Il primo ministro della Repubblica di Turchia Recep Tayyip Erdoğan
durante una visita di stato nella Repubblica Popolare Cinese (Foto AA).
Con una visita di alto profilo in Cina il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha continuato la propria campagna per accrescere il prestigio del suo paese sul piano della geopolitica.
La Turchia spera molto di emergere -o di riemergere, se si ricordano i tempi dell'apogeo dell'Impero Ottomano- come qualcosa di più che il punto di giunzione geografico ed economico dell'Eurasia. Erdoğan spera di poter valorizzare questa posizione centrale trasformando la Turchia in una potenza rgionale, in un paese in grado di dire la sua sulle priorità in agenda per tutti e due i continenti.
Se dobbiamo fidarci di quanto è emerso dal viaggio di Erdoğan in Cina, la Turchia ha ancora molta strada da fare. Hurriyet, che è il principale quotidiano turco in lingua inglese, ha confuso il nome ed il cognome del premier cinese Wen Jiabao, ed ha riferito della visita intitolando "Erdoğan incontra Jiabao nel corso di un importante visita di stato in Cina". [1]
Dal punto di vista geopolitico i due paesi non hanno comunanza di vedute su una questione fondamentale: la Siria. La Turchia ha voltato le spalle al presidente Bashar al Assad; la Repubblica Popolare Cinese è invece parte attiva nel processo di pace siriano.
Nonostante questo, il 10 aprile all'aeroporto di Pechino Erdoğan ha riferito ai giornalisti presenti che "la Cina non ha più l'atteggiamento che aveva prima", ovvero che non forniva più un completo appoggio al governo di Assad.
Si potrebbe pensare che abbia fatto questa dichiarazione all'aeroporto al momento di lasciare il paese in modo da potersi esprimere senza il timore di venir contraddetto in modo imbarazzante dai suoi ospiti.
Un accademico turco aveva fornito la debita imbeccata ottimistica all'edizione domenicale del quotidiano turco Zaman:
Penso che entrambi [la Russia e la Cina] riconsiderereanno il loro atteggiamento e prenderanno posozioni molto vicine a quelle turche... Russia e Cina non rischieranno un confronto con la Turchia e con l'Occidente continuando a sostenere il governo di Assad. [2]
Da Pechino non è arrivata alcuna risposta alle considerazioni di Erdoğan, almeno non direttamente.
Si può invece pensare che l'iniziativa cinese per la pace in Siria sia la mossa geopolitica più importante compiuta negli ultimi dieci anni. Se Cina e Russia avevano qualche dubbio sulla capacità di Assad di rimanere al potere, non sono certo andate a condividere le loro preoccupazioni con Erdoğan.
Il 12 aprile il ministro per gli affari esteri cinese ha rilasciato una dichiarazione sul cessate il fuoco siriano:
Per alleviare le tensioni e incoraggiare un processo di accordo politico, la Cina ha interpellato di propria iniziativa il goveno siriano e le altri parti politiche in Siria... La Cina ha anche preso contatto con le altri parti interessate come i paesi della regione, la Lega Araba e la Russia, in merito ad una soluzione politica per la questione siriana. Quello che la Cina ha fatto è muoversi in modo concreto.
Come prossima mossa, la Cina si adopererà con altri attori che intendano continuare a sostenere attivamente la mediazione di Annan perché si giunga ad una soluzione politica della questione siriana, e continuerà ad agire per manternere la comunicazione ed il coordinamento tra le parti interessate nell'intento di ricoprire un ruolo costruttivo perché si giunga in breve tempo al raggiungimento di una libera, pacifica ed adeguata ricomposizione della questione siriana. [3]
In modo ancora più eloquente, poco dopo la partenza di Erdoğan la Cina ha riservato un'accoglienza di riguardo al ministro degli esteri siriano Walid Moallem, ed ha appoggiato senza mezzi termini la missione di Kofi Annan come mediatore per la pace.
Se dobbiamo vedere un messaggio per la Turchia in tutto questo, il messaggio è che la Cina è direttamente coinvolta nella questione e che non ha alcuna intenzione di riconoscere alla Turchia alcun genere di ruolo guida.
Il fatto è che la Turchia occupa in materia una posizione molto marginale, e a questo punto può anche ringraziare perché la comunità internazionale non l'ha del tutto tagliata fuori dalla questione siriana.
Verso la fine del 2011 Erdoğan considerava secondo ogni evidenza la Siria come una seconda Libia. La Turchia aveva scaricato Gheddafi quando la NATO, la Lega Araba ed il Consiglio di cooperazione del Golfo avevano fatto fronte comune contro di lui ed Erdoğan aveva potuto reclamare a sé il merito, se di merito si può parlare, che i bombardamenti fossero stati condotti sotto l'egida della NATO invece che sotto gli auspici di Francia ed Inghilterra.
Col continuare delle manifestazioni contro Assad e contro il suo governo nel corso dell'estate e dell'autunno del 2011, è parso che la Turchia potesse iniziare a vagheggiare un nuovo governo demoratico, forse con una forte componente sunnita, anelante la protezione e l'assistenza turca e situato alla propria frontiera meridionale.
Erdoğan ha abbandonato la sua politica di coinvolgimento nei confronti di Assad e si è unito al coro di quanti auspicavano che venisse spodestato.
In Siria, tuttavia, non ha preso concretezza alcun intervento straniero al di là delle dichiarazioni indignate degli occidentali e del Consiglio di Cooperazione; a Damasco c'è ancora Assad e la Turchia, invece di potersi godere il successo di un'altra di quelle manovre da Primavera Araba che ti fanno ritrovare "dalla parte giusta della storia" è ora ingabbiata in un'agenda fitta di confronti con un vicino spinto alla disperazione e piuttosto ricco di risorse.
La Turchia non ha nemmeno tentato di limitare i danni esplorando le possibilità di ricucire lo strappo con il governo siriano; invece, si è presentata come lo sponsor degli inetti (il Consiglio Nazionale Siriano), degli avventati (il Libero Esercito Siriano) e degli opportunisti (gli Amici della Siria).
Erdoğan pare sia intento a scavare coi denti la fossa in cui rischia di finire la Turchia, perché sta continuando a parlare degli orrori di Assad in una maniera tale che una riconciliazione politica con quest'ultimo risulterà impossibile per lui.
Al momento di lasciare la Cina ha dichiarato che avrebbe invocato gli obblighi cui l'Alleanza Atlantica è chiamata dall'Articolo 5 del proprio statuto (quello sulla protezione di uno stato membro) in risposta ad una scaramuccia di frontiera di nessun conto e che potrebbe in verità esser stata provocata da alcuni combattenti del Libero Esercito Siriano intenti a cercare rifugio in un campo profughi situato in territorio turco, in seguito ad uno scontro armato messo in piedi da loro stessi.
Sul piano diplomatico le considerazioni di Erdoğan sulla Siria hanno avuto anche altre ripercussioni.
L'Iran, che considera da sempre la Turchia come un proprio sostenitore nella tenace lotta con l'Occidente sulla questione del programma nucleare, ha chiesto che si cambi sede per i colloqui del cosiddetto "Iran six" (detto anche P cinque più uno, gli Stati Uniti, la Cina, il Regno Unito, la Francia, la Russia ed infine la Germania) originariamente fissati ad Istanbul, in risposta all'irremovibile atteggiamento filooccidentale che la Turchia ha assunto sulla Siria, ed in risposta alla decisione di Erdoğan di fornire completo sostegno alla difesa missilistica della NATO.
Erdoğan ha perentoriamente fatto terra bruciata attorno a Tehran, rispondendo che "A causa della sua mancanza di onestà, l'Iran non fa che perdere continuamente prestigio a livello internazionale". [4]
La prima tornata di colloqui si è effettivamente tenuta ad Istanbul, ma la prossima si svolgerà a Baghdad.
Erdoğan è riuscito a guastare i rapporti della Turchia con la Siria, con la russia e con l'Iran. Non è una cosa di poco conto, se si pensa che la maggior parte del bisogno energetico turco viene soddisfatto dalla Russia e dall'Iran.
Se la Turchia intende prendere altre posizioni sull'agenda della libertà occidentale, può contare anche sulla freddezza dei cinesi.
E non è una buona notizia per Erdoğan, perché la sua forza politica si basa sulla crescita economica, non sui problemi diplomatici.
La cosa più importante, nel viaggio compiuto da Erdoğan nell'aprile del 2012, erano gli affari: rafforzare i legami economici tra la Repubblica Popolare Cinese e la Turchia. I commerci sono in un momento di forte incremento, ma è la Cina a trarne i maggiori utili. Per questo Erdoğan si era fatto seguire da trecento uomini d'affari, ha chiesto ai cinesi di aumentare i loro investimenti in Turchia e si è lasciato andare a molte disquisizioni sulla "Nuova via della seta", una ferrovia che attraversa ventotto paesi e che unisce la Cina alla Turchia.
Allo stesso tempo, Erdoğan era ansioso di dimostare la levatura della Turchia (e la sua accresciuta importanza a livello mondiale) visitando lo Xinjang, patria di dieci milioni di uigguri che hanno legami culturali e linguistici con le popolazioni turche dell'Asia.
Gli imperativi della politica turca, e la posizione geopolitica che la Turchia considera propria, hanno trasformato la questione degli uiguri e dell'incessante repressione politica e culturale di cui essi soffrono ad opera del governo cinese in un altra questione critica per Erdoğan.
Nel 2009, ai tempi degli scontri tra cinesi han e uiguri nello Xinjang, Erdoğan fece infuriare Pechino definendo "una specie di genocidio" [5] l'azione repressiva del governo cinese.
Affermò anche la propria intenzione di concedere un visto a Rebiya Kaderr, il capo del Congresso Mondiale degli Uiguri e perenne spina nel fianco del governo di Pechino. (Pare che Kadeer non abbia poi fatto richiesta di questo visto, probabilmente con considerevole sollievo per il governo turco).
Nel corso della sua visita in cina, la prima effettuata da un primo ministro turco da ventisette anni a questa parte, Erdoğan ha dovuto comportarsi in modo da non peggiorare le cose. La sua visita a Urumqi è stata, dal punto di vista politico, un buon colpo -in effetti si è trattato della prima località cinese in cui ha fatto sosta prima di dirigersi verso Pechino- ma Erdoğan non ha esasperato l'animo dei suoi ospiti atteggiandosi a protettore degli uiguri dello Xinjang.
Come acidamente notato dal redattore di estera del quotidiano turco Hurriyet Emre Kizilkaya, Erdgoan aveva promesso ai cinesi che non si sarebbe "recato [nello Xinjang] per esacerbare il problema".
L'atto più rimarchevole compiuto da Erdoğan ad Urumqi, a quanto risulta, è stato il lasciarsi fotografare mentre, abbigliato in uno sgargiante costume uiguro, brandiva un agnello arrosto sotto lo sguardo premuroso di alcuni funzionari locali.
Kizilkaya pensa che Erdoğan abbia usato la visita ufficiale in Cina per affrontare la questione della Siria anziché per soccorrere i confratelli Uiguri:
Certo: la Cina è una potenza mondiale, ma perché sei andato fino nello Xinjang se poi non avevi intenzione di far parola sull'inumana repressione di cui gli Uiguri sono stati vittime? [6]
Non importa quanto forte il nazionalismo -l'eredità che Kemal Ataturk ha lasciato al suo paese tramite un'intensiva campagna di indottrinamento attuata nelle scuole e dai mass media- influisca sull'atteggiamento turco, e costituisca un limite agli sforzi che la Turchia compie per avere un proprio ruolo sulla ribalta mondiale.
Kizilkaya fa tuoni e fulmini sull'oppressione sofferta da una popolazione turca che vive in Cina, a migliaia di chilometri di distanza nello stesso momento in cui il suo paese deve affrontare un problema curdo, in patria, di cui non si intravede soluzione e che è esacerbato dal fatto che i curdi, che non sono turchi, sono considerati dalla pratica politica essenzialmente come un corpo estraneo.
A questa considerazione va aggiunto anche il fatto che nel 2009 Erdoğan non si fece nessun problema ad utilizzare lo scottante vocabolo "genocidio" per definire l'operazione di ripristino dell'ordine pubblico portata a termine dai cinesi nello Xinjang, neppure mentre il suo governo è impegnato in una serrata battaglia a colpi di pubbliche relazioni per negare che lo stesso vocabolo possa essere riferito alla nazione turca per quello che riguarda la morte di oltre un milione di armeni di religione cristiana ai tempi delle esecuzioni, dei massacri e delle marce della morte nel 1915.
Tutto questo, sopra ogni altra cosa, contribuisce al ritratto di un paese il cui ruolo sul piano internazionale, almeno in tutto quanto attiene i contesti non turchi, soffre della limitazione che deriva da un profondo ed istituzionalizzato sciovinismo etnico.
Gli alleati naturali della Turchia si trovano negli stan di lingua turca dell'Asia centrale: in Medio Oriente, la Turchia è sola. E quando la Turchia alza la voce, molti degli altri paesi della regione reagiscono con un misto di biasimo e di sufficienza.
La Turchia è giunta ad avere cattivi rapporti con tutti i propri vicini, ad eccezioe della Georgia e della Bulgaria; Grecia, Siria, Iran ed Armenia hanno antichi o recenti motivi di risentimento nei confronti di Ankara. Alla lista possiamo aggiungere anche l'Iraq a guida sciita, perché la Turchia ha di recente deciso di offire asilo al vicepresidente sunnita dell'Iraq Tariq al Hashemi.
L'odio dei curdi per la perenne opera repressiva su vasta scala portata avanti dal governo turco contro i separatisti, gli attivisti ed i giornalisti curdi, pressoché ignorata dalla stampa occidentale, spiega bene per quale motivo i curdi che vivono in territorio siriano si sono guardati bene dall'unirsi alla rivolta contro Assad.
Anche se Erdoğan ha compiuto un viaggio fuori programma in Arabia Saudita direttamente rientrando da Pechino, probabilmente per confermare al Consiglio di Cooperazione l'intenzione di mettere Assad con le spalle al muro, difficilmente troverà amicizie sincere nelle autocrazie del Golfo.
Gli sclerotici paesi arabi esportatori di greggio e gli stati del golfo a base teocratica e conservatrice difficilmente accoglieranno bene l'intenzione della Turchia di rivestire un ruolo egemone nella regione sulla base della democrazia, del libero mercato, di un equilibro tra il potere religioso e quello laico, e sulla fede riposta nella validità delle insurrezioni della Primavera Araba contro autocrati inamovibili.
Il nazionalismo turco in Europa deve invece fare i conti con un razzismo ed un'ostilità palesi e mal celati. Uno dei molti motivi per cui il percorso della candidatura della Turchia all'ingresso nell'Unione Europea si trova oggi ad un punto morto è l'idea che la Turchia sia troppo "non europea" per integrarsi nell'Unione [7] si è sparsa come una gramigna in tutta Europa, partendo da Papa Benedetto per arrivare fino ai partiti sciovinisti di estrema destra.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la Turchia si è rivelata un pilastro fondamentale.
Essa rappresenta il tanto agognato "stato islamico moderato" (soprattutto adesso che l'Egitto sta pencolando tra istanze populiste ed istanze radicali) in grado di fare da interlocutore regionale con israele, e l'appoggio compiacente in grado di erodere il monopolio russo nella fornitura di gas naturale all'Europa acconsentendo alla costruzione del gasdotto Nabucco o di una sua qualsiasi variante attraverso il proprio territorio.
E' difficile tuttavia dimenticare le parole piene di sufficienza pronunciate da un appartenente all'amministrazione americana rimasto anonimo nel 2003, quando Erdoğan cercò senza successo di negoziare venticinque miliardi di dollari in cambio del permesso per quarantamila soldati americani di schierarsi in Iraq passando dal territorio turco:
Sembra che i turchi pensino che terremo il bazar aperto tutta la notte. [8]
Sembra proprio che gli Stati Uniti stiano traendo diletto dal trattare con scherno la Turchia a causa della brutta piega presa dalla questione Assad, perché l'eco e la rabbia dell'indignazione turca aiutano ad oscurare la realtà; e la realtà è rappresentata dalla inanità della politica occidentale sul conto della Siria.
Erdoğan, da parte sua, sembra sia rimasto intrappolato in un confronto a viso aperto con la Siria senza avere un autentico sostegno geopolitico, e sembra non avere idea di come togliere il suo paese da questa situazione senza rimetterci la faccia, o senza dare il via ad una guerra che ridurrebbe in briciole tutta la regione.
Invece di adoperarsi per allentare la tensione, Ankara la sta esacerbando; invece di agire come sperimentato mediatore nei contrasti regionali, la Turchia sta diventando il cane da guardia degli interessi occidentali.
Il The Economist, che riesce a cogliere le ambizioni imperiali riposte nella politica di Erdoğan, ha scritto:
"Quello che ha reso la Turchia un attore efficace è sempre stata la sua abilità nel parlare a tutti i contendenti", dice Nikolaos Van Dam, ex ambasciatore olandese in Turchia. Ma adesso, essa "ha deciso da quale parte schierarsi". [9]
Commentando in modo stringato e malinconico la situazione politica mediorientale si può dire che negli ultimi dodici mesi la Turchia ha abbandonato il proprio ruolo di pilastro diplomatico della regione, la sua condizione di "mediatore imparziale", e che tra tutti gli altri paesi è stata la Cina, in virtù dei suoi stretti legami economici sia con l'Arabia Saudita che con l'Iran, ad adoperarsi per cercare di prenderne il posto.
1.
Erdogan
meets Jiabao on milestone China trip,
Hurriyet, Apr 10, 2012.
2.
Change
of heart in Moscow and Beijing will unlock Syrian
crisis, Today's Zaman, Apr 15, 2012.
3.
Foreign
Ministry Spokesperson Liu Weimin's Remarks, Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese, Apr 12, 2012.
4.
Turkey's
Role in Iran Nuclear Talks Could Diminish,
VOA, Apr 16, 2012.
5.
Turkey
attacks China 'genocide', BBC, Jul 10, 2009.
6.
Erdogan's
China Trip Raise New Questions About Turkey's
Foreign Policy, The Istanbulian, Apr 9,
2012.
7.
Pope
Benedict and the Buddhism/Masturbation
Controversy, China Matters, Sep 20,
2006.
8.
Statement
of Gene Rossides, American Hellenic Institute
general counsel, AHI, Apr 23, 2003.
9.
Growing
less mild, The Economist, Apr 14, 2012.
Peter Lee tratta di questioni mediorientali e sud asiatiche e dei loro rapporti con la politica estera statunitense.