mercoledì 24 aprile 2019

Alastair Crooke - L'irrazionale supera il razionale, e ci porta dritti verso la guerra



Traduzione da Strategic Culture, 22 aprile 2019.


Il 14 marzo il Consiglio per la Sicurezza Nazionale in Russia presieduto da Putin ha ufficialmente iniziato a classificare le intenzioni degli ameriKKKani non più come "pericoli militari" (opasnosti) ma direttamente come "minacce militari" (ugrozy). Insomma, il Cremlino si prepara alla guerra, anche se è intenzionato a difendersi soltanto.
Perché? Perché Putin lo farebbe? "Trump non vuole altre guerre... Ha sempre invocato buoni rapporti con Mosca. E adesso che Mueller non ha niente in mano...".
Un ritornello familiare, che fa pensare che un confronto armato con la Russia sia semplicemente impossibile: "Non avrebbe alcun senso, sarebbe irrazionale". Ecco, magari la Russia sta interpretando i fatti in un altro modo. Magari i russi si rendono conto che quando si tratta di guerra l'irrazionale supera spesso il razionale.
Secondo il modo di vedere dei russi, si stanno velocemente ponendo le basi per un conflitto in medio oriente. Da una parte abbiamo uno stato sionista più falco che mai, galvanizzato dalle generose dosi di "Grande Israele" ammannitegli dagli uomini di Trump; poi abbiamo Bolton che prosegue col suo inveterato odio per l'Iran, che cerca di mettere la Repubblica Islamica dell'Iran all'angolo e di farla implodere.
Delle vere e proprie zolle tettoniche stanno entrando in collisione, soprattutto perché il quadrante settentrionale della regione, Turchia compresa, adesso è in misura più o meno rilevante schierato con l'Iran. Mosca sarà consapevole del fatto che quando due zolle tettoniche entrano in collisione esse liberano plasma incandescente, e questo potrebbe arrivare a lambire la Russia con troppa facilità.
Ci sono poi altri cambiamenti tettonici: la Turchia sta pendendo verso la Russia e la Cina e lo stesso a quanto sembra può darsi stia facendo l'Egitto, dopo il recente alterco di al Sissi a Washington. In altri termini, gli Stati Uniti in Medio Oriente stanno rapidamente perdendo presa. E la Russia, che ne avesse o meno l'intenzione (non è che abbia attivamente cercato questo stato di cose) sta invece prendendo più campo.
Di solito casi come questo vanno a finire con Washington che decreta un solenne schiaffo a carico della prometeica impudenza dei russi. Solo che oggi come oggi in Medio Oriente l'AmeriKKKa non ha quasi più alleati rilevanti, ad eccezione del solito [lo stato sionista, N.d.T.].
E tanto basti per quanto riguarda gli aspetti razionali della questione. Che dire di quelli non razionali?
Cominciamo dai fondamentali: l'80% dei cristiani evangelici bianchi alle elezioni del 2016 ha votato per Trump, e la sua popolarità in questo settore dell'elettorato resta alta, attorno al 70%. Mentre altri settori dell'elettorato bianco possono essere rimasti delusi dalla linea seguita da Trump in politica estera (con l'abbraccio dell'Arabia Saudita) gli evangelici bianchi sono diventati la sua ultima e solida roccaforte. Non si tratta di numeri insignificanti perché ammontano a circa un quarto di tutti gli statunitensi.
Andrew Chesnut insegna studi religiosi e ci dice che il sionismo cristiano fra gli evangelici bianchi degli Stati Uniti è diventato l'orientamento teologico di maggioranza. In un sondaggio del 2015 il 73% dei cristiani evangelici ha detto che le vicende dello stato sionista sono profezia nel libro dell'Apocalisse. Per i cristiani sionisti la realizzazione di una "Grande Israele" è una delle condizioni fondamentali perché si arrivi all'Estasi [ad un finale escatologico, N.d.T.], Secondo Chesnut è una convinzione nota come dispensazionalismo premillenaristico, o come sionismo cristiano.
Lo stesso Trump è l'incarnazione di quanto vi sia di più contrario a un pio idealismo cristiano. Trump in chiesa non ci va. Trump è un laico che ha divorziato due volte e che si è vantato di aver assalito sessualmente delle donne. Eppure gli evangelici bianchi ne hanno fatto il proprio campione, scrive Julian Borger.
"Alcuni evangelici di primo piano considerano Trump come un re Ciro degli ultimi giorni, un equivalente dell'imperatore persiano che nel VI secolo a.C. liberò gli ebrei dalla cattività babilonese. Il paragone viene reso esplicito nel film di argomento religioso The Trump Profecy, passato [lo scorso anno] in 1200 sale cinematografiche. Nel film un vigile del fuoco in pensione afferma di aver sentito la voce di Dio che diceva 'Io ho scelto quest'uomo, Donald Trump, per tempi come questi...'.
"Con Ciro si indica un non credente scelto da Dio come strumento per gli scopi dei credenti", dice Katherine Stewart, che ha scritto molto sulla destra cristiana aggiungendo che gli evangelici bianchi apprezzano la determinazione con cui [Trump] ha rotto le regole democratiche per combattere quelle che considerano delle minacce ai loro valori e al loro modo di vivere.
Mike Pompeo e il vicepresidente Pence sono evangelici convinti, e appartengono a questo orientamento. Si tratta di un elemento che ha importanza concreta per la politica estera: quando era direttore della C.I.A. e prima ancora, come membro della Camera dei Rappresentanti, Pompeo ha fatto ripetutamente ricorso ad un linguaggio che definisce la guerra al terrorismo come una battaglia cosmica e divina fra il Bene e il Male. Pompeo si è riferito ai terroristi islamici dicendo che per destino "continueranno a premere contro di noi finché non saremo determinati nella pregare, nel levarci e nel combattere, finché non saremo determinati nel considerare che Gesù Cristo è il nostro salvatore ed è davvero l'unica soluzione per il nostro mondo."
L'inserimento del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniani nella lista delle organizzazioni terroristiche è stata presentato da Pompeo esattamente in questi termini, che comportano una chiara connotazione dell'Iran come Male metafisico. Trump e il suo governo hanno adottato in blocco questo linguaggio apocalittico ed estatico. "Adorare nostro Signore e celebrare parimenti il nostro paese non è solo nostro diritto," ha detto Pompeo agli intervenuti ad un convegno a Kansas City nel 2015: "è un nostro dovere". Poi l'allora deputato del Congresso disse in una chiesa di Wichita: "Continueremo a combattere queste battaglie; è una lotta senza fine... fino all'Estasi. Facciatene parte; combattete anche voi"!
Il riferimento di Pompeo all'Estasi è importante: quello dell'Estasi, afferma Tara Burton, "è un concetto teologico essenzialmente ameriKKKano. Alla fine dei tempi i cristiani verranno sollevati, o elevati, fino al cielo. Molti politici repubblicani permettono a questo loro credo nella teologia dell'Estasi di influenzare la loro concezione politica. Dal momento che l'Estasi rappresenta un qualche cosa di desiderabile, perché è un segno del ritorno di Gesù Cristo, è desiderabile anche qualsiasi cosa possa accelerarla. Secondo molti evangelici le apocalittiche battaglie di Bene contro il Male, specie se hanno per teatro la "Terra Santa" del Medio Oriente, sono segno del fatto che i tempi ultimi tanto attesi possono davvero essere vicini".
Insomma, in cosa si traduce tutto questo? Ecco, un indizio è rappresentato dal miliardario dei casinò di Las Vegas Sheldon Adelson. Adelson ha donato a Trump e ad altri candidati repubblicani ottantadue milioni di dollari ai tempi delle elezioni del 2016. Trump ha consapevolmente corteggiato la destra ebraica della diaspora, ben fornita di denaro, ma il gesto di Adelson è significativo per il suo appassionato impegno verso la "Grande Israele" di Netanyahu e verso il rafforzamento dei legami fra la base evangelica repubblicana e lo stato sionista.
Sia chiaro che la missione di una "Grande Israele" è radicata allo stesso modo nella teologia biblica della fine dei tempi. David Ben Gurion, il "padre della patria", credeva fermamente in questa missione: "Io credo nella nostra superiorità morale e intellettuale, e nella nostra capacità di fare da modello per la redenzione della razza umana". Al vertice di Gerusalemme del 2003, cui parteciparono tre ministri dello stato sionista in carica insieme con Netanyahu e con Richard Perle allora parte del governo statunitense, il gruppo affermò solennemente: "Noi crediamo che uno degli scopi della rinascita di Israele ispirata dal divino sia quello di farne il centro di una nuova unità delle nazioni, che porterà a un'epoca di pace e di prosperità come annunciato dai profeti".
Come nota Larent Guyénot, di fatto il sionismo è sempre stato propenso alla costruzione di un "nuovo ordine mondiale" sotto la maschera del nazionalismo. Bolton si trova bene anche con i concetti tanto cari ad Adelson. Bolton non è un evangelico. Egli afferma che definirlo un neoconservatore "è senza dubbio poco accurato"; con questo intende dire esplicitamente che non ha mai condiviso l'intento di "diffondere la democrazia" come hanno fatto invece altri neoconservatori della corrente principale. Egli coltiva comunque la convinzione che gli USA (e lo stato sionista) siano stati "prescelti" per guidare e plasmare l'ordine mondiale. Magari non è un punto di vista strettamente religioso, ma è un esempio di primo piano di progetto laico che nega enfaticamente ogni aspetto religioso pur essendo in concreto il veicolo per il mito religioso giudaico-cristiano.
Bolton lo dice chiaramente: "Io descriverei me stesso come filoameriKKKano. Gli Stati Uniti costituiscono la più grande speranza di libertà che il genere umano abbia mai avuto nella storia; proteggere gli interessi nazionali ameriKKKani è la migliore strategia per il mondo."
Il mito millenaristico ameriKKKano, allora come oggi, affonda le proprie radici nella convinzione messianica che gli Stati Uniti abbiano un Destino Manifesto: "la nuova Gerusalemme" che rappresenterebbe la migliore speranza dell'umanità in un futuro utopistico. Credere di avere un destino speciale, di essere dei prescelti, si riflette nella convinzione che gli Stati Uniti debbano guidare l'umanità -o meglio, che abbiano il dovere di imporsi ad essa come guida- alla volta di un suo destino universale.
Il ruolo di Adelson è stato quello di far riemergere, mettendoci del proprio, la politica neoconservatrice rimasta screditata dopo l'invasione statunitense dell'Iraq, e di riconnetterla alla destra politica dello stato sionista riportando la situazione a com'era prima della guerra in Iraq. A tutto questo si è giunti attraverso l'ampia base elettorale evangelica che forma lo zoccolo duro degli elettori di Trump. Sia Pompeo che Bolton, a quanto sembra, sono pupilli di Adelson ed è stato Adelson a spingerli fino alle posizioni chiave che occupano alla Casa Bianca, nel contesto del suo progetto politico.
Con la riemersione della politica neoconservatrice arriva inevitabile anche il suo inveterato atteggiamento nei confronti della Russia, vista come un contendente esistenziale con cui si possono avere solo rapporti che portino al suo crollo e al rovesciamento del suo governo, con la guerra o con iniziative poco diverse dalla guerra. Tutto quanto contribuisce alla linea politica dell'Occidente è finalizzato a questo immutabile obiettivo.
L'ex diplomatico statunitense James Jatras ripete che [questi millenaristi ameriKKKani] "odiano la Russia non per quello che essa fa, ma per quello che essa è, ovvero un ostacolo al dominio assoluto [di un nuovo ordine mondiale] a guida statunitense. Il fatto che la Russia schieri i più potenti armamenti immaginabili forse puà limitare l'aspetto militare di quella agenda, ma non certo cambiarla. Iniziative come le mosse difensive messe in atto da Mosca dopo il rovesciamento del governo in Ucraina nel 2014, lo schieramento in Siria nel 2015 o l'attuale presenza in Venezuela vengono anzi considerate "prove" dell'aggressività russa, che si vuole 'costante, quasi geneticamente determinata', per dirla con le parole dell'ex direttore della CIA James Clapper".
"L'inutile indagine di Mueller è arrivata a conclusione; le cose non sono migliorate e non ci sono grandi aspettative da nutrire a questo proposito". Jatras cita [Gilbert] Doctorow:
"...Il graduale smantellamento dei canali di comunicazione, dei progetti simbolici della cooperazione in una vasta gamma di settori e l'attuale smantellamento di tutti gli accordi sulla limitazione degli armamenti la cui negoziazione e la cui ratifica hanno richiesto decine di anni, più i nuovi sistemi d'arma di prossimo approntamento che lasciano ad entrambe le parti meno di dieci minuti per decidere come rispondere a un allarme che segnala missili in arrivo, sono tutte cose che aprono la via all'incidente che porrà fine a tutti gli incidenti. Nel corso della guerra fredda ci sono stati dei falsi allarmi, ma una qualche pur ridotta misura di mutua fiducia rimaneva a suggerire compostezza. Tutto questo adesso non esiste più; se qualcosa va male siamo del gatto, tutti quanti."
Si potrebbe pensare che questo smantellamento a tutto campo di canali di comunicazione, accordi e impegni sia arrivato a causa di un qualche evento fortuito inatteso e privo di spiegazione. Una simile convinzione non è corretta. Si tratta del pensiero caratteristico di Bolton. Egli afferma:
"L'AmeriKKKa si è lentamente tarpata le ali con un folle coinvolgimento in istituzioni intenzionali come l'ONU e con accordi bilaterali ingeniui, che hanno concesso troppo ai nemici dell'AmeriKKKa ottenendo in cambio troppo poco. [Bolton] non ha visto altro che accordi svantaggiosi: uno era... il trattato sugli armamenti nucleari a medio raggio. Un altro era quello sul nucleare iraniano, cui Bolton ha instancabilmente lavorato perché diventasse carta straccia."

Perché Trump dovrebbe acconsentire a questo percorso sciagurato?

Katherine Stewart nota che Trump è cresciuto presibiteriano, ma quando ha cominciato ad accarezzare l'idea di concorrere per la presidenza ha preso sempre di più a rivolgersi a predicatori evangelici. Il fatto che Trump abbia scelto Pence come vice è un segno del suo impegno in questo senso.
Solo che dopo aver perso lo scorso novembre il controllo della Camera dei Rappresentanti, e sempre più sotto la lente a causa dei legami della sua campagna con il Cremlino, la reazione istintiva di Trump è stata quella di legarsi ancora più strettamente ai suoi sostenitori più leali. Quasi unico fra i principali gruppi demografici, quello degli evangelici bianchi è a stragrande maggioranza a favore del muro alla frontiera voluto da Trump che, afferma Stewart, certi predicatori assimilano alle fortificazioni della Bibbia.
Insomma, ecco chi sta con Trump, ecco chi lo appoggia politicamente. Bolton gli dà una qualche copertura nel deep state statunitense, gli evangelici e i "deprecabili" sono invece la base che sostiene il Presidente a fronte dei complotti per rimuoverlo dalla sua carica. Uno zoccolo duro che ignora, puramente e semplicemente, le denigrazioni che ogni giorno vengono rivolte a Trump.
E questo è il problema: in questo assetto ideologicamente irrazionale cova un grave pericolo. Un pericolo che è una minaccia per tutti e che può essere una spiegazione del perché i russi abbiano alzato il livello delle minacce statunitensi. L'istinto dice a Trump che mantenere un canale di conttatto con il signor Putin è fondamentale. Tuttavia la pubblicazione dei risultati dell'indagine Mueller non fermerà la demonizzazione della Russia, che si limiterà a rivolgersi a un'altra narrativa.
Le pressioni sul Presidente da parte della squadra di cui fanno parte Bolton e gli evangelici affiché si avvicini la fine dei tempi con una apocalittica battaglia tra il Bene e il Male, magari collegata alle ambizioni sioniste per una "Grande Israele", cresceranno inesorabilmente di intensità proprio in risposta alla debolezza degli USA e alla crisi in cui si trovano. Trump riuscirà a tenere duro? O magari userà l'Iran come contentino a fronte dell'Estasi che si avvicina, e per compiacere la sua base?
Il pericolo più grave è il fatto che Trump non nutre timori verso una guerra nucleare, almeno non come li nutrivano i presidenti delle passate generazioni. Trump ha manifestato -ufficialmente prima di assumere la carica di Presidente- uno strano e allarmante fatalismo in merito a un conflitto nucleare. Bolton macchinerà in modo da sfruttare questa stravaganza?
Sappiamo che Trump si considera "un esperto" di conflitti nucleari. In un'intervista del 1984 con lo Washington Post, Trump disse che sperava un giorno di diventare capo della commissone statunitense incaricata di negoziare con l'Unione Sovietica sulla questione degli armamenti nucleari. Trump disse che era in grado di contrattare con Mosca un ottimo accordo sulle armi nucleari. Paragonando il lavorare ad un accordo sugli armamenti con la stesura di un contratto immobiliare, Trump ribadì di avere un talento innato per un simile compito.
In un'intervista rilasciata a Playboy nel 1990 Trump disse: "Penso al futuro, ma mi rifiuto di figurarmelo; può succedere di tutto. Ma penso spesso a una guerra nucleare." Si spiegò: "Ho sempre pensato alla questione della guerra nucleare; è un elemento molto importante nel mio modo di pensare. Si tratta della cosa definitiva, della catastrofe ultima, del più grande problema che il mondo ha, e nessuno si concentra sui minimi particolari di esso."
Cinque anni dopo a Trump fu chiesto dove pensava che sarebbe stato di lì a cinque anni. "E chi lo sa?", rispose. "Magari arrivano bombe giù dal cielo, chissà. Siamo in un mondo malato. Ci rapportiamo con un sacco di svitati. E tu hai la bomba, e tu hai questo, e tu hai quello." Trump andò avanti esprimendo l'idea che la distruzione nucleare poteva essere all'orizzonte: "Assolutamente sì; voglio dire, penso che sia la natura umana ad essere insana. Se Hitler avesse avuto la bomba, non pensate che l'avrebbe usata? L'avrebbe messa nel mezzo della Fifth Avenue. Avrebbe usato la Trump Tower, fra la cinquantasettesima e la Ffith... e bum".
Ancora a Playboy, stavolta nel 2004, Trump ribadì il proprio scoraggiato punto di vista. A domanda "Le crede che la Trump Tower e gli altri suoi edifici porteranno il suo nome, di qui a cent'anni?" rispose "Non credo che qui ci sarà più alcun edificio, e a meno che non ci siano persone molto intelligenti a mandarlo avanti, di qui a cento anni il mondo non sarà come è oggi. Le armi sono troppo potenti, troppo forti."
Durante il dibattito per le elezioni presidenziali, il candidato Trump disse a dicembre: "Il problema più grave del mondo di oggi non è certo il riscaldamento globale del Presidente Obama... Il problema più grave è il nucleare, la proliferazione nucleare, e il fatto che c'è qualche pazzo, qualche esaltato che va e si fa la bomba. Secondo me, questo è il singolo problema più grave che il nostro paese deve affrontare oggi... Io penso che il nucleare sia potenza e devastazione; è una cosa molto importante per me."
David Corn ha scritto su Mother Jones che "Insomma, sembra che per decenni Trump sia stato ossessionato dall'idea che un conflitto nucleare possa rivelarsi inevitabile. Adesso si trova nella posizione adatta a fare qualcosa in merito". Come ha sottolineato l'ex direttore della National Intelligence James Clapper, "[Se] in un momento di stizza quello [Trump] decide di sistemare Kim Jong Un, si può fare in concreto molto poco per fermarlo." "Tutto il sistema [delle armi nucleari] è fatto per assicurare una pronta reazione, se necessario. Quindi c'è assai poco che si può fare per controllare l'esercizio di una opzione nucleare, il che è dannatamente inquietante."
Insomma, se un Presidente degli Stati Uniti in vena di fatalismo dovesse ordinare un attacco con armi nucleari tattiche (e l'AmeriKKKa in questo momento si sta impegnando nel lancio di ordigni tattici e si sta esercitando con gli alleati nel loro utilizzo per via aerea) magari perché crede che il ricorso alle armi nucleari tattiche sia in qualche senso inevitabile ed è messo su dal suo gruppo di invasati messianici, non c'è quasi nulla che possa impedirglielo.


mercoledì 17 aprile 2019

Alastair Crooke - Ecco perché sepreggia il nervosismo fra gli stati del Golfo



Traduzione da Strategic Culture, 15 aprile 2019.


Poco più di dieci anni or sono mi chiesero di pronunciare un discorso a un banchetto tenutosi a Londra, cui partecipavano una ventina di personaggi provenienti dal Golfo: ambasciatori e gente ammanicata, tutti rappresentanti della ricca e cosmopolita élite locale. Verso la fine della serata il discorso si spostò su Hezbollah, e i presenti fecero fuoco e fiamme all'istante. Fuoco e fiamme quasi alla lettera perché a quegli alti papaveri andò di traverso il fumo, e dalle narici gli saettavano le fiamme. Il minimo che si possa dire è che non si mostrarono per nulla contenti. Giurarono in coro che non si sarebbero fermati davanti a nulla, pur di stroncare "la resistenza". La stessa parola resistenza minacciò di soffocarli un'altra volta. Giurarono di distruggerla fino all'ultimo brandello.
Ma col tempo le cose cambiano. Ovviamente c'è stata nel mezzo la guerra del 2006, che questi gentiluomini sostennero perché si pensava che avrebbe distrutto Hezbollah una volta per tutte e invece non è successo. C'è stata in Siria un'insurrezione finanziata con miliardi di dollari contro il refrattario Presidente Assad, che si sperava avrebbe abbattuto il pilastro della resistenza e invece non lo ha fatto; e c'è stata una massiccia guerriglia dell'informazione destinata a trasformare la Repubblica Islamica dell'Iran nell'appestato del pianeta.
In effetti questi raffinati gentiluomini hanno avuto un certo successo nell'affossare la cosiddetta Primavera Araba e nel mandare in pezzi e nel demonizzare Hamas e i Fratelli Musulmani. Eppure nonostante tutto questo, e dopo aver imbrogliato alla grande statunitensi ed europei con la loro propaganda antiiraniana, gli stati del Golfo sono di nuovo inquieti. Come mai?
I problemi ora sono in Libia, dove il generale Haftar preme sulla capitale Tripoli. A un primo livello di analisi è evidente che l'iniziativa è parte di una lotta di potere interna al paese; a un altro livello però la repentina ed inattesa uscita di Haftar dal processo politico (il segretario generale e l'inviato dell'ONU in occasione della loro ultima visita in Libia furono lasciati con un palmo di naso) si rivela più che altro come espressione della confusione che esiste nel Golfo perché l'offensiva di Haftar è cominciata dopo un giro di consultazioni in certe capitali del Golfo.
Non è che ci si agiti molto per la Libia; piuttosto ci sono timori, e timori forti, per l'Algeria. In Algeria sono in corso nutrite e ripetute proteste popolari che hanno costretto il presidente a fare un passo indietro. Le proteste, finora pacifiche, continuano, ma l'apparato di sicurezza si erge ancora minaccioso sullo sfondo. Anche a Khartoum ci sono state manifestazioni e ora che il presidente è stato spodestato con un golpe militare i fantasmi del passato, arrivati dal 2011, tornano ad angustiare i leader del Golfo.
Il messaggio da parte degli Emirati Arabi e dell'Arabia Saudita rappresentato dal via libera a uno Haftar (che odia gli islamici) per la presa di una Tripoli in mano islamica è diretto al popolo algerino: se vi ribellate al potere costituito, fate attenzione: "la repressione sarà inesorabile". Non saranno tollerate presenze islamiche: ecco la linea rossa da non oltrepassare. Gli Emirati Arabi Uniti hanno una pregressa storia di intromissioni negli affari algerini, attuate tramite l'esercito di quel paese. Fino a quando non è diventato presidente, Bouteflika è stato un ospite emiratino.
Se si trattasse di questo, si potrebbe concludere cinicamente, gli Emirati Arabi Uniti si metteranno probabilmente d'accordo con l'Algeria; che bisogno c'è di fare tanto chiasso. Solo che non si tratta di questo. La situazione algerina fa parte di un contesto, di un panorama, che fa davvero innervosire gli stati del Golfo.
Il punto è questo. Dopo aver fatto fuoco e fiamme a quella cena dieci e passa anni fa, e dopo tutto il sarcasmo che i mezzibusti statunitensi hanno diretto dopo allora contro la resistenza, un vero e proprio fronte resistente sta a tutti gli effetti prendendo forma. Dal Libano fino all'Iran, la sconfitta degli jihadisti e del progetto politico curdo patrocinati dai paesi del Golfo ha prodotto il consolidamento di un fronte politico.
Per amor di chiarezza, l'iniziativa che punta a unificare e a collegare l'Iran con i porti mediterranei di Tripoli in Libano e di Lattakia in Siria passando per l'Iraq, la Siria e il Libano è molto interessante per la Cina, proprio come i suoi aspetti sul piano dell'energia sono interessanti per la Russia. Nicholas Lyall scrive sul The Diplomat:
Il Levante è destinato a diventare un punto critico per il corridoio economico e infrastrutturale che deve unire la Cina all'Asia centrale e a quella occidentale, perché rappresenta un percorso alternativo al canale di Suez per raggiungere il Mediterraneo. Nel lungo termine, ai fini del raggiungimento di questo obiettivo la Siria è considerata come il paese fondamentale nell'area. Tripoli in Libano ad esempio dovrebbe diventare una zona economica speciale all'interno di questo complesso, e si programma la trasformazione del porto di Tripoli in un punto di smistamento fondamentale per il Mediterraneo orientale. Tutto questo assicurerebbe ai prodotti cinesi una strada verso l'Europa più diretta rispetto al canale di Suez.
"La Cina è destinata a essere l'attore principale nell'imminente ricostruzione del dopoguerra in Siria... gli accordi sottoscritti riguardano la costruzione di acciaierie e centrali elettriche, l'industria dell'auto e lo sviluppo di centri ospedalieri. Fra i campi di maggior prestigio per la partecipazione cinese, l'impegno preso nel 2015 dalla Huawei di ricostruire entro il 2020 la rete per le telecomunicazioni in Siria, e la quota di maggioranza della China National Petroleum Corporation in due delle maggiori compagnie petrolifere siriane."
Cosa c'entra questo con la Libia, con l'Algeria o col nervosismo dei paesi del Golfo? C'entra, e molto. Non solo perché Siria, Iran, Iraq e Libano -tutti dalla parte sbagliata, nei piani per il Medio Oriente secondo i paesi del Golfo- vanno ora per la maggiore, ma perché la Turchia e il ben fornito Qatar si stanno avvicinando sempre di più alla Russia e all'asse di cui fanno parte Iran, Iraq e Siria.
La Turchia e il Qatar sono i principali sostenitori della mlizia libica di Misurata e degli islamici di Tripoli; questo significa che agevolano e finanziano le forze che si oppongono a un generale Haftar intenzionato a distruggere il movimento islamico basato a Tripoli. Il conflitto in corso in Libia è anche una guerra per procura, che i paesi del Golfo stanno combattendo contro i Fratelli Musulmani e contro i loro protettori Turchia e Qatar. E questo è un ulteriore messaggio diretto all'Algeria: i Fratelli Musulmani non devono avere alcun ruolo nelle proteste popolari, altrimenti sono guai.
Ci sono anche altre cose che tengono svegli la notte gli alti papaveri del Golfo. La Turchia sta lasciando senza chiasso la NATO per passare a Mosca, per quanto possa fare Erdogan in questo campo senza perdere del tutto l'elettorato laico ed europeista delle coste. Anche se la Turchia dovesse rimanere nella NATO col corpo, sia pure non con lo spirito, si tratta comunque di un mutamento strategico notevole, con ampie ripercussioni su un'Asia centrale sostanzialmente turca e sul Medio Oriente.
Insomma, in Medio Oriente sta venendo meno un pilastro fondamentale degli USA proprio in un periodo in cui i leader del Golfo stanno avanzando dubbi sul perdurare del sostegno statunitense e sono sul chi vive a causa della recrudescenza delle proteste popolari. Non stupisce che stiano aprendo allo stato sionista; a chi altri potrebbero rivolgersi per ottenere protezione, in un mondo sempre più ostile ai loro interessi?
Ma anche questa prospettiva non è priva di rischi. Esistono resoconti che affermano che Trump è sul punto di rendere pubblico il suo "Accordo del Secolo". Ci si attende ampiamente che si tratterà di un'altra naqba, un'altra tragedia per i palestinesi. I leader del Golfo, che guardinghi hanno sostenuto l'accordo di Kushner, temono che la sua pubblicazione alimenterà i pretesti della Turchia e del Qatar per aizzargli contro i Fratelli Musulmani, proprio sulla questione palestinese.
Soprattutto gli alti papaveri del Golfo hanno ottimi motivi per essere nervosi. Si accorgono che i falchi nell'amministrazione Trump stanno mettendo all'angolo l'Iran in un crescere di pressioni e di provocazioni. Dopo il tre maggio, quando gli accordi sul petrolio saranno scaduti, potremo trovarci ad assistere a una rimarchevole escalation contro l'Iran da parte di Bolton e di Pompeo. Fino a che punto potrebbe trattarsi di un bluff spaccone in vista delle cruciali elezioni per la presidenza USA? O forse si sta senza parere manovrando Trump affinché dia il via a quella sempiterna guerra contro l'Iran che John Bolton cerca da tanto tempo? E Netanyahu lo seguirà a ruota? Cosa succederà allora nel Golfo?
Tutto questo complica le cose al Presidente Putin tutto. L'allineamento politico ed economico che sta prendendo forma in Medio Oriente e che arriva al Mediterraneo non è solo un accadimento estraneo privo di autentiche ripercussioni per la Russia. Anzi, esso ha un impatto molto diretto sugli interessi strategici russi. Il nuovo assetto rappresenta la linea del fronte rispetto al ventre molle russo e cinese, rappresentato dai vari stan dell'Asia centrale e dalla provincia cinese dello Xingjian. La Cina ha bisogno di assicurarsi un corridoio verso l'Europa per le merci che produce, la Russia necessita di un passaggio per l'energia che vende e per controbattere ai tentativi di Trump di imporre la supremazia statunitense nel settore tarpando le ali ai produttori avversari.  Sia la Cina che la Russia rischiano di vedersi imporre controlli serrati sulle rotte marine, chiuse dagli USA tramite un blocco navale.
Il quadro che si va formando nel settentrione del quadrante mediorientale, il lento passare della Turchia dalla NATO all'ombrello russo e un pari venir meno dell'agibilità di quello spazio per Stati Uniti e stato sionista sono già elementi sufficienti perché la Russia debba temere le intromissioni statunitensi, non fosse che per la presa che Tel Aviv ha sulla politica estera degli USA. In altre parole, la Russia deve prepararsi a un conflitto regionale -verosimilmente tra USA e stato sionista da una parte e Iran dall'altra- e lo sta facendo. Si ricordi la vecchia dottrina di Mackinder; chi controlla il blocco continentale asiatico...
Il 14 marzo il Consiglio per la Sicurezza Nazionale in Russia presieduto dal Presidente Putin ha ufficialmente cambiato la definizione degli intenti ameriKKKani verso la Russia passando dall'espressione "pericoli militari" (opasnosti) direttamente a quella di "minacce militari" (ugrozy). Insomma, il Cremlino si sta preparando per la guerra, per quanto difensive siano le sue intenzioni.
A Mosca pensano che Trump voglia la guerra? C'è da dubitarne, ma la posizione di Trump, la sua stessa permanenza in carica, come nel caso dei suoi predecessori, è inevitabilmente alla mercè di uno stato profondo che non permette ad alcuna minaccia di ergersi contro la sua cerchia o di arrivare a diventare un rischio per le leve del potere mondiale. Di sicuro Trump è consapevole di quale sia stato il destino dei suoi predecessori, e mantiene con loro i contatti che gli servono per le sue necessità politiche, davanti alla prospettiva di concedere ai due pupilli di Sheldon Anderson la licenza di fare le volontà dello stato sionista. Una circostanza forse faustiana, ma ne va della sopravvivenza.
Sembra quindi che la reazione di Putin sia quella di privilegiare la condizione di Mosca come mediatore mondiale che non si fa trascinare in alcuna guerra mediorientale e che si mantiene però al di sopra della mischia. Il problema è che i conflitti mediorientali hanno la brutta tendenza all'ecalation. E il rischio di un potenziale confronto diretto fra Russia e USA potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Per questo Putin ha bisogno di un canale diretto con Trump, e a livello diplomatico non ne esiste nessuno perché sono stati tutti smantellati. Per riuscire a mediare fra stato sionista e Iran, ha bisogno invece di tenersi caro Netanyahu come se fosse l'amico del cuore e di mostrare empatia per le sue necessità politiche. Una strategia che Putin ha sviluppato con buoni risultati anche nel caso dell'incostante Erdogan.
Non sarà facile: Netanyahu chiede che si continuino gli attacchi contro quelle che vengono presentate come strutture iraniane in Siria e in Iraq, e vuole rassicurazioni sul fatto che le difese russe non interverranno. E inoltre vuole che lui e Washington possano dire la loro sul futuro politico della Siria.
Non sono richieste di poco conto perché mettrebbero a rischio i rapporti della Russia con l'Iran, con la Siria e con gli altri alleati nell'iniziativa infrastrutturale e geopolitica su ricordata. E si tratterebbe di un precedente destinato a diventare regola. Putin può camminare su questa fune? Sarà di aiuto Netanyahu, come tramite per Trump? Netanyahu è degno di fede?

sabato 6 aprile 2019

Alastair Crooke - I pii desideri dell'Occidente "trascurano quello che fa della Cina ciò che essa è".




Traduzione da Strategic Culture, 2 aprile 2019.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito allo sviluppo di una "zona di contiguità territoriale e di vie di comunicazione" nel quadrante settentrionale del Medio Oriente, destinata ad unire l'Iran con l'Iraq, con la Siria e con il Libano. Un'iniziativa che si pensa finirà per inquadrarsi nel grande progetto cinese per una Nuova Via della Seta. Quella perpetua banderuola che segna il vento in medio oriente e che si chiama Libano sembra accingersi a tagliare il cordone ombelicale che da cinquecento anni lo lega a Roma e all'Europa per guardare invece in direzione di Mosca -ai fini di proteggere i cristiani della regione, di agevolare il rimpatrio dei profughi siriani, per mettersi sotto l'ala protettiva del presidente Putin e impedire a Bolton e a Netanyahu di scatenare il caos nel suo pezzetto di terra- e della Cina. Negli ultimi giorni le iniziative infrastrutturali relative alla Nuova Via della Seta sono esplicitamente sbarcate nello stato che occupa la penisola italiana e questo conferisce un po' di spessore reale (ovvero di infrastrutture) all'idea di comunanza nel Mediterraneo.
Entrambi gli accadimenti hanno un unico motivo di fondo: restituire autonomia ai rispettivi paesi, recuperare un minimo di potere decisionale e liberarsi dalla camicia di forza della stagnazione economica e dal peso morto di pastoie politiche desuete. Come ha scritto Cristina Lin, "la Cina per prima ha fatto proprio il concetto per cui la sicurezza è una conseguenza dello sviluppo economico, e ha detto chiaramente che la ricostruzione viene prima degli accordi politici. La Cina sta considerando il Levante nell'ottica del contesto regionale e considera il Libano come un punto di partenza per la ricostruzione della Siria e dell'Iraq."
L'Unione Europea ovviamente nutre timori nei confronti della Cina. L'Unione Europea si è sempre arrogata la palma del "colosso economico prossimo venturo". Solo che adesso l'Unione Europea nutre concretissimi timori al cospetto dell'ascesa della Cina, anch'essa stato e civiltà al tempo stesso, che molto probabilmente metterà la parola fine al dominio occidentale in ogni campo: economico, politico e culturale. Soprattutto, la tendenza demografica indica un'Europa che sta invecchiando, che si sta inaridendo e che controlla una quota dell'economia mondiale sempre più piccola. In scena, sia nel quadrante settentrionale del medio oriente che nello stato che occupa la penisola italiana, si è assistito proprio questo spettacolo. A modo loro sia lo stato che occupa la penisola italiana che il Levante sono stati sovrani e civiltà al tempo stesso. Non hanno bisogno dell'avallo dell'Unione Europea a confermarli in questa convinzione. Come ha detto lo scorso anno l'ex ministro dell'economia del Libano, "La Cina non guarda al Libano come a un piccolo Stato con 4 milioni di cittadini, ma come a un paese che ha un grosso potenziale in considerazione della sua collocazione geografica."
Il fatto è proprio che l'Occidente non è più l'Occidente. Esiste il bellicoso Occidente di Trump, di Pence, di Bolton e di Pompeo ed esiste un Occidente che sta perdendo sempre più presa tanto in Medio Oriente quanto oltre esso. Poi esiste l'Occidente dell'Unione Europea, ma anch'esso soffre di profonde divisioni ed ospita forze che si oppongono al suo ethos millenaristico. Insomma, l'Occidente inteso come "visione del futuro" sta perdendo terreno.
All'Unione Europea se ne sono accorti. L'Unione Europea è nella morsa del potenziale cinese inteso come partner economico, in questi tempi di scarsità in cui tira aria di recessione, e non riesce neppure a tenere testa al mondo che cambia e alla propria ambizione di diffondere a livello mondiale i propri valori liberali di stampo europeo. In conseguenza di questo, l'Unione Europea presenta i sintomi di un comportamento schizofrenico. Da una parte sul piano economico non può rinunciare alla Cina e intende diventare il migliore amico del Leviatano; eppure l'Unione Europea ha anche un'altra faccia che potrebbe in qualche modo essere in sintonia con Trump nel denunciare le pratiche commerciali sleali dei cinesi, e farsi bella dei valori europei: "La competizione fra Cina e Unione Europea non è leale... L'Unione Europea ha sbagliato a sperare che la Cina avrebbe rispettato i diritti umani in misura maggiore col crescere dello sviluppo economico... L'Unione Europea dovrebbe essere onesta nei confronti della Cina, ma comportarsi anche con maggiore fermezza."
Le considerazioni polemiche di Juncker riflettono in qualche modo il senso di pentimento di chi ha comprato a scatola chiusa, a fronte delle conseguenze della condiscendenza mostrata verso la Cina. Secondo Martin Jacques le aspettative non sono diventate realtà:

"Esisteva una sorta di tacito consenso sul fatto che se avessimo trattato di buona grazia la Cina, come se fosse stata potenzialmente 'uno di noi', Pechino si sarebbe comportata allo stesso modo. In concreto si è discusso assai poco su come sarebbe stato un mondo in cui la potenza dominante fosse stata la Cina.
Da una parte c'è chi crede che la Cina diventerà la dominatrice del pianeta, ma solo a patto di appropriarsi del nostro modo, del modo occidentale di intendere le cose. Dall'altra ci sono quanti sostengono che la modernizzazione di Pechino finirà con l'arenarsi perché incontrerà un ostacolo nel modo cinese di essere. Entrambe le scuole di pensiero tuttavia arrivano alle stesse conclusioni. Noi europei non ci dobbiamo preoccupare; forte o debole che sia, la Cina non rappresenterà una minaccia al nostro modo di vivere.
In Occidente è ancora ampiamente diffusa l'idea che alla fine la Cina si adeguerà, per un processo di naturale e e inevitabile sviluppo, al paradigma occidentale. Si tratta di un pio desiderio. Concentrandosi sulle somiglianze, anziché prendere atto delle differenze, 'il mondo occidentale finisce per trascurare tutto quello che fa della Cina ciò che essa è.'"
Ahia. Adesso che su questo punto concorda anche l'Unione Europea i livelli di schizofrenia si alzano, come si nota su politico.eu:

"Il bilateralismo è duro a morire, e martedi scorso abbiamo assistito a uno spettacolo senza precedenti:[Macron, Merkel e Juncker] sulla soglia dell'Eliseo hanno accolto il presidente cinese Xi Jinping in un loro piccolo vertice a quattro sul multilateralismo. Di sicuro l'immagine ha mandato il messaggio che l'Eliseo voleva: la Cina ha davanti un fronte europeo coeso in cui non c'è spazio per quell'approccio bilaterale che è quello preferito da Pechino, che in casi simili vede pendere dalla propria parte l'equilibrio dei poteri.
Macron è noto per la sua propensione ai simbolismi, ma è forse tutto qui? L'incontro si è concluso con una dichiarazione bilaterale congiunta da parte di Francia e Cina. Sette pagine di riferimenti ai 'due paesi': della Germania o della Commissione Europea non si fa parola.
L'Unione Europea, questo è piuttosto vero, è sottoposta a grosse pressioni da parte degli USA. E poi, come ha detto l'ex ambasciatore statunitense in Cina Chas Freeman,
"Dal punto di vista degli Stati Uniti, le obiezioni nei confronti dell'apertura alla Cina di cui è autore lo stato che occupa la penisola italiana altro non sono che parte dell'isteria anticinese che si è impadronita di Washington. Gli USA stanno trattando la Nuova via della Seta come se fosse una sfida militare strategica. Gli europei invece la stanno trattando come una questione economica che va affrontata con cautela... Gli Europei stanno diventando matti per accettare il fatto che la Cina sul piano economico è ormai una grande potenza globale... per loro non conta tanto la Nuova via della Seta, contano gli investimenti cinesi nel settore tecnologico e lo spirito competitivo con cui essi si presentano in quel campo. Negli USA invece non c'è discussione: esiste oggi un forte consenso anticinese."
Il pendolo in AmeriKKKa è passato da un estremo all'altro: da "la Cina dominerà il mondo, ma solo se accetterà di fare le cose all'occidentale" all'idea isterica che essa costituisca una minaccia, perché l'Occidente finora proprio di questo è stato colpevole: di aver "trascurato tutto quello che fa della Cina ciò che essa è".
Assistiamo dunque alla problematica pretesa di un'AmeriKKKa che ha un modello economico proprio e molto particolare di puntare i piedi sul fatto che il modello economico cinese -che è proprio quello che fa della Cina ciò che essa è- va cambiato. Il modello economico cinese andrebbe modificato per permettere alle imprese statunitensi di entrare nel mercato cinese proprio come se si trattasse di quello interno, e come se stessero facendo affari con un'altra impresa statunitense.
Le contraddizioni di una simile pretesa sono ovvie. Non esiste alcun compendio di "regole" che vada bene per tutti i casi, ovvero per tutti i modelli economici. Le regole mondiali sono state concepite attorno a un paradigma statunitense, ma i modelli economici cambiano al cambiare dei paradigmi.
Cosa significa tutto questo? Ai paesi del Medio Oriente rivolgersi alla Russia e alla Cina offre la prospettiva di interagire con una macchina politica e diplomatica che funziona, e che è ancora collegata alle realtà della regione. Apre anche alla possibilità di accedere ad armamenti sofisticati per la propria difesa e presenta anche il valore aggiunto di poter attirare investimenti su infrastrutture e corridoi commerciali destinati a far parte della Nuova Via della Seta russo-cinese.
Nel caso dello stato che occupa la penisola italiana, la cui economia è come pietrificata nell'ambra, la mossa restituisce allo stato qualche barlume di autonomia in materia di scelte economiche, un cenno di sovranità. La penisola italiana nel corso dei secoli è stata occupata da altri tante volte quanto basta a non far temere che gli investimenti infrastrutturali cinesi possano ledere qualche cosa di simile a un orgoglio nazionale. E i cinesi sono come innamorati di qualsiasi cosa venga dalla penisola italiana.
Questo vuol dire che mentre a Washington si fanno tuoni e fulmini, i cinesi stanno erodendo con tutta calma ogni resistenza alla loro affermazione. Dovremmo semplicemente adeguarci all'alterità cinese e al modo con cui si fanno affari in Cina. Si tratta proprio di un problema, sempre che non ci pensino i signori Navarro, Lighthizer e Pence a farlo diventare?