sabato 18 novembre 2023

Alastair Crooke - L'elefante nella stanza. Le intenzioni di Netanyahu a Gaza


Traduzione da Strategic Culture, 13 novembre 2023.

Nella crisi di Gaza il dato essenziale è che tutti concordano nel mettere la testa sotto la sabbia e nell'ignorare l'elefante nella stanza, ed è abbastanza facile farlo. Si capisce compiutamente la portata di una grave crisi solo quando qualcuno si accorge dell'elefante e dice: "Attenzione, qui c'è un elefante in giro". La situazione oggi è questa, e l'Occidente sta lentamente cominciando a prenderne atto. Una cosa che affascina il resto del mondo e che gli fa cambiare atteggiamento.
Quale sarebbe l'elefante -o gli elefanti- nella stanza? Sarebbe il fatto che le ultime mosse diplomatiche di Blinken in Medio Oriente sono state un fallimento. Nessuno dei leader regionali da lui incontrati, oltre a chiedere fermamente che non avvenisse "alcun trasferimento di popolazione palestinese in Egitto", la "fine di questa follia" -il bombardamento a tappeto di Gaza- e un immediato cessate il fuoco ha voluto dire altro su Gaza. E gli appelli di Biden per una "pausa" - all'inizio calmi, adesso più insistenti- sono stati senza mezzi termini ignorati dal governo sionista. Lo spettro dell'impotenza del Presidente Carter ai tempi della crisi degli ostaggi in Iran incombe sempre più concretamente sullo sfondo.
In sostanza la Casa Bianca non può costringere lo stato sionista ad obbedire; la lobby sionista ha più presa sul Congresso di quanta ne abbia un qualsiasi esecutivo della Casa Bianca, di conseguenza non si intravede alcuna via di uscita dalla crisi. Biden ha voluto l'esecutivo Netanyahu, ora deve sopportarne le conseguenze.
Il Partito Democratico si frammenta dunque nell'impotenza, al di là della semplicistica divisione fra centristi e progressisti. La polarizzazione innescata dalla "posizione di non cessate il fuoco" sta avendo forti effetti destabilizzanti sulla politica sia negli Stati Uniti che in Europa.
Impotenza, quindi, mentre il Medio Oriente si consolida in un forte antagonismo nei confronti di quello che viene percepita come la condiscendenza occidentale verso un massacro di massa di donne, bambini e civili palestinesi. Le cose potrebbero essersi spinte anche troppo avanti perché il riassetto tettonico già in corso possa rallentare. A livello mondiale, i due pesi e le due misure in uso in Occidente sono ormai fin troppo evidenti.
L'elefante grosso è questo: lo stato sionista ha sganciato più di venticinquemila tonnellate di esplosivo dal 7 ottobre (la bomba di Hiroshima del 1945 era equivalente a quindicimila tonnellate). Qual è esattamente l'obiettivo di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra? In apparenza, la precedente operazione militare nel campo di Jabalia aveva come obiettivo un leader di Hamas sospettato di nascondersi sotto il campo, ma perché usare sei bombe da duemila libbre per un "obiettivo" di Hamas in un campo profughi affollato? E perché attaccare anche le cisterne per l'acqua, i pannelli fotovoltaici e gli ingressi degli ospedali, le strade, le scuole e i panifici?
Il pane a Gaza è quasi sparito. Le Nazioni Unite affermano che tutti i panettieri nel nord di Gaza sono stati chiusi in seguito al bombardamento dei forni rimasti. L'acqua pulita è disperatamente scarsa e migliaia di corpi si stanno lentamente decomponendo sotto le macerie. Stanno facendo la loro comparsa malattie ed epidemie, mentre le forniture umanitarie vengono concesse col contagocce, strumento di contrattazione per il rilascio di ulteriori ostaggi...
Il redattore di Haaretz Aluf Benn descrive con molta chiarezza la strategia dello stato sionista:
A Gaza l'espulsione dei residenti palestinesi, la trasformazione delle loro case in cumuli di calcinacci e la limitazione all'ingresso di rifornimenti e carburante sono la 'mossa decisiva' cui si fa ricorso nell'attuale conflitto, a differenza di tutte le precedenti occasioni in cui si è combattuto nella Striscia.
Di cosa stiamo parlando? Chiaramente non si tratta di evitare vittime collaterali tra i civili, quando l'esercito sionista combatte contro Hamas. Non ci sono stati scontri nelle strade di Jabalia, né all'interno e intorno agli ospedali. Come ha detto un soldato, "Tutto quello che abbiamo fatto è stato andare in giro con i nostri veicoli blindati. Gli interventi sul campo verranno più tardi". Quello della "evacuazione umanitaria" è dunque un falso pretesto.
Il grosso delle forze di Hamas è rimasto sottoterra, in attesa del momento giusto per attaccare l'esercito sionista quando si inoltrerà a piedi tra le macerie. Per ora i militari sionisti restano nei loro carri armati. Ma prima o poi dovranno affrontare Hamas sul terreno. Quindi, la lotta con Hamas è appena iniziata.
I soldati sionisti lamentano di riuscire "a malapena a intravedere" i combattenti di Hamas. Ebbene, questo è dovuto al fatto che per le strade non si fanno trovare, se non in numero di uno o due uomini che escono dai tunnel sotterranei per attaccare un ordigno esplosivo a un carro armato o per sparargli contro un razzo. I combattenti di Hamas tornano poi rapidamente nel tunnel da cui sono usciti. Alcuni tunnel sono costruiti solo per questo scopo, come strutture "usa e getta". Non appena il soldato incursore ritorna, il tunnel viene fatto crollare in modo che le forze sioniste non possano entrarvi o seguirlo. E nuovi tunnel dello stesso tipo vengono scavati in continuazione.
Non si troveranno combattenti di Hamas nemmeno negli ospedali civili di Gaza; il loro ospedale si trova nelle loro basi principali, collocate in profondità nel sottosuolo insieme a dormitori, magazzini contenenti rifornimenti per diversi mesi, armerie e attrezzature per scavare nuovi tunnel. E i quadri di Hamas non sono nel sottosuolo dei principali ospedali di Gaza.
Il corrispondente di Haaretz per le questioni di difesa Amos Harel scrive che lo stato sionista sta comprendendo solo adesso quanto siano sofisticate ed estese le strutture sotterranee di Hamas. Ammette anche che i vertici delle forze armate, a differenza degli ambienti governativi, "non stanno parlando di sradicare il seme di Amalek" [un riferimento biblico allo sterminio del popolo di Amalek], cioè di un genocidio. Poi osserva che anche i vertici delle forze armate non hanno certezze in merito a quale sia il loro obiettivo finale.
L'elefante nella stanza per gli abitanti del Medio Oriente -che assistono alla distruzione delle infrastrutture civili in superficie- è dunque: qual è con esattezza lo scopo di questa strage? Hamas è trincerato sotto terra. E l'esercito sionista rivendica molti successi, ma dove sono i corpi dei caduti? Noi non li vediamo. Le bombe quindi devono servire a costringere i civili ad andarsene, a una seconda Nakba.
Quale intento si cela dietro questa cacciata? Secondo Benn, è quello di diffondere la convinzione che non torneranno mai più a casa:
Anche se presto verrà dichiarato un cessate il fuoco su pressione statunitense, lo stato sionista non avrà fretta di ritirarsi e di permettere alla popolazione di tornare nel nord della Striscia. E se dovesse tornare, in cosa tornerebbe? Non vi troverà case, strade, scuole negozi... nulla che si possa considerare un elemento costitutivo di una città dei giorni d'oggi.
Si tratta di una punizione contro la popolazione civile di Gaza, frutto del desiderio di vendetta? O è lo sfogo di una rabbia e di una determinazione escatologiche? Nessuno può dirlo.
L'elefante nella stanza è questo. E dal rendersene conto dipende la questione se anche gli Stati Uniti resteranno macchiati da un crimine. Da questa presa di coscienza dipende la possibilità o meno di trovare un accomodamento diplomatico duraturo, se lo stato sionista sta davvero tornando a giustificare la propria esistenza ricorrendo alle radici bibliche ed escatologiche.
È questo il problema che in futuro toccherà Biden come persona e l'Occidente nel suo complesso. Qualunque sia la tempistica che Biden aveva in mente, in mezzo alla crescente indignazione internazionale il tempo sta venendo meno con rapidità perché il conflitto tra stato sionista e Gaza è ora centrato principalmente sulla crisi umanitaria a Gaza e non più sull'attacco del 7 ottobre.
Può sembrare inverosimile eppure Gaza -con una superficie di soli trecentosessanta chilometri quadrati- sta determinando la geopolitica globale per tutti. Gaza è un lembo di terra da cui dipende in una certa misura anche il futuro.
"Non ci fermeremo", ha detto Netanyahu; "non ci sarà un cessate il fuoco". Mentre alla Casa Bianca una voce interna all'amministrazione ammette che
Stanno assistendo a un deragliamento e non possono farci nulla. Il disastro ferroviario è a Gaza, ma ad esplodere è il Medio Oriente. Sanno di non poter fermare i sionisti in quello che stanno facendo.
Il tempo sta per scadere. E questo è il rovescio della medaglia del paradosso dell'elefante. Ma quanto tempo c'è prima che il tempo finisca? Questa è una domanda irrilevante.
Questo rovescio della medaglia sembra aver causato confusione in Occidente e anche nello stato sionista. Il discorso di domenica 11 novembre di Seyyed Nasrallah ha smorzato il rischio di un allargamento della guerra al di là dello stato sionista, e quindi ha comportato il fatto che ci potrebbe essere più tempo per i tentativi della Casa Bianca di gettare acqua sul fuoco? Oppure ha inviato un messaggio diverso?
Per lo meno ha dato una risposta alla domanda se la terza guerra mondiale stesse per scoppiare. Nasrallah è stato chiaro: nessun membro del Fronte di resistenza unito vuole una guerra regionale totale. Tuttavia, Nasrallah ha sottolineato che "tutte le opzioni rimangono sul tavolo", a seconda di quali saranno le future mosse degli Stati Uniti e dello stato sionista.
Per una piena comprensione di quanto detto da Nasrallah occorre fare caso al contesto specifico. In questa occasione -caso unico- il suo discorso è riflesso di quella che deve essere stata un'ampia consultazione tra tutti i "fronti" dell'asse della resistenza. La forma finale del suo discorso, in altre parole, è stata il risultato di molteplici consultazioni e contributi. Esso non rifletteva quindi la mera posizione di Hezbollah. Per questo motivo è possibile concludere che esiste consenso su una posizione contraria allo scatenare una guerra regionale totale.
Il discorso -basato su contributi eterogenei- era molto ricco di sfumature, il che potrebbe spiegare il perché ne siano state date interpretazioni errate. Come al solito i media erano interessati soltanto all'affermazione fondamentale. Così, "Hezbollah non ha dichiarato guerra" è diventata la pappa pronta facile e veloce da servire.
Il primo punto essenziale del discorso di Seyyed Nasrallah, tuttavia, è che egli ha effettivamente reso Hezbollah il "garante" della sopravvivenza di Hamas, nello specifico identificando Hamas per nome piuttosto che riferendosi alla "resistenza" come entità generica.
Hezbollah si limita quindi per il momento a operazioni (non meglio definite) di limitata portata nelle regioni di confine in Libano, fino a quando la sopravvivenza di Hamas non sarà a rischio. Il Partito ha promesso tuttavia che interverrà direttamente in qualche modo se la sopravvivenza di Hamas dovesse essere minacciata.
Il imite invalicabile che preoccupa la Casa Bianca è questo. Chiaramente l'obiettivo di Netanyahu di estirpare Hamas è in esplicito contrasto con esso, e rischia di portare alla diretta entrata in guerra di Hezbollah. Tuttavia il mutamento strategico sotteso da questa dichiarazione politica fondamentale, emessa a nome dell'intero Asse della resistenza, è il fatto che a diventare l'elemento essenziale di tutti i mali del Medio Oriente è la politica estera statunitense.
Lo stato sionista non viene additato come responsabile della crisi in atto; anzi, esso viene declassato da Nasrallah da attore indipendente a nulla più che un protettorato militare statunitense come altri. In parole povere, Seyyed Nasrallah ha sfidato direttamente non solo l'occupazione della Palestina, ma anche gli Stati Uniti, considerati i principali colpevoli di quanto ha afflitto la regione: dal Libano alla Siria, dall'Iraq alla Palestina. Per certi versi in questo senso Nasrallah ha riecheggiato l'avvertimento del Presidente Putin a Monaco nel 2007, rivolto a un Occidente che stava per ammassare forze della NATO ai confini della Russia. La risposta di Putin all'epoca fu: "Sfida accettata".
Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno inviato ingenti forze navali in tutta la regione per "dissuadere Hezbollah e l'Iran", ma quest'ultimo ha rifiutato di essere dissuaso. Riferendosi alle navi da guerra statunitensi, Nasrallah ha detto: "Abbiamo preparato qualcosa per loro". E nel corso della settimana successiva il Partito ha svelato di possedere missili antinave.
Il punto fondamentale è che uno schieramento coeso di stati e di organizzazioni armate segnala che è in atto una sfida di più ampia portata all'egemonia statunitense. In effetti, anch'esso sta dicendo: "Sfida accettata". La richiesta è chiara: fermare le stragi di civili, fermare i bombardamenti e arrivare a un cessate il fuoco. Niente espulsioni, niente nuova Nakba. In termini specifici, gli Stati Uniti sono stati avvertiti che devono "aspettarsi qualcosa di doloroso" se l'attacco a Gaza non verrà fermato rapidamente. Quanto tempo rimane per arrivare a fermare le armi, sempre che sia possibile? Sulla tempistica non esistono dettagli.
E cosa si intende per "qualcosa di doloroso"? Non è chiaro. Ma guardiamoci intorno: gli Houthi inviano ondate di missili da crociera diretti contro lo stato sionista; alcuni non riescono a raggiungerlo e vengono abbattuti, ma quanti siano non si sa. Le basi statunitensi in Iraq sono regolarmente -in pratica ogni giorno- sotto attacco; molti soldati statunitensi sono stati feriti. E Hezbollah e lo stato sionista si stanno confrontando in ostilità per ora limitate, ai due lati del confine libanese.
Non si tratta di una guerra totale, ma se gli attacchi dello stato sionista contro Gaza continueranno nelle prossime settimane dovremo aspettarci una escalation controllata su diversi fronti. Una escalation che ovviamente a questo controllo rischia di sfuggire.

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