Settembre 2011. I movimenti giovanili "occidentalisti" della penisola italiana stanno attraversando un periodo di crisi che ci si augura definitivo: le giornate di "formazione politica" definite "Atreju", che non ci siamo fatti alcun problema a ridefinire più realisticamente
Trojaju sono riuscite a mettere insieme una tale congerie di idiozie impraticabili e demenziali da lasciare esterrefatti perfino individui che non dovrebbero avere troppi motivi di
malevolenza nei loro confronti.
Tuttavia la contiguità con il potere che contraddistingue queste formazioni non permette di escludere a priori eventuali colpi di coda, specie del tipo destinato ad attirare l'attenzione dei gazzettisti.
In attesa che le lezioni riprendano, e con esse il cicaleccio demente dell'"occidentalismo" giovanile, niente di meglio che
rifilare qualche altra bastonata al cane che annega.
La stima di cui
Corneliu Zelea Codreanu gode presso i giovani "occidentalisti" di Casaggì Firenze è
cosa troppo nota perché vi si debba ritornare. Dal volume collettaneo "I fascisti" curato da Larsen, Hagtvet e Myklebust, tradotto nel 1996, traiamo un saggio di Zeev Barbu la cui attenta lettura è consigliabile a chiunque, specie se docente, genitore o comunque investito di responsabilità educative che non possano essere verosimilmente assolte
passando le giornate sul Libro dei Ceffi, creda o faccia finta di credere che Casaggì Firenze sia un gruppo relativamente innocuo di mangiaspaghetti ben vestiti.
La lettura di
Prospettive psico-storiche e sociologiche sulla Guardia di Ferro consente di identificare con facilità i contesti da cui Casaggì mutua iconografia e vocabolario: il registro linguistico di Barbu, ricco di espliciti riferimenti alla psicopatologia clinica, contribuisce in modo determinante ad inquadrare correttamente il contesto.
C'è da chiedersi, detto altrimenti, quanto sia appropriato che l'emanazione giovanile di un "partito" che taccia di
terrorista tutti quelli che respirano prenda esempio da un individuo che
assassinava i prefetti a colpi di pistola e capeggiava formazioni dall'acceso antisemitismo, per le quali l'omicidio politico e
soprattutto la morte pura e semplice costituivano affare d'ogni giorno.
Prospettive psico-storiche e sociologiche sulla Guardia di Ferro, il movimento fascista rumeno*
Zeev Barbu
Introduzione
Nel presente saggio mi propongo di discutere il movimento fascista in Romania, generalmente conosciuto come Guardia di Ferro, riferendomi in special modo alle prime due domande sulle quali s’incentra questo libro: “Chi si affiliò al movimento e per quali ragioni?”.
È bene chiarire sin dall’ inizio due punti. Primo: a causa del suo orientamento prevalentemente analitico, questo saggio può anche non fornire al lettore una descrizione dell’argomento sufficientemente chiara, e perciò lo consiglio di consultare l’ammirevole studio monografico di E. Weber, Gli uomini dell’Arcangelo. Secondo: metodologicamente parlando, non solo non mi è riuscito di consultare gli schedari della Guardia di Ferro, ma inoltre, per quanto ne so, questi schedari non esistono più. In assenza di fonti più dettagliate, ho cercato di formarmi un’idea generale della composizione sociale della Guardia di Ferro. estrapolandola da piccoli esempi tratti sia dalle liste elettorali del 1937 (che contenevano brevi note sui 350 candidati provenienti dalla Guardia), sia da qualche rapporto stilato dalla polizia o dall’esercito rumeni. In questo senso, il soggetto è naturalmente sottodocumentato.
Riguardo alla seconda domanda, la situazione è un po’ più incoraggiante. Intanto, la “confessione dei motivi” era una procedura di reclutamento di routine, e le pubblicazioni della Guardia sono praticamente disseminate di saggi intitolati: Come e perché sono diventato un legionario (“La Legione” era uno dei nomi esoterici del movimento). Inoltre, come gran parte di coloro che vengono condannati a lunghe pene detentive, molti legionari divennero obbligatoriamente memorialisti e diaristi, e gran parte dei loro scritti contiene materiale importante rispetto alle motivazioni. In ultimo, ho avuto occasione d’intervistare, ovviamente in modo informale, un limitato campione (19, esattamente) di ex membri del movimento.
Dato che il procedimento sin qui delineato assomiglia ad un quadro incompiuto, altamente suggestivo ma di capacità rappresentativa ambigua, è necessario un breve commento esplicativo. Nella presente ricerca, io ho preso le mosse, come la maggior parte dei ricercatori, da tutta una serie di osservazioni basilari o d’intuizioni primarie, delle quali una era quella che la Guardia di Ferro fosse socialmente più omogenea degli altri movimenti fascisti europei. Conseguentemente, le generalizzazioni derivanti da campioni relativamente piccoli erano, metodologicamente parlando, più tollerabili. Ma, a parte le generalizzazioni empiriche, esistono altre maniere per giungere a valide conclusioni riguardo i motivi e le caratteristiche sociali prevalenti di coloro che si affiliarono alla Guardia di Ferro. Come speriamo di dimostrare in seguito, uno studio dettagliato sulle ideologie, sulle forme specifiche d’organizzazione, sullo stile di vita, e anche sul vocabolario dominante, potrebbe e dovrebbe portare, in questo senso, a risultati significativi.
Lo sfondo storico
Le origini del fascismo rumeno, come quelle del fascismo europeo in genere, possono esser fatte risalire al periodo di sconvolgimento sociale susseguente alla prima guerra mondiale. Il movimento fascista rumeno si distingue per tre aspetti fondamentali. Primo: esso nacque nelle università come movimento di protesta studentesca, e per tutta la sua esistenza conservò sempre il carattere di movimento giovanile. Secondo: malgrado i suoi notevoli successi elettorali negli anni tra il 1927 ed 1937, non assunse mai la forma di vero e proprio partito politico: rimase un “movimento” che esibiva una combinazione di caratteri originari fascisti, liberazionisti e religiosi indigeni. Terzo: se è vero che un movimento o regime fascista possiede radici autoctone, il fascismo rumeno dovrebbe essere considerato un caso paradigmatico. Sebbene non fosse immune da influenze esterne, la Guardia di Ferro era una branca del fascismo essenzialmente “fatta in casa”, e quasi ossessivamente concentrata sul suo carattere originale ed unico, se non addirittura eccentrico. Fino al 1929, al momento del suo viaggio in Germania per incontrarsi con Hitler, C.Z. Codreanu, il capo della Guardia, si vantava del fatto che avrebbe potuto insegnare ad Hitler un paio di cose riguardo all’essere fascista. Per spiegare quest’eccessiva fiducia nei propri mezzi, occorre premettere una breve disamina del contesto storico-sociale in cui si sviluppò la Guardia di Ferro.
Se oggi la Romania viene generalmente considerata un Paese in via di sviluppo, nei primi anni del XX secolo non la si sarebbe potuta descrivere altro che come una nazione arretrata che muoveva i primi passi verso la modernizzazione. Malgrado qualche debole e spasmodica spinta verso l’industrializzazione, l’economia rumena era prevalentemente agricola, con oltre l’80% della popolazione esclusivamente occupata, o per meglio dire sotto-occupata, in questo settore. Il fatto che la produzione eccedesse il livello medio di sopravvivenza (nelle grandi proprietà private) era dovuto più a quello che Barrington Moore chiama “il sistema di sfruttamento della manodopera”, che non alla modernizzazione delle tecniche produttive. In tutto questo periodo, la società rumena era una tipica compagine agraria e tradizionalista, con, in cima, una piccola, eterogenea e in larga misura assenteista classe dominante, e con, alla base, i contadini che assommavano a più dell’80% della popolazione. Sino al 1939 solo un decimo dei rumeni lavorava nell’industria. Per quanto riguarda le cosiddette classi medie, esse erano composte da piccoli gruppi professionali e commerciali. per la maggior parte giunti recentemente dall’estero: ad esempio, greci, turchi ed ebrei nel Sud e nell’Est, ungheresi e tedeschi nel Nord e nell’Ovest del Paese. In breve, si ha a che fare con una struttura sociale tesa ed instabile, che è caratteristica di moltissime società agricole tradizionali alle prese con svariate necessità, ma mancanti dei mezzi appropriati di modernizzazione. Quindi, economicamente parlando, la Romania entrò e rimase in tutta l’era moderna come un Paese semicoloniale, le cui condizioni erano paragonabili a quelle degli attuali Paesi latinoamericani, e una delle quali mette direttamente in luce il perenne problema sociale della Romania: una classe contadina supersfruttata e sempre più disorientata. E tuttavia la maggior fonte di tensione e di conflitto risiedeva altrove.
Poche altre nazioni europee, con la possibile eccezione della Polonia, possedevano una storia politica più carica di frustrazioni. Una popolazione etnicamente omogenea, che costituiva la larga maggioranza in tutto il territorio dell’odierna Romania, dovette vivere sino agli ultimi anni del XIX secolo divisa e sotto occupazione straniera: turca nel Sud, russa nell’Est, austroungarica nell’Ovest e nel Nord. Il primo Stato politicamente indipendente, il cosiddetto Vecchio Regno di Romania, vide la luce nel 1877, mentre più della metà della popolazione continuò a vivere sotto il dominio straniero sino al 1918, quando la Romania raggiunse il punto di partenza verso la modernizzazione politica diventando uno Stato nazionale. Per quanto il significato di tutto ciò ai fini del sorgere del nazionalismo rumeno sia del tutto ovvio, occorre comunque sottolineare i punti seguenti. Malgrado la prolungata frammentazione politica, i rumeni sono stati sempre più coscienti, almeno a partire dall’inizio del XVIII secolo, di costituire una comunità etnica distinta e notevolmente omogenea. Il fattore di più larga importanza di questa connessione era la lingua comune, che, essendo di ceppo latino, rivestiva simultaneamente tre funzioni psico-storiche fondamentali: a) era una forza unificante che veniva parlata con pochissime e trascurabili variazioni da tutti i rumeni; b) possedeva un potere differenziante per il fatto che i rumeni costituivano l’unica comunità di lingua latina in quella parte d’Europa; c) soddisfaceva una funzione di prestigio per ovvie, sebbene non necessariamente legittime, ragioni. È importante notare che tra i rumeni c’era, e forse c’è ancora, una forte sensazione secondo cui, date le circostanze avverse della loro storia, la lingua latina avrebbe rivestito una funzione non soltanto naturale; essa produsse un “miracolo” al quale essi debbono la loro sopravvivenza come nazione. Quanto detto sinora getta luce su una serie di aspetti della nascita e dello sviluppo della cosiddetta nazionalità rumena che sono particolarmente importanti in questa sede. In primis, come la maggior parte delle nazioni coloniali o semicoloniali, i rumeni hanno forgiato la loro identità ed il loro senso di solidarietà in condizioni difficili; fatto, questo, che ha ovviamente lasciato una cicatrice d’inferiorità, di quella che chiamerei identità di gruppo di tipo difensivo, che si afferma in genere mediante un forte riferimento negativo nei confronti degli altri gruppi e, in particolare, degli oppressori. Sino a pochi anni fa, i rumeni si affannavano a dimostrare al mondo di non essere russi. Ciò ha implicitamente portato ad un autoriferimento positivo non meno forte, come, ad esempio, l’enfasi data alla loro latinità e cristianità, o alla loro forma tradizionale di vita. Tutto questo, e in specie una prolungata frammentazione politica, ha alla lunga superstimolato quella che possiamo in breve definire la coscienza nazionale dei rumeni. Dalla metà del XIX secolo in avanti, una serie di nozioni come “libertà”, “indipendenza”, “unità”, “nazionalità”, “romanità”, e molte altre ancora, sono sempre più divenute “fantasticherie” o formule magiche: una specie di ossessione collettiva che ha dominato la vita culturale del Paese.
Questo ci porta ad un punto ulteriore, forse quello più importante, che riguarda il contesto formativo del fascismo rumeno. Esso si riferisce specificamente al processo di modernizzazione, che in Romania, come in gran parte dei Paesi “di recente sviluppo”, fu iniziato e in larga misura portato avanti sotto la spinta dell’Europa occidentale. L’occidentalizzazione della Romania iniziò nelle classi superiori verso l’inizio del secolo scorso, ed è andata sempre crescendo. Dato che si tratta di un genere di processo socioculturale meglio noto nella sua versione russa, sarà utile tener presente che in Romania seguì più o meno lo stesso corso e con gli stessi risultati. La moderna intellighentija rumena fu un prodotto dell’occidentalizzazione, e, similmente a quella russa, rivelò nel suo sviluppo tutti i sintomi tipici di un gruppo marginale. Fino all’ultimo decennio del XIX secolo, l’ intellighentija rumena si considerava un gruppo progressista, la cui missione consisteva nel trasformare una comunità tradizionalista ed arretrata in una società moderna sul modello francese. Il risultato, naturalmente, fu quello di una sua graduale alienazione dalla cultura indigena. Così, già verso la fine del secolo, si potevano scorgere i primi segni di emarginazione tra gli intellettuali rumeni, che divennero coscienti di non appartenere né all’Occidente, per via delle loro origini, né alla loro cultura e società d’origine per via della loro educazione. La crisi venne risolta in una maniera che, da allora, è diventata un fenomeno ben noto. Molti intellettuali rumeni cominciarono ad identificarsi col popolo e con la sua visione tradizionale della vita e della cultura. La cosa innescò un intenso processo di riscoperta, rivalutazione e, in realtà, esagerazione delle tradizioni originarie (e quindi specificamente rumene), dei valori e, più in generale, dei modi di vita rumeni. Il villaggio ed i contadini divennero simboli d’onestà, salute e purezza primigenia: i capisaldi della vita nazionale. La stessa cristianità divenne una virtù rumena. Dall’inizio di questo secolo, e sino alla seconda guerra mondiale, la scena culturale rumena vide il dominio di movimenti “populisti” letterari, politici e religiosi, che furono altrettanti vivai di nazionalismo ed antisemitismo.
Ma non c’è bisogno di dire che né il nazionalismo né l’antisemitismo debbono necessariamente portare al fascismo, fenomeno molto più complesso, che può essere forse definito così: il fascismo è, prima di tutto, un movimento socio-politico che si sviluppa in una clima d’opinione nazionalistico e, spesso, populista. Se si può definire un movimento sociale come una reazione collettiva ad un “problema”, allora il problema specifico del fascismo consiste in una crisi di solidarietà ed identità sociali, di norma attribuita al declino delle caratteristiche etniche e tradizionali della comunità. In seconda istanza., il fascismo, come movimento politico, mostra forti tendenze verso un tipo d’organizzazione autoritario e paramilitare. Terzo: esso contiene visibili elementi totalitari nel fatto che il movimento, o il partito, finisce per costituire un modello concreto e, a tutti gli effetti, un archetipo della società nella sua totalità. Quarto: come modello di società, il fascismo comprende forme d’organizzazione sociale emotive, nostalgiche e, nell’insieme, regressive. Esso guarda sempre all’indietro, usando simboli di solidarietà sociale tradizionali e spesso primordiali. L’immagine di un gruppo primario costituisce una forza motivante centrale tra i membri di un simile movimento.
Tenendo in mente la definizione suddetta, c’è stato un solo movimento ed un solo partito, in Romania, al quale sia possibile applicare, non ambiguamente, il termine “fascista”. Esso ebbe nomi diversi che corrisposero ai diversi stadi del suo sviluppo, ma divenne generalmente noto come Guardia di Ferro. Quello che segue è un breve resoconto interpretativo dei principali tratti caratteristici del movimento, che per più di un decennio ebbe un ruolo importante, e spesso dominante, sulla scena politica rumena tra le due guerre mondiali.
Come abbiamo già detto, il fascismo rumeno nacque in un periodo di sconvolgimenti sociali susseguente alla prima guerra mondiale. Considerando il suo contesto formativo, la prima cosa da tenere in mente è che la Romania non uscì sconfitta dal conflitto, e neppure fu una vincitrice delusa come l’Italia. Al contrario: per un colpo di fortuna, la Romania uscì dalla guerra in certo modo inebriata dal successo. Col trattato di Versailles, tutte quelle province in cui i rumeni costituivano la maggioranza della popolazione, Transilvania, Bucovina e Bessarabia, vennero incorporate in un nuovo Stato nazionale rumeno, con una popolazione di oltre 17 milioni di abitanti. Perciò, il fascismo rumeno non fu il prodotto di una sconfitta nazionale. Ciò non vuoi comunque dire che esso non fosse, in un certo qual modo, figlio dell’ansietà e della confusione collettive. Come hanno dimostrato recenti studi sul disordine mentale in genere e sui suicidio in particolare, la ricchezza improvvisa e l’improvvisa povertà producono risultati simili. Se ci è consentito ampliare l’analogia, la Romania si trovò nella posizione del nouveau riche, con un territorio più che doppio rispetto a quello del Vecchio Regno e con una popolazione non solo considerevolmente più numerosa, ma anche altamente eterogenea nelle tradizioni e nei modi di vita. Quindi, il problema era quello dell’unità e dell’organizzazione. Quali erano i fattori unificanti, e quali le basi del consenso e della solidarietà nella nuova comunità? Domande come queste suscitavano un’ansia notevole, e ciò si rifletteva sulla situazione politica del Paese, contrassegnata da ideologie populiste vagamente democratiche e da ancor più vaghe riforme democratiche, con un’eccezione: l’estensione dei diritti elettorali a tutti i maschi al di sopra dei 21 anni. Lo spettro dei partiti politici era ricco, multicolore e molto mutevole. Un aspetto strutturale, però, sembrava essere costante: un “centro” quasi vuoto, con i grossi partiti tradizionali a destra e un piccolissimo Partito socialdemocratico ed un ancor più piccolo Partito comunista a sinistra. Dal punto di vista elettorale, non c’era segno di radicalizzazione politica.
L’instabilità, o meglio la fluidità politica, del Paese aveva una serie di cause, che contribuirono tutte indirettamente all’ascesa del fascismo. Tanto per cominciare, il livello di educazione politica era terribilmente basso e la socializzazione della maggioranza della popolazione contrastava nettamente con le basilari esigenze di una democrazia parlamentare. Pochi anni di attività febbrile e di dura competizione tra una dozzina o più di partiti approdarono piuttosto alla confusione politica e all’apatia che non al chiarimento. Inoltre, come in tutte le nazioni di nuovo conio e le democrazie giovani, il sistema partitico era una creazione più che altro artificiale. Con le due possibili eccezioni del Partito liberale e di quello contadino, i partiti della Romania postbellica non possedevano né una salda base sociale né un elettorato stabile. In aggiunta, la maggior parte di essi erano stati messi in piedi alla svelta e spesso non costituivano altro che organizzazioni intermittenti riunite attorno a qualche personalità di rilievo, come un celebre poeta, un grande generale, un avvocato di grido, con un fumoso programma di governo e con un’ancor più fumosa ideologia pesantemente delineata sulla base di stereotipi culturali dominanti, come la “Romanità”, la “Cristianità”, il “contadinismo”, “tutto per la patria” e così via. Perciò, una campagna elettorale nella Romania del primo dopoguerra assomigliava ad una guerra di spettri, con ogni partito concentrato su se stesso o sugli altri partiti, piuttosto che sui bisogni e le aspirazioni generali della comunità. In breve, democrazia significava particolarismo, e politica politicismo.
Due altri aspetti della vita politica si aggiungevano alla confusione che regnava nella neonata democrazia: il comunismo ed il cosiddetto problema ebraico. Riguardo al primo, ci sembra importante sottolineare che, sebbene la Romania, a differenza della Germania o dell’Italia, non avesse mai avuto un forte partito marxista, il comunismo come idea e minaccia provenienti dall’esterno ebbe un ruolo considerevole nell’ascesa della Guardia di Ferro. Il fatto che il luogo natale del movimento sia stata la Moldavia e che i suoi primi successi esso li abbia ottenuti in Bucovina e in Bessarabia, tre province confinanti con la Russia sovietica, può essere una prova di quanto abbiamo asserito. E la cosa possiede un’ulteriore rilevanza. Non solo la Bessarabia, la Bucovina e la Moldavia erano più esposte alla minaccia comunista, ma avevano anche una popolazione ebraica relativamente numerosa e, in quanto meno assimilata, certamente più visibile. Di conseguenza, in queste regioni esisteva una lunga tradizione di movimenti antisemiti, sia politici che culturali. In questo modo, in Romania, come in Austria ed in Germania, l’anticomunismo e l’antisemitismo costituirono un grosso nocciolo dell’ideologia fascista. Inoltre, i capi della Guardia di Ferro si diedero notevolmente da fare per produrre prove statistiche (sinceramente labili) del fatto che ebraismo e comunismo erano la stessa identica cosa.
A questo punto s’impone un’ulteriore specificazione. Pur costituendo un tema ideologico importante del fascismo rumeno, l’antisemitismo era in realtà soltanto un sintomo di una sindrome più larga, che, per mancanza di un termine più adatto, possiamo definire xenofobia. Ciò dovrebbe essere sottolineato, perché dal primo all’ultimo giorno della sua esistenza la Guardia di Ferro fu sempre impegnata in una dura lotta, sia ideologica che politica, contro tutte le minoranze etniche presenti in Romania, fossero ungheresi, turche, greche, bulgare o anche tedesche (sassoni). Questo spiega perché la Transilvania, con le sue grosse minoranze ungherese e tedesca, divenne relativamente presto un, se non il principale, caposaldo elettorale del movimento.
Quanto alla domanda se la Guardia di Ferro fosse o meno un movimento razzista, la risposta non è facile né semplice. Sicuramente, non era razzista nel modo in cui lo era l’hitlerismo, perché i fascisti rumeni non possedevano un concetto di razza naturalistico e pseudoscientifico, e neanche un’ideologia o una politica imperialiste. Il punto centrale della loro ideologia e della loro politica era il concetto di “nazione”, o, più precisamente, il nodo concettuale nazione - popolo rumeno - terra rumena, che significava o piuttosto simboleggiava un’entità storica spirituale (tutti i rumeni che avevano vissuto, vivono e vivranno sul suolo rumeno nel modo incarnato dalla comunità tradizionale del villaggio).
In questo senso, il fascismo rumeno condivideva alcuni aspetti con quello italiano, in quanto entrambi esaltavano il passato storico della nazione e le sue “nobili origini”, con l’importante differenza che il concetto di nazione caro alla Guardia di Ferro aveva una forte componente mistico-cristiana e un particolare sapore bucolico-rurale. Per tornare al punto fondamentale, il nazionalismo della Guardia, diciamo che la sua xenofobia era visibilmente radicata in una visione del mondo tipica di una comunità chiusa, in cui una categoria di persone altamente differenziata - ad esempio una minoranza etnica- viene normalmente percepita come corpo estraneo. L’antisemitismo dovrebbe essere quindi visto come un aspetto di questa situazione. Com’è stato spesso notato, i rumeni non odiavano gli ebrei in quanto ebrei, ma principalmente perché erano “diversi”, meno assimilati, e, perciò, più stranieri di quanto non lo fossero nella maggior parte degli altri Paesi europei. Si dovrebbe comunque tener presente che, a causa dell’effetto cumulativo di un passato coloniale, questa visione xenofoba poteva raggiungere (e talvolta raggiunse effettivamente) proporzioni da incubo, com’è ampiamente dimostrato dalla Guardia di Ferro. Questo costituisce un importante aspetto psico-storico della comunità rumena, che deve essere incluso in ogni studio sistematico sull’ascesa del movimento. Per ora non possiamo che delinearne brevemente la natura ed il significato.
Nessuno che sia seriamente interessato alla storia culturale della comunità rumena può evitare di accorgersi della prevalenza, e anzi della centralità, di tutta una serie di simboli, verbali o di altro genere, connotanti con vario grado d’intensità e complessità una condizione umana di “estraneamento”. Ciò può costituire un sentimento relativamente semplice di rimpianto o di nostalgia, suscitato da un’esperienza concreta di separazione da un ambiente familiare (ed in particolare quello dell’infanzia), oppure uno stato mentale più complesso fatto d’inquietudine e di ansietà liberamente estrinsecantesi, che nella sua espressione culturale include una serie di stati compensatori e, soprattutto, un insieme di speranza, desiderio e mancanza di un mondo perduto o di un’irraggiungibile felicità, così come una prodiga manifestazione di fantasie di morte, sottilmente mascherate sotto un’etica di rassegnazione e di accettazione, se non addirittura d’identificazione col grande ritmo o ciclo della natura. La gran parte degli studi rumeni sul fenomeno insistono sulla sua espressione letteraria, più che altro poetica, e soprattutto sulla posizione chiave della parola “dor”, un fonema singolarmente polisemico sul quale convergono un forte sentimento di “senza casa” ed estraneamento, associato a vaghe speranze e desideri; in breve, un modo d’esistere privo di visione escatologica o, nella migliore delle ipotesi, con una visione di questo genere molto oscura. Nessuno degli studi a me noti presta la minima attenzione all’espressione sociale e politica del fenomeno, e, più precisamente, alla correlazione funzionale tra la nozione di “dor” e una serie di parole più specifiche, quali “strano”, “straniero”, “estraneamento”. Ciò è ancor più sorprendente, dato che anche da un superficiale esame del contesto principale in cui le suddette parole vengono usate si può inferire tutta una serie di stati emotivi principalmente negativi (sfiducia, sospetto, il fatto di sfuggire, di ritrarsi, ostilità) che evidenziano il tipico atteggiamento rumeno verso la società. Perché i rumeni non solo percepivano (e forse percepiscono ancora) la loro società politica come qualcosa di esterno, oppressivo ed alienante, ma nutrirono lungo l’intero XIX secolo la credenza che un’espressione del tipo “straniero nel suo stesso Paese” fosse una più o meno accurata descrizione della loro esistenza come individui o come comunità.
Ora, il punto principale è che il suddetto atteggiamento possiede una dimensione storica ben precisa, che potremmo brevemente definire nel modo seguente: fino all’ultimo decennio del XIX secolo, la nota dominante era quella della passività e della totale rassegnazione. Il senso di un fato implacabile era generalmente considerato una componente basilare della visione rumena del mondo. Questo potrebbe essere rilevato in una gran varietà di espressioni culturali, poetiche e musicali in particolare, come nella placidità comportamentale del contadino, che veniva spesso considerata una variazione rumena dell’atteggiamento stoico. Ma via via che il secolo si avviava alla sua conclusione, i sintomi di una grande trasformazione divenivano sempre più chiari. “Trasformazione” non è proprio la parola giusta, perché l’inizio del XX secolo portò piuttosto ad una “rottura”, ad un’inversione di segni nella cultura e nel carattere rumeni. In mancanza di termini più adatti e tenendo presenti i limiti del vocabolario psicoanalitico, si può parlare di una transizione da una visione prevalentemente schizoide ad una prevalentemente paranoide, o, più specificatamente, da una struttura mentale dominata da meccanismi in cui ci si ritira e si sfugge, a un’altra dominata da meccanismi di attacco, unita ad un sistema morale basato sull’affermazione aggressiva del potere. Lo storico sociale non troverà sicuramente difficoltà nel raccogliere e collegare una gran varietà di avvenimenti accaduti in quel periodo, come, ad esempio, il sorgere della piccola intellighentija indigena discussa precedentemente, assieme ad un’infinità di ideologie populistiche e nazionaliste, la nascita del movimento socialista rumeno, e, da ultimo, ma non meno importante, la rivolta contadina del 1907, l’unica vera rivolta contadina registrata in tutta la storia moderna del Paese. In omaggio alla chiarezza, è necessario riferirsi alla simbolica, e quindi iperbolica, espressione del fenomeno, e precisamente a uno dei più noti poemi di Mihai Eminescu, un poeta romantico e nazionalista di quel tempo, scritto in rime popolari, dal titolo Doina. Per afferrare il punto si dovrebbe tener presente che Doina -una parola rumena che più delle altre si avvicina a blues- è un’espressione culturale archetipica (poesie e canzoni) di quel genere di sensibilità e di concezione del mondo che, come abbiamo detto, era caratterizzato dal termine “dor”, e cioè da una visione della realtà prevalentemente schizoide. Confrontata con il suo modello tradizionale, la Doina di Eminescu suona come la versione beat della Passacaglia di Bach; è sconvolgentemente aggressiva ed è sicuramente uno dei poemi più xenofobi che siano mai stati scritti. L’inizio è una provocazione: “Dalle rive del Dniestr a quelle del Tisza, ogni rumeno lamenta di poter a malapena respirare, per colpa dei tanti stranieri...” La fine è una maledizione: “Se c’è qualcuno che adora lo straniero, possano i cani mangiargli il cuore; possa la malerba distruggere la sua casa; possa la sua stirpe perire nella vergogna.”.
È indubitabilmente vero che questo poema ed il suo autore in genere costituirono una fonte d’ispirazione per la Guardia di Ferro. D’altro canto, la reale natura del movimento e soprattutto il suo orientamento etnocentrico non possono venire correttamente compresi senza prendere in esame lo stadio schizoide del periodo ante-Eminescu che aveva caratterizzato il processo precedentemente delineato. Come diremo in seguito, la mitologia della Guardia è essenzialmente del tipo triste ed apocalittico. Neanche nei loro stati d’animo più pacati, i guardisti furono capaci di offrire una soluzione semplice, come, ad esempio, una con capro espiatorio, magari d’impostazione antisemita. Dato che i nemici erano così tanti e così potenti, essi furono il più delle volte inclini a ripiegare su una visione religioso-escatologica, in cui “trascendenza”, “morte e resurrezione” costituivano le nozioni di base.
Capi, ideologia ed organizzazione
Mettendo da parte le circostanze storiche, la Guardia di Ferro dovette la sua esistenza a due uomini: C.Z. Codreanu, studente dell’Università di Iasi dal 1919 al 1925, e Ion Mota, studente dell’Università di Cluj dal 1920 al 1924. La ristrettezza di spazi ci consente solo un breve ritratto biografico e politico del primo, ma prima di procedere, ci piacerebbe comunicare in questa sede un’idea generale intervenuta in una fase relativamente avanzata della nostra ricerca. Per usare una nozione weberiana della causalità, siamo ora fermamente convinti che l’esistenza della Guardia di Ferro sia intrinsecamente legata a quella di Ion Mota, fervente attivista del movimento. A meno che ciò non appaia come un’ingenua, se non addirittura arbitraria, applicazione della regola sublata causa tollitur effectus, elimina la causa e l’effetto sparisce. Vorremmo quindi avanzare un’ipotesi ulteriore, che speriamo sarà verificata in altra sede; se sia cioè possibile supporre che la Guardia di Ferro fosse un movimento autoritario bicefalo. Per capire la cosa, è necessario distinguere tra la struttura organizzativa formale del movimento e quella simbolica. Riguardo alla prima, la Guardia di Ferro era senza dubbio un’organizzazione autoritaria e monolitica, avendo avuto come capo indiscusso per quasi vent’anni C.Z. Codreanu. Riguardo poi alla struttura simbolica, la Guardia mostrava una polarità di base, e più precisamente una polarità vita / morte. Per quanto non fosse meno attivo e creativo nei termini della pratica politica, Mota prediligeva tutto ciò che è destinato a morire, ad essere sacrificato per l’esaltazione della vita. Verso i trent’anni, e proprio quando il movimento era visibilmente prossimo al successo, Mota decise di arruolarsi come semplice soldato nella guerra civile spagnola, dove morì. Il suo corpo venne poi riportato in patria e canonizzato dai suoi seguaci.
Sebbene le interpretazioni retrospettive debbano sempre essere usate con cautela, c’è molto poco nello sfondo biografico di Codreanu che ci possa far avanzare seri dubbi contro l’ipotesi che nella sua personalità esistessero forti tratti d’autoritarismo. Suo padre, un insegnante in una città di provincia della Moldavia che divenne una ben nota figura politica, mostrò in tutta la sua vita inequivocabili segni di un impulso energicamente disciplinario unito a fantasie eroiche avvolte in un magniloquente linguaggio nazionalistico. I rapporti tra padre e figlio sono ben esemplificati da un incidente che viene spesso menzionato dal secondo nei suoi scritti autobiografici. All’inizio della prima guerra mondiale, il padre, malgrado l’età avanzata, si arruolò volontario nell’esercito. Per il figlio, a quei tempi scolaretto, fu il segnale per andarsene da casa e vagabondare per qualche settimana da un reggimento all’altro offrendo i propri servigi. Dopo essere stato rifiutato dappertutto, il ragazzo tornò a casa. Così, la sua prima “fuga” eroica terminò con una delusione. In un contesto del genere, vale la pena menzionare che, prima di entrare all’università, Codreanu aveva studiato presso la scuola militare di Manastirea Dealul.
Un altro dettaglio biografico rilevante riguarda sua madre, che era d’origine tedesca, fatto, questo, che ebbe certamente a che fare col suo esibito nazionalismo. Com’è stato spesso suggerito, il bisogno di successo unito ad una fede mistica nella volontà umana gli possono essere stati trasmessi proprio dalla madre. Ci affrettiamo però a precisare che Codreanu non era un volontarista alla maniera di Hitler, e neppure un maestro della parola ed un concettualizzatore capace come Mussolini.
Ciò detto, bisogna ammettere che i dettagli biografici possono dire relativamente poco su di un uomo che non solo era un mistico, ma anche un mistero, un tipo d’uomo che sfida, coscientemente o meno, ogni tentativo di delineare una chiara distinzione tra il suo volto privato e quello pubblico. Tanto per cominciare, Codreanu era una persona molto dedita, che rivelava un alto tasso d’interferenza tra il suo ego ideale (il salvatore della nazione) e quello vero. Inoltre, bisogna tener presente che qui abbiamo a che fare con un genere di struttura mentale controllato dalla tradizione e con un sistema motivazionale totalmente dominato dagli stereotipi nazionali. “I miei nemici sono i nemici del Paese” era una banale ma efficace formula di copertura per le convinzioni, violente e spesso omicide, di Codreanu. Ma c’è qualcos’altro, e precisamente lo stretto e quasi simbiotico legame tra Codreanu e Mota; legame che, per quanto possa sembrare strano, era di tale significanza da renderci difficile presentare un ritratto psicologico significativo di Codreanu, capo della Guardia di Ferro, senza includervi alcuni tratti dominanti della personalità di Mota. Per dirla in breve, Mota, il “santo” e “martire”, rinforzava il lato spirituale e religioso del sistema di razionalizzazione-sublimazione di Codreanu, al punto che alla fine si può ragionevolmente parlare di una folie à deux, una fusione mentale tra un primitivo-impulsivo (Codreanu) ed un aggressivo fortemente represso (Mota), che razionalizzava i suoi gesti criminosi con la formula “i miei nemici sono i nemici della mia patria e di Dio”. Volendo ridurre questa struttura mentale ad una formula (per brevità ci riferiremo d’ora in avanti alla personalità di Codreanu), si potrebbe dire che Codreanu era un autoritario di genere sentimentale e mistico. Il filone paranoide insito nella sua personalità raggiungeva proporzioni teomaniache, e il tema di base della sua vita fu l’imitatio Christi. Ma anche questo rivelava una dualità, o piuttosto un precario equilibrio tra due visioni diametralmente opposte dell’uomo e delle concezioni politiche, una basata sull’azione e sui fatti, l’altra sulla fede e sulla contemplazione. Il Cristo della Theologia Gloriae ed il Cristo della Theologia Crucis, il mistico della vita (Codreanu) ed il mistico della morte (Mota) vennero messi assieme nel mondo simbolico della Guardia di Ferro.
La Guardia di Ferro: suo sviluppo e caratteristiche organizzative
Tra il 1920 ed il 1923 la Guardia di Ferro era formata da gruppi studenteschi organizzati al di fuori delle associazioni ufficiali, prima a Iasi e poi nelle altre tre università del Paese: Czernovitz, Bucarest e Cluj. In ogni università essi erano solo piccole minoranze, ma ben organizzate e pronte a far uso di minacce ed altri metodi terroristi, ragion per cui in molte riunioni studentesche divennero un gruppo scomodo e spesso dominante. Il loro programma poteva essere riassunto in due punti: un violento antisemitismo che esigeva l’applicazione del numero chiuso per gli ebrei, e un vago riformismo cristiano. Molto più importante dei loro programmi era, comunque, il loro modo di vivere come individui e come gruppo, la loro dedizione, disciplina e prontezza nell’azione.
Il periodo che va dal 1923 al 1927 può per vari motivi essere considerato come quello del consolidamento politico. Nel 1923 Codreanu e A.C. Cuza formarono assieme un partito politico, la Lega di Difesa Nazionale, che nel 1926 ottenne sei seggi nel parlamento rumeno. Per la comprensione del fascismo rumeno risultano di cruciale importanza altri due avvenimenti del 1923. In seguito all’accresciuta agitazione antisemitica e, soprattutto, ad un complotto teso a punire (con le armi) alcuni parlamentari liberali, Codreanu ed alcuni suoi amici furono arrestati, processati e, come spesso accadeva in quei primi tempi, prosciolti. Ma al momento d’uscire di prigione, Mota uccise a pistolettate l’uomo sospettato d’aver tradito il complotto. Il fatto mise in luce le caratteristiche organizzative ed etiche essenziali del movimento, perché parve che la vittima fosse stata preventivamente processata e condannata dal “tribunale segreto” dell’organizzazione, che si premurò anche di designare l’esecutore. In questo contesto vennero usati termini come “traditori”, “eroi”, e anche “battesimo di sangue della Guardia”.
Il secondo avvenimento riguarda la vita di Codreanu. Durante il suo breve periodo d’incarcerazione (nel 1923) egli ebbe la sua prima visione: l’Arcangelo Michele che lo spronava a dedicare la vita al Dio rivelato dalla tradizione rumena e cristiana. Poco dopo, il giorno del rilascio di Mota (sempre nel 1923), Codreanu lo nominò capo della “Confraternita della Croce”, un corpo elitario che egli pose al centro del movimento. Per indicare la natura di quest’organizzazione è necessario dire che, a parte la rivelazione dell’arcangelo, Codreanu era ispirato da un’antica tradizione rumena. Tali forme di privilegiata e mistica associazione, o meglio comunione, tra due o più persone, esistevano e forse ancora esistono tra i contadini rumeni. L’associazione è altamente ritualizzata e coloro che vi entrano a far parte devono spesso assaggiare l’uno il sangue dell’altro col fine di divenire fratelli “in vita ed in morte”. La Confraternita della Croce era il corpo mistico della Guardia di Ferro, aperto soltanto ai pochi e agli eletti. Quelli ritenuti degni di farne parte dovevano sottostare ad una primitiva cerimonia, una specie di rito di passaggio. Venivano condotti in un luogo segreto, e dopo un rito incantatorio, che aveva luogo a notte fonda, facevano formale giuramento, votando la loro vita alla causa ed al “Capitano”.
Nel 1928 la Lega di Difesa Nazionale Cristiana fu sciolta, e nel 1927 vide la luce la prima organizzazione politica del movimento di Codreanu: la Legione dell’Arcangelo Michele. Questo fu il prototipo dell’organizzazione fascista. Tanto per cominciare, non aveva alcun programma; “il Paese sta morendo per mancanza di uomini, e non per mancanza di programmi”, furono le parole usate da Codreanu al congresso di fondazione della Legione. L’aspetto basilare dell’organizzazione era uno stato mentale, succintamente espresso dai quattro punti che seguono: “Fede in Dio”, “Fede nella Missione”, “Amore reciproco” e “Amore per le canzoni”. Il loro carattere era “cultista”, e richiedevano specifiche prove e selezioni, ed uno stato mentale particolare.
La Legione era organizzata in modo cospirativo. L’unità di base era il “nido”, un piccolo gruppo di sette o al massimo dodici membri, che si chiamavano vicendevolmente camarazi, termine non mutuato dai comunisti rumeni (che si chiamavano tovaresi), ma dall’esercito rumeno. A livello superiore, la Legione era formata da un’organizzazione semimilitare e semimistica con una rigida gerarchia. In cima c’erano il “Capitano” ed un ristretto gruppo di “grandi comandanti della Legione”.
Il “nido”, come unità strutturale del partito, fu un modello per i gruppi totalitari. Il termine stesso venne scelto per richiamarsi al bisogno di dipendenza e di sicurezza dei giovani. In esso, i legionari ricevevano l’addestramento di base, che consisteva in una certa conoscenza della storia e del martirologio della Guardia, nelle istruzioni riguardanti le regole di condotta, e soprattutto nell’ubbidienza incondizionata al Capo. Il “nido” aveva un’organizzazione interna monolitica, nella quale tutte le decisioni venivano prese all’unanimità. Sebbene Codreanu non fosse in via di principio e apertamente contro la democrazia nello stesso senso in cui lo era Hitler, per quanto riguardava il comando nutrì sempre vedute estreme ed autoritarie. “Io fui un capo sin dall’inizio”, diceva spesso, volendo significare che un capo dovrebbe possedere qualità naturali ed avvincenti, rendendo così superflue l’elezione ed ogni delega formale d’autorità. Conseguentemente, i capi del “nido” emergevano in maniera eruttiva, come direbbe Max Weber; la scelta più ovvia erano loro, e ciò grazie alla loro lealtà verso la causa. I capi erano anche persone religiose con una visione manichea del mondo, nella quale -seguendo l’esempio del loro patrono, San Michele- essi erano gli angeli della luce. Dal momento che la missione dei legionari consisteva nientemeno che nella rigenerazione morale della nazione, il segno caratteristico dei loro capi era un alto senso di missione e martirio.
Ciò mette in luce uno dei tratti organizzativi e psicologici più caratteristici della Guardia di Ferro. Non conosciamo un altro movimento fascista che inculcasse nei suoi membri un senso più profondo di dedizione e sacrificio personali. Tanto per cominciare, uno dei gruppi più elitari all’interno della Guardia era la cosiddetta “squadra della morte”, che consisteva di giovani fanatici pronti ad uccidere ed essere uccisi. Il loro status e la loro missione erano altamente istituzionalizzati, o meglio ritualizzati. Si diceva che portassero legato al collo un sacchetto contenente un po’ di terra rumena, e che non ci fosse nulla che essi non fossero pronti a fare al cospetto di essa. E c’erano anche altre espressioni, meno magiche, del loro spirito di sacrificio. Molto significative in questo senso erano le loro canzoni, che avevano la morte come motivo ricorrente. Ecco un esempio:
Legionario non aver paura
di morir giovane,
perché tu muori per rinascere
e sei nato per morire,
perché noi siamo la squadra della morte
che deve vincere o morire.
La morte, solo la morte da legionario,
è per noi un lieto matrimonio.
Due potenti temi della mistica della morte infiammavano la mente dei legionari: il primo, esplicitamente espresso nella citazione precedente, è tradizionale e indigeno, costituendo il tema centrale di una delle più famose ballate rumene, Mioritsa, in cui l’eroe, minacciato di morte imminente, vince la sua paura paragonando la morte ad uno sposalizio dove lui stesso è lo sposo mentre la sposa è la natura. Ancor più potente è il secondo tema, la mitologia cristiana della resurrezione e della vittoria attraverso la morte.
Anche se lo slogan principale dei legionari era “vittoria o morte”, questa formula religiosa sembra rivelare più adeguatamente il movente profondo del loro comportamento. Più e più duramente essi dovevano pagare il prezzo della loro violenza omicida, più essi la praticavano. Per illustrare questa stretta catena d’azioni, che può essere formulata sia con “uccidi e sii ucciso” che con “uccidi per essere ucciso”, esistono alcune cifre. Tra il 1924 ed il 1937 i legionari commisero undici omicidi, in gran parte di personalità politiche importanti. In questo stesso periodo furono però uccisi più di 500 legionari, in maggioranza dalla polizia. Tra l’aprile ed il dicembre del 1939, l’anno del martirologio, vennero arrestati, imprigionati ed uccisi circa 1200 legionari. A questo si dovrebbe aggiungere un altro incidente, il cui significato non può essere certo sottovalutato. Nell’estate del 1936, in un ospedale di Bucarest, si produsse un avvenimento che non può essere descritto in altra maniera se non come assassinio rituale. Mentre Stelesco, un legionario di primo piano che aveva appena lasciato la Guardia di Ferro per unirsi ad un altro gruppo nazionalista, giaceva ricoverato, un gruppo di quattro legionari irruppe nella sua camera e gli sparò addosso 120 colpi. Dopo di che, gli uccisori tagliarono il suo corpo in piccoli pezzi, vi danzarono intorno e si baciarono l’un l’altro.
La militanza
Sin dall’inizio, la militanza nella Guardia di Ferro era dominata da due categorie di membri: i giovani e gli intellettuali. Nel 1922 Codreanu aveva ventidue anni, Mota venti, e l’età media dei loro seguaci doveva aggirarsi tra queste due cifre. Secondo una stima approssimativa, l’età media in un gruppo di 350 candidati della Guardia alle elezioni del 1937 era sicuramente sotto i trent’anni, anche mettendo in conto una ventina circa di venerabili personaggi, come, ad esempio, il padre di Codreanu, che a quell’epoca era quasi settantenne. Persino nel 1942-44 l’età media di un gruppo di legionari internati a Buchenwald si aggirava sui 27 anni.
Questi esempi non sono ovviamente rappresentativi; ma d’altro canto, quando si considerino i tratti organizzativi dominanti e, soprattutto, le procedure d’affiliazione del movimento, si può ragionevolmente dedurre che l’età media dei capi e dei sottoposti fosse più bassa di quanto abbiamo appena detto. Come organizzazione, la Confraternita della Croce fu messa in piedi per arruolare “studenti, ragazzi e giovani dei villaggi” ed addestrarli gradualmente sino a farli diventare legionari completi. Quindi, dai dieci anni d’età (limite minimo richiesto) gli iscritti venivano fatti passare attraverso i seguenti stadi ed unità organizzative: dai 10 ai 14, lo stadio preliminare, un’organizzazione abbastanza fluida normalmente definita “I fratellini”; poi, dai 14 ai 18, era la volta della Confraternita, rigorosamente organizzata in “fasce” di sette membri come minimo. La Legione era lo stadio seguente e quello finale, e in questa forma era costituita dal prodotto definitivo, i membri più dediti ed attivi del movimento. Quindi, il movimento nella sua totalità era un’organizzazione militante con grosse tendenze al proselitismo, che indottrinava velocemente i suoi adepti e li organizzava in “nidi”, le unità organizzative di base della Legione. In questo modo il movimento dilagò dalle università e dalle scuole, che rimasero i suoi centri di formazione più potenti, alle aree urbane e contadine. E se i suoi dirigenti ed attivisti erano giovani, lo erano anche i suoi semplici militanti. In nessun momento dell’esistenza della Guardia di Ferro l’età media dei suoi membri superò i vent’anni. Quanto alla consistenza numerica della Legione, l’unica prova che possiamo addurre sta nelle cifre ufficiali, secondo cui i nidi erano 4200 nel 1935, 12.000 nel 1937 e 34.000 mesi dopo nello stesso anno. Alla fine del 1937 il totale dei militanti non poteva assommare a meno di 200.000, e forse molti di più.
La questione delle origini sociali del gruppo dirigente e dei militanti in generale, presenta alcune difficoltà. I due campioni analizzati da E. Weber (251 internati a Buchenwald e 31 giustiziati a Valsui nel 1939) mostrano come elemento largamente dominante la classe media: impiegati pubblici, professionisti, oltre a commercianti (6%) ed esercenti (5%). Weber, però, si affretta a limitare una conclusione del genere, precisando che i due campioni assommati includevano 75 studenti, e soprattutto che l’età media delle guardie di ferro era considerevolmente più bassa, presa nella sua totalità, di quanto non lo fosse tra i membri della NSDAP. Ciò lo porta a sottolineare la rilevanza del fattore età nella comprensione della composizione sociale della Guardia di Ferro. Questo punto importante merita un’elaborazione ulteriore.
Prima di giungere a qualsiasi conclusione definitiva riguardo alla composizione di classe del movimento, dovremmo tornare ad un punto toccato precedentemente, che può essere brevemente riformulato nella maniera seguente. Per prima cosa, la Romania nel periodo tra le due guerre era un Paese in via di sviluppo che emergeva da un lungo passato coloniale, dovendo quindi affrontare tutti i problemi propri di un periodo susseguente una liberazione. Secondo, in termini di struttura sociale, la società rumena era una tipica società tradizionale ed agricola. In tutto quel periodo la classe media era numericamente debole, ideologicamente e politicamente mal definita, e soprattutto divisa tra gli elementi indigeni e quelli provenienti dall’esterno. A tutto ciò andrebbe aggiunto l’impatto dissolvente della modernizzazione; cosa ancor più naturale, se si considera che il processo venne iniziato dall’alto e dall’esterno. Gli sconvolgimenti portati dall’ urbanizzazione, l’industrializzazione e la democratizzazione vennero visti dalla maggioranza del popolo, e in particolare dai contadini, con sospetto e sentimenti contrastanti.
Osservato in questo ampio contesto, il carattere di classe della Guardia di Ferro diviene considerevolmente più problematico di quanto non sembrasse a prima vista. Per la grande maggioranza dei suoi adepti, la condizione economica e culturale indica dichiaratamente una posizione di classe media. Ma la rilevanza del fatto non può essere valutata appieno sinché non si mette in conto la loro diretta, quasi ininterrotta connessione con la comunità e lo stile di vita tradizionali. Come ho già detto, Codreanu era figlio di un maestro e nipote di un contadino; Mota era figlio di un prete di campagna e nipote di un contadino. Ciò si applica ad ogni livello del gruppo dirigente ed alla totalità dei cosiddetti elementi di classe media all’interno della Legione. Tutto questo pone notevoli dubbi sulla specificità di classe dei membri, per non parlare dell’identità di classe dei legionari. E molto probabile che qui si abbia a che fare con un gruppo più psicologico che sociologico. La maggioranza dei suoi appartenenti stavano salendo la scala della gerarchia sociale in direzione della classe media; ma il punto è che essi non c’erano ancora arrivati, e non avevano ancora rotto i ponti col loro tradizionale retroterra rurale. Tutto sommato, si trattava di un gruppo marginale, ed a determinare il loro atteggiamento politico era più la condizione di marginalità, che non la posizione di classe.
Il ruolo preminente giocato dall’ intellighentija nell’ ascesa della Guardia di Ferro può, anch’esso, venir considerato come un sintomo di marginalità, di non appartenenza ad una classe specifica. Inoltre, ciò dovrebbe essere preso in un senso molto più concreto e diretto di quello implicito nella famosa tesi di Mannheim, per l’ovvia ragione che il tipo d’intellighentija della quale parliamo apparteneva ad una società emergente e di nuovo conio, priva di un chiaro senso di solidarietà ed identità. Quest’ intellighentija apparteneva per di più ad una società in cui si percepiva che gli strati medi svolgevano un ruolo duplice: positivo, in quanto rumeni per origine o riferimento; negativo, in quanto stranieri. Ciò dice molto sulla posizione sociale, obiettiva e soggettiva, dell’ intellighentija rumena e, in particolare, di quella legionaria. In realtà essi non potevano e non intendevano appartenere ad alcunché, e sfuggivano dal mondo reale inventandosi la loro società ed il loro gruppo di riferimento. Codreanu, ad esempio, s’identificava col “popolo”, una comunità idealizzata che egli non definì mai, eccetto che con termini vaghi ed astratti, come “unità”, “purezza”, “cristianità”. In modo ancor più caratteristico, Mota, dopo aver rifiutato la corrotta realtà sociale del suo tempo, s’identificava col “vecchio mondo”, il leggendario passato della sua nazione. Quindi, il gruppo di riferimento dei legionari era del tutto immaginario; era una società ideale in cui s’intrecciava alla larga la leggenda di un’antica comunità rumena tradizionale. L’elemento utopico predominante in questa immagine di società aveva un carattere moral-religioso, con l’unità e l’amore fraterni alla base della vita comunitaria.
Il problema delle motivazioni
I procedimenti addestrativi e la struttura organizzativa della Guardia di Ferro erano progettati in maniera tale da affascinare i giovani. Inoltre, il movimento offriva un’immediata sostituzione, un’alternativa concreta a chiunque, per qualsiasi motivo, avesse tagliato i ponti con le fonti primarie e lo schema implicito della sua esistenza sociale. Dico “concreta”, perché il fine ultimo del movimento, la cosiddetta società legionaria e il cosiddetto uomo legionario, non era affatto una costruzione concettuale, era un modo d’essere, una “vita nuova” accessibile ai sentimenti e alla fede, piuttosto che alla riflessione ed al potere della volontà.
Qualsiasi studio completo della struttura motivazionale dei legionari deve porre attenzione al linguaggio e alla mitologia dei legionari, e soprattutto ad un serie di segni-chiave, verbali e non, come “croce”, “terra” (due amuleti dei legionari), “culla”, “ritorno a casa”, “estraneamento” e “vendetta”; senza trascurare la polarità “amore-morte”, così drammaticamente espressa dalla duplice immagine -la spada e la croce- dell’Arcangelo Michele e, in termini molto più completi, dalla leadership Codreanu-Mota. Si tratta di un’idea complessa che richiede un’ulteriore elaborazione.
Secondo una ben nota tesi, il dramma come fenomeno letterario e il teatro come istituzione sono sorti e si sono sviluppati in quei periodi storici e in quelle società dove intensi conflitti o cambiamenti strutturali negativi stimolavano nei membri della comunità il bisogno di restaurare e rinforzare il loro senso di solidarietà immaginando o rappresentando una società alternativa. Non c’è bisogno di dire che il processo poteva essere sia rivolto verso il passato (e quindi si trattava di una riattualizzazione e idealizzazione di un passato sociale leggendario e mitico) oppure verso il futuro. Ora, la maggior parte dei movimenti fascisti sono drammatizzazioni della vita sociale o, più precisamente, rituali di solidarietà e ricostruzioni di miti incentrati sul tema della salvezza e della resurrezione. Nessuno di essi, comunque, si è spinto tanto lontano e tanto apertamente in questa direzione come la Guardia di Ferro. Nessuno che abbia vissuto in Romania nel periodo tra le due guerre può aver dimenticato l’anacronistico e al tempo stesso vivido carattere di una dimostrazione legionaria. Era qualcosa che stava tra una protesta politica, una processione religiosa e un corteo storico. La parte centrale e, di fatto, il nucleo della dimostrazione consisteva in un ben organizzato corpo di giovani in uniforme -le “camicie verdi”- alla cui testa, di norma, procedeva un gruppo di preti che recava icone e vessilli religiosi. Il tutto era infine seguito e circondato da uomini e donne vestiti col costume nazionale. In breve, si trattava della comunità rumena che ricreava il suo passato o, in termini più tecnici, un “mistero” teatrale in cui il dramma del popolo rumeno veniva rappresentato per la strada.
Dato che alcune delle parole appena citate potrebbero sembrare troppo forti, vorremmo infine riferirci ad una di quelle “confessioni di motivi” menzionate all’inizio di questo saggio. Questa particolare confessione dovrebbe ottenere più credibilità, perché, a differenza di moltissime altre, essa non fu scritta sotto la spinta del momento né ai fini dell’ammissione, ma quando il movimento era ormai morto. Il suo autore è Horia Sima, l’ultimo capo del movimento, che, a differenza di Codreanu e di Mota, non aveva bisogno di possedere un carisma profetico. Egli era un manipolatore esperto e senza scrupoli, e quasi un routinier della seconda generazione. Sima si era unito al movimento nel 1926 da studente dell’Università di Bucarest. Come abbiamo già detto, il periodo 1926-27 vide il decollo del movimento. Sima punta su una condizione preliminare che è critica per la nascita del movimento, quando scrive che “nel 1926-1927 le nostre università vennero sommerse da una grande ondata di giovani d’origine contadina che portarono seco un robusta coscienza nazionale, distruggendo così gli ultimi bastioni dello spirito straniero nelle nostre università”. Quest’ondata di ragazzi di campagna aveva anche introdotto un cambiamento radicale nel ruolo convenzionale dello studente, perché essi erano ansiosi “non solo d’imparare dai libri”, ma anche di analizzare lo spirito della Nuova Romania, così come di stabilire “lo scopo della loro stessa esistenza come rumeni”. Dato che la loro più alta aspirazione era sapere “cosa andava fatto”, i loro eroi principali erano i guru nazionalisti di quel tempo. Ma la parte di gran lunga più rivelatrice della confessione è quella in cui Sima descrive l’effetto che ebbe su di lui il rituale d’ammissione, come rivelano le seguenti righe: “Un senso di auto-trascendenza e di trasfigurazione della vita quotidiana”; “un’unione mistica tra la nazione e Dio”; una “sensazione di potere proveniente da lungi e la percezione che tutto il Paese si muove con noi nello stesso istante e nella stessa direzione”; “un impulso espansionista e creativo con l’intima certezza che da qui a qualche anno Codreanu verrà acclamato da tutto il Paese”; “una passione vulcanica per l’azione...”.
Che un movimento del genere affascinasse i giovani, gli sradicati e gli elementi marginali della società, possiede un giusto senso psicologico; ma anche un senso sociologico abbastanza plausibile, se si tengono presenti alcune tra le conclusioni principali alle quali è giunta tutta una serie di recenti studi comparativi sui movimenti messianico-revivalisti nei Paesi sottosviluppati ed in via di sviluppo. Ma la Guardia di Ferro fu qualcosa di più che non un semplice movimento revivalista; fu un movimento politico, uno dei pochi che fosse totalmente fascista, che sia giunto al potere ed abbia formato un governo. Inoltre, ebbe un largo sostegno elettorale -quasi 500.000 voti nel 1937- che includeva contadini e una Brigata Operaia, forte di quasi 13.000 uomini nel 1939. Ciò considerato, si può ancora sostenere che il concetto di marginalità costituisca uno strumento analitico affidabile? La risposta, in breve, è sì; e ci spiace che debba essere soltanto una risposta breve. Un esame delle elezioni del 1937 mostra abbastanza chiaramente che il successo della Guardia fu più ampio in quei distretti che rispondevano a due o più delle condizioni seguenti: 1) lontano, isolato, negletto; 2) con larghi gruppi minoritari; 3) toccato dall’industrializzazione o dalla commercializzazione; 4) con comunità agricole prevalentemente “di medio raggio”, in movimento verso il basso (Razesi, in Moldavia) o verso l’alto (Transilvania).
Non abbiamo bisogno di aggiungere che siamo pienamente coscienti dei limiti insiti in un simile modello interpretativo. Il concetto di marginalità, come tutta una serie di concetti affini (ad esempio, quello di privazione relativa) possono essere e di norma sono imbarazzantemente elastici, in senso sia oggettivo che soggettivo. Parlando dal punto di vista motivazionale, una condizione mentale di marginalità può condurre alla violenza organizzata o al riarmo morale, ad un movimento religioso o ad un movimento politico, al radicalismo di destra o al radicalismo di sinistra. Ecco perché il genere di analisi motivazionale qui esposto non può mai essere esaustivo. Lo possiamo illustrare subito col caso in questione, perché, date le circostanze discusse nelle precedenti pagine, la situazione in cui si trovò la Romania durante il periodo tra le due guerre non può essere descritto in altro modo se non come un esempio di marginalità, o, più precisamente, di tensione al limite della disperazione. Ora, il punto è che la Guardia di Ferro non costituì l’unica espressione di questa situazione complessa. La Romania, la cui storia e la cui cultura erano particolarmente povere di figure sante, ora aveva generato un profeta. Nell’estate del 1935 l’opinione pubblica rumena fu quasi sopraffatta dalla notizia, prontamente ripresa dalla maggior parte dei giornali, che nel villaggio di Maglavit si era verificato un miracolo. Mentre stava pascolando le sue pecore, un pastore, Petrache Lupu, aveva visto apparire dal nulla «il Vecchio con la barba bianca», che gli aveva comandato: “Va’ e predica amore e pace ai tuoi compaesani peccatori.” Milioni di persone di ogni ceto si mossero per vedere ed ascoltare il veggente.
Naturalmente, c’è una grande differenza tra la folla attirata da Petrache Lupu ed un movimento fascista. La Guardia di Ferro aveva un’organizzazione stabile ed una ben articolata cornice reazionaria, in cui l’antisemitismo, l’antidemocrazia e l’antipoliticismo rivestivano un ruolo fondamentale. In un attento studio sulle motivazioni, tutto ciò, e anche qualcosa di più, va tenuto nel debito conto. Ma il punto che cerchiamo di stabilire qui è più specifico e, speriamo, più utile: in senso motivazionale, la Guardia di Ferro può essere vista come una combinazione tra la folla di Petrache Lupu ed un movimento fascista. Il suo specifico, se non unico, carattere lo potremmo brevemente descrivere così: la Guardia di Ferro rappresenta in una forma altamente compressa ed assieme ben differenziata quello che è normalmente noto come un fenomeno a due fasi, e cioè la transizione, in un Paese in via di sviluppo, di un movimento da religioso a politico. Oltre ad essere un caso esemplare di fascismo agrario, la Guardia riveste un altro significato teorico non meno importante, quello d’illustrare e, sino ad un certo punto, di adombrare un tipo d’anomalia che si produce nella maggior parte delle società con un alto tasso di cambiamento. Questo fenomeno, mancando un’espressione migliore, lo si potrebbe definire di marginalità relativa. L’anomalia consiste in una sconfinata avidità di potere, in un perennemente insoddisfatto desiderio di partecipare ai processi decisionali ed alle strutture suscitate da una società libera ed in rapido mutamento in un numero sempre crescente di suoi membri.
Note
* Il presente studio è basato sulle ricerche effettuate qualche anno fa sotto gli auspici e con l’assistenza finale del Columbus Centre dell’Università del Sussex. Oltre alle fonti citate nel testo, abbiamo utilizzato materiale documentario reperito presso l’Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna, la Rumanisches Kulturkhaus di Friburgo e l’Academia de Stinte Sociale di Bucarest.
Vedi vol, I, n.l, 1966 del “Journal of Contemporary History” (trad. it. Cit. in «Dialoghi del XX»).
Una trattazione dell’argomento ancor più dettagliata la si può trovare in The European Right, a cura di H.Roggcr e E.Weber, Berkeley, University of California Press, 1965. Altre fonti importanti sono: F.C.Carsten, The Rise of Fascism, Berkeley, University of California Press, 1967 (tr. It. Cit.), e European Fascism, a cura di S.J.Woolf, Weidenfeld e Nicholson, London 1967 (tr. It. Cit.),
Cfr. The Social Origin of Dictatorship and Democracy, Beacon Press, London 1967 (tr. It. Cit.),
Il lavoro più conosciuto e gran lunga il più acuto è Spatiul Morioritic, di L.Blaga, Sibiu 1936.
Le due famose rivolte (1748 e 1848) delle popolazioni rurali che vivevano nelle aree montagnose della Transilvania non possono essere descritte come rivolte contadine per il semplice fatto che le popolazioni di questa zona, i cosiddetti Moti, vivevano ai margini dell’economia agraria, e le si può meglio definire come un gruppo sociale marginale che si guadagnava da vivere in parte con l’agricoltura e in parte col commercio.
Samanatorismul, di Z. Ornea, Bucarest 1971. E interessante notare che l’autore riesce ad interpretare in termini di lotta di classe il violento fervore di quel tempo.
A.C. Cuza, una specie di Julius Streicher rumeno, era stato il mentore politico di Codreanu durante gli anni passati come studente all’Università di Jasi (1919-25).
Codreanu assassinò il prefetto di Galati, Manciu.
E. Weber, op. cit., p. l08.