Ottobre 2008. Da Uòll Strìtt in là, le borse paiono il macello comunale a causa dei sanguinosi ribassi. Un tantinello di crisi per un'economia finanziarizzata che da un bel po', ma proprio da un bel po', aveva perso ogni contatto con la realtà. In attesa che i cacciaballe in cravatta che per chissà quale motivo in "Occidente" -ed anche altrove, purtroppo- godono di maggior prestigio e rispettabilità di un manovale si inventino qualche cosa di carino (se non di credibile) per continuare a cacciare balle come prima e soprattutto per seguitare a non fare uno stracazzo di nulla a giornate intere, si ripubblica qui un articolo risalente al 1997. Un articolo ancora attualissimo e capace di fornire spunti di riflessione.
Nella Repubblica Islamica dell'Iran chi indossa una cravatta è generalmente malvisto. Un motivo deve pur esserci.
Gli orizzonti della mondializzazione
Alain de Benoist
Oggi tutti parlano di mondializzazione: un fenomeno basilare del nostro tempo, la cui importanza è ulteriormente accresciuta dal fatto che in genere lo si considera inevitabile. Essa sembra infatti imporsi come un movimento di trasformazione del mondo sul quale nessuno è più in grado di intervenire, una sorta di grande ondata che si staglia, irreversibile, sull’orizzonte di almeno varie generazioni. Gli anglosassoni preferiscono parlare di «globalizzazione», ed è interessante sapere che questo concetto è stato messo in circolazione oltre Atlantico da alcuni strateghi del marketing di massa che, a partire dagli anni Ottanta, hanno cominciato a parlare di «prodotto globale» o di «comunicazione globale», facendo in tal modo allusione al principio secondo cui la stessa merce deve, in virtù della stessa pubblicità, raggiungere quanto prima il maggior numero possibile di clienti potenziali, non adattandosi alle diverse culture bensì veicolando una cultura globale.
Qual è il significato esatto che va attribuito al termine «mondializzazione»? Malgrado le numerose opere pubblicate di recente sull’argomento (1), la nozione rimane confusa. Per gli uni, la mondializzazione è prima di tutto un fenomeno di superamento dello Stato nazionale. Per altri, essa definisce un nuovo tipo di contrapposizione tra il capitale e il lavoro, indotto dalla finanziarizzazione del capitale, o esprime un nuovo spartiacque tra lavoro qualificato e lavoro non qualificato. Alcuni vi vedono l’irruzione nel commercio mondiale di nuovi attori provenienti dal Sud, nonché la strategia di globalizzazione delle società multinazionali, altri mettono l’accento sull’ampliamento degli scambi dovuto all’integrazione dei servizi nel commercio mondiale, ma anche sulla grande trasformazione innescata dalla rivoluzione informatica. A quale di queste interpretazioni occorre dare priorità?
A nostro avviso, è opportuno innanzitutto distinguere tra mondializzazione culturale e mondializzazione economica e finanziaria. Si tratta di due fenomeni che si sovrappongono in larga misura ma non si confondono l’uno con l’altro.
Una delle caratteristiche più evidenti della mondializzazione economica è legata all’esplosione degli scambi e dei flussi finanziari. Il commercio internazionale cresce oggi più in fretta delle produzioni nazionali (PIL). Nel 1990, la percentuale degli scambi internazionali ammontava già al 15% del PIL mondiale; in soli cinque anni, fra il 1895 e il 1990, le esportazioni mondiali sono aumentate del 13,9%. Nel trentennio 1960-1989, gli scambi di merci sono raddoppiati, mentre i flussi di capitali si moltiplicavano per quattro.
Contemporaneamente, la natura dei flussi finanziari si è modificata: il continuo sviluppo degli investimenti diretti all’ estero è stato affiancato da un’ esplosione dei movimenti di capitale a breve termine. Questi investimenti diretti aumentanO, a loro volta, più velocemente della ricchezza mondiale: il loro .tasso di crescita annua è passato dal 15% del periodo 1970-1985 al 28% del 1985.1990, periodo durante il quale essi sono quadruplicati in volume, passando dai 43 miliardi di dollari del 1985 ai 167 miliardi del 1990. Si assiste così all’avvento di un’economia globale, con una parte crescente del prodotto nazionale lordo direttamente dipendente dal commercio estero e dai flussi di capitali internazionali.
L’altra grande caratteristica è il ruolo crescente dei computers e dell’ elettronica. Riducendo il costo delle transazioni a lunga distanza e consentendo di conoscere in tempo reale in qualunque località del globo le informazioni che concorrono alla formazione dei prezzi, la cui conoscenza un tempo richiedeva, in alcune piazze finanziarie, intere settimane, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono ormai una mobilità senza precedenti dei flussi finanziari. Sulle borse interconnesse, il sole non si corica più: i capitali si spostano alla velocità della luce da un capo all’altro del globo, alla ricerca del miglior esito dell’investimento. Si noti che questa globalizzazione è esclusivamente finanziaria: il mercato dei capitali è infatti l’unico in cui l’arbitrato istantaneo abbia un senso. Grazie alla mobilità istantanea resa possibile dall’interconnessione informatica, le transazioni sul mercato dei cambi hanno conosciuto una crescita fantastica, e raggiungono oggi i mille miliardi di dollari al giorno. Queste somme provengono dalle disponibilità bancarie, dalle tesorerie delle ditte multinazionali, dalla massa dei capitali flottanti e dalle somme detenute da società finanzia, rie espressamente costituite per dedicarsi a tale esercizio. Il fondamento del sistema risiede negli sbalzi dei cambi, che da un giorno all’altro, o addirittura da un’ ora all’ altra, possono rappresentare guadagni di plusvalore considerevoli, assai superiori a quelli che derivano dalle attività industriali o commerciali classiche. In funzione dell’anticipazione dei tassi di cambio, l’informatizzazione consente lo spostamento virtuale immediato di notevoli masse di capitali, che sfuggono quasi completamente alle banche centrali. Per definire il fenomeno si è parlato, con ragione, di «economia-casinò». Ne risultano un’accresciuta instabilità monetaria ed una tendenza dei tassi d’interesse ad allinearsi verso l’alto ai maggiori rendimenti assicurati dalla valorizzazione mondiale del capitale. Un certo numero di studiosi collocano il punto di partenza della mondializzazione agli inizi degli anni Settanta, segnati dal duplice choc petrolifero e dalla crisi del sistema internazionale dei cambi. È infatti in quel periodo che si verificano il rallentamento della produttività e del tasso di crescita nei paesi industrializzati, una progressiva saturazione della domanda dei classici beni di consumo durevoli, dei quali il rinnovamento diventa la componente principale, e l’appesantimento della costrizione finanziaria esterna, mentre l’abbandono dei cambi fissi e l’esplosione del deficit dei pagamenti americani producono la moltiplicazione dei prodotti finanziari puramente speculativi.
Il processo prosegue negli anni Ottanta con l’esplosione del debito pubblico, che favorisce lo sviluppo di un ampio mercato di capitali, e soprattutto con l’ondata di deregulation che, partita dall’America reaganiana, si estende rapidamente all’insieme dei paesi sviluppati. Gli Stati cominciano allora a battere in ritirata dinanzi alla folgorante ascesa della dinamica di integrazione finanziaria sopprimendo barriere doganali, intermediazioni e regole: provvedimenti che, liberalizzando completamente il mercato dei capitali, permettono di effettuare arbitrati a livello mondiale e aprono il mercato dei crediti di Stato e delle grandi società agli operatori esteri. Nel frattempo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, la scomparsa quasi improvvisa del sistema sovietico e il passaggio brutale dei paesi comunisti al sistema del capitalismo selvaggio si traduce nell’irruzione di altri due miliardi e mezzo di persone nel mercato mondiale, diffondendo l’illusione di un pianeta unificato, in cui esisterà un unico blocco.
Questa serie di eventi deve essere tuttavia collocata all’interno di una cronologia molto più lunga. Lungi dal rappresentare un’aberrante deviazione dal sistema capitalista, o dal poter essere interpretata come una novità radicale o addirittura come il risultato di un complotto, la mondializzazione si situa infatti nel solco di una dinamica secolare caratteristica della natura medesima del capitalismo. «La tendenza a creare un mercato mondiale è inclusa nel concetto stesso di capitale», osservava Karl Max già nel secolo scorso (2). Da questo punto di vista, Philippe Engelhard non ha torto quando scrive che «la mondializzazione certamente non è che l’ultimo fuoco d’artificio dell’esplosione della modernità occidentale» (3). Essa consacra in effetti il compimento di tutta una serie di metamorfosi che hanno ritmato, lungo l’intero corso della sua storia, un’economia mercantile strutturata sin dall’origine dall’apertura degli scambi in un clima di individualismo e di universalismo fondato sulla metafisica della soggettività e sulla valorizzazione del solo successo materiale. Comincia con la fioritura del commercio di lungo corso all’epoca delle città-Stato italiano, nel XIV secolo, e prosegue con le grandi scoperte e la rivoluzione industriale, e poi con la colonizzazione. Già fra il 1860 e il 1873, l’Inghilterra era riuscita a creare un abbozzo di sistema commerciale mondiale. Nel luglio del 1885, Jules Ferry dichiara dinanzi alla Camera dei deputati che «la fondazione di una colonia è la creazione di un mercato». Alimentando la disintegrazione delle culture e delle società tradizionali africane e asiatiche, la colonizzazione favorisce la penetrazione dei prodotti occidentali e apre nuove succursali al commercio, prassi che sarà abbandonata solo quando si dimostrerà non più redditizia, cioè quando le colonie inizieranno a costare più di quanto in precedenza non avessero reso (4).
Anche l’istituzione del mercato è storicamente indissociabile da un va sto moto di internazionalizzazione degli scambi. Nella teoria economica classica, quale è enunciata nel XVIII secolo, già si esprime la convinzione che la libera circolazione dei beni e dei servizi sfocerà in una parificazione de sistemi produttivi e dei livelli di vita. Il capitalismo appare pertanto noma de sin dall’inizio. In questo senso, come nota Jacques Adda, la mondializzazione «non fa altro che restituire al capitalismo l’originaria vocazione transnazionale più che internazionale, che consiste nell’infischiarsene delle frontiere e degli Stati, delle tradizioni e delle nazioni, per assoggettare meglio ogni cosa all’unica legge del valore» (5). Tuttavia, anche se è indiscutibile chI la mondializzazione rappresenta per vari versi solo una brusca accelerazione di un processo secolare, è altrettanto certo che essa presenta un certo numero di caratteristiche di novità, che possiamo rapidamente passare in rivista.
Oltre alla rivoluzione informatica, di cui abbiamo già fatto cenno, oltre al fatto che, negli scambi internazionali, sono ormai i prodotti manifatturieri a predominare sulle materie prime, bisogna innanzitutto registrare la straordinaria autonomizzazione della sfera finanziaria rispetto alla produzione economica propriamente detta. La grande deregolamentazione borsistica degli anni Ottanta ha segnato l’avvento di un capitalismo che non prevalentemente industriale, bensì speculativo. Secondo alcune stime, la mas sa monetaria attualmente in circolazione nel mondo ha un valore quindici volte superiore a quello della produzione. Questa «bolla» finanziaria raccoglie fondi provenienti sia dall’economia privata che dall’economia pubblica e sociale, si tratti della gestione del debito pubblico degli Stati o dei fondi-pensione, ed impone logiche speculative e illegali: la droga e la corruzione diventano elementi strutturali del nuovo ordine economico.
Un altro fatto nuovo è la mercantilizzazione generalizzata. Le transazioni oggi investono settori in precedenza ad esse estranei. La cultura, i servizi: le risorse naturali, i prodotti della proprietà intellettuale entrano in regime di libero scambio. Il gioco del mercato agisce nel senso di una trasformazione di tutte le cose in valute. Quel che entra nel sistema come cosa viva ne esce come merce, prodotto morto. Ma soprattutto gli attori non sono più gli stessi. Ieri erano principalmente gli Stati. Oggi sono le società multinazionali a dominare gli investimenti e il commercio, mentre i mercati finanziari impongono le proprie regole e le banche controllano un settore finanziario sempre più slegato dall’economia reale. Si passa così da un mondo organizzato attor. no agli Stati nazionali ad un’«economia-mondo»strutturata da attori globali. Si tratta di una trasformazione essenziale. Ancora pochi decenni fa, gli Stati nazionali borghesi costituivano il contesto politico e sociale naturale di gestione dei sistemi produttivi nazionali. La concorrenza intercapitalistica si svolgeva fondamentalmente tra gli Stati. La caratteristica dominante del sistema capitalista era la sua territorializzazione, cioè il radicamento all’interno dei limiti di una nazione industriale. Il mercato, pur in espansione, era innanzitutto nazionale, e anche per le ditte dotate di filiali all’estero la centralità strategica dell’impresa-madre situata nella nazione di riferimento era un dato indiscusso. Infine, il Terzo mondo non era ancora entrato nel sistema industriale, ed esisteva un contrasto assoluto tra i centri industrializzati e le periferie.
Oggi, l’integrazione mondiale del capitale ha fatto esplodere i sistemi produttivi nazionali e ne ha avviato la ricomposizione come altrettanti segmenti di un sistema produttivo mondializzato. Le diverse componenti della produzione si disperdono ormai in un contesto spaziale lontano dalle origini geografiche dell’impresa, e talvolta persino indipendente dal suo controllo finanziario. I prodotti incorporano componenti tecnologiche di provenienza talmente varia che. non vi si possono più riconoscere né il contributo specifico di ciascuna nazione né la nazionalità della forza-lavoro impegnata nella produzione delle merci. Robert Reich fa notare ad esempio che, quando un abitante degli Stati Uniti acquista dalla General Motors un’automobile che paga 20.000 dollari, di questa cifra meno di 800 dollari finiscono a produttori americani. La mondializzazione produce quindi una riorganizzazione dello spazio planetario, che si contraddistingue in primo luogo per una deterritorializzazione generalizzata del capitale. Si passa da uno «spazio di luoghi» a uno «spazio di flussi», ovvero dal territorio alla rete (6). La rete non corrisponde più ad alcun territorio ma si colloca all’interno del mercato mondiale, emancipandosi da qualunque costrizione politico-statuale. Per la prima volta nella storia, lo spazio dell’economia si separa dallo spazio del politico. Questo è il senso profondo della mondializzazione.
Abbiamo parlato di imprese multinazionali. La comparsa di società industriali capaci di pensare subito il proprio sviluppo su scala planetaria e di mettere in pratica strategie mondiali integrate è infatti uno dei tratti più caratteristici della mondializzazione. Le società multinazionali sono imprese che realizzano oltre la metà della loro cifra d’affari all’estero. Nel 1970 se ne contavano 7.000. Oggi sono 40.000 e controllano 206.000 filiali, ma danno lavoro a solo il 3% della popolazione mondiale (ossia a 73 milioni di persone). Per farsi un’idea dell’importanza che hanno assunto, basta sapere che da sole hanno realizzato, nel 1991, un volume d’affari superiore alle esportazioni mondiali di beni e servizi (4.800 miliardi di dollari), che controllano direttamente o indirettamente un buon terzo del reddito mondiale, e che le 200 più importanti fra di esse monopolizzano da sole un quarto dell’attività economica mondiale. Si noti inoltre che quasi il 33% del commercio mondiale si svolge ormai tra filiali della stessa ditta e non fra ditte diverse. Queste imprese reti dispongono di risorse che sfidano l’immaginazione. Il volume di affari annuo della General Motors (132 miliardi di dollari) supera il prodotto nazionale lordo dell’Indonesia. Quello della Ford (100,3 miliardi di dollari) sopravanza il PNL della Turchia; quello della Toyota, il PNL del Portogallo; quello dell’Unilever, il PNL del Pakistan; quello della Nestlé, il PNL dell’Egitto. Queste società, la cui origine nazionale è diventata un riferimento . meramente formale, hanno da tempo imparato a sostituire ad obiettivi di redditività minima obiettivi di massimizzazione dei ricavi finanziari, quali che siano le conseguenze sociali. Sono gruppi finanziari più preoccupati del controllo di mercati e brevetti che della produzione, che collocano la maggior parte dei profitti in valuta o in prodotti derivati invece di redistribuirli agli azionisti o investirli in attività che creino posti di lavoro. Essendo più ricche di parecchi Stati, non trovano difficoltà nel comprare uomini politici e corrompere funzionari.
Per fronteggiare la concorrenza, le ditte multinazionali hanno sviluppato una nuova strategia. Giacché i profitti tratti dalla produzione non trovano più sbocchi sufficienti negli investimenti classici, hanno dovuto trovare nuove destinazioni per l’eccedenza di capitali flottanti, onde evitarne quella svalutazione massiccia e brutale che si era verificata negli anni Trenta. La lotta per le fette di mercato le ha dunque spinte ad incorporare nella massa salariale mondiale una manodopera poco qualificata e debolmente remunerata, per godere di un vantaggio di costo assoluto (7). Mentre i paesi occidentali di un tempo si accontentavano di sfruttare il mercato interno dei paesi del Sud, trasferendone le attività artigianali nelle proprie industrie, le multinazionali riesportano verso i mercati occidentali prodotti assemblati o fabbricati sul posto a basso prezzo. La mondializzazione si realizza perciò attraverso il rimpatrio di una parte dell’attività economica nei paesi del Sud, una riorganizzazione planetaria del ciclo produttivo e la mobilitazione di una manodopera locale trasformata in lavoro salariato. Questa delocalizzazione, chi si è generalizzata a partire dagli anni Ottanta, non è altro che l’estensione riorganizzazione del rapporto salariale a livello mondiale, cioè un passo avanti verso la creazione di un mercato mondiale del lavoro. Va da sé che, in questa prospettiva, per drenare i profitti verso i centri di decisione incaricati della loro collocazione, si impone la libertà dei movimenti di capitali, processo che ha il duplice effetto di ridurre le capacità di accumulazione locale di contenere l’aumento del potere d’acquisto. (8)
In parallelo, si assiste all’irruzione nel commercio mondiale di nuovi al tori provenienti dall’Asia e, in misura minore, dall’ America latina e dall’e impero sovietico. È un’altra novità. In passato, lo squilibrio dei costi salaria fra il Nord e il Sud si accompagnava in genere a sproporzioni nella produttività e nella qualità dei prodotti. L’emergere dei nuovi paesi industrializzati e la comparsa di multinazionali in alcuni paesi del Sud hanno radicalmente modificato questa situazione. Nel 1995 il reddito pro capite di Singapore ha già superato quello della Francia, e il fenomeno appare in via di intensificazione. Va rimarcato che il successo dei nuovi paesi industrializzati non depone affatto a favore della fondatezza delle tesi liberali “miracolo asiatico” getta infatti le radici prima di tutto in uno specifico potenziale culturale (9), nel quale anche il nazionalismo fa la sua parte, si tratti del Giappone, della Cina, della Corea o di Singapore, e si spiega inoltre con il volontarismo delle politiche industriali dei paesi in questione, i quali non solo non si sono allineati alla teoria dei vantaggi comparativi che avrebbe imposto loro di specializzarsi nelle produzioni per le quali avevano i costi relativi più bassi, senza preoccuparsi della domanda effettiva, ma al contrario si sono rivolti prioritariamente alle produzioni che sono oggetto di una forte domanda su scala mondiale.
La mondializzazione, beninteso, modifica la concorrenza fra le nazioni, perché, a partire dal momento in cui le imprese e i capitali sono liberi di spostarsi, la competitività delle imprese nazionali non si confonde più automaticamente con quella delle nazioni. Non vi è infatti alcun motivo per cui lo spazio transnazionale nel quale si muovono le grandi imprese debba coincidere con l’organizzazione ottimale degli spazi nazionali. La posizione di un paese nel mondo si definisce allora esclusivamente in virtù del livello di capacità competitiva delle sue produzioni sul mercato mondiale, essendo i suoi imprenditori tenuti a situarsi in tale mercato in funzione del miglior rapporto rendimento/rischio o vantaggio/costo. Al limite, non essendo più le nazioni nient’altro che punti nello spazio di produzione delle grandi imprese, la stessa nozione di vantaggio comparativo diventa obsoleta. L’unica risorsa a disposizione degli Stati è quindi il ripiegamento su politiche di pura competitività, a detrimento delle esigenze di coesione sociale. È esattamente quanto è accaduto in Europa dagli anni Ottanta in poi, prima sotto l’influenza delle teorie liberali applicate da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, poi per effetto dei «criteri di convergenza» del trattato di Maastricht. Questo aggiustamento alle esigenze della mondializzazione ha assunto le forme che sappiamo: deregolamentazione e liberalizzazione generalizzate, priorità assegnata alle esportazioni sul mercato interno, privatizzazione delle imprese pubbliche, apertura agli investimenti internazionali, determinazione di prezzi e salari da parte del mercato mondiale, soppressione graduale degli aiuti e delle sovvenzioni, nonché riduzione delle spese accusate di frenare la competitività, come quelle destinate all’educazione, alla protezione sociale o alla difesa dell’ambiente. Uno dopo l’altro, gli Stati europei hanno adottato una politica rigidamente monetari sta, detta di deflazione competitiva, che consiste nel lottare contro l’inflazione grazie a tassi di interesse elevati ed ha avviato come risultato più evidente il rallentamento della crescita e l’aumento de la disoccupazione; nel frattempo, i capitali finanziari, meno tassati dei redditi da lavoro, partecipavano sempre meno alle spese generali della collettività.
La crisi del debito ha costretto nello stesso periodo i paesi del Terzo mondo a operare una correzione di rotta analoga: i programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fmi e dalla Banca mondiale hanno spinto la maggior parte di essi ad applicare le stesse ricette dei paesi industrializzati, con risultati ancor più catastrofici. Le organizzazioni internazionali sono state poste al servizio della mondializzazione. La funzione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale è quella di imporre la deregulation, di gestire il flottaggio delle monete e di assoggettare le economie del Terzo mondo all’imperativo assoluto del servizio del debito. Il G7 cerca di coordinare: politiche di gestione della crisi dei principali paesi sviluppati, senza affrontare i problemi di fondo; ma un ruolo del tutto particolare spetta alle organizzazioni incaricate della supervisione del commercio mondiale.
In passato, i negoziati commerciali fra Stati riguardavano un ristretto numero di prassi nazionali, come le quote di importazione, le tariffe doganali, il controllo dei movimenti di capitali, e via dicendo. Oggi, le poste in gioco nella diplomazia commerciale si proiettano molto al di là dei problemi di frontiere ed investono le istituzioni interne dei paesi: la struttura del sistema bancario, i termini del diritto di proprietà privata, la legislazione sociale, la regolamentazione in materia di concorrenza, di concentrazione o proprietà industriale. Il principio sottostante a questi negoziati è che il commercio internazionale deve associare nazioni che possiedono più o meno stesse istituzioni, che si muovono in direzione di regimi di proprietà e regi lamentazione uniformi, perlopiù ricalcati sulla legislazione statunitense e mirati a ridurre l’incertezza e i rischi degli investimenti diretti all’estero. A trarne giovamento è il potere negoziale delle società multinazionali, le quali acquisiscono una nuova capacità di pressione che permette loro di esigere sgravi regolamentari, salariali o fiscali per guadagnare redditività e competitività. In definitiva, «attraverso un numero crescente di negoziati locali. e internazionali, le società vengono poste di fronte a una richiesta di trasfomazione delle loro regole e istituzioni interne, onde conformarsi a un modello imposto dall’esterno» (10). Le clausole del Gatt o dell’Organizzazione mondiale del commercio vanno pertanto ben al di là dei tradizionali obiettivi degli accordi di libero scambio; mirano per prima cosa a promuovere la mobilità del capitale. Gli accordi a cui conducono riguardano in realtà la libertà di circolazione dei capitali, mirando ad instaurare nuovi diritti di proprietà internazionali per gli investimenti all’estero e a creare nuove restrizioni ai regi lamenti nazionali e governativi. Come scrive Ian Robinson, «gli accordi di libera circolazione dei capitali possono essere intesi come strumenti che, in nome della riduzione degli ostacoli al commercio, alterano o consentono di rinegoziare le leggi, le politiche e le prassi che fanno da ostacolo sulla via di un’economia di mercato planetaria» (11).
Va infine registrata un’ altra novità, non trascurabile perché consente di capire la natura della mondializzazione culturale: il capitalismo non vende più soltanto, come ieri, merci e beni; vende anche segni, suoni, immagini, software, connessioni e collegamenti. Non si limita ad ammobiliare le case, colonizza l’immaginario e domina la comunicazione. Mentre negli anni Sessanta la società dei consumi si nutriva ancora di beni materiali identificabili come le automobili e gli elettrodomestici, il sistema che Benjamin R. Barber ha proposto di chiamare «McWorld» come MacIntosh o McDonald costituisce un universo essenzialmente virtuale, nato dalla intensificazione di flussi transnazionali d’ogni genere, che convergono nel produrre un’omogeneizzazione dei modi di vita. «I sostegni del sistema McWorld», precisa Barber, «non sono le automobili, ma il parco di attrazioni Eurodisney, la rete musicale Mtv, i films hollywoodiani, i programmi informatici. Insomma, concetti e immagini oltre agli oggetti» (12).
La mercantilizzazione generalizzata instaura il consumo pubblicitario spettacolare come forma unica di integrazione sociale, esacerbando nel contempo il sentimento di esclusione e gli impulsi aggressivi in chi non ha i mezzi per accedervi. Essa contribuisce, mediante un diluvio di immagini e suoni universali, ad accentuare l’uniformazione ormai a buon punto dei modi di vita, la riduzione delle differenze e delle specificità, l’omogeneizzazione degli atteggiamenti e dei comportamenti, lo sradicamento delle identità collettive e delle culture tradizionali. Ma fa anche di più: modifica addirittura la nostra percezione dello spazio e del tempo. Sotto il controllo dei satelliti in orbita geostazionaria, sotto l’influenza degli imperi economici che moltiplicano alleanze e fusioni, sotto l’effetto delle «autostrade dell’informazione» che veicolano anche nei punti più lontani del pianeta la medesima subcultura globale, il pianeta si restringe. Dominato da monopoli sempre meno numerosi e sempre più potenti, lo spazio in cui circolano merci, investimenti e capitali si va progressivamente unificando. Mentre sino ad oggi tutte le società avevano abitato il tempo nella successione dei momenti e nella continuità della durata, questa distinzione si cancella. La rivoluzione tecnologica del «tempo reale» accelera la circolazione dei flussi materiali e immateriali, senza possibilità di godere di punti di riferimento o di effetti prospettici, e questa compressione del tempo fa dell’immediatezza l’unico orizzonte di senso rimasto. René Char diceva: «sopprimere la lontananza uccide». Il ravvicinamento prodotto dalle nuove tecnologie della comunicazione schiaccia esseri e cose, confonde forme ed istanti. Stiamo in effetti assistendo a una ridefinizione della realtà. Internet ne è un buon esempio. Mentre i sistemi di comunicazione classici si limitano a mostrare quel che accade altrove, Internet permette agli utenti di spostarsi virtualmente in quell’altrove. L’abitante del sistema McWorld vive nello stesso momento ovunque e in nessun luogo; Internet inaugura un nuovo modo di vita che si potrebbe chiamare nomadismo elettronico ma che è anche un: forma di colonialismo elettronico, dal momento che «in fin dei conti, la potenza di Internet sta nel fatto che [...] consente a tutto il mondo di pensare e scrivere come i nordamericani», secondo la giusta osservazione di Nelson Thall, successore di Marshall McLuhan all’università di Toronto.
La mondializzazione non deve dunque essere confusa con la semplice internazionalizzazione, sistema creato e organizzato dagli Stati per definire le forme dei loro rapporti internazionali (13). Essa si definisce semmai come passaggio da un’economia internazionale concepita come un aggregato di economie nazionali e locali, distinte dai rispettivi principii di funzionamento e di regolamentazione, a una vera e propria economia di mercato planetaria, governata da un sistema di regole uniformi, nel senso inteso da Karl Polanyi (14).
Essa descrive «l’interdipendenza crescente che unisce fra di loro tutte le componenti del nostro spazio-mondo, per condurle verso un’uniformità un’integrazione sempre più esigenti» (15). A pilotarla sono nuovi attori extrastatali ed extranazionali, che aspirano unicamente a massimizzare i propri dividendi e profitti pianificando ed ottimizzando l’organizzazione planetaria delle loro attività ed eliminando tutto quel che può fare da ostacolo al loro libertà d’azione. E questi nuovi autori, che rafforzano un po’ ogni giorno la loro autonomia, sono sempre più indipendenti, a tal punto da costituire un unico immenso organismo mercantile.
Una volta che si è colta la natura esatta della mondializzazione, è facile comprenderne le conseguenze. La prima è un tragico aggravamento delle ineguaglianze economiche. Già Hegel diceva che le società ricche non sono abbastanza ricche da riassorbire il sovrappiù di miseria che generano. Al giorno d’oggi, la povertà non è più frutto della scarsità, bensì della cattiva ripartizione delle ricchezze prodotte, nonché di un blocco psicologico e culturale che vieta di prendere in considerazione il passaggio a società che non si definiscano prioritariamente attorno al lavoro e alla produzione. Fra il 1975 e il 1985, il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40%: dal 1950 ad 01 il commercio mondiale è stato moltiplicato per undici, la crescita economi per cinque. Ebbene, durante lo stesso periodo, non solo non si è verificato un innalzamento regolare del livello di vita media, ma si è viceversa assistito. ad un aumento senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente. Il PIL reale per abitante nei paesi del Sud ammonta oggi a solo il 17% di quello del Nord. Il mondo industriale, che non rappresenta più di un quarto dell’umanità, detiene l’85% delle ricchezze della Terra. I paesi membri del G7 rappresentano l’ 11 % della popolazione mondiale, ma possiedono i due terzi del PIL del pianeta. Da sola, la città di New York consuma più elettricità dell’intera Africa subsahariana. Fra il 1975 e il 1995, la ricchezza statunitense è aumentata nel complesso del 60%, ma questo aumento è stato accaparrato dall’ 1 % della popolazione. Un’ultima cifra rivelatrice: il patrimonio dei 358 miliardari in dollari oggi presenti sul pianeta supera i redditi annuali cumulativi dei due miliardi e trecento milioni di individui più poveri, ovvero l’equivalente di quasi la metà dell’umanità. Si può dunque constatare che più vi è ricchezza, più vi sono poveri; il che confuta la teoria liberale in base alla quale tutta la società dovrebbe finire per beneficiare dei profitti ottenuti dai più ricchi. In realtà, restituendo alle forze del mercato un quasi monopolio, la mondializzazione contribuisce allo sviluppo delle diseguaglianze e dell’emarginazione, minacciando la coesione delle società. Nel contempo, il colonialismo continua ad esistere in modo informale. L’aiuto al Terzo mondo ha perfezionato la tecnica del prestito e dell’usura come strumento di controllo. L’organizzazione mondiale del commercio ingiunge ormai ai paesi del Sud di accordare un trattamento “nazionale” agli investimenti esteri, eliminando qualsiasi ostacolo rappresentato dalla legislazione sul lavoro, sull’ambiente o sulla salute. Ma ovunque sono stati adottati, i sistemi liberali di adeguamento strutturale hanno provocato un aggravamento delle condizioni di esistenza della maggior parte della popolazione e l’intensificazione dell’instabilità sociale, che a sua volta ovviamente causa la fuga dei capitali: il che permette di constatare il carattere fondamentalmente parassitario della mondializzazione. I paesi che rifiutano di accettare queste pretese vengono messi ai margini, tenuti in disparte e alla fine espulsi dai circuiti internazionali. Ovviamente, queste conseguenze non si fanno sentire solamente nei paesi del Sud. Nel Nord, la mondializzazione si traduce in un’aspra concorrenza transnazionale che, per il tramite delle esportazioni e degli investimenti diretti, provoca una consistente riduzione delle remunerazione e dei posti di lavoro. Tutti i beni o servizi prodotti localmente che potrebbero essere realizzati altrove diventano vulnerabili alla pressione esercitata dal capitale per ottenere una riduzione dei salari e degli oneri sociali, mentre 1’aumento dei costi del lavoro legato alla rarefazione del capitale umano e all’incidenza dell’invecchiamento demografico incita gli imprenditori a trasferire l’attività in paesi dalla manodopera meno cara e più flessibile. Poiché le produzioni competitive dei paesi in via di sviluppo sono soprattutto quelle che includono molta manodopera non qualificata, quest’ultima viene ad essere incoraggiata e nel contempo sfruttata nel Sud e gradatamente privata dell’impiego nei paesi del Nord, fatto che contribuisce alla crescita di una disoccupazione strutturale. In mancanza di sbocchi commerciali adeguati, per raggiunger dimensioni sufficienti a sopravvivere sui mercati globali le ditte sono costrette a sottrarre fette di mercato ai concorrenti migliorando di continuo] propria competitività: il che innesca un continuo processo di ristrutturazione industriali e riduzioni di personale (downsizing) che hanno effetti devastanti sul piano sociale. Eppure, le delocalizzazioni sono solo all’inizio. Nel 1990 i manufatti esportati dai nuovi paesi industrializzati dell’Asia sud-orientale verso i paesi dell’OCDE non rappresentavano più dell’ 1,61 % del PIL di ti paesi, ma il fenomeno è in crescita: fra il 1970 e il 1990, la quota dei paesi emergenti negli scambi dell’Ocde è passata dallo 0,70% al 6,44%. A questo ritmo, fra vent’anni potrebbe raggiungere il 55%.
La rivoluzione industriale aveva consentito di integrare il personale non qualificato nella società globale. La mondializzazione tende invece ad escluderne sistematicamente chi non ha i requisiti adatti. Rispetto all’andamento precedente del capitalismo, si tratta di una rottura fondamentale, che rimette in discussione tutti i compromessi sociali adottati dallo Stato assistenziale keynesiano. Mondializzazione salariale e globalizzazione finanziaria agiscono infatti sinergicamente per rovesciare il corso della politica economica e sociale che aveva patrocinato i decenni di crescita del dopoguerra. Durante il trentennio di prosperità durato sino a metà degli anni Settanta, che corri sponde all’apogeo del sistema fordista, il capitalismo era stato costretto a venire a patti con le rivendicazioni sociali formulate nelle società industriali e con la volontà degli Stati di gettare le basi di un ordine economico internazionale. Lo Stato assistenziale aveva rappresentato il risultato di quel compromesso storico fra capitale e lavoro, cioè dell’adeguamento delle strategie del capitale ad un certo numero di esigenze sociali. La mondializzazione ha stracciato quel contratto sociale. A partire dagli anni Settanta, la logica economica del capitalismo ha cominciato a staccarsi dalle preoccupazioni sociali: causando una rimessa in discussione generalizzata della gerarchia dei salari e dei meccanismi di solidarietà collettiva.
Questo distacco tra economia e società va di pari passo con lo smembra. mento della coppia Stato assistenziale/classi medie, attorno alla quale era stata costruita la crescita dei decenni precedenti. Sotto l’effetto della mondializzazione, si assiste all’ascesa di un modello di società a clessidra in cui la grande maggioranza degli abitanti scivola verso il basso per effetto della precarietà, mentre la ricchezza si polarizza nelle alte sfere che segna la destrutturazione del ceto medio, ovvero di quelle classi «che pure non solo erano state create dai capitalismi del primo Novecento, ma avevano costituito la base della loro crescita» (16), Nel trentennio della prosperità le classi medie avevano costantemente consolidato la loro posizione, favorendo l’integrazione di frazioni sempre più vaste della popolazione e quindi una riduzione relativa delle diseguaglianze. È questo modello di una classe media destinata ad estendersi progressivamente e irreversibilmente agli strati popolari ad essere rimesso oggi in discussione. Da ciò risulta una profonda trasformazione dei rapporti di classe e d’interesse all’interno dei paesi capitalisti. Alla destrutturazione delle classi medie corrisponde infatti una tendenza analoga fra gli strati popolari, costretti ad assistere alla crisi dei tradizionali strumenti di difesa perché i sindacati, di fronte alle società multinazionali abituate a giocare sulle differenze dei salari sul mercato mondiale, non dispongono della forza di pressione che sono abituati a mettere in campo nei negoziati con le controparti pubbliche.
Questa evoluzione equivale ad una formidabile regressione, poiché riproduce situazioni di supersfruttamento paragonabili a quelle che il movimento operaio aveva dovuto combattere nella fase pionieristica del capitalismo industriale. Karl Marx, malgrado la sua difettosa filosofia della storia, aveva visto che la logica di accaparramento passionale presente nel capitalismo sfocia nella reificazione dei rapporti umani. L’ironia della storia vuole che, proprio nel momento in cui il sistema comunista sovietico è crollato, le sue tesi ritrovino una certa pertinenza dinanzi a una logica del profitto che si impone senza il minimo ritegno: la disoccupazione e la povertà tornano ad essere come nel XIX secolo dati sociali strutturali, la precarietà e l’emarginazione si estendono giorno dopo giorno, i redditi da capitale continuano a crescere a discapito di quelli da lavoro, le garanzie ottenute dai lavoratori dopo decenni di lotte vengono rimesse in discussione una dopo l’altra.
Un’ultima conseguenza della mondializzazione è la crescente impotenza degli Stati nazionali. Sotto l’effetto dell’accelerazione della mobilità internazionale del lavoro, della mondializzazione dei mercati e dell’integrazione delle economie, i governi vedono ridursi a vista d’occhio le possibilità di azione macroeconomica. In materia monetaria il loro margine di manovra è quasi nullo, dal momento che i tassi di interesse e di cambio sono ormai soggetti all’autorità di banche centrali indipendenti che assumono le proprie decisioni in funzione dell’evoluzione dei mercati: un paese che decidesse una diminuzione unilaterale dei tassi d’interesse assisterebbe immediatamente a una fuga di capitali verso paesi che offrono maggiori possibilità di guadagno. Inoltre, la capacità di mobilitazione monetaria delle banche centrali è diventata inferiore al volume delle transazioni: la Banca di Francia, nel luglio 1993, ha perso in una sola giornata di attacco speculativo contro il franco tutte le riserve di cambio di cui disponeva. In materia di bilancio, gli Stati vedono ugualmente ridursi i margini di libertà, a causa di un elevato indebitamento pubblico, che vieta qualsiasi rilancio non concertato. In materia di politica industriale, infine, per resistere alla concorrenza i governi non hanno altra soluzione se non cercare di attirare le imprese estere a suon di sovvenzioni e trattamenti fiscali privilegiati, il che le pone alla mercè delle esigenze delle multinazionali.
Queste ultime non si accontentano di scavalcare le frontiere. Come abbiamo visto, esse riescono a far modificare anche i contesti legislativi che in teoria dovrebbero regolamentare le loro operazioni. Tasse o salari troppo alti, condizioni di lavoro socialmente troppo pesanti le fanno fuggire. Ne consegue che «qualunque forma di regolamentazione può essere vittima di pressioni al ribasso del mercato, semplicemente perché le imprese multinazionali vedono in essa un costo» (17). Il potere fiscale degli Stati dunque non è più sovrano ma contrattuale, in quanto inevitabilmente negoziato con un capitale sempre più erratico, e quindi sempre più in grado di dettare le condizioni. «Nessun governo, anche nel Nord», spiega Edward Goldsmith, «esercita più alcun controllo sulle imprese multinazionali. Se una legge dà fastidio alla loro espansione, esse minacciano di andarsene, e possono farlo su due piedi. Sono libere di spostarsi in tutto il pianeta per scegliere la manodopera meno cara, l’ambiente meno protetto dalla legge, il regime fiscale meno oneroso, i sussidi più generosi. Non c’è più bisogno di identificarsi in una nazione o di lasciare che un attaccamento sentimentale ostacoli i loro progetti. Sono completamente fuori controllo» (18). In definitiva, aggiunge Jacques Adda, «la globalizzazione finanziaria può essere analizzata come un processo di aggiramento delle regole instaurate dagli Stati più sviluppati nel quadro di un sistema multilaterale di regolamentazione dell’economia mondiale» (19).
L’economia mondializzata fa pesare sugli Stati nazionali costrizioni così forti che gli strumenti d’azione tradizionalmente utilizzati da questi ultimi perdono gradualmente ogni efficacia. Sempre più in difficoltà nel controllare la ricchezza, essi si vedono privati di una leva politica essenziale: la pianificazione coerente del territorio; e dal momento che tutti i sacrifici di bilancio in campo sociale appaiono come altrettanti indebolimenti della capacità competitiva in campo economico, non riescono più neppure a svolgere i compiti di gestione degli accordi sociali fondamentali. Le classi politiche scivolano nell’impotenza e lo Stato cambia ruolo: rinunciando alla mediazione sociale, si limita alla gestione territoriale di flussi che lo scavalcano. Ridotto a spettatore, non è altro che «una sorta di cancelliere che registra decisioni prese altrove» (20). È un cambiamento rivoluzionario, che sgretola uno dei fondamenti della politica moderna, la sovranità statale. Come scrive Bertrand Badie, «la mondializzazione spezza le sovranità, trafigge i territori, malmena le comunità costituite, sfida i contratti sociali e rende obsolete talune concezioni della sicurezza internazionale [...] Per cui la sovranità non è più quel valore fondamentale indiscusso che era un tempo, mentre l’idea di ingerenza cambia lentamente, ma decisamente, connotazione» (21). Non appena salta la valvola della sovranità, sprizza il problema dell’identità, con tutti gli effetti di anomia sociale connessi. Anche i principi democratici vengono colpiti. Fra la perdita di sovranità degli Stati nazionali e l’indebolimento della democrazia esiste infatti un rapporto diretto: da un da un lato, la mondializzazione tende a generalizzare l’appartenenza multipla a discapito della lealtà legata alla cittadinanza; dall’altro, la legittimità che la classe dirigente trae dal fatto di essere eletta dal popolo dei cittadini viene messa in discussione nel momento stesso in cui essa non ha più gli strumenti necessari per frapporsi tra le esigenze del capitale e i bisogni dei corpi sociali. Inoltre, anche la libera circolazione dei capitali restringe il campo del controllo democratico sulle politiche economiche e sociali, dal momento che tali politiche sono soggette a vincoli esterni ai quali i governi non possono sottrarsi, e che il potere di decisione si trasferisce nelle mani di attori economici mondiali che non devono rendere conto a nessuno. La cittadinza diviene perciò inoperante e priva di senso; tanto che ci si può chiedere cosa voglia dire «prendere il potere» in un mondo come questo. La mondializzazione non è lo «Stato universale» di cui Ernst Jünger aveva creduto di intravedere la nascita nella fusione progressiva della «stella rossa» e della «stella bianca», vale a dire dell’Est e dell’Ovest (22). Essa è prima di tutto il frutto di una modernizzazione che assume la forma di piani aggiustamento strutturale miranti ad integrare ogni singola società nel mercato mondiale. Si tratta di una modernizzazione che si presenta come una posta alla crisi della modernità nata dall’illuminismo (23), ma la risposta che offre consiste esclusivamente nell’autonomizzazione radicale dell’economia mercantile, nella finanziarizzazione del capitale e nella parallela ascesa della conoscenza. L’idea generale che la sorregge è che la scienza consentirà di capire tutto, l’ expertise tecnica di risolvere tutto e il mercato di acquistare tutto. Ma le cose non vanno così. Karl Polanyi aveva pronosticato che il mercato avrebbe distrutto la società. È quel che sta accadendo. Il «dolce commercio», che secondo Adam Smith avrebbe dovuto pacificare i rapporti umani, trapianta la guerra persino all’interno dello scambio. La dittatura dell’economia e la priorità del privato nella conduzione degli affari pubblici portano alla dissoluzione del regime sociale. L’universo della deregolamentazione generalizzata produce il livellamento verso il basso delle culture, tutte quante ridotte ad un unico denominatore consumistico. «L’occhio senza pregiudizi», ha fatto osservare Jünger già oltre trent’ anni fa, «è sorpreso dalla vasta conformità, sempre crescente, che sommerge a poco a poco tutti i paesi non solo come monopolio dell’una o dell’altra potenza concorrente, ma come stile globale» (24). «Lo choc contemporaneo della mondializzazione», scrive Philippe Engelhard, «è conseguenza di un liberalismo universalista che, ad onta delle apparenze, detesta le differenze. Il suo programma impliclito è quello di un’omogeneizzazione del mondo attraverso il mercato, e dunque lo sradicamento sia dello Stato nazionale che delle culture [...] La realizzazione della società liberale non sopporta né le scorie culturali né le appartenenze comunitarie. Il programma liberale massimalista punta allo sradicamento delle differenze di qualunque natura, perché esse sono di ostacolo al grande mercato e alla pace sociale. In realtà, non è soltanto la scoria culturale ad essere di troppo, ma anche il fatto sociale [...] La logica della modernità occidentalc risiede fondamentalmente nella non cultura universale del tutto mercato» (25).
Ma la mondializzazione non è nemmeno l’universalità. Ne è anzi, per certi aspetti, il contrario, perché l’unica cosa che universalizza è il mercato cioè una modalità di scambio economico che rimanda a un momento della storia di una cultura ben precisa. Da questo punto di vista, la mondializzazione non è altro che l’imperialismo di un Occidente mercantile che si è gonfiato sino a raggiungere le dimensioni del pianeta, un imperialismo interiorizzato da coloro che lo subiscono. La mondializzazione è l’imitazione di massa dei comportamenti economici occidentali. È la conversione dell’intero pianeta alla religione del mercato, i cui teologi e grandi sacerdoti predicano come fine ultimo la redditività (26). Non è un universalismo dell’essere ma un universalismo dell’avere. È l’universalismo astratto di un mondo disgregato dove gli individui sono definiti esclusivamente dalla capacità di produrre consumare. Per questa via il capitalismo si propone di riuscire là dove il comunismo aveva fallito, giustizia sociale messa a parte, ovviamente: creare un pianeta senza frontiere abitato da un «uomo nuovo». Ma quest’uomo nuovo non è più il lavoratore o il cittadino, è il consumatore integrato, che condivide il destino comune di un’umanità priva di spessore connettendo: con Internet o recandosi al supermercato. «Lo scrittore portoghese Miguel Torga», ricorda Zaki Laïdi, «definiva un tempo l’universale come “il locale meno i muri”. Voleva dire che i valori dell’universalità potevano essere promossi e difesi solo se, prima, le persone si sentivano innestate in una solida realtà locale. La mondializzazione sviluppa invece una dinamica inversa. Gli individui si sentono sradicati dal globalizzazione, privi di potere sulle cose, e si sforzano di conseguenza di erigere dei muri, per quanto fragili e risibili» (27).
Sul piano psicologico, così come gli Stati diventano impotenti, gli individui hanno in effetti oggi la sensazione di essere espropriati del proprio da logiche troppo forti, da processi sempre più rapidi, da costrizioni sempre più pesanti, da variabili tanto numerose da impedir loro di capire a che livello si situano le loro azioni. Il fatto che questo fenomeno si verifichi in un momento in cui l’uomo si sente sempre più solo, abbandonato a se stesso e tutte le grandi visioni del mondo sono crollate, non fa che accentuare questa sensazione di vuoto generalizzato. «La mondializzazione», scrive ancora a ragione Zaki Laïdi, «riproduce stranamente il meccanismo freudiano della folla presa nel moto del contagio-panico. Contagio nella misura in cui la mondializzazione sviluppa il conformismo e l’uniformità. Panico perché tutti si sentono soli di fronte a logiche che non riescono a controllare» (28). La mondializzazione rassomiglia, da questo punto di vista, ad un puzzle di immagini sminuzzate: non si aggrappa ad alcuna visione del mondo, si vieta qualunque rappresentazione, e i poteri pubblici, che la dichiarano irreversibile, non sanno proporne alcuna forma di accettazione simbolica. «Il nocciolo del problema della mondializzazione dipende dall’interazione fra un mondo senza frontiere e un mondo privo di punti di riferimento [...] E questa dialettica [...] a spiegare la crisi del senso e, perciò, a rafforzare la nostra percezione di un mondo disordinato» (29). Viene da pensare alla terribile frase scritta da Péguy nel 1914, poco prima di morire: «Tutti sono infelici nel mondo moderno».
Beninteso, più la mondializzazione avanza a livello planetario, più le società aggredite cercano di ricostruire i propri particolarismi, di riprendere coscienza della propria personalità; ma fanno fatica. Alcune si inventano identità nuove di zecca. Altre cercano disperatamente di ricrearsi un’identità fittizia in un mondo in cui tutto diventa pura esteriorità. Molti adottano forme d’azione convulse, alimentate da frustrazioni d’ogni genere, che sfociano irrimediabilmente nell’irredentismo e nella xenofobia. Si assiste allora allo scontro che Benjamin R. Barber riassume nella formula «Jîhad contro McWorld». Da un lato un pianeta in via di uniformazione, progressivamente omogeneizzato dal commercio e dalla comunicazione globale; dall’altro, raccolti sotto la semplice etichetta di «Jîhad», tutto un insieme di soprassalti e affermazioni aggressive di identità etnica o religiosa, che danno via un po’ ovunque a guerre civili e conflitti tribali (30).
Questa fiammata di convulsi identitarismi si può capire, non essere altro che la conseguenza, tutto sommato logica, della trasformazione dell’intero pianeta in «società aperta»: un eccesso di apertura causa inevitabilmente un eccesso di chiusura. La reinvenzione del tribalismo, del parentelismo, del clanismo o dell’etnismo esacerbato, può essere interpretata come un disperato tentativo di reagire a una minaccia di esproprio. Ma è evidente che non è possibile sostenere reazioni di questo genere, che, per i loro processi, si screditano da sé. Sarebbe anzi molto più giusto considerarle, come fa Barber, qualcosa di inevitabilmente legato alla mondializzazione. Da un lato, infatti, queste due forze in apparenza antagonistiche si giustificano a vicenda traendo spunto dai rispettivi eccessi per imporre eccessi di segno opposto: l’aggravamento delle ineguaglianze risultante dalle costrizioni dell’economia generalizzata spinge i più poveri all’estremismo, e a seguito delle guerre etnoreligiose l’irruento McWorld s’impossessa con sempre maggior forza delle menti. Dall’altro, esse costituiscono, per vari versi, due forme diverse, soft e hard, della medesima tendenza totalitaria, poiché si congiugono per soffocare ogni forma di democrazia e di partecipazione attiva dell’insieme dei cittadini alla vita pubblica. Colpisce poi il fatto che alcuni movimenti fondamentalisti, che rifiutano la modernità delle idee e pretendono di difendere i propri valori dall’Occidente, di fatto si aprano a tutte le produzioni tecnologiche e culturali occidentali: i Taleban afghani o i protagonisti dei conflitti etnici dell’ Africa nera non esitano a collegarsi con la Cnn, portare dei jeans e a bere Coca-Cola.
In questo modo, gli estremi si toccano. Già nel 1920 il linguista russo, Nicolas S. Troubetzkoy ha constatato la paradossale parentela del cosmopolitismo e dello sciovinismo. «Basta considerare effettivamente lo sciovinismo e il cosmopolitismo», scriveva, «per accorgersi che fra i due non, c’è nessuna differenza radicale, che sono solo due gradi, due aspetti di u unico, identico problema» (31). Il cosmopolitismo, aggiungeva, nega le differenze nazionali sulla base di un’idea dell’umanità che rinvia ad un modello specifico; invita l’umanità civilizzata a formare un’entità unica limitandosi a universalizzare il modello di una civiltà particolare, la civiltà occidentale implicitamente considerata lo «stadio» più avanzato della civiltà in generale. «Esiste pertanto», concludeva, «un parallelismo totale fra gli sciovinisti e i cosmopoliti [...] La differenza sta semplicemente nel fatto che lo sciovinista prende in considerazione un gruppo etnico più ristretto di quello considerato dal cosmopolitismo» (32). Entrambi conoscono un unico, identico criterio di giudizio: «Ciò che ci assomiglia è meglio e migliore di ciò che è diverso da noi» (33).
È chiaro che la crescita incontrollata del capitalismo finanziario non l’unica via d’uscita dalla crisi che il mondo oggi conosce, e che devono esse messe a punto delle regole che consentano di reagire a tutti i livelli contro le forme attualmente assunte dalla mondializzazione.
Innanzitutto, è assolutamente possibile regolamentare i mercati finanziari a livello internazionale. L’idea di imporre una tassa sui movimenti finanziari in valuta, avanzata dal professor Tobin, si è già fatta strada. Una tassa dello 0,05% sulle operazioni di cambio mondiali scoraggerebbe un certo numero di operazioni speculative a brevissimo termine e produrrebbe un’entrata di 150 miliardi di dollari l’anno, vale a dire il doppio dell’attuale ammontare degli aiuti internazionali. Una somma di questa portata permetterebbe ad esempio di costituire un fondo mondiale di protezione sociale o di difesa dell’ambiente. Si potrebbero inoltre creare organizzazioni internazionali incaricate di gestire l’economia mondiale in modo diverso da quanto accade attualmente, le quali avrebbero il compito di imporre la redistribuzione di una parte sostanziosa dei profitti della mondializzazione a vantaggio di chi ne è vittima. Philippe Engelhard propone di creare una moneta mondiale.
Essendo la fluttuazione delle monete il fondamento della circolazione finanziaria planetaria, il ritorno a un metro di valore internazionale stabile impedirebbe una speculazione che si nutre principalmente degli scarti di cambio. Tuttavia, se si ammette che «il fenomeno di mondializzazione appare come una rivincita dell’economico sul sociale e sul politico» (34), risulta ovvio che la risposta alla mondializzazione non può essere soltanto economica. Ci si deve pertanto porre il problema di come colmare lo squilibrio determinato dalla mancanza di organizzazioni politiche e sociali in grado di tenere sotto controllo il prodigioso sviluppo dell’economia mondiale.
Se si parte dal principio che la politica deve controllare e regolare l’economia, se ne deduce che l’intervento politico su un’economia planetaria deve essere condotto a livello mondiale. In altri termini, giacché l’economia si è mondializzata, la politica dovrebbe fare altrettanto; ma sappiamo che lo Stato mondiale è una chimera e che la sua creazione, dalle modalità quantomeno nebulose, solleverebbe più problemi di quanti non riuscirebbe a risolverne (35). D’altro canto, ostinarsi a contrapporre lo Stato nazionale alla mondializzazione sarebbe un duplice errore. In primo luogo perché la mondializzazione non fa altro che estendere all’intero pianeta un processo di omogeneizzazione che le burocrazie statali hanno già ampiamente avviato a livello nazionale (fa, cioè, in grande quel che lo Stato nazionale ha già fatto in piccolo). In secondo luogo, e soprattutto, perché lo Stato nazionale costituisce oggi il livello di intervento e di decisione maggiormente paralizzato dallo stesso processo di mondializzazione. Soggetto a costrizioni esterne che superano di gran lunga le sue capacità, lo Stato nazionale non è più in grado di affrontare da solo i problemi globali. Far credere che esso possa ancora decidere in modo sovrano di aprire o chiudere le frontiere ai flussi finanziari, o che sia possibile ricostruire una società solidale al riparo di mura destinate ad isolare i suoi abitanti dal mondo esterno, è una visione utopica oppure una menzogna (36).
L’Europa politica, e in una prospettiva più ampia la regionalizzazione di un certo numero di grandi insiemi continentali, potrebbero invece costituire un antidoto alla mondializzazione. Pur senza essere una panacea (in quanto esiste sempre il rischio che, tramite gli investimenti diretti, i paesi coinvolti debbano subire la concorrenza interna di società multinazionali esterne alla zona), l’integrazione europea potrebbe permettere di rispondere ai bisogni di mercati sufficientemente vasti e di costituire un polo di dimensioni adeguate a fronteggiare i flussi finanziari mondiali. Lo spazio economico europeo è potenzialmente il primo mercato del mondo in termini di popolazione e di livello globale del potere d’acquisto. Un’autorità politica europea, consentendo di dirigere e coordinare le politiche monetarie e di bilancio, faciliterebbe l’abbandono di politiche di crescita orientate verso l’esterno a profitto di uno sviluppo autocentrico, che non comporterebbe l’abbandono della protezione sociale. La moneta unica, utilizzata consapevolmente per ridurre le prerogative del dollaro, diventerebbe in tal caso un elemento di impotenza e di ritrovata sovranità. Bisognerebbe però incamminarsi verso un’ Europa davvero sovrana, in cui ogni tappa dell’integrazione dei mercati nazionali sia accompagnata da una capacità superiore di affermazione e di decisione, e non verso un’Europa mercantile costituita come un semplice spazio di libero scambio. E per adesso le cose non stanno in questi termini: le attuali istituzioni europee possono essere tanto un polo di resistenza alla mondializzazione quanto un vettore di tale processo, ed è giocoforza constatare che gli atti comunitari imposti agli Stati membri non discendono da una vera sovranità europea (37).
Rimane, infine, il livello della vita quotidiana. Rimane il livello locale, l’unico in cui gli uomini politici possono ancora scorgere gli effetti della propria politica. Dinanzi alla mondializzazione degli scambi e all’universalizzazione dei segni, di fronte alla lama che fa tabula rasa di tutte le differenze e di tutti i valori, rimane la singolarità delle forme. Rimangono le lingue, le culture, un legame sociale che va pazientemente ricreato nell’esistenza di ogni giorno. Philippe Engelhard ha scritto a questo proposito che «la riabilitazione della politica passa, in un momento o in un altro, attraverso una ricostruzione della società e della cultura, e viceversa. A condizione di considerare la cultura non come un dato statico ma come una tensione creativa, portatrice di senso, e come un approfondimento dell’arte di vivere insieme» (38). Jean Baudrillard ha recentemente fatto notare che «ogni cultura degna di questo nome si perde nell’universale. Ogni cultura che si universalizza perde la propria singolarità e muore. Accade così con quelle che abbiamo distrutto assimilandole a forza, ma anche con la nostra nella sua pretesa di universalità». Per poi aggiungere: «Tutto ciò che fa evento oggi si fa contro l’universale, contro questa universalità astratta» (39). E una lezione da meditare e soprattutto, da mettere in pratica.
Note
1 Cfr. in particolare Robert Reich, L’économie mondialisée, Dunod, Paris 1993; François Chesnais, La mondialisation du capital, Syros, Paris 1994; Jacques Adda, La mondialisation de l’économie, 2 voll. (1:Genèse; 2:Problèmes), La Découverte, Paris 1996; Samir Amin, Les défis de la mondialisation, L’Harmattan, Paris 1996; Anton Brender, L’impératif de solidarité. La France face à la mondialisation, La Découverte, Paris 1996; Jean-Yves Carfantan, L’épreuve de la mondialisation. Pour une ambition européenne, Seuil, Paris 1996; François Chesnais (a cura di), La mondialisation financière. Genèse, coût et enjeux, Syros, Paris 1996; Elie Cohen, La tentation hexagonale. La souveraineté à l’épreuve de la mondialisation, Fayard, Paris 1996; Philippe Enghelard, L’homme mondial. Les sociétés humaines peuvent-elles survivre?, Arléa, Paris 1996.
2 Karl Marx, Principi di una critica dell’economia politica.
3 Philippe Enghelard, op. cit., pag.. 543.
4 «Il susseguirsi degli eventi», scriveva MarcelL Mauss nel 1920, «va nella direzione di una moltiplicazione crescente dei prestiti, degli scambi, delle identificazioni sin nel dettaglio della vita morale e materiale» (La nation, in Oeuvres, III, Cohésion sociale et divisions de la sociologie, Editions de Minuit, Paris 1969, pag. 625.
5 Jacques Adda, op. cit., vol. 1.
6 Cfr. Bertrand Badie, La fin des territoires, Fayard, Paris 1996.
7 Cfr. Charles-Albert Michalet, Le capitalisme mondial, Presses Universitaires de France, Paris 1985.
8 «La liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di capitali», scrive Samir Amin, «l’adozione dei cambi fluttuanti, gli alti tassi d’interesse, il deficit della bilancia dei pagamenti americana, il debito estero del Terzo mondo, le privatizzazioni, costituiscono, assieme, una politica perfettamente razionale che offre ai capitali fluttuanti la prospettiva di una fuga in avanti nella collocazione finanziaria speculativa, aggirando il pericolo principale, quello di una massiccia svalutazione dell’eccedenza di tali capitali» (Les vrais enjeux de la mondialisation, in «Politis-La Revue», ottobre-dicembre 1996, pag. 70).
9 Philippe Engelhard, op. cit., pag. 23, nota a tale proposito che sono «i popoli il cui sistema culturale è stato meno brutalizzato dalla modernità occidentale o che, quantomeno, si sono aperti ad essa con prudenza, [che] sembrano ottenere i migliori risultati economici. È il caso del Giappone, ma anche di taluni popoli dell’ Asia sud-orientale e della Cina».
10 Suzanne Berger, Le rôle des Etats dans la globalisation, in «Sciences humaines», settembre-ottobre 1996, pag. 55.
11 Ian Robinson, Mondialisation et démocratie: un point de vue nord-américain, in «M», marzo-aprile 1996, pag. 16.
12 Benjamin R. Barber, Internet et tchador, même combat, in «La Vie», 14.11.1996, pag. 58; cfr. IDEM, Djîhad versus McWorld, Desclée de Brouwer, Paris 1996.
13 Già Marcel Mauss aveva notato che «l’internazionalismo degno di questo nome è il contrario del cosmopolitismo. Non nega la nazione. La mette al suo posto. Inter-nazione è il contrario di a-nazione» (La nation et l’intemationalisme, testo del 1920, in «Oeuvres. III», cit., pag. 630.
14 Cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1984.
15 Bertrand Badie, Mondialisation et société ouverte, in «Après-demain», aprile-maggio 1996 pag. 9.
16 Pierre Noël Giraud, L’inégalité du monde. Economie du monde contemporain, Gallimard-Folio, Paris 1996.
17 Ian Robinson, art. cit., pag. 19.
18 Edward Goldsmith, Seconde jeunesse pour les comptoirs coloniaux, in «Le Monde diplomatique», aprile 1996 [tr. it. V. in Processo alla globalizzazione, Arianna Editrice, Casalecchio, 2002].
19 Jacques Adda, op. cit., vol. 1, pag. 94.
20 Riccardo Putrella, in «Le Monde diplomatique», maggio 1995. Sul modo in cui la mondializzazione riduce i poteri degli Stati nazionali, cfr. anche Kenishi Ohmae, The Borderless World, Harper Collins, New York 1990; Vincent Cable, The Diminished Nation-State, in «Daedalus», primavera 1995; Kenishi Ohmae (a cura di), The Evolving Global Economy. Making Sense of the New World Order, Harvard University Press, Cambridge 1995.
21 Bertrand Badie, Mondialisation et société ouverte, cit., pag. 9.
22 Cfr. Ernst Jünger, L’Etat universel, Gallimard, Paris 1962 [tr. it. Lo Stato mondiale, Guanda, Parma 2000]. Jünger si richiamava ad un’evoluzione che «fa pensare che la differenza tra la stella rossa e la stella bianca non sia altro che lo sfavillio che accompagna il levarsi di un astro all’orizzonte. Basta che salga nel cielo, e l’unità si svela» (pag. 35).
23 Cfr. Gustave Massiah, Quelles réponses à la mondialisation?, in «Après-demain», aprile- maggio 1996, pag. 6.
24 Ernst Jünger, op. cit., pag. 34.
25 Philippe Engelhard, op. cit., pagg. 199,250,256. L’autore aggiunge: «Ma poiché le differenze sono indubitabili, quelle delle ricchezze, dei talenti o di qualunque altra cosa, bisognerà che gli individui diventino assolutamente indifferenti [...] Questa indifferenza, che può sembrare da alcuni punti di vista insopportabile, è latente nel paradigma neoclassico che postula l’assoluta separabilità delle funzioni di preferenza degli attori. In altri termini, le mie scelte devono essere assolutamente indipendenti da quelle del mio vicino, e non comparabili ad esse [...] Questa indifferenza, che culmina nella separabilità assoluta delle funzioni di preferenza degli attori, è strettamente legata alla negazione del dato culturale. Ogni appartenenza culturale o comunitaria sarebbe infatti tale da stabilire una connivenza fra le preferenze degli individui del gruppo. Il principio di separabilità sarebbe rimesso in discussione» (ibidem, pagg 251 e 256).
26 Cfr. in proposito Philippe Lançon, L’économie, comme théologie de la contrition, in «Libération», 3.6.1996, pag. 5.
27 Qu’est-ce que la mondialisation?, in «Libération»,1.7.1996, pag. 6. Cfr. anche Zaiki Laïdi, Un monde privé de sens, Fayard, Paris 1996; IDEM, Pour une pédagogie de la mondialisation in «Après-demain», aprile-maggio 1996.
28 Ibidem.
29 Pour une pédagogie de la mondialisation, cit., pag. 4.
30 Sono state queste reazioni convulse a suggerire la tesi di Samuel Huntington secondo cui il mondo si starebbe dirigendo verso una guerra tra le culture o le civiltà (The Clash of Civilizations?, in «Foreign Affairs», estate 1993; The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996 [tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1998]). Tesi che bisogna maneggiare con precauzione, se è vero che non è tanto la cultura che determina la specificità dei conflitti, quanto piuttosto «la specificità dei conflitti che condiziona il ruolo del fattore culturale e la percezione culturale che ne hanno gli attori stessi» (Panajotis Kondyus in «Frankfurter AlIgemeine Zeitung», citato in «Courrier international», 10.10.1996, pag. 42.
31 Nicolas S. Troubetzkoy, L’Europe et l’humanité, Mardaga, Liège-Siprimont 1996, pag 47.
32 Ibidem, pag. 49.
33 Ibidem, pag. 65.
34 Jacques Adda, op. cit., vol. 1, pag. 62.
35 Cfr. Danilo Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, FeltrinelIi, Milano 1995.
36 Va notato anche che la resistenza alla mondializzazione non implica necessariamente il richiamo alla territorialità tipico degli Stati nazionali. Un gran numero di dinamiche sociali particolaristiche si ribellano alla territorialità. Citiamo solo l’esempio del fondamentalismo islamico, che rifiuta qualsiasi radicamento ad una nazione particolare. Molte solidarietà identitarie, religiose, etniche, linguistiche o culturali sono anche solidarietà transnazionali. Da questo punto di vista lo Stato nazionale, minacciato contemporaneamente dalla mondializzazione e dalle nuove forme di particolarismo, appare un orizzonte identitario. almeno in parte superato (cfr. Bertrand Badie, Entre mondialisation et particularismes, in «Sciences humaines», maggio 1996, pagg. 22-25).
37 Cfr. Arlette Heymann-Doat, Les institutions européennes: pôle de résistance ou facteur d’accélération?, in «Après-demain», aprile-maggio 1996, pagg. 44-45.
38 Philippe Enghelhard, op. cit., pag. 365.
39 Jean Baudrillard, Le mondial et l’universel, in «Libération», 18.3.1996, pag. 7