martedì 28 novembre 2023

Alastair Crooke - Gaza. Il cappello a cilindro del mago e i pannicelli caldi delle illusioni



Traduzione da Strategic Culture, 27 novembre 2023.

Il mago entra in scena avvolto dal suo mantello nero. Arrivato in mezzo al palco mostra a tutti il suo cappello: è vuoto. Lo picchietta leggermente per dimostrarne la solidità. Il mago prende alcuni oggetti e li mette nel cappello. Ci mette il sequestro da parte di AnsarAllah di una nave di proprietà sionista (la situazione è "monitorata"); ci mette gli attacchi iracheni alle basi statunitensi (il mainstream ci ha fatto a malapena caso); ci mette anche i mille missili lanciati da Hezbollah nel nord dello stato sionista; ci mette la guerra in Cisgiordania. Il mago si rivolge di nuovo al pubblico: il cappello è sempre vuoto. Il pubblico sa che quegli oggetti possiedono una realtà fisica, ma in qualche modo sono stati magicamente offuscati.
È in questo modo che il mainstream occidentale mantiene la deterrenza, minimizzando il fatto che c'è una guerra in corso tramite quello che Malcom Kyeyune chiama "un simulacro di pace", in cui si sminuisce senza chiasso un conflitto e si ricorre in silenzio -parafrasando Kyeyune- a una "domanda molto postmoderna": qual è esattamente il significato di "non combattente" civile?
Un aspetto di questo presentare il conflitto in modo attutito è lo scambio di ostaggi che è stato concordato. Una cosa reale, che allo stesso tempo puntella l'infondata convinzione per cui una volta annientato Hamas e liberati gli ostaggi si possa far entrare il problema di due milioni e trecentomila palestinesi nel cappello del mago, facendolo scomparire dalla vista. Alcuni sperano sinceramente e senza secondi fini che una volta cessati i combattimenti essi non riprendano, e che la fine dei bombardamenti a Gaza possa aprire uno spiraglio a una qualche "soluzione" politica, sempre che questa tregua possa essere prorogata sine die. Soluzione in questo caso non è altro che una parola educata per definire il tentativo di corruzione della UE nei confronti di Egitto e Giordania.
Secondo quanto riferito il Presidente della UE Ursula von der Leyen ha visitato Egitto e stato sionista offrendo denaro (dieci miliardi di dollari per l'Egitto e cinque miliardi di dollari per la Giordania) in cambio della diaspora degli abitanti della Striscia di Gaza in altre regioni; di fatto, per facilitare l'evacuazione della popolazione palestinese dalla Striscia in linea con l'obiettivo dello stato sionista, che a Gaza è quello di fare pulizia etnica.
Tuttavia il tweet dell'ex ministro Ayalet Shaked
"Dopo aver trasformato Khan Yunis in un campo di calcio, dobbiamo dire a ciascun paese di prendersene una parte: due milioni, e abbiamo bisogno che se ne vadano tutti. Ecco la soluzione a Gaza"
non è che una delle considerazioni con cui gli alti gradi della politica e della sicurezza sioniste esaltano quella che lo stato sionista è sempre più propenso a considerare come la "soluzione" per Gaza. Comportandosi in modo così esplicito, la Shaked ha probabilmente affondato l'iniziativa della Von der Leyen: nessuno stato arabo vuole essere complice di una nuova Nakba.
Una hudna, una tregua, ha inevitabilmente un carattere molto precario. Nei combattimenti del 2014 quando le forze armate dello stato sionista hanno iniziato a rastrellare Gaza dopo l'inizio del cessate il fuoco, il risultato fu una ripresa degli scontri e la fine della tregua. I combattimenti proseguirono per un mese.
Due lezioni fondamentali che ho imparato cercando di concordare tregue per conto della UE durante la Seconda Intifada sono state che una tregua è solo una tregua -entrambe le parti la usano per riposizionarsi per i successivi scontri- e che la fine degli scontri in una località circoscritta non diffonde la de-escalation in un'altra località geograficamente distinta; al contrario invece un'esplosione di violenza eclatante è contagiosa come un virus e si diffonde immediatamente.
L'attuale scambio di ostaggi è incentrato su Gaza. Ma lo stato sionista ha tre fronti di conflitto aperti: Gaza, il confine settentrionale con il Libano e la Cisgiordania. Un incidente su uno qualsiasi dei tre fronti potrebbe essere sufficiente a far crollare la fiducia nelle intese per Gaza e a scatenare nuovamente l'aggressione sionista contro la Striscia.
Alla vigilia della tregua ad esempio le forze israeliane hanno bombardato pesantemente sia la Siria che il Libano. Sette combattenti di Hezbollah sono rimasti uccisi.
Il punto, detto chiaramente, è che i precedenti storici in cui una hudna si è tradotta in progressi sul piano politico non sono poi così numerosi. Il rilascio di un ostaggio, di per sé, non risolve nulla. Il problema della crisi attuale è molto più profondo. Quando in illo tempore la Gran Bretagna promise agli ebrei una patria, le potenze occidentali promisero anche ai palestinesi un loro Stato, nel 1947. Ma non hanno mai tradotto le loro promesse in realtà. Una lacuna che sta raggiungendo il culmine con uno scontro frontale.
L'ambizione del governo sionista di creare uno stato ebraico nelle terre bibliche di Israele mira semplicemente a bloccare la nascita di un qualsiasi stato palestinese, sia in una parte di Gerusalemme sia altrove nella Palestina storica. In questo contesto, le azioni di Hamas avevano proprio lo scopo di rompere questa impasse e l'infinito trascinarsi di "negoziati" infruttuosi.
Non sorprende che il Ministro della Difesa sionista abbia già annunciato l'intenzione di riprendere i combattimenti subito dopo la fine del cessate il fuoco. I funzionari israeliani hanno detto alle loro controparti statunitensi che prevedono ancora diverse settimane di operazioni nel nord della Striscia, prima di spostare l'attenzione verso il sud.
Finora, l'esercito sionista ha operato in aree vicine alla costa di Gaza e in luoghi, come il wadi a sud di Gaza City, dove il sottosuolo non facilita la costruzione di tunnel. In queste zone Hamas non dispone quindi di significative capacità di difesa. Se l'azione militare dovesse riprendere, è probabile che l'esercito sionista si allontani dalla costa settentrionale per dirigersi verso il centro di Gaza City, permettendo a Hamas di manovrare più facilmente e di infliggere maggiori perdite all'esercito sionista e ai suoi mezzi corazzati. In questo senso -con tanti saluti alle illusioni- la guerra è appena iniziata.
Il Primo Ministro Netanyahu è stato descritto sia nello stato sionista che dal mainstream occidentale come un cadavere politico. Comunque sia, Netanyahu ha la sua strategia: ha sfidato apertamente l'amministrazione Biden su ogni questione legata alla guerra, tranne che sull'eliminazione di Hamas. Durante la conferenza stampa di domenica 26 novembre, Netanyahu ha parlato di una "Iron Dome diplomatica", affermando che non avrebbe ceduto alle "pressioni sempre più pesanti... esercitate contro di noi nelle ultime settimane... Respingo queste pressioni e dico al mondo: Continueremo a combattere fino alla vittoria, fino a quando non avremo distrutto Hamas e riportato a casa i nostri ostaggi".
Yonatan Freeman, della Hebrew University, percepisce l'azzardo insito nelle vaghe dichiarazioni di Netanyahu: sfida l'amministrazione Biden, ma si preoccupa di lasciare un sufficiente "margine di manovra" in modo da poter sempre incolpare Biden, ogni volta che viene "costretto" dagli USA a fare marcia indietro.
La strategia dell'esecutivo sionista quindi si basa sulla impegnativa scommessa per cui l'opinione pubblica israeliana reggerà, nonostante l'alta disapprovazione per la persona di Netayahu, a causa dello schiacciante sostegno pubblico esistente verso i due obiettivi dichiarati dal governo di guerra: distruggere il "regime di Hamas" e le sue capacità, e liberare tutti gli ostaggi sionisti.
Alla base della scommessa c'è la convinzione che il sentimento dell'opinione pubblica, incanalato dall'esecutivo sionista col ricorso a termini assolutamente manichei (luce contro oscurità; civiltà contro barbarie; a Gaza sono tutti complici del Male Hamas), finirà per suscitare un'ondata di consensi per l'ulteriore mossa che prevede di togliere una volta per tutte di mezzo questa buffonata dello stato palestinese. Si sta preparando il terreno per una lunga guerra contro il Male cosmico.
La "soluzione", come sottolineano il ministro della Sicurezza nazionale Smotrich e i suoi alleati, consiste nell'offrire ai palestinesi una scelta: "rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in condizioni di minorità", oppure emigrare all'estero. In parole povere, la "soluzione" è la cacciata dalle terre della Grande Israele di tutti i palestinesi che non facciano atto di sottomissione. Passiamo ora alle prospettive dei contendenti.
L'Asse unito che sostiene i palestinesi osserva che lo stato sionista continua ad attenersi all'iniziale proposito di distruggere Gaza fino al punto di non lasciare niente, nessuna infrastruttura civile che permetterebbe ai cittadini di Gaza di vivere, se anche solo tentassero di tornare alle loro case distrutte.
Biden ha pienamente sostenuto questo obiettivo, dato che il suo portavoce ha dichiarato:
"Riteniamo che abbiano il diritto di [intraprendere ulteriori operazioni di combattimento a Gaza]; ma [tali azioni]... dovrebbero includere maggiori e più efficaci protezioni per la vita dei civili".
Hasan Illaik, esperto osservatore della sicurezza regionale, asserisce:
I funzionari dell'Asse ritengono inoltre che le dichiarazioni concilianti degli Stati Uniti, che a volte fanno pensare che sia imminente una fase di deescalation, non siano altro che uno sforzo per consolidare un'immagine pubblica pesantemente danneggiata dal sostegno incondizionato che essi hanno fornito all'incessante massacro di palestinesi a Gaza da parte dello stato sionista.
Insomma, lo stato sionista può contare sull'amministrazione Biden e su alcuni leader della UE: sta vincendo? Tom Friedman conosce bene l'esecutivo Biden, e ha scritto sul New York Times del 9 novembre dopo aver visto lo stato sionista e la Cisgiordania: "Ora capisco perché sono cambiate tante cose. Mi è chiarissimo che lo stato sionista è davvero in pericolo, più che in qualsiasi altro momento dalla sua guerra d'indipendenza nel 1948". Inverosimile? Forse no.
Nel 2012, lo scrittore statunitense Michael Greer ha scritto che lo stato sionista è stato fondato in un momento particolarmente propizio, nonostante fosse circondato da vicini ostili:
Varie tra le principali potenze occidentali sostennero il nuovo stato con significativi aiuti finanziari e militari; di importanza almeno pari furono gli appartenenti alla comunità religiosa responsabile della creazione del nuovo stato rimasti in quelle stesse nazioni occidentali, che si impegnarono in vigorosi sforzi per raccogliere fondi destinati a sostenere il nuovo stato e in altrettanto vigorosi sforzi politici per garantire il perdurare o l'aumento del sostegno governativo esistente.
Le risorse così ottenute dal nuovo stato gli conferirono un sostanziale vantaggio militare nei confronti dei suoi vicini ostili, e la sua esistenza divenne un fatto abbastanza compiuto da indurre alcuni dei suoi vicini a rinunciare a un atteggiamento esclusivamente conflittuale. Tuttavia la sopravvivenza dello stato dipendeva da tre cose. La prima, e di gran lunga la più cruciale, era il continuo flusso di aiuti da parte delle potenze occidentali per mantenere un apparato militare molto più grande di quanto le risorse economiche e naturali del territorio in questione avrebbero permesso. La seconda erano la continua frammentazione e la debolezza relativa degli stati circostanti. La terza era il mantenimento della pace sul fronte interno, con il consenso collettivo attorno ad una ben precisa scala delle priorità, in modo da poter rispondere con tutta la forza alle minacce provenienti dall'esterno invece di sperperare risorse limitate in schermaglie al proprio interno o in progetti magari popolari, ma che non contribuivano in alcun modo alla sua sopravvivenza.
"Nel lungo periodo, nessuna di queste tre condizioni potrà essere soddisfatta a tempo indeterminato... Quando questi consolidati modelli di sostegno si romperanno, lo stato sionista potrebbe trovarsi con le spalle al muro". La settimana scorsa, un importante commentatore sionista ha osservato che:
Si potrebbe pensare che una visita presidenziale, un discorso presidenziale, tre visite del Segretario di Stato, due visite del Segretario alla Difesa, l'invio di due gruppi di portaerei, di un sottomarino nucleare e di un'unità del corpo dei Marines, oltre all'impegno di 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari d'emergenza, siano la testimonianza del sostegno incrollabile che gli Stati Uniti stanno portando allo stato sionista. Ripensateci.
Sotto il pieno e solido sostegno dell'amministrazione Biden, ci sono correnti pericolose e insidiose che stanno intaccando e inquinando il consenso che l'opinione pubblica degli Stati Uniti mostra nei confronti dello stato sionista. I sondaggi pubblicati la scorsa settimana contengono dati fra i più allarmanti e significativi: il sostegno pubblico allo stato sionista sta crollando, soprattutto nella fascia d'età compresa tra i 18 e i 34 anni. Un altro sondaggio mostra che il 36% dei cittadini statunitensi si dichiara contrario a ulteriori finanziamenti per l'Ucraina e per lo stato sionista: ad approvare il finanziamento per lo stato sionista è stato solo il 14%.
Ciò che è davvero notevole è che a guidare la nuova narrazione sono i giovani delle generazioni Z, Y e Alpha. Sfruttando i social media e parlando direttamente ai rispettivi gruppi di pari, hanno fatto conoscere al mondo la tragedia dei palestinesi. Molti avevano una conoscenza limitata della questione, ma il loro senso di giustizia senza filtri ha alimentato la loro rabbia collettiva contro la pulizia etnica della Palestina da parte dello stato sionista.
Anche la seconda e la terza condizione sottolineate da Greer come essenziali per la sopravvivenza dello stato sionista stanno incancrenendo, mentre le placche tettoniche globali si muovono: Le potenze non occidentali non si stanno schierando con lo stato sionista. Si stanno coalizzando per opporsi all'intento dell'esecutivo sionista di farla finita una volta per tutte anche con l'idea di uno stato palestinese. Oggi lo stato sionista è aspramente diviso su quale debba essere il suo futuro, su cosa sia che costituisce esattamente "Israele" e persino sulla questione postmoderna di "cosa significhi essere ebrei".




venerdì 24 novembre 2023

Giù nella Valle. Elogio e difesa di Paolo Cognetti

 

Paolo Cognetti ha ambientato in Valsesia una sua personale versione letteraria di Nebraska di Bruce Springsteen.
Stando alla "libera informazione", alla Lega e agli "occidentalisti" valsesiani questo Giù nella valle non è piaciuto: guai a chi ritrae i territori da loro amministrati in toni meno che oleografici.
Alcolismo, bracconaggio, emigrazione, risse, solitudini abissali, liti tra vicini o anche fra parenti per un maso, per una recinzione, per un metro di bosco? Tutte realtà familiari a chi conosca la vita nei borghi di montagna e tutti con puntuali riscontri nel reale.
Ma pretendono che si vada a cercarli altrove, preferibilmente lontano, magari dall'altra parte del mondo.
Ecco: l'ideale sarebbe qualche pietraia afghana, di quelle da redimere con la democrazia da esportazione.
Ovunque, ma non lì.
E quel Cognetti pensi bene a limitarsi a elogiare gli impianti sciistici all'avanguardia, la mocetta e la polenta concia, che ci basta un messaggio a certi nostri collaboratori specializzati in calzini e da domattina si ritrova islamonazianarcocomunista eterogay su tutte le gazzette della penisola.
Un motivo sufficiente per raccomandare la lettura del libro, cui chi scrive si è dedicato col brio primaverile con cui esamina, elogia e divulga le cose suscettibili di infastidire un certo milieu di ben vestiti.

martedì 21 novembre 2023

Alastair Crooke - Lo scorpione Netanyahu pungerà la rana statunitense?


Traduzione da Strategic Culture, 20 novembre 2023.


Dunque, c'è uno scorpione che ha bisogno che una rana gli dia un passaggio sulla schiena per attraversare un fiume gonfio d'acqua. La rana non si fida dello scorpione, ma sia pure di malavoglia acconsente. Mentre attraversano lo scorpione fatalmente la punge, e finiscono col morire tutti e due.
Questo antico racconto serve a mostrare quale sia l'essenza di una tragedia. Nella tragedia greca la crisi che è al cuore di ogni narrazione tragica non nasce dal puro caso. Nella letteratura greca l'idea è che in una tragedia qualcosa succede perché deve succedere, perché è nella natura dei protagonisti, perché sono gli attori coinvolti a farlo succedere. E non hanno altra scelta, perché quella è la loro natura.
La storia è stata raccontata da un ex diplomatico sionista di alto livello, molto esperto di politica statunitense.
Nella sua versione della favoletta della rana ci sono i leader sionisti che stanno cercando di respingere disperatamente la responsabilità per la disfatta del 7 ottobre: l'esecutivo sta cercando alacremente di presentare la crisi non come un disastro con dei colpevoli, ma come un'opportunità dalla portata epica, e come tale di presentarla al pubblico.
La chimerica eventualità che si vuole presentare rimanda all'ideologia sionista dei primi tempi. Lo stato sionista può far diventare il disastro di Gaza, secondo quanto detto dal ministro delle finanze Smotrich, l'occasione per risolvere definitivamente e unilateralmente la contraddizione intrinseca alle aspirazioni ebraiche e a quelle palestinesi, mettendo fine all'illusione che siano possibili un compromesso, una riconciliazione o una spartizione di un qualche genere.
E questo può rappresentare la puntura dello scorpione. L'esecutivo sionista scommette tutto su una strategia irta di rischi, su una nuova Nakba che potrebbe trascinare lo stato sionista in un conflitto di vaste proporizioni, ma al tempo stesso butta anche a mare quanto resta del prestigio dell'Occidente.
Ovviamente, come rimarca l'ex diplomatico sionista, questo piano riflette essenzialmente le ambizioni personali di un Netanyahu che sta manovrando per mettere a tacere le critiche e per restare al potere il più a lungo possibile. Soprattutto, egli spera che questo gli permetterà di diluire il biasimo, allontanando dalla sua persona ogni responsabilità e ogni colpevolezza. Meglio ancora, "questo può collocare Gaza in un contesto epico e storico, può farne un evento che potrebbe trasformare lui Primo Ministro nel condottiero di una guerra di fondazione all'insegna della grandezza e della gloria".
Una cosa inverosimile? Non è detto.
Netanyahu starà anche dibattendosi per sopravvivere politicamente, ma è capace di crederci davvero.
Nel suo libro Going to the Wars, lo storico Max Hastings scrive che negli anni '70 Netanyahu gli disse: "Nella prossima guerra, se saremo bravi, avremo la possibilità di estromettere tutti gli arabi... Potremo liberare la Cisgiordania, sistemare Gerusalemme".
A cosa pensa il governo sionista quando pensa alla "prossima guerra"? Pensa a Hezbollah. Come ha detto di recente un ministro, "dopo Hamas, ci occuperemo di Hezbollah".
Secondo l'ex diplomatico sionista è proprio questa concomitanza di una lunga guerra a Gaza (secondo le linee stabilite nel 2006) e di una leadership che sembra proprio intenzionata a provocare Hezbollah perché si verifichi una escalation a far suonare l'allarme alla Casa Bianca.
Nella guerra del 2006 con Hezbollah, l'intero sobborgo urbano di Beirut chiamato Dahiya venne raso al suolo. Il generale Eizenkot (che ha comandato le forze dello stato sionista durante quella guerra ed è ora membro del "gabinetto di guerra" di Netanyahu) ha dichiarato nel 2008: "Quello che è successo nel quartiere Dahiya di Beirut nel 2006 accadrà in ogni villaggio da cui si spara contro lo stato sionista... Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi civili, sono basi militari... Questa non è una raccomandazione. È un piano. Ed è stato approvato". Ecco il perché di quanto sta accadendo a Gaza.
Non è probabile che il gabinetto di guerra voglia provocare un'invasione su larga scala dello stato sionista da parte di Hezbollah, cosa che rappresenterebbe una minaccia esistenziale; ma Netanyahu e il gabinetto potrebbero desiderare che lo scambio di colpi in essere al confine settentrionale si intensifichi fino al punto in cui gli Stati Uniti si sentano costretti a far piovere qualche colpo di avvertimento sulle infrastrutture militari di Hezbollah.
Le forze armate sioniste già colpiscono i civili quaranta chilometri oltre la frontiera libanese: la scorsa settimana un missile sionista ha incenerito l'auto su cui viaggiavano nonna e tre nipoti. Le preoccupazioni degli USA in merito a una escalation sono fondate.
È questo che preoccupa la Casa Bianca, dice il diplomatico. L'Iran conferma di aver ricevuto non meno di tre messaggi statunitensi in un giorno solo, in cui si faceva sapere a Tehran che gli Stati Uniti non vogliono una guerra con l'Iran. E un inviato statunitense, Amos Hochstein, ha girato tutta Beirut ripetendo che Hezbollah non deve alzare il livello dello scontro in risposta agli attacchi oltre frontiera da parte dello stato sionista.
La riluttanza di Netanyahu a esprimere una qualsiasi idea sul futuro di Gaza e i rilevanti e minacciosi sviluppi verso una escalation in Libano stanno creando una spaccatura tra la politica statunitense e quella dello stato sionista, al punto che alcune personalità dell'amministrazione Biden e nel Congresso stanno iniziando a pensare che Netanyahu stia cercando di trascinare gli USA in una guerra con l'Iran".
"Netanyahu non è interessato a un secondo fronte a nord con Hezbollah", ha dichiarato l'ex funzionario, aggiungendo però che "[Alla Casa Bianca] credono che un attacco statunitense successivo alle provocazioni dell'Iran potrebbe trasformare l'abissale débacle di Netanyahu in una sorta di trionfo strategico".
"Questa è la stessa logica contorta che lo ha guidato quando ha incoraggiato la sua anima gemella, l'allora presidente Donald Trump, a ritirarsi unilateralmente dall'accordo sul nucleare iraniano nel maggio 2018. La stessa logica era alla base della sua audizione al Congresso nel 2002, in cui incoraggiò gli USA a invadere l'Iraq, perché questo avrebbe 'stabilizzato la regione' e 'prodotto ripercussioni' sull'Iran.
I timori degli USA vanno all'essenza della tragedia, al fatto che essa "deve accadere": la rana ha accettato con molta riluttanza di portare lo scorpione oltre il passaggio del fiume, ma vuole essere rassicurata sul fatto che lo scorpione, data la sua natura, non punga il proprio benefattore.
Proprio allo stesso modo l'esecutivo di Biden non si fida di Netanyahu. Non vuole essere punto, cioè non vuole essere trascinato nel pantano di una guerra con l'Iran.
Il colpo di pungiglione ha tutti i crismi dell concretezza: Il governo Netanyahu sta gradualmente e deliberatamente preparando il terreno per intrappolare l'amministrazione Biden, manovrando in modo che Washington abbia poca altra scelta se non quella di unirsi allo stato sionista, se la guerra dovesse allargarsi.
Come in tutte le tragedie classiche, l'epilogo si verifica perché sono gli attori coinvolti a farlo succedere; non hanno altra scelta che farlo accadere, perché questa è la loro natura. "Non solo il premier dello stato sionista respinge qualsiasi idea o richiesta proveniente da Washington; Netanyahu vuole esplicitamente che la guerra di Gaza vada avanti all'infinito senza alcun corollario politico", racconta l'ex funzionario.
Si consideri anche il fatto che Jake Sullivan ha definito esplicitamente le indicazioni degli Stati Uniti: nessuna rioccupazione di Gaza, nessun trasferimento della popolazione, nessuna riduzione del suo territorio, nessuna disconnessione politica con le autorità della Cisgiordania, nessun processo decisionale alternativo se non quello palestinese e nessun ritorno allo status quo ante.
Netanyahu ha rifiutato in blocco tutte queste indicazioni con una sola frase: lo stato sionista -ha detto- avrebbe supervisionato e mantenuto "la responsabilità generale della sicurezza" a Gaza per un periodo di tempo indefinito. In un colpo solo ha buttato all'aria la conclusione suggerita dagli Stati Uniti, lasciandola penzolare al freddo di un sentimento globale e di una opinione pubblica interna sempre più indifferente, mentre la sabbia nella clessidra sta finendo.
È evidente quale sia l'esito finale cui punta Smotrich: Netanyahu sta costruendo sostegno popolare sul piano interno verso un nuovo silenzioso ultimatum per Gaza: "emigrazione o annientamento". Questo è anatema per il governo Biden: decenni di diplomazia statunitense in Medio Oriente finiti giù per il tubo di scarico.
Washington osserva con crescente disagio l'"escalation militare orizzontale" nella regione e si chiede se lo stato sionista sopravviverà a questo cappio sempre più stretto. Tuttavia il tempo e i mezzi su cui gli Stati Uniti possono contare per mettere un freno allo stato sionista sono limitati.
L'immediato sostegno che Biden ha concesso allo stato sionista sta creando scompiglio in patria e comporta un prezzo politico che, a un anno dalle elezioni, ha delle conseguenze. Forse era nella natura di Biden credere di poter abbracciare lo stato sionista perché rispettasse gli interessi degli Stati Uniti. Tuttavia la cosa non sta funzionando, e Biden si ritrova bloccato con uno scorpione sulla schiena.
Qualcuno pensa che ci sia una soluzione semplice: basta minacciare di interrompere il flusso di munizioni e di fondi diretto verso lo stato sionista. Sembra una cosa facile e rappresenterebbe una minaccia convincente, ma per arrivare a questo Biden dovrebbe mettersi a tu per tu con una lobby onnipotente e con gli appoggi su cui conta nel Congresso. Un confronto da cui non è probabile che uscirebbe vincitore perché il Congresso è solidamente schierato con lo stato sionista.
Qualcun altro pensa che una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU potrebbe imporre "un freno all'incubo di Gaza". Solo che nello stato sionista vige una lunga tradizione nell'ignorare risoluzioni del genere; fra il 1967 e il 1989 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato 131 risoluzioni direttamente rivolte al conflitto tra stato sionista e paesi arabi, la maggior parte delle quali ha avuto poca o nessuna efficacia. Il 15 novembre 2023 ne è stata approvata una che è un invito a stabilire tregue umanitarie. Gli USA si sono astenuti ed è più che probabile che la risoluzione verrà ignorata.
Un appello a livello mondiale per una soluzione basata su due Stati potrebbe forse avere un esito migliore? Finora non è stato così. Sì, in teoria il Consiglio di Sicurezza dell'ONU può imporre una risoluzione, ma il Congresso degli Stati Uniti darebbe di matto se lo facesse, e minaccerebbe di usare la forza contro chiunque tentasse di attuarla.
Tuttavia, a ben vedere, la retorica dei due Stati non coglie il punto: non è solo il mondo islamico a vedere la popolazione virare verso la rabbia, ma anche lo stato sionista. I cittadini dello stato sionista sono coinvolti e furibondi e a stragrande maggioranza approvano l'annientamento di Gaza.
La contestualizzazione in termini assolutamente manichei che Netanyahu fa della guerra di Gaza -luce contro oscurità, civiltà contro barbarie, Gaza come sede del Male, tutti gli abitanti complici del Male Hamas, palestinesi come non umani- tutto questo nello stato sionista riaccende gli spiriti e i ricordi di una ideologia da 1948.
E questo fenomeno non è limitato alla destra: il sentimento popolare nello stato sionista sta cambiando orientamento, passando da liberale e laico a biblico ed escatologico.
Il presidente del comitato esecutivo di B'Tselem Orly Noy ha scritto un articolo -Il pubblico dello stato sionista ha abbracciato la dottrina Smotrich- che sottolinea come l'interiorizzazione del "Piano decisivo" di Smotrich si manifesti nel sostegno popolare a una politica che per la popolazione di Gaza prevede l'emigrazione o l'annientamento.
Sei anni fa Bezalel Smotrich, allora giovane deputato alla Knesset al suo primo mandato, pubblicò quello che pensava su come porre termine al conflitto tra stato sionista e Palestina... Invece di andare avanti con l'illusione che sia possibile arrivare a un accordo politico, la questione deve essere risolta unilateralmente e in maniera definitiva. [La soluzione proposta da Smotrich era quella di offrire] "ai tre milioni di residenti palestinesi una scelta: rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in condizioni di inferiorità, oppure emigrare all'estero. Se invece sceglieranno di imbracciare le armi contro lo stato sionista, saranno considerati terroristi e l'esercito si metterà a "uccidere coloro che devono essere uccisi". Quando gli è stato chiesto, durante un incontro in cui presentava il suo piano a personalità del sionismo religioso, se intendeva uccidere anche le famiglie, le donne e i bambini, Smotrich ha risposto: "In guerra come alla guerra".
Orly Noy sostiene che questo modo di pensare non sia limitato all'esecutivo dominato dalla destra; pensa che sia diventato quello dominante. I media e il discorso politico nello stato sionista mostrano che quando si tratta dell'attacco a Gaza oggi in corso, ampi settori del pubblico hanno completamente interiorizzato la logica del pensiero di Smotrich.
Di fatto l'opinione pubblica nello stato sionista, per quanto riguarda una Gaza in cui le idee di Smotrich vengono messe in pratica con una crudeltà che forse nemmeno lui aveva previsto, si trova ora a essere ancora più estrema di quanto previsto nel suo piano. Questo perché in pratica lo stato sionista sta eliminando dall'agenda la prima possibilità, quella di un'esistenza de-palestinizzata e in condizioni di inferiorità, che fino al 7 ottobre era l'opzione scelta dalla maggior parte del pubblico.
Come conseguenza dell'adozione del pensiero di Smotrich da parte dell'opinione pubblica, lo stato sionista nel suo complesso sta sviluppando una allergia radicale all'esistenza di una qualsiasi forma di stato palestinese. Secondo Orly Noy l'opinione pubblica è arrivata al punto di considerare il rifiuto dei palestinesi di sottomettersi alla potenza militare sionista come una minaccia esistenziale di per sé e come una ragione sufficiente per cacciarli.

lunedì 20 novembre 2023

Oriana Fallaci all'Esselunga con le ossa dei Caprotti



Chi dedica un po' di tempo a confutare gli scritti di Oriana Fallaci, a deriderne gli estimatori e ad asserire briosamente l'esatto contrario di quanto in essi affermato non avrebbe all'apparenza molti motivi per interessarsi a un libro scritto da un ricco e che parla di una famiglia di ricchi lombardi diventati ancora più ricchi grazie ai loro bottegoni.
I motivi invece ci sono.
 Il ricco Bernardo Caprotti figurò nel 2007 come autore di un Falce e carrello in cui descriveva gli incommensurabili danni arrecati alla sua attività dai nemici bottegoni della Coop, considerati diretta filiazione del gulag secondo una narrazione che nella penisola italiana viene ripresa dalla propaganda politica ad ogni campagna elettorale con buona pace di qualsiasi realismo.
 Falce e carrello fu oggetto in Toscana di una diffusione meticolosa e succede ancora oggi di trovarlo a prendere polvere a casa di chi non ha alcuna dimestichezza con la lettura, proprio come i "libri" di Oriana Fallaci, diffusi più o meno negli stessi anni, più o meno ad opera degli stessi soggetti, più o meno con gli stessi obiettivi e più o meno con gli stessi sottintesi.
Nel caso specifico il sottinteso era che nessuno poteva azzardarsi a dissentire da quel ricco, a meno che non volesse vedersi moralmente chiamato in correità coi fuclatori di Katyn da parte di qualche ben vestito con libero accesso alle gazzette.
Di qui l'interesse per un libro in cui del ricco di cui sopra si parla in termini per nulla agiografici, e la relativa recensione.

sabato 18 novembre 2023

Alastair Crooke - L'elefante nella stanza. Le intenzioni di Netanyahu a Gaza


Traduzione da Strategic Culture, 13 novembre 2023.

Nella crisi di Gaza il dato essenziale è che tutti concordano nel mettere la testa sotto la sabbia e nell'ignorare l'elefante nella stanza, ed è abbastanza facile farlo. Si capisce compiutamente la portata di una grave crisi solo quando qualcuno si accorge dell'elefante e dice: "Attenzione, qui c'è un elefante in giro". La situazione oggi è questa, e l'Occidente sta lentamente cominciando a prenderne atto. Una cosa che affascina il resto del mondo e che gli fa cambiare atteggiamento.
Quale sarebbe l'elefante -o gli elefanti- nella stanza? Sarebbe il fatto che le ultime mosse diplomatiche di Blinken in Medio Oriente sono state un fallimento. Nessuno dei leader regionali da lui incontrati, oltre a chiedere fermamente che non avvenisse "alcun trasferimento di popolazione palestinese in Egitto", la "fine di questa follia" -il bombardamento a tappeto di Gaza- e un immediato cessate il fuoco ha voluto dire altro su Gaza. E gli appelli di Biden per una "pausa" - all'inizio calmi, adesso più insistenti- sono stati senza mezzi termini ignorati dal governo sionista. Lo spettro dell'impotenza del Presidente Carter ai tempi della crisi degli ostaggi in Iran incombe sempre più concretamente sullo sfondo.
In sostanza la Casa Bianca non può costringere lo stato sionista ad obbedire; la lobby sionista ha più presa sul Congresso di quanta ne abbia un qualsiasi esecutivo della Casa Bianca, di conseguenza non si intravede alcuna via di uscita dalla crisi. Biden ha voluto l'esecutivo Netanyahu, ora deve sopportarne le conseguenze.
Il Partito Democratico si frammenta dunque nell'impotenza, al di là della semplicistica divisione fra centristi e progressisti. La polarizzazione innescata dalla "posizione di non cessate il fuoco" sta avendo forti effetti destabilizzanti sulla politica sia negli Stati Uniti che in Europa.
Impotenza, quindi, mentre il Medio Oriente si consolida in un forte antagonismo nei confronti di quello che viene percepita come la condiscendenza occidentale verso un massacro di massa di donne, bambini e civili palestinesi. Le cose potrebbero essersi spinte anche troppo avanti perché il riassetto tettonico già in corso possa rallentare. A livello mondiale, i due pesi e le due misure in uso in Occidente sono ormai fin troppo evidenti.
L'elefante grosso è questo: lo stato sionista ha sganciato più di venticinquemila tonnellate di esplosivo dal 7 ottobre (la bomba di Hiroshima del 1945 era equivalente a quindicimila tonnellate). Qual è esattamente l'obiettivo di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra? In apparenza, la precedente operazione militare nel campo di Jabalia aveva come obiettivo un leader di Hamas sospettato di nascondersi sotto il campo, ma perché usare sei bombe da duemila libbre per un "obiettivo" di Hamas in un campo profughi affollato? E perché attaccare anche le cisterne per l'acqua, i pannelli fotovoltaici e gli ingressi degli ospedali, le strade, le scuole e i panifici?
Il pane a Gaza è quasi sparito. Le Nazioni Unite affermano che tutti i panettieri nel nord di Gaza sono stati chiusi in seguito al bombardamento dei forni rimasti. L'acqua pulita è disperatamente scarsa e migliaia di corpi si stanno lentamente decomponendo sotto le macerie. Stanno facendo la loro comparsa malattie ed epidemie, mentre le forniture umanitarie vengono concesse col contagocce, strumento di contrattazione per il rilascio di ulteriori ostaggi...
Il redattore di Haaretz Aluf Benn descrive con molta chiarezza la strategia dello stato sionista:
A Gaza l'espulsione dei residenti palestinesi, la trasformazione delle loro case in cumuli di calcinacci e la limitazione all'ingresso di rifornimenti e carburante sono la 'mossa decisiva' cui si fa ricorso nell'attuale conflitto, a differenza di tutte le precedenti occasioni in cui si è combattuto nella Striscia.
Di cosa stiamo parlando? Chiaramente non si tratta di evitare vittime collaterali tra i civili, quando l'esercito sionista combatte contro Hamas. Non ci sono stati scontri nelle strade di Jabalia, né all'interno e intorno agli ospedali. Come ha detto un soldato, "Tutto quello che abbiamo fatto è stato andare in giro con i nostri veicoli blindati. Gli interventi sul campo verranno più tardi". Quello della "evacuazione umanitaria" è dunque un falso pretesto.
Il grosso delle forze di Hamas è rimasto sottoterra, in attesa del momento giusto per attaccare l'esercito sionista quando si inoltrerà a piedi tra le macerie. Per ora i militari sionisti restano nei loro carri armati. Ma prima o poi dovranno affrontare Hamas sul terreno. Quindi, la lotta con Hamas è appena iniziata.
I soldati sionisti lamentano di riuscire "a malapena a intravedere" i combattenti di Hamas. Ebbene, questo è dovuto al fatto che per le strade non si fanno trovare, se non in numero di uno o due uomini che escono dai tunnel sotterranei per attaccare un ordigno esplosivo a un carro armato o per sparargli contro un razzo. I combattenti di Hamas tornano poi rapidamente nel tunnel da cui sono usciti. Alcuni tunnel sono costruiti solo per questo scopo, come strutture "usa e getta". Non appena il soldato incursore ritorna, il tunnel viene fatto crollare in modo che le forze sioniste non possano entrarvi o seguirlo. E nuovi tunnel dello stesso tipo vengono scavati in continuazione.
Non si troveranno combattenti di Hamas nemmeno negli ospedali civili di Gaza; il loro ospedale si trova nelle loro basi principali, collocate in profondità nel sottosuolo insieme a dormitori, magazzini contenenti rifornimenti per diversi mesi, armerie e attrezzature per scavare nuovi tunnel. E i quadri di Hamas non sono nel sottosuolo dei principali ospedali di Gaza.
Il corrispondente di Haaretz per le questioni di difesa Amos Harel scrive che lo stato sionista sta comprendendo solo adesso quanto siano sofisticate ed estese le strutture sotterranee di Hamas. Ammette anche che i vertici delle forze armate, a differenza degli ambienti governativi, "non stanno parlando di sradicare il seme di Amalek" [un riferimento biblico allo sterminio del popolo di Amalek], cioè di un genocidio. Poi osserva che anche i vertici delle forze armate non hanno certezze in merito a quale sia il loro obiettivo finale.
L'elefante nella stanza per gli abitanti del Medio Oriente -che assistono alla distruzione delle infrastrutture civili in superficie- è dunque: qual è con esattezza lo scopo di questa strage? Hamas è trincerato sotto terra. E l'esercito sionista rivendica molti successi, ma dove sono i corpi dei caduti? Noi non li vediamo. Le bombe quindi devono servire a costringere i civili ad andarsene, a una seconda Nakba.
Quale intento si cela dietro questa cacciata? Secondo Benn, è quello di diffondere la convinzione che non torneranno mai più a casa:
Anche se presto verrà dichiarato un cessate il fuoco su pressione statunitense, lo stato sionista non avrà fretta di ritirarsi e di permettere alla popolazione di tornare nel nord della Striscia. E se dovesse tornare, in cosa tornerebbe? Non vi troverà case, strade, scuole negozi... nulla che si possa considerare un elemento costitutivo di una città dei giorni d'oggi.
Si tratta di una punizione contro la popolazione civile di Gaza, frutto del desiderio di vendetta? O è lo sfogo di una rabbia e di una determinazione escatologiche? Nessuno può dirlo.
L'elefante nella stanza è questo. E dal rendersene conto dipende la questione se anche gli Stati Uniti resteranno macchiati da un crimine. Da questa presa di coscienza dipende la possibilità o meno di trovare un accomodamento diplomatico duraturo, se lo stato sionista sta davvero tornando a giustificare la propria esistenza ricorrendo alle radici bibliche ed escatologiche.
È questo il problema che in futuro toccherà Biden come persona e l'Occidente nel suo complesso. Qualunque sia la tempistica che Biden aveva in mente, in mezzo alla crescente indignazione internazionale il tempo sta venendo meno con rapidità perché il conflitto tra stato sionista e Gaza è ora centrato principalmente sulla crisi umanitaria a Gaza e non più sull'attacco del 7 ottobre.
Può sembrare inverosimile eppure Gaza -con una superficie di soli trecentosessanta chilometri quadrati- sta determinando la geopolitica globale per tutti. Gaza è un lembo di terra da cui dipende in una certa misura anche il futuro.
"Non ci fermeremo", ha detto Netanyahu; "non ci sarà un cessate il fuoco". Mentre alla Casa Bianca una voce interna all'amministrazione ammette che
Stanno assistendo a un deragliamento e non possono farci nulla. Il disastro ferroviario è a Gaza, ma ad esplodere è il Medio Oriente. Sanno di non poter fermare i sionisti in quello che stanno facendo.
Il tempo sta per scadere. E questo è il rovescio della medaglia del paradosso dell'elefante. Ma quanto tempo c'è prima che il tempo finisca? Questa è una domanda irrilevante.
Questo rovescio della medaglia sembra aver causato confusione in Occidente e anche nello stato sionista. Il discorso di domenica 11 novembre di Seyyed Nasrallah ha smorzato il rischio di un allargamento della guerra al di là dello stato sionista, e quindi ha comportato il fatto che ci potrebbe essere più tempo per i tentativi della Casa Bianca di gettare acqua sul fuoco? Oppure ha inviato un messaggio diverso?
Per lo meno ha dato una risposta alla domanda se la terza guerra mondiale stesse per scoppiare. Nasrallah è stato chiaro: nessun membro del Fronte di resistenza unito vuole una guerra regionale totale. Tuttavia, Nasrallah ha sottolineato che "tutte le opzioni rimangono sul tavolo", a seconda di quali saranno le future mosse degli Stati Uniti e dello stato sionista.
Per una piena comprensione di quanto detto da Nasrallah occorre fare caso al contesto specifico. In questa occasione -caso unico- il suo discorso è riflesso di quella che deve essere stata un'ampia consultazione tra tutti i "fronti" dell'asse della resistenza. La forma finale del suo discorso, in altre parole, è stata il risultato di molteplici consultazioni e contributi. Esso non rifletteva quindi la mera posizione di Hezbollah. Per questo motivo è possibile concludere che esiste consenso su una posizione contraria allo scatenare una guerra regionale totale.
Il discorso -basato su contributi eterogenei- era molto ricco di sfumature, il che potrebbe spiegare il perché ne siano state date interpretazioni errate. Come al solito i media erano interessati soltanto all'affermazione fondamentale. Così, "Hezbollah non ha dichiarato guerra" è diventata la pappa pronta facile e veloce da servire.
Il primo punto essenziale del discorso di Seyyed Nasrallah, tuttavia, è che egli ha effettivamente reso Hezbollah il "garante" della sopravvivenza di Hamas, nello specifico identificando Hamas per nome piuttosto che riferendosi alla "resistenza" come entità generica.
Hezbollah si limita quindi per il momento a operazioni (non meglio definite) di limitata portata nelle regioni di confine in Libano, fino a quando la sopravvivenza di Hamas non sarà a rischio. Il Partito ha promesso tuttavia che interverrà direttamente in qualche modo se la sopravvivenza di Hamas dovesse essere minacciata.
Il imite invalicabile che preoccupa la Casa Bianca è questo. Chiaramente l'obiettivo di Netanyahu di estirpare Hamas è in esplicito contrasto con esso, e rischia di portare alla diretta entrata in guerra di Hezbollah. Tuttavia il mutamento strategico sotteso da questa dichiarazione politica fondamentale, emessa a nome dell'intero Asse della resistenza, è il fatto che a diventare l'elemento essenziale di tutti i mali del Medio Oriente è la politica estera statunitense.
Lo stato sionista non viene additato come responsabile della crisi in atto; anzi, esso viene declassato da Nasrallah da attore indipendente a nulla più che un protettorato militare statunitense come altri. In parole povere, Seyyed Nasrallah ha sfidato direttamente non solo l'occupazione della Palestina, ma anche gli Stati Uniti, considerati i principali colpevoli di quanto ha afflitto la regione: dal Libano alla Siria, dall'Iraq alla Palestina. Per certi versi in questo senso Nasrallah ha riecheggiato l'avvertimento del Presidente Putin a Monaco nel 2007, rivolto a un Occidente che stava per ammassare forze della NATO ai confini della Russia. La risposta di Putin all'epoca fu: "Sfida accettata".
Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno inviato ingenti forze navali in tutta la regione per "dissuadere Hezbollah e l'Iran", ma quest'ultimo ha rifiutato di essere dissuaso. Riferendosi alle navi da guerra statunitensi, Nasrallah ha detto: "Abbiamo preparato qualcosa per loro". E nel corso della settimana successiva il Partito ha svelato di possedere missili antinave.
Il punto fondamentale è che uno schieramento coeso di stati e di organizzazioni armate segnala che è in atto una sfida di più ampia portata all'egemonia statunitense. In effetti, anch'esso sta dicendo: "Sfida accettata". La richiesta è chiara: fermare le stragi di civili, fermare i bombardamenti e arrivare a un cessate il fuoco. Niente espulsioni, niente nuova Nakba. In termini specifici, gli Stati Uniti sono stati avvertiti che devono "aspettarsi qualcosa di doloroso" se l'attacco a Gaza non verrà fermato rapidamente. Quanto tempo rimane per arrivare a fermare le armi, sempre che sia possibile? Sulla tempistica non esistono dettagli.
E cosa si intende per "qualcosa di doloroso"? Non è chiaro. Ma guardiamoci intorno: gli Houthi inviano ondate di missili da crociera diretti contro lo stato sionista; alcuni non riescono a raggiungerlo e vengono abbattuti, ma quanti siano non si sa. Le basi statunitensi in Iraq sono regolarmente -in pratica ogni giorno- sotto attacco; molti soldati statunitensi sono stati feriti. E Hezbollah e lo stato sionista si stanno confrontando in ostilità per ora limitate, ai due lati del confine libanese.
Non si tratta di una guerra totale, ma se gli attacchi dello stato sionista contro Gaza continueranno nelle prossime settimane dovremo aspettarci una escalation controllata su diversi fronti. Una escalation che ovviamente a questo controllo rischia di sfuggire.

mercoledì 15 novembre 2023

Fuori lo stato sionista dall'Università di Firenze! (Marco Carrai e Susanna Ceccardi: essere avveduti, oggi)


Nel novembre 2023 lo stato sionista è impegnato in una violentissima campagna militare nella striscia di Gaza.
Il mese precedente qualcuno aveva ucciso per primo, pestandogli i calli e mettendone in lieve crisi l'onnipotenza. Una cosa cui reagire con ogni mezzo a disposizione, dal cacciabombardiere alla hasbarà di terz'ordine.
Alle hasbarot di terz'ordine è deputato a Firenze il ben vestito Marco Carrai, console onorario dello stato sionista. I rimasugli -le briciole delle mazzot, potremmo dire- toccano a Susanna Ceccardi, madre non sposata.
Insomma, qualcuno a Firenze scrive su un muro del polo universitario di San Donato che lo stato sionista non gli piace.
Il console onorario riempie le gazzette di starnazzi indignati.
La madre non sposata, dietro.
Al momento in cui scriviamo il corpo consolare di Firenze conta decine di rappresentanze, da quella statunitense a quella estone passando per posti come Grenada. Nessuna di queste è rumorosa o gazzettieramente intromissioria come quella (onoraria) dello stato sionista.
Forse perché nessuno degli altri paesi si comporta in modo da levare reazioni disgustate di questa portata.
Internet ha miliardi di utenti.
Imporre alle gazzette la pubblicazione di deplorazioni e prese di distanza non sempre ha l'effetto desiderato, specie se si difendono cause di stabile impopolarità.
Se il ben vestito Carrai e la ciarliera Ceccardi (madre non sposata) non si fossero mossi, la scritta sarebbe stata letta da qualche decina di persone.
Adesso ha un pubblico potenziale molte volte più vasto.


martedì 14 novembre 2023

Quest'anno le foibe arrivano in anticipo


Secondo le gazzette, a metà ottobre 2023 l'esecutivo di Roma avrebbe inviato ai suoi rappresentanti locali una circolare affinché le scuole dedichino particolare attenzione ai temi cui è dedicato il Giorno del Piagnisteo.
Quest'anno le foibe arrivano in anticipo.
Addirittura prima di Babbo Natale.
Il Giorno del Piagnisteo ricorre il dieci febbraio. E a Firenze trascorre nell'indifferenza generale. La sua imposizione per legge è servita soltanto a divulgare con dovizia di dettagli uno dei tanti sistemi con cui prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale qualcuno si è liberato degli avversari politici e delle presenze sgradite in generale.
L'intento dell'esecutivo è quello di diffondere -se non di imporre- una versione vittimistica degli avvenimenti: i comunisti si sono alzati una mattina e hanno fatto un genocidio.
A toni del genere verrebbe voglia di rispondere che il problema è che non ci sono riusciti, e che a Roma dovrebbero se mai ringraziare i corpi armati dello Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije di essersi fermati prima di Videm invece di prendere tutti quanti a calci almeno fino al Garigliano, maccheroni tarantelle e tutto il resto.
Ma questo andrebbe bene per le "reti sociali", sconfortanti autoschedature per buoni a nulla sul cui livello è caritatevole non infierire.
In questa sede si è convinti del fatto che le istanze "occidentaliste" in generale, con particolare riferimento a quelle governative, non ammettano altra risposta che l'immediata adozione di comportamenti ed atteggiamenti opposti a quelli auspicati.
Alla professione di cialtroneria in malafede si risponde quindi gelidamente, rifornendo innanzitutto la propria biblioteca con una iniziativa di approfondimento e di studio che non dovrebbe certo dispiacere a chi ha imposto questa ricorrenza a chi non ne sentiva alcuna necessità.
Ecco dunque un riepilogo aggiornato, con tutti i limiti del caso. Oltre a scritti sul tema specifico ce ne sono alcuni utili a controbattere alle velleità identitarie che sono alla base dell'intera iniziativa, e alle moltissime produzioni divulgative curate secondo criteri per lo meno opinabili.

Giuseppe Aragno, Alexander Hoebel, Alessandra Kersevan, Fascismo e foibe. Cultura e prtica della violenza nei Balcani.
Nicoletta Bourbaki, La morte, la fanciulla e l'orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana.
Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste.
Davide Conti, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente".
Francesco Filippi, "Prima gli italiani!" (sì, ma quali?).
Eric Gobetti, L'occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943).
Eric Gobetti, Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943).
Eric Gobetti, "E allora le foibe?".
Eric Gobetti, I carnefici del Duce.
Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi (1941-1943).
Gianni Oliva, " Si ammazza troppo poco". I crimini di guerra italiani (1940-1943).
Boris Pahor, Piazza Oberdan.
Jože Pirjevec, Foibe.
Christian Raimo, Contro l'identità italiana.
Giacomo Scotti, Dossier foibe.