanno preso di mira Trump negli ultimi anni, come lo FBI o il Ministero della Giustizia.
Secondo questo presunto "accordo" pare che le nomine di Trump dovranno comunque essere confermate dal Senato e che dovranno essere ampiamente "in linea" con la politica estera delle agenzie governative, in particolare per quanto riguarda la politica nei confronti dello stato sionista. I massimi livelli delle agenzie governative tuttavia, secondo quanto riferito, insistono sul loro veto per le nomine che riguardano le strutture più profonde della politica estera. E qui sta il nocciolo della questione.
Nello stato sionista in generale si fa festa per le "vittorie" conseguite. Questa euforia farà sentire il suo peso sulle élite economiche statunitensi? Hezbollah è stato arginato, la Siria è smilitarizzata e l'Iran non è più ai confini dello stato sionista. Lo stato sionista oggi è soggetto a minacce qualitativamente inferiori. Di per sé basterà questo a consentire un allentamento delle tensioni o a far emergere alcune intese più ampie? Molto dipenderà dalla situazione politica di Netanyahu. Se il premier dovesse uscire relativamente indenne dal processo penale, avrà davvero bisogno della grande scommessa di un'azione militare contro l'Iran, con una mappa geopolitica che si è trasformata in modo tanto improvviso?