venerdì 28 settembre 2012

Hamid Algar - Breve biografia dell'Imam Khomeini


L'autore - Hamid Algar è nato in Inghilterra e si è laureato in studi orientali a Cambridge.
Dal 1965 lavora presso il dipartimento di studi mediorientali dell’Università della California a Berkeley, dove insegna storia e filosofia islamica e persiana. Il dottor Algar ha scritto molto sull’Iran e sull’Islam, tra cui i volumi Religion and State in Iran, 1785-1906 e Mirza Malkum Khan: A Biographical Study in Iranian Modernism. Ha seguito per molti anni il movimento islamico in Iran. In un articolo pubblicato nel 1972 ha fatto un esame della situazione ed ha predetto la Rivoluzione “con maggiore accuratezza di tutti i funzionari politici del governo statunitense e di tutti gli analisti di questioni internazionali”, secondo le parole di Nicholas Wade pubblicate dallo Science Magazine.
Il dottor Algar ha tradotto molti volumi dall’arabo, dal turco e dal persiano; tra di essi Islam and Revolution: Writings and Declarations of Imam Khomeini.


1 - Introduzione

Il fatto che a dieci anni dalla sua morte e a venti dal trionfo della rivoluzione da lui guidata non fosse ancora stata scritta una biografia esaustiva dell'imam Ruhullah Musavi Khomeini, né in persiano né in altre lingue, appare strano per più motivi. In fondo, si tratta della figura di maggiore spicco della storia islamica recente perché la sua influenza, già notevole anche se ci limitiamo a considerare la realtà iraniana, si è estesa su gran parte del mondo islamico ed ha contribuito a cambiare la visione del mondo e la consapevolezza di sé di molti musulmani. Può esser stata proprio la rilevanza degli obiettivi raggiunti dall'imam, unita alla complessità della sua personalità spirituale, intellettuale e politica, ad aver fino ad ora dissuaso ogni potenziale biografo. Eppure i materiali disponibili per un simile compito sono tanto vari quanto furono differenziati gli àmbiti della sua azione; lo scrivente spera di poter affrontare questa sfida in un prossimo futuro (data la sua natura di saggio preliminare, questo scritto non abbonda di annotazioni a margine. Una lista completa degli scritti dell'imam, base da cui partire per una sua biografia si trova in fondo all'articolo insieme ad una rassegna di fonti secondarie). Quello che segue non è altro che una bozza preliminare, che intende fornire al lettore un ragguaglio a grandi linee circa la vita dell'imam ed i tratti salienti della sua persona intesa come quella di un leader islamico di eccezionale grandezza.


2- Infanzia e primi studi

Ruhullah Musavi Khomeini nacque il 20 Jamadi al-Akhir 1320 (24 settembre 1902), anniversario della nascita di Fatima [figlia dell'Inviato e moglie dell'imam Ali, n.d.t.] nel villaggio di Khumayn, circa centosessanta chilometri a sud-ovest di Qom. La sua famiglia aveva una lunga tradizione nel campo degli studi religiosi. I suoi antenati, discendenti dell'imam Musa al-Kazim, il settimo imam degli Ahl al Bayt ["gente della casa", la famiglia dell'Inviato. n.d.t.] erano emigrati alla fine del diciottesimo secolo dalla loro terra di origine, Nishapur, fino alla regione di Lucknow nell'India settentrionale. Qui si erano stabiliti nel villaggio di Kintur ed avevano cominciato a dedicarsi all'istruzione religiosa e alla guida spirituale della popolazione, che nella zona era prevalentemente sciita. Il più illustre rappresentante della famiglia era Mir Hamid Husayn (morto nel 1880), autore dello Aqabat al-Anwar fi Imamat al-A'immat al-Athar, un ponderoso volume sugli argomenti tradizionalmente oggetto di disputa tra credenti sunniti e sciiti (cfr. Muhammad Riza Hakimi, Mir Hamid Husayn, Qom 1362-1983).
Il nonno dell'imam Khomeini, Sayyd Ahmad, contemporaneo di Mir Hamid Husayn, partì da Lucknow in un anno indefinito attorno alla metà del XIX secolo per andare in pellegrinaggio alla tomba di Ali a Najaf (Secondo il fratello maggiore dell'imam, Sayyid Murtaza Pasandida, partì dal Kashmir e non da Lucknow; cfr. Ali Davani, Nahzat-I Ruhaniyun-I Iran, Teheran, n.d. VI, p. 760). A Najaf Sayyid Ahmad incontrò un certo Yusuf Khan, uno tra i cittadini più in vista di Khumayn. Fu su invito di costui che Sayyid Ahmad decise di stabilirsi a Khumayn per occuparsi delle esigenze religiose degli abitanti; si sposò con una figlia di Yusuf Khan. Questa decisione gli fece perdere i rapporti con l'India, ma Sayyid Ahmad continuò ad essere detto Hindi, "l'indiano", dai suoi coevi, e l'appellativo si trasmise ai suoi discendenti. Anche l'imam Khomeini usò "Hindi" come pseudonimo in alcuni dei suoi ghazal [componimento poetico di derivazione indiana, n.d.t.] (cfr. Divan-I Imam, Teheran, 1372/1993, p. 50). Poco prima che scoppiasse la rivoluzione islamica, nel febbraio del 1978, il regime dello Scià tentò di adoperare gli elementi indiani rintracciabili nella storia familiare dell'imam per farlo passare da straniero e da elemento traditore inserito nel tessuto sano della società iraniana. Un tentativo che si ritorse contro gli stessi che lo avevano messo in atto.
Al momento della sua morte, di cui non conosciamo con esattezza la data, Sayyid Ahmad era padre di due bambini: una femmina di nome Sahiba, e Sayyid Mustafa Hindi, nato nel 1885 e futuro padre dell'imam Khomeini.
Sayyid Mustafa iniziò il proprio percorso formativo religioso a Isfahan, con Mir Muhammad Taqi Mudarrisi, e lo proseguì a Najaf e a Samarra sotto la guida di Mirza Hassan Shirazi (morto nel 1894), a quel tempo il massimo esperto nella giurisprudenza sciita. Il curriculum di Sayyid Mustafa -studi primari in Iran e secondari nello 'atabat (le città sante di Kerbala e Najaf)- è a lungo rimasto quello tipico: in effetti, l'imam Khomeini è stato il primo leader religioso di una qualche importanza che abbia compiuto per intero in Iran il proprio percorso formativo.
Nel Dhu 'l-Hijja 1320 (marzo 1903), cinque mesi dopo la nascita dell'imam, Sayyid Mustafa fu aggredito ed ucciso mentre percorreva la strada tra Khumayn e la vicina città di Arak. L'identità dell'assassino fu immediatamente nota: si trattava di Jafar-quli Khan, cugino di un certo Bahram Khan, uno dei più ricchi possidenti della zona. Il movente rimase invece piuttosto oscuro. Secondo una versione, divenuta quella ufficiale dopo la vittoria della Rivoluzione Islamica, Sayyid Mustafa si era guadagnato l'inimicizia dei proprietari terrieri della regione per aver preso le difese dei braccianti poveri.
Lo stesso Sayyid Mustafa, oltre ad assolvere ai compiti di sua spettanza in campo religioso, era anche un contadino relativamente benestante, ed è anche probabile che sia finito vittima di una delle dispute sui diritti di irrigazione molto frequenti all'epoca. Secondo una terza spiegazione, Sayyid Mustafa, in qualità di giudice di Khumayn secondo la shar'ia, aveva punito qualcuno per aver violato il Ramadan in pubblico e la famiglia dell'imputato si sarebbe vendicata uccidendolo (intervista dello scrivente a Hajj Sayyid Ahmad Khomeini, figlio dell'imam, Teheran, 12 settembre 1982). Sahiba, sorella di Sayyid Mustafa, cercò senza risultato di ottenere giustizia a Khumayn, e questo spinse la sua vedova, Hajar, a recarsi a Teheran per presentare appello, portando secondo quanto si dice il piccolo Ruhullah tra le sue braccia. La accompagnarono due fratelli più vecchi, Murtaza e Nur al-Din, e finalmente, nel Rabi' al-Awwal 1323 (maggio 1905) Ja'far-quli Khan fu giustiziato in pubblico a Teheran per ordine di Ayn al-Dawla, all'epoca primo ministro.
Nel 1918 l'imam perse sia sua zia Sahiba, che aveva avuto un ruolo fondamentale nei suoi primi anni, che sua madre Hajar. Fu il fratello maggiore, Sayyid Murtaza, più tardi noto come ayatollah Pasandida, a prendere la famiglia sulle sue spalle. Le terre ereditate dal padre sembra abbiano sollevato i fratelli dalle necessità materiali, nonostante le angherie e i soprusi che erano costati a lui la vita continuassero come prima. Oltre che dalle continue rese dei conti tra proprietari terrieri, il paese di Khumayn era funestato dalle tribù bakhtire e lur, che ne facevano oggetto di razzia ogni volta che capitava l'occasione. Una volta che un capo tribù bakhtiro di nome Rajab Ali giunse in paese per una razzia, il giovane imam fu costretto ad imbracciare il fucile insieme coi suoi fratelli e a difendere la casa di famiglia. Ricordando questi fatti molti anni più tardi, Khomeini affermò "Ho fatto la guerra fin da quando ero bambino" (Imam Khomeini, Sahifa-yi Nur, Teheran, 1361/1982, X, p. 63). Tra tutti gli episodi cui assistette durante la giovinezza e che gli rimasero impressi fino ad esercitare una profonda influenza sulla sua attività politica successiva, vanno ricordate i continui soprusi dei proprietari terrieri e dei governatori provinciali. L'imam ricorderà poi di come un governatore appena arrivato aveva fatto arrestare e flagellare il capo della corporazione dei mercanti di Gulpayagan, per incutere soggezione agli altri cittadini (Sahifa-yi Nur, XVI, p. 121).
L'imam Khomeini iniziò a studiare mandando a memoria il Corano, in una scuola che funzionava vicino a casa sua e che era retta da un certo mullah Abu 'l-Qasim; a sette anni diventò hafiz [completò lo studio del Corano, n.d.t.]. Cominciò dunque lo studio dell'Arabo con Shaykh Ja'far, uno dei cugini di sua madre, e prese lezioni di altre materie prima da Mirza Mahmud Iftikhar al-'Ulama' e poi da un suo zio materno, Haji Mirza Muhammad Mahdi. Un suo cognato, Mirza Riza Najafi, fu il suo primo insegnante di logica. In ultimo, tra quanti a Khumayn gli diedero lezione, va menzionato il fratello maggiore Murtaza, che gli illustrò l'al-Mutawwal di Najm al-Din Katib Qazvini su badi' [figure retoriche, n.d.t.] e ma'ani [significato dei vocaboli, n.d.t.] ed uno dei trattati di al-Suyuti sulla grammatica e la sintassi (anche se Sayyid Murtaza, che prese il cognome Pasandida dopo che l'assunzione di un cognome divenne obbligatoria per legge, nel 1928, aveva studiato per un certo periodo ad Isfahan, non completò mai i livelli più elevati richiesti per una formazione religiosa; dopo aver lavorato per qualche tempo nell'ufficio dell'anagrafe di Khumayn si trasferì a Qom e vi rimase per il resto della vita).
Nel 1339/1920-21, Sayyid Murtaza mandò l'Imam ad Arak, all'epoca nota come Sultanabad, perché potesse giovarsi delle migliori possibilità formative ivi offerte. Arak era diventata un centro importante per la cultura religiosa grazie alla presenza dell'ayatollah Abd al-Karim Ha'iri (morto nel 1936), uno dei più eminenti studiosi dell'epoca. Era giunto ad Araj nel 1332/1914, su invito della cittadinanza, e circa trecento studenti -un numero relativamente ampio- seguivano i suoi corsi nella madrasa di Mirza Yusuf Khan. E' probabile che la formazione dell'Imam Khomeini non fosse ancora tale da permettergli di seguire direttamente i corsi di Ha'iri; Khomeini si perfezionò quindi in logica con Shaykh Muhammad Gulpayagani, lesse lo Sharh al-Lum'a di Shaykh Zayn al-Din al-'Amili (morto nel 996/1558), un testo fondamentale per la giurisprudenza Ja'fari, sotto la guida di Aqa-yi 'Abbas Araki, e proseguì lo studio di al-Mutawwal con Shaykh Muhammad 'Ali Burujirdi. Un anno dopo l'arrivo dell'Imam ad Arak, Ha'iri accettò l'invito che gli arrivava dagli ulema di Qom e si recò laggiù a presiederne l'attività. Qom, uno dei primi centri di irradiazione della cultura sciita in Iran, è da sempre per tradizione un centro di istruzione religiosa, nonché una meta di pellegrinaggio grazie al sacrario di Hazrat-I Ma'suma, una figlia di imam Musa al-Kazim; la sua fama era stata però oscurata per molti decenni dalle città sante dell'Iraq, centri culturali dotati di risorse assai superiori.
L'arrivo di Ha'iri a Qom fece rivivere le madrase e dette il via al processo che ha portato la città a divenire la capitale spirituale dell'Iran, processo completato dalla lotta politica lanciata quarant'anni dopo dall'Imam Khomeini proprio a partire da qui. L'Imam seguì Ha'iri a Qom dopo quattro mesi circa. Questo trasferimento fu il primo punto di svolta della sua vita. A Qom ricevette infatti la sua formazione intellettuale e spirituale più alta, e per tutto il resto della vita conservò un forte senso di appartenenza nei confronti della città. E' possibile, senza che la cosa appaia eccessivamente riduttiva, definire Khomeini come un prodotto di Qom.
Nel 1980, accostando un gruppo di visitatori proveniente da Qom, disse: "In qualunque luogo mi possa capitare di trovarmi, trovarmi, io resto cittadino di Qom, e ne sono orgoglioso. Il mio cuore è sempre con Qom e con la sua gente". (Sahifa-yi Nur, XII, p. 51).


3 - Qom: gli anni della formazione culturale e spirituale (1923-1962)

L'imam arrivò a Qom tra il 1922 ed il 1923 e si dedicò in primo luogo a  completare il livello formativo noto come sutuh; ci riuscì studiando con insegnanti come Shaykh Muhammad Riza Najafi Masjid-i Shahi, Mirza Muhammad Taqi Khwansari e Sayyid 'Ali Yasribi Kashani. Fin dai primi tempi della sua permanenza a Qom, Khomeini dette da pensare che sarebbe divenuto ben più che un'importante autorità nel campo della giurisprudenza Ja'fari. Si interessava moltissimo di materie che non soltanto erano solitamente assenti dal curriculum degli studenti di madrasa, ma che venivano in quegli ambienti considerate con sospetto: la filosofia, nelle sue diverse scuole tradizionali, e lo gnosticismo ('irfan). Iniziò a coltivare questo interesse studiando il Tafsir-i-Safi, un commento al Corano di Mulla Muhsin Fayz-i Kashani (morto nel 1091/1680), autore noto per il suo orientamento sufico, insieme con gli scritti dell'ayatollah Ali Araki (morto nel 1994), che all'epoca era uno studente giovanissimo proprio come lui. Il suo rapporto con lo gnosticismo e con le disciplina dell'etica, che ad esso fa capo, iniziò con i corsi tenuti da Haji Mirza Javad Maliki-Tabrizi, che però morì nel 1304/1925. Anche per quanto riguarda la filosofia, l'Imam fu presto privato del suo primo maestro, Mirza 'Ali Akbar Hakim Yazdi, che era stato allievo del grande Mulla Hadi Sabzavari (morto nel 1295/1878), perché venne a mancare nel 1305/1926. Un altro dei primi docenti di filosofia che l'Imam ebbe fu Sayyid Abu 'l-Hasan Qazvini (morto nel 1355/1976), che insegnava filosofia peripatetica ed illuministica; l'Imam fu suo discepolo fino al 1310/1931, anno in cui Qazvini lasciò Qom.
L'insegnante che più di ogni altro influenzò il cammino spirituale dell'Imam Khomeini fu comunque Mirza Muhammad 'Ali Shahabadi (morto nel 1328/1950). Khomeini fa riferimento a lui in molti dei suoi scritti, chiamandolo “mio sceicco” e “arif-l kamil” [uno wali, un iniziato secondo la tradizione sufi, in grado a sua volta di trasmettere conoscenza. N.d.t..] ed ebbe con lui una relazione paragonabile a quella che lega un murid [discepolo, n.d.t.] al suo murshid [individuo consacrato. “Riflette la divina luce di Dio come la luna riflette quella del sole”, n.d.t.]. La prima volta che Shahabadi giunse a Qom, nel 1307/1928, il giovane imam gli rivolse una domanda sulla natura della rivelazione, e rimase affascinato dalla risposta che ne ricevette.
A seguito di sue insistenti richieste, Shahabadi acconsentì ad insegnare a lui e ad un ristretto gruppo di altri studenti il fusus al-hikam (“le radici della saggezza”, n.d.t.) di Ibn Arabi. Anche se l’insegnamento verteva essenzialmente sul commento di Da’ud Qaysari al fusus al-hikam, Khomeini riferì che Shahabadi presentò anche sue interpretazioni originali in proposito.
Tra le altre opere che Khomeini studiò con Shahabadi c’erano anche il Manazil al-Sa’irin del sufi Hanbali, Khwaja Abdullah Ansari (una enunciazione delle “stazioni spirituali” del percorso iniziatico sufi, n.d.t.) (morto nel 482-1089) ed il Misbah al-Uns di Muhammad bin Hamza Fanari (m. 834/1431), un commento al Mafatih al-Ghayb (“Chiavi dell’invisibile”) di Sadr al Din Qunavi (m. 673/1274). Khomeini secondo ogni evidenza derivò almeno in parte da Shahabadi, in modo più o meno consapevole, una visione del mondo determinante per la sua vita, in cui gnostica e istanze politiche si fondevano. Il maestro spirituale dell’Imam fu proprio a causa di essa uno dei pochi ulema dell’epoca dello Shah Reza a predicare in pubblico contro le malefatte del regime, e nel suo Shadharat al-Ma’arif, un’opera di carattere essenzialmente gnostico, parlò dell’Islam definendolo “una religione senza alcun dubbio politica” (Shadharat al-Ma’arif, Teheran, 1360/1982, pp. 6-7).
Gnosi ed etica furono anche le materie trattate nei primi corsi tenuti dall’Imam; Shahabadi aveva ripreso i corsi di etica tenuti da Haji Javad Aqa Maliki Tabrizi a tre anni dalla morte di quest’ultimo, e quando partì per Teheran nel 1936 lasciò la cattedra a Khomeini. Il corso consisteva innanzitutto in un’attenta lettura del Manazil al-Sa’irin (commentario alla metodologia spirituale dell ‘irfan, ossia della scienza della gnosi) di Ansari, e spaziava poi oltre il testo, in un gran numero di problematiche importanti per l’epoca contemporanea. La popolarità del corso divenne tale che, insieme agli studenti di discipline religiose, giungevano ad assistervi anche i comuni cittadini di Qom, e pare che arrivassero persone fino da Teheran e da Esfahan semplicemente per ascoltare le lezioni di Khomeini. Tanto successo mal si accordava con le politiche ufficiali del regime dei Pahlavi, che avrebbe voluto limitare l’influenza degli ulema in campi che non fossero quelli propri dell’insegnamento religioso. Il governo impose per questo che le lezioni non si tenessero più nella prestigiosa madrasa di Fayziya, ma in quella di Mulla Sadiq, in cui non era possibile si sistemasse un pubblico troppo vasto.
Dopo la deposizione di Reza Shah, nel 1941, le lezioni tornarono a svolgersi nella madrasa di Fayziya e riguadagnarono all’istante l’antica popolarità. La capacità di rivolgersi a platee ampie, e non soltanto ai suoi colleghi all’interno dell’istituzione religiosa, che Khomeini dimostrò per la prima volta in queste lezioni di etica avrebbe avuto un ruolo non secondario nelle lotte politiche che egli si trovò a guidare negli anni successivi.
Mentre insegnava etica ad un uditorio numeroso e differenziato, l’Imam Khomeini cominciò anche ad illustrare importanti testi sulla gnosi, come il capitolo sull’anima dell’al-Asfar al-Arba’a (“I quattro percorsi”) di Mulla Sadra (m. 1050/1640) e lo Sharh-I Manzuma (commentario al poema didascalico “i bagliori delle gemme” dello stesso autore) di Sabzavari ad un piccolo gruppo di discepoli, tra i quali c’erano Murtaza Mutahhari e Husayn ‘Ali Muntaziri, che sarebbero divenuti due dei suoi principali collaboratori nel movimento rivoluzionario che l’Imam avrebbe capeggiato trent’anni dopo.
I primi scritti dell’Imam mostrano anche come la gnosi costituisse il suo principale interesse nei primi anni trascorsi a Qom. Nel 1928, per esempio, scrisse lo Sharh Du’a’ al-Sahar, una raccolta di dettagliati commenti alle preghiere di supplica recitate durante il Ramadan dall’imam Muhammad al-Baqir; in tutta l’opera, così come in tutti gli altri lavori sulla gnosi scritti da Khomeini, il ricorso alla terminologia usata da Ibn ‘Arabi è frequente. Due anni dopo portò a compimento il Misbah al-Hidaya ila ‘l-Khilafa wa ‘l-Wilaya, un sistematico e denso trattato sui principali temi della gnosi. Negli stessi anni il suo interesse per la materia lo portò a scrivere una serie di glosse sul commento di Qaysari al Fusus.
In una breve autobiografia scritta per un volume pubblicato nel 1934, l’Imam affermava che aveva trascorso la maggior parte della sua vita studiando ed insegnando le opere di Mulla Sadra, che aveva studiato per vari anni la gnosi con Shahabadi, e che stava a quel tempo seguendo i corsi di fiqh (giurisprudenza islamica) tenuti dall’ayatollah Ha’iri (Sayyid ‘Ali Riza Yazdi Husayni, Aina-yi Danishvaran, Teheran, 1353/1934, pp. 65-67). L’ordine in cui sono disposti gli enunciati fa pensare che all’epoca lo studio della giurisprudenza non fosse ancora tra i suoi principali interessi. La situazione sarebbe presto cambiata, ma la gnosi rimase per l’Imam qualcosa di più che non una materia di studio, di insegnamento e di produzione letteraria. La gnosi costituì sempre parte integrante della sua personalità intellettuale e spirituale, e come tale segnò molte delle attività specificamente politiche che l’Imam avrebbe svolto negli anni successivi conferendo ad esse una inconfondibile impronta gnostica.
Durante gli anni Trenta l’Imam non si impegnò in alcuna attività politica vera e propria; fu sempre dell’opinione che il ruolo di guide nell’attività politica fosse di competenza dei più eminenti studiosi nel campo delle discipline religiose, ma si trovò comunque obbligato ad accettare la decisione di Ha’iri di conservare un atteggiamento di relativa passività nei confronti dei provvedimenti presi dallo Shah Reza contro le tradizioni e la cultura islamica in Iran. In qualunque evenienza, dal momento che all’interno delle istituzioni religiose di Qom egli era ancora una figura minore, Khomeini non si sarebbe trovato certamente in condizione di mobilitare la pubblica opinione su scala nazionale. Mantenne comunque i contatti con qui pochi ulema che osarono sfidare apertamente lo Shah: Shahabadi in primo luogo, ed inoltre uomini come Haji Nurullah Isfahani, Mirza Sadiq Aqa Tabrizi, Aqazada Kifai e Sayyd Hasan Mudarris. Anche se soltanto in forma allusiva, Khomeini espresse il proprio parere sul regime dei Pahlavi, le cui caratteristiche essenziali erano secondo lui l’oppressione e l’ostilità nei confronti della religione, in poemetti che faceva circolare tra i conoscenti (Sayyd Hamid Rubani, Barrasi va Tahili az Nahzat-I Imam Khumayni, I, Najaf, n.d., pp. 55-59).
L’Imam assunse per la prima volta un vero e proprio ruolo politico pubblico con un proclama datato 15 urdibihisht 1323 (4 maggio 1944), nel quale esortava ad agire per liberare i musulmani dell’Iran e di tutto il mondo islamico dalla tirannia delle potenze straniere e dei loro collaborazionisti. Il proclama si apriva  con una citazione dal Corano, 34:46 (“Di’: ‘Ad una sola cosa vi esorto: alzatevi per Allah, a coppie e da soli, e poi riflettete’”); lo stesso verso apre il capitolo sul risveglio (bab al-yaqza) all’inizio del Manazil al-Sa’irin di Ansari, il manuale per il miglioramento spirituale che fu il primo insegnamento che l’Imam ricevette da Shahabadi. L’interpretazione che Khomeini dà di “alzarsi” ha connotazioni sia spirituali che politiche, sia individuali che collettive, e ne fa un atto di rivolta contro il lassismo dei singoli e la corruzione nella società.
Lo stesso spirito permea il primo scritto dell’Imam destinato esplicitamente alla pubblicazione, il Kashf al-Asrar (“I segreti rivelati”, Teheran, 1324/1945). Khomeini afferma di aver completato il libro in quarantotto giorni, guidato da una sorta di frenesia, e il fatto che il volume venisse incontro a una qualche necessità oggettivamente presente è testimoniato dal fatto che nel giro di un anno ne furono esaurite due ristampe. Il principale intento del libro, desumibile anche dal titolo, era quello di confutare quanto Ali Akbar Hakamizada affermava nel suo Asrar-i Hazarsala, un’opera in cui si invocava una “riforma” dell’Islam sciita. Attacchi alla tradizione sciita venivano condotti, negli stessi anni, da Shari’at Sanglaji (m. 1944), che ammirava lo wahabismo nonostante la scoperta ostilità verso l’Islam sciita che connotava quella setta, e da Ahmad Kasravi (m. 1946), tanto competente come storico quanto mediocre come pensatore. Khomeini difese aspetti della devozione sciita come le cerimonie di penitenza del mese di Muharram, il pellegrinaggio alle tombe degli Imam, la recitazione delle preghiere di supplica composte dagli imam per rispondere alle critiche mosse dai tre personaggi suddetti. Secondo l’Imam questi  attacchi alla tradizione andavano collegati alle politiche antireligiose promosse dallo Shah Reza, ed egli criticò i Pahlevi molto duramente accusandoli in pratica di attentare al comune senso morale. Arrivò ad un soffio dall’invocare l’abolizione della monarchia, proponendo che un’assemblea di mujtahid (“uomini esperti e competenti nella legge”, n.d.t.) avesse il potere di designare “un giusto monarca che non violi le leggi di Dio, che combatta malefatte ed oppressione, e che non agisca contro la proprietà, la vita e l’onore degli uomini” (Kashf a-Asrar, p. 185). Anche questa legittimazione condizionale dell’istituto monarchico avrebbe dovuto perpetuarsi solo “fintanto che non si sarà potuto stabilire un sistema di governo migliore” (Kashf a-Asrar, p. 186). Non può esserci dubbio che il “sistema migliore” prospettato da Khomeini fin dal 1944 fosse quello dei vilayat i fiqh (“guardiani della legge”, “consiglio dei giureconsulti”), istituto fondamentale secondo la costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran fondata nel 1979.
Quando lo sceicco ‘Abd al-Karim Ha’iri morì, nel 1936, la supervisione sulle istituzioni religiose di Qom fu assunta congiuntamente dagli ayatollah Khwansari, Sadr e Hujjat, ma la sensazione che una guida forte mancasse non venne meno. Quando l’ayatollah Abu ‘l-Hasan Isfahani, il più eminente marja-i taqlid (“fonte di imitazione”, uomo di grande esperienza giurisprudenziale) del suo tempo, venne a mancare a Najaf nel 1946, la necessità di una guida unica per tutti i musulmani sciiti cominciò a farsi sentire con impellenza e cominciò la ricerca di un uomo che fosse da solo capace di assolvere ai compiti e alle funzioni che erano state di Ha’iri e di Isfahani. L’ayatollah Burujirdi risiedeva all’epoca a Hamadan e venne considerato il più adatto al ruolo; sembra che l’Imam Khomeini abbia avuto una parte fondamentale nel convincerlo a recarsi a Qom. Khomeini era mosso, almeno in parte, dalla speranza che Burujirdi non avrebbe esitato a mettersi a tu per tu con lo shah Mohammed Reza, il secondo regnante della dinastia Pahlavi. Questa speranza si rivelò in gran parte mal riposta. Nel 1949 Khomeini venne a sapere che Burujirdi era coinvolto in una trattativa col governo riguardo a possibili emendamenti costituzionali a quel tempo in agenda, e gli scrisse una lettera in cui esprimeva la sua preoccupazione in merito alle potenziali conseguenze di essi. Nel 1955 fu lanciata una campagna nazionale contro la setta dei Baha’i, e Khomeini cercò di coinvolgere Burujirdi senza riuscire a destarne l’entusiasmo. Anche con altre personalità religiose all’epoca attive sulla scena politica, specialmente con l’ayatollah Abu ‘l-Qasim Kashani e con Navvab Safavi, il leader dei Fida’iyan-i Islam (“fedeli dell’Islam”, organizzazione politica integralista attiva dal 1945 al 1956), l’Imam non ebbe che rapporti sporadici da cui non uscì nulla di concreto. La riluttanza che in questo periodo Khomeini mostrò verso un coinvolgimento politico diretto derivava probabilmente dalla convinzione che qualunque movimento che si battesse per un cambiamento radicale dovesse essere guidato dalle gerarchie più alte dello establishment religioso. Per giunta, il personaggio più influente dell’affollatissima e confusa scena politica dell’epoca era un nazionalista laico, il dottor Muhammad Musaddiq.
Khomeini si concentrò per questo, durante gli anni in cui Qom fu dominata da Burujirdi, sull’insegnamento della giurisprudenza e raccolse attorno a sé alcuni studenti che poi sarebbero stati suoi compagni nel movimento che avrebbe portato alla fine del regime dei Pahlavi: non soltanto Mutahhari e Muntaziri, ma anche uomini più giovani come Muhammad Javad Bahonar o ‘Ali Akbar Hashimi Rafsanjani. Nel 1946 iniziò ad insegnare usul al-fiqh (“le radici”, i fondamenti del diritto islamico) ai corsi di giurisprudenza, usando come testo base il capitolo sulle prove razionali nel secondo volume del Kifayat al-Usul (“I fondamenti del diritto”) di Akhund Muhammad Kazim Khurasani (m. 1329/1911). Seguito all’inizio da non più di una trentina di studenti, il suo corso divenne tanto popolare a Qom che quando fu ripetuto per la terza volta c’erano in lista di attesa crica cinquecento nomi. Stando alla testimonianza di quanti lo frequentarono, si differenziava dagli altri corsi analoghi tenuti a Qom per lo spirito critico che l’Imam era capace di infondere ai suoi studenti, e per la competenza con cui Khomeini sapeva tracciare legami tra il diritto e gli altri aspetti dell’Islam, etici, gnostici, filosofici, politici e sociali.


4 – Gli anni della lotta politica e dell’esilio (1962-1978)


Il ritmo dell’attività di Khomeini iniziò a cambiare con la morte di Burujirdi, il 31 marzo 1961, perché l’Imam emerse come uno dei successori alla leadership del defunto. Questo suo affermarsi è testimoniato dalla pubblicazione di alcuni suoi scritti sul diritto, e in particolare dal manuale introduttivo alla pratica religiosa intitolato, come altre opere dello stesso filone, Tauzih al-Masa’il. Molti sciiti iraniani cominiciarono a considerarlo un marja’-i taqlid, anche se il suo costituire una figura di riferimento si sarebbe esteso ben al di là dei consueti ambiti, fino ad assumere una onnicomprensività di carattere assolutamente nuovo per gli ulema sciiti.
La cosa si fece evidente poco dopo la morte di Burujirdi, quando lo shah Reza, sicuro el suo potere dopo il colpo di stato organizzato dalla CIA nell’agosto del 1953, mise in cantiere una vasta gamma di misure destinate a stroncare qualunque opposizione effettiva o anche soltanto potenziale, e ad inserire l’Iran in pianta stabile all’interno dei piani di dominio strategico ed economico degli americani. Nell’autunno del 1962 il governo promulgò una nuova legge elettorale per gli enti locali e provinciali che cancellava per i neoeletti l’obbligo di giuramento sul Corano. Ravvisando in questo un piano per permettere ai Baha’i di infiltrarsi nelle istituzioni, Khomeini spedì telegrammi allo shah e al primo ministro in carica, ammonendoli perché cessassero di violare sia la legge dell’Islam che la costituzione del 1907, ed avvertendoli che in caso contrario gli ulema avrebbero messo in piedi una dura campagna di protesta. Khomeini rifiutò di scendere a compromessi e riuscì ad imporre il ritiro della legge elettorale sette settimane dopo che era stata promulgata. Questo risultato lo fece risaltare sulla scena politica come la principale voce di opposizione al potere dello shah.
L’occasione per un confronto più serio non si fece attendere. Nel gennaio 1963 lo shah annunciò un programma di riforme in sei punti da lui denominato Rivoluzione Bianca, un pacchetto di misure ispirato dagli americani e destinato a dare al regime una facciata progressista e liberale. L’Imam Khomeini convocò a Qom un’assemblea di suoi pari per evidenziare loro quanto fosse pressante la necessità di opporsi ai piani dello shah, ma da principio non suscitò grandi entusiasmi. Inviarono dallo shah come loro rappresentante, per capire come intendesse comportarsi, l’ayatollah Kamalvand. Lo shah non mostrò alcuna intenzione di abbandonare il disegno di legge o di giungere a compromessi, così Khomeini fece ulteriori pressioni sugli altri ulema anziani di Qom: che si adoperassero per boicottare il referendum che lo shah aveva indetto nell’intento di ottenere una parvenza di approvazione popolare per la sua Rivoluzione Bianca. Il 22 gennaio 1963 Khomeini redasse da parte sua un proclama dai termini assai accesi in cui denunciava lo shah ed i suoi piani. Pensando forse di fare come il padre, che nel 1928 aveva marciato su Qom alla testa di una colonna armata per intimidire certi ulema eccessivamente facondi, lo shah piombò a Qom due giorni dopo. Fu boicottato da tutti i maggiorenti della città, e tenne un discorso in cui attaccava aspramente l’intera classe degli ulema.
Il 26 gennaio si tenne il referendum; la bassa affluenza fu una prova della fiducia crescente che il popolo iraniano riponeva nelle direttive dell’Imam Khomeini. L’Imam andò avanti con la sua opera di denuncia dell’operato dello shah redigendo un manifesto, che venne firmato anche da altri otto studiosi, in cui si enumeravano vari casi in cui lo shah non aveva rispettato la costituzione, si denunciava la corruzione morale del paese e si accusava lo Shah di consapevole acquiescenza verso l’America ed Israele. “Per sradicare la menzogna questo tirannico governo deve essere rimosso; ha violato i dettami dell’Islam e calpestato la costituzione. Deve essere sostituito da un governo che sia fedele all’Islam e si preoccupi davvero della nazione iraniana” (Sahifa-yi Nur, I, p. 27). Decise anche di cancellare i festeggiamenti per il Newroz del 1342 (il 21 marzo 1963) in segno di protesta contro la politica del governo.
Il giorno successivo alla madrasa Fayziya di Qom, il luogo in cui l’Imam teneva i suoi discorsi pubblici, arrivarono i paracadutisti. Uccisero diversi studenti, ne picchiarono ed arrestarono molti altri, e perquisirono l’edificio. Khomeini non si fece intimidire e continuò con i suoi attacchi al regime. Il primo di aprile affermò che l’ostinato silenzio di certi ulema apolitici andava considerato praticamente “collaborazionismo con il regime tirannico”, ed il giorno seguente approvò invece il comportamento di chi si dichiarava politicamente neutrale secondo lo spirito della taqiya (il non ostentare, il tacere il proprio credo religioso) (Kauthar, I, p. 67; Sahifa-yi Nur, I, p. 39). Quando lo Shah inviò alcuni suoi emissari a casa degli ulema di Qom, perché li minacciassero della distruzione delle loro abitazioni, Khomeini reagì con veemenza definendo lo Shah “quell’omuncolo”. Il 3 aprile 1963, quattro giorni dopo l’attacco alla madrasa Fayziya, disse che il governo iraniano voleva sradicare l’Islam, su esortazione pressante dell’America e di Israele, e che egli era ormai deciso a combatterlo.
Circa due mesi dopo il contrasto portò ad una insurrezione. Il mese di Muharram, da sempre un periodo di accentuata consapevolezza e sensibilità religiose, fu aperto a Teheran da un corteo che portava ritratti di Khomeini e che gridò slogan contro lo Shah davanti al suo stesso palazzo. Nel pomeriggio del giorno dell’Ashura (3 giugno 1963), nella madrasa Fayziya, Khomeini tenne un discorso in cui tracciava un parallelo tra il califfo omayyade Yazid e lo Shah, ed avvertiva lo Shah che, se non avesse cambiato linea politica, sarebbe arrivato il giorno in cui il popolo avrebbe reso grazie per il suo allontanamento dal territorio nazionale (Sahifa-yi Nur, I, p. 46). Questo mònito sa adesso di notevole preveggenza, perché il 16 gennaio 1979 lo Shah fu costretto ad abbandonare l’Iran in mezzo a manifestazioni di gioia popolare. Per il momento, però, l’unico effetto concreto del discorso di Khomeini fu che due giorni dopo, alle tre del mattino, un gruppo di commandos lo arrestò e lo portò velocemente nel carcere di Qasr a Teheran.
All’alba del 5 giugno la notizia del suo arresto si diffuse prima a Qom e poi nelle altre città. A Qom, Teheran, Shiraz, Mashhad e Varamin moltitudini di dimostranti inferociti furono affrontate coi carri armati e massacrate senza pietà. Il completo ripristino dell’ordine pubblico richiese non meno di sei giorni. La rivolta del 15 Khurdad 1342 (il giorno del suo inizio, nel calendario iraniano) rappresenta un punto di svolta per la storia dell’Iran. Da quel momento in poi la componente repressiva e dittatoriale del regime dello Shah, rafforzata dal risoluto appoggio statunitense, si intensificò con continuità, e di pari passo crebbe il prestigio dell’Imam Khomeini, considerato l’unica personalità di rilievo –sia sul piano secolare che su quello religioso- che fosse in grado di contrapporsi ad esso. L’arroganza, primo ispiratore della politica dello Shah, fece abbandonare a molti ulema l’equidistanza che avevano conservato fino a quel momento e li portò ad allinearsi sugli intenti radicali che Khomeini aveva prospettato. La rivolta del 15 Khurdad può essere considerata il preludio della rivoluzione islamica del 1978-79; quali sarebbero stati i suoi obiettivi, e quale la sua guida, emerse infatti con chiarezza in quell’occasione.
Dopo diciannove giorni nel carcere di Qasr, l’Imam Khomeini fu prima trasferito nella base militare di Ishratabad e poi in una casa nel quartiere di Davudiya a Teheran, dove venne tenuto sotto stretta sorveglianza.
Nonostante i massacri verificatisi durante l’insurrezione, a Teheran ed in altre città si svolsero manifestazioni per la sua liberazione, ed alcuni dei suoi colleghi arrivarono da Qom per sostenere la richiesta. Tuttavia Khomeini non fu rilasciato fino al 7 aprile 1964, e comunque nella certezza che la detenzione ne avesse smussato di molto la spigolosità e che il movimento da lui guidato si sarebbe dissolto senza troppo clamore. Tre giorni dopo che era stato liberato e che era tornato a Qom, Khomeini fece piazza pulita di qualunque illusione in materia smentendo le dicerie, diffuse dalle autorità, secondo cui aveva raggiunto un accordo con il regime dello Shah; al contrario dichiarò che il movimento concretatosi il 15 Khurdad sarebbe continuato. Il regime, cui era noto il sussistere di persistenti differenze di vedute tra l’Imam ed alcuni degli altri massimi studiosi, aveva cercato di screditarlo ulteriormente fomentando il dissenso a Qom.
Tali tentativi non furono coronati da successo, perché nel giugno del 1964 tutti gli ulema più importanti firmarono le dichiarazioni che commemoravano il primo anniversario dell’insurrezione del 15 Khurdad. Il regime dello Shah, nonostante avesse fallito nel marginalizzare o nel ridurre al silenzio l’Imam Khomeini, proseguì inflessibile nella propria politica filoamericana. Nell’autunno del 1964, esso strinse un accordo con gli USA in base al quale era assicurata l’immunità giuridica a tutto il personale americano in iran e a tutti i dipendenti da organizzazioni statunitensi. In questa occasione l’Imam pronunciò quello che probabilmente fu il suo più veemente discorso in tutti gli anni della lotta contro lo Shah; uno dei suoi compagni più stretti, l’ayatollah Muhammed Mufattih, riferì di non averlo mai visto tanto agitato (comunicazione personale ad Amid Algar, Teheran, dicembre 1979). Khomeini citò l’accordo come un cedimento della sovranità e dell’indipendenza dell’Iran, compiuto in cambio di un prestito di duecento milioni di dollari di cui avrebbero beneficiato solo lo Shah ed i suoi complici, e dipinse come traditori tutti coloro che, nella Majlis, avevano votato a favore di esso. Concluse affermando che, con un simile atto, il governo aveva perduto ogni legittimazione (Kauthar, I, pp. 169-178).
Poco prima dell’alba del 4 novembre 1964, un distaccamento di commandos circondò un’altra volta la casa di Khomeini a Qom, lo arrestò, e questa volta lo portò direttamente all’aeroporto di Mehrabad perché partisse immediatamente per l’esilio, alla volta della Turchia. La decisione di espellerlo invece di arrestarlo e incarcerarlo venne presa senza dubbio sperando che, una volta esiliato, sarebbe scomparso anche dalla considerazione popolare. Eliminarlo fisicamente avrebbe comportato il rischio di una insurrezione incontrollabile, e poi esistevano, tra il regime dello Shah e la Turchia, adeguati accordi per la cooperazione nel campo della sicurezza.
L’Imam ebbe come prima sistemazione la stanza 514 del Bulvar palas Oteli ad Ankara, un albergo di medio livello nella capitale turca, sotto la sorveglianza congiunta di personale iraniano e turco. Il 12 novembre fu trasferito da Ankara a Bursa, dove rimase altri undici mesi. Khomeini sopportò male la permanenza in Turchia; la legge locale gli impediva di indossare il turbante e la tunica dello studioso islamico che egli era nel profondo del suo essere; le poche foto esistenti che lo mostrano a capo scoperto risalgono tutte al periodo dell’esilio turco (cfr. Ansari, Hadis-I Binari, p. 67). Il 3 dicembre 1964 venne comunque raggiunto a Bursa dal figlio maggiore Hajj Mustafa; ebbe anche il permesso di ricevere qualche visitatore proveniente dall’Iran, e gli furono anche forniti vari libri sul fiqh. Utilizzò il soggiorno forzato a Bursa per scrivere il Tahrir al wasila, un compendio in due volumi su questioni di giurisprudenza. Le fatwa contenute nell’opera sono tipiche ed importanti, e sono raccolte sotto il titolo di come perseguire il bene e respingere il male.
L’Imam decreta, ad esempio, che “se si teme che la dominazione politica ed economica (da parte di stranieri) su una terra islamica possa condurre alla riduzione in schiavitù ed all’indebolimento dei musulmani, si deve respingerla con i metodi adeguati, come la resistenza passiva, il boicottaggio delle merci straniere, l’abbandono di ogni accordo e di ogni società con gli stranieri in questione”. Allo stesso modo, “se giunge notizia di un imminente attacco straniero contro uno dei paesi islamici, è responsabilità di ogni paese islamico sventarlo con ogni mezzo possibile; un simile pericolo, infatti, riguarda tutti i musulmani nella loro totalità”. (Tahrir al Wasila, I, p. 486).
Il 5 settembre 1965 l’Imam Khomeini lasciò la Turchia per recarsi a najaf, in Iraq, dove avrebbe trascorso tredici anni. Najaf, centro tradizionale di studio e di pellegrinaggio per gli sciiti, rappresentava sicuramente una località più congeniale per trascorrervi il tempo dell’esilio. Inoltre aveva già fatto da bastione per l’opposizione degli ulema alla monarchia iraniana, durante la Rivoluzione Costituzionale del 1906-1909.
Lo Shah non organizzò certamente il trasferimento di Khomeini a Najaf per facilitargli le cose; i seguaci di Khomeini infatti rumoreggiavano per la sua permanenza a Bursa, lontano dal milieu tradizionale dell’influenza sciita ed un suo trasferimento a Najaf avrebbe calmato gli animi. Si confidava poi nel fatto che a Najaf la figura di Khomeini sarebbe stata offuscata dal prestigio degli ulema che vi risiedevano, come l’ayatollah Abu ‘l-Qasim Khu’i (morto nel 1995), o che l’Imam avrebbe tentato di sfidare la loro scarsissima propensione all’attivismo politico ed avrebbe finito per esaurirsi nel confrontarsi con loro. Khomeini evitò questo doppio rischio dicendosi rispettoso di loro e continuando comunque a perseguire i traguardi che si era posto prima di lasciare l’Iran. Evitò anche di rimanere invischiato in questioni con il governo iracheno, che occasionalmente aveva qualche attrito col regime degli Shah e avrebbe voluto utilizzare la presenza dell’Imam a Najaf per i propri scopi.
L’Imam rifiutò di farsi intervistare dalla televisione irachena poco dopo il suo arrivo, e rifiutò di assecondare in qualsiasi modo il governo iracheno.
Insediatosi a Najaf, l’Imam Khomeini cominciò ad insegnare il fiqh alla madrasa dello sceicco Murtaza Ansari. Le sue lezioni erano seguite con attenzione da studenti che provenivano sia dall’Iran che dall’Iraq, dall’India, dal Pakistan, dall’Afghanistan e dagli stati del Golfo Persico. Ad un certo punto fu proposto all’Imam di favorire l’immigrazione di studiosi e docenti verso Najaf da Qom e dagli altri centri culturali iraniani, ma Khomeini la giudicò negativamente perché favorire una simile tendenza avrebbe impoverito Qom e ne avrebbe indebolito il ruolo di punto di riferimento religioso.
Tra il 21 gennaio e l’8 febbraio 1970, sempre alla madrasa dello sceicco Murtaza Ansari, tenne delle lezioni che sarebbero divenute celebri sul vilayat-i fiqh, la teoria di sistema politico che sarebbe stata tradotta in pratica dopo il trionfo della Rivoluzione Islamica (il testo di queste lezioni fu pubblicato a Najaf, non molto tempo dopo che si erano tenute, sotto il titolo di Vilayat i-Faqih ya Hukumat-i Islami; fu seguito poco dopo da una traduzione in arabo leggermente abbreviata). Questa teoria, il cui punto fondamentale è l’assunzione, da parte di ulema all’altezza del compito, delle funzioni politiche e giuridiche del Dodicesimo Imam per tutto il tempo in cui egli rimarrà celato, era presente in nuce nel Kashf al Asrar, la prima opera pubblicata da Khomeini. Adesso l’Imam la presenta come la conseguenza postulata ed incontestabile della dottrina sciita sul ruolo degli Imam, e cita a sostegno della sua tesi tutti i testi più importanti dal Corano e dalla tradizione dei Profeti e dei Dodici Imam. Evidenzia con molta enfasi anche il male che sarebbe venuto all’Iran, e agli altri paesi musulmani, dall’abbandono della legge e del governo islamici, e dall’abbandono di tutto quanto riguarda la politica nelle mani dei nemici dell’Islam. In chiusura dell’opera Khomeini definiva il programma per l’insediamento di un governo islamico, sottolineando in particolare che era precisa responsabilità degli ulema il superare le loro trascurabili preoccupazioni ed indicare senza timore al popolo la retta via. “E’ preciso dovere di tutti noi sovvertire il governo demoniaco, gli organi politici privi di legittimità che oggi controllano l’intero mondo islamico” (Vilayat-i Fiqh, Najaf, s.d., p. 204).
Il testo delle lezioni sul Vilayat-i Fiqh fu introdotto in Iran da studenti che avevano incontrato l’Imam a Najaf, e da comuni cittadini arrivati in pellegrinaggio alla tomba di Hazrat Ali. Attraverso gli stessi canali entrarono in Iran anche le molte lettere ed i molti proclami in cui l’Imam commentava quanto succedeva nel suo paese durante i lunghi anni del suo esilio. Il primo di questi documenti, una lettera agli ulema iraniani in cui assicurava loro che la caduta del regime dello Shah era prossima, è datata 16 aprile 1967. Quello stesso giorno scrisse anche al primo ministro Amir Abbas Huvayda accusandolo di aver messo in piedi “un regime di terrore e di ladrocinio” (Sahifa-yi Nur, I, pp. 129-132).
Quando scoppiò la Guerra dei Sei Giorni, nel giugno del ’67, l’Imam rilasciò una dichiarazione in cui proibiva ogni tipo di contatto e relazione con Israele, e la compravendita di merci israeliane. Questa dichiarazione trovò in Iran una scoperta ed ampia pubblicità, cosa che comportò una nuova perquisizione della casa di Khomeini a Qom, e l’arresto del suo secondogenito Hajj Sayyid Ahmad che vi abitava a quel tempo. In questa occasione andarono anche perse, o distrutte, alcune delle opere di Khomeini non ancora pubblicate. Il regime prese anche in considerazione l’idea di deportare l’Imam dall’Iraq all’India, un luogo dal quale comunicare con l’Iran sarebbe stato assai più difficile, ma piani del genere non furono neppure abbozzati. Altri avvenimenti che Khomeini commentò da Najaf furono le stravaganti celebrazioni dei duemilacinquecento anni della monarchia iraniana, nell’ottobre 1971 (“…è dovere preciso del popolo iraniano rifiutarsi di partecipare a questi festeggiamenti illegittimi”), l’insediamento meramente formale di un sistema politico basato sul partito unico nel febbraio 1975 (l’Imam proibì di iscriversi al partito, chiamato Hizb-i Rastakhiz, in una fatwa emessa il mese seguente), e la sostituzione, nel corso dello stesso mese, del calendario solare basato sull’Egira utilizzato in Iran fino a quel momento con uno imperiale (shahanshahi). In occasione di determinati avvenimenti, l’Imam emise vere e proprie fatwa piuttosto che proclami; ad esempio respinse in quanto incompatibile coi dettami dell’Islam la legge per la tutela della famiglia varata nel 1967, e definì adultere le donne che si erano risposate dopo aver ottenuto il divorzio sulla base di essa (Risala-yi Ahkam, p. 328).
Khomeini dovette poi affrontare anche alcuni cambiamenti nella realtà irachena.
Il partito Baath, la cui ideologia di base era antireligiosa, aveva preso il potere nel luglio del 1967 ed iniziò presto a fare pressione sugli studiosi iracheni ed iraniani di Najaf. Nel 1971 Iraq ed Iran entrarono in uno stato di guerra non dichiarata ed episodica, ed il regime iracheno iniziò ad espellere dal suo territorio persone iraniane i cui antenati vivevano a volte in Iraq da generazioni. L’Imam, che fino a quel momento aveva sempre mantenuto le distanze dall’establishment ufficiale, iniziò a rivolgersi direttamente ai più alti gradi del governo iracheno, criticandone apertamente le azioni.
L’Imam Khomeini si teneva costantemente ed accuratamente informato circa i rapporti tra le vicende iraniane e quelle del mondo islamico in generale, ma soprattutto con le vicende delle regioni etnicamente arabe. Questo interesse gli permise di diffondere da Najaf un proclama diretto a tutti i musulmani del mondo in occasione dello hajj (mese del pellegrinaggio) del 1971 e di commentare con frequenza ed enfasi particolari i problemi posti da Israele al mondo islamico.
La particolare preoccupazione dell’Imam per la questione palestinese lo spinse ad emettere una fatwa il 27 agosto 1968, in cui autorizzava l’utilizzo del denaro raccolto per fini religiosi (vujuh-i shar’i) per sostenere l’attività della neonata al’Asifa, il braccio armato dell’O.L.P.; una serie di regole dello stesso tenore, ma più dettagliate, fu emesso a conferma dopo un incontro con i rappresentanti dell’O.L.P. a Baghdad. (Sahifa-yi Nur, I, pp. 144-145).
Il fatto che i proclami e le fatwa di Khomeini fossero comunque diffusi in Iran, anche se soltanto su piccola scala, fu sufficiente a far sì che durante gli anni dell’esilio il suo nome non venisse dimenticato.
Altrettanto importante, il movimento di opposizione islamica allo Shah nato dall’insurrezione del 15 Khurdad aveva continuato a crescere nonostante la brutale repressione cui lo Shah aveva senza esitazioni dato via libera. Molti gruppi e molte persone isolate rivendicavano esplicitamente la propria lealtà verso Khomeini. Poco dopo l’inizio del suo esilio era stata messa in piedi una rete chiamata Hay’atha-yi Mu’talifa-yi Islami, Alleanza delle associazioni islamiche, il cui quartier generale era a Teheran, ma che disponeva di sedi periferiche sparse per tutto il paese. Ne erano attivisti molti tra coloro che avevano studiato a Qom sotto la guida dell’Imam, e che dopo la Rivoluzione avrebbero ricoperto cariche importanti; uomini come Hashimi-Rafsanjani e Javad Bahunar. Nel gennaio del 1965 quattro membri dell’Alleanza uccisero Hasan Ali Mansur, il primo ministro che aveva disposto l’esilio per l’Imam.
Per tutto il tempo che Khomeini rimase in esilio, nessuno fu né ufficialmente né clandestinamente autorizzato a rappresentarlo in patria.
Ciò nonostante, ulema autorevoli come l’ayatollah Murtaza Mutahhari, l’ayatollah Sayyid Muhammed Husayn Bihishti (morto nel 1981) e l’ayatollah Husayn Ali Muntaziri rimasero in contatto diretto ed indiretto con lui ed era noto che si esprimevano a suo nome su questioni importanti. Così come le loro controparti più giovani rappresentate nell’Alleanza, tutti e tre avrebbero avuto un ruolo importante durante la Rivoluzione e negli anni seguenti.
La crescita ininterrotta del movimento islamico durante l’esilio dell’Imam Khomeini non dovrebbe essere attribuita soltanto alla sua perdurante influenza o all’attività degli ulema che agivano in accordo con lui. Furono importanti anche le lezioni ed i libri di Ali Shari’ati (morto nel 1977), un intellettuale di cultura universitaria il cui modo di accostarsi all’Islam e di presentarlo era stato influenzato da ideologie occidentali come il marxismo, ad un livello tale che molti ulema pensavano che tendesse ad un sincretismo pericoloso. Quando a Khomeini fu chiesto di pronunciarsi sulle teorie di Shari’ati, sia da parte di coloro che lo difendevano che da parte di coloro che lo avversavano, l’Imam evitò con discrezione di pronunciarsi in modo reciso, in modo da non creare nel movimento islamico una frattura di cui avrebbe potuto giovarsi lo Shah.
Il segnale più chiaro della perdurante popolarità di Khomeini negli anni che precedettero la Rivoluzione, soprattutto nel cuore dell’istituzione religiosa a Qom, fu un avvenimento del giugno 1975. In occasione dell’anniversario dell’insurrezione del 15 Khurdad, gli studenti della madrasa Fayziya inscenarono una manifestazione all’interno della madrasa; una folla di simpatizzanti si raccolse attorno ad esso. Entrambe le manifestazioni continuarono per tre giorni, finché non vennero attaccate da terra dai commandos, e dall’aria da elicotteri militari che uccisero varie persone. L’Imam reagì alla notizia con un messaggio in cui dichiarava che gli eventi di Qom ed altre agitazioni dello stesso tipo verificatesi altrove andavano considerate come segno della speranza che “la libertà e la liberazione dalle catene dell’imperialismo” erano ormai a portata di mano (Shahifa-yi Nur, I, p. 215). La Rivoluzione ebbe effettivamente inizio due anni e mezzo dopo.


5 – La Rivoluzione Islamica (1978-1979)


Il susseguirsi di eventi che si concluse nel febbraio 1979 con la fine del regime dei Pahlavi e con la fondazione della Repubblica Islamica ebbe inizio con la morte improvvisa di Hajj Sayyid Mustafa Khomeini, avvenuta a Najaf il 23 ottobre 1977 in circostanze misteriose.
La responsabilità dell’accaduto fu da più parti addossata al SAVAK, i servizi segreti iraniani, e manifestazioni di protesta si tennero a Qom, Teheran, Yazd, Mashhad, Shiraz e Tabriz. L’Imam Khomeini stesso, con il distacco che riuscì a conservare anche nell’affrontare un lutto tanto grave, descrisse la morte di suo figlio come se si trattasse di uno dei “segni di favore nascosti” (altaf-i khafiya) di Dio, e raccomandò ai credenti in Iran di mostrarsi forti e di confidare nella propria speranza (Shahidi digar az ruhaniyat, Najaf, s.d., p. 27).
La stima di cui Khomeini godeva e la determinazione inflessibile che il regime mostrava nel tentare di minarla con ogni mezzo emersero di nuovo il 7 gennaio 1978, quando nel quotidiano semiufficiale Ittila’at comparve un articolo che lo attaccava in termini estremamente rudi, dipingendolo come un traditore che se la intendeva con i nemici stranieri del paese. Il giorno seguente, a Qom ebbe luogo una furiosa protesta di massa che fu soppressa dall’antisommossa con molto spargimento di sangue. Eppure si trattava soltanto del primo di una serie di scontri di piazza che, crescendo di intensità per tutto il 1978, si trasformarono presto in un vasto movimento rivoluzionario intenzionato a rovesciare il regime dei Pahlavi e ad instaurare un governo islamico.
I martiri di Qom furono commemorati quaranta giorni più tardi, con manifestazioni e con la chiusura per lutto dei negozi in tutte le più grandi città dell’Iran.
I disordini a Tabriz furono particolarmente gravi e si conclusero soltanto dopo che più di cento persone erano state uccise dall’esercito dello Shah; il 29 marzo, quarantesimo giorno dopo il massacro di Tabriz, fu contrassegnato da un’ulteriore tornata di manifestazioni che coinvolsero qualcosa come cinquantacinque città; gli incidenti più gravi si ebbero questa volta a Yazd, dove la polizia aprì il fuoco contro un assembramento di persone all’interno della moschea più importante. All’inizio di maggio i peggiori episodi di violenza si verificarono a Teheran; per la prima volta dal 1963 le strade furono occupate da colonne di blindati che tentavano di fermare la rivoluzione verso la quale il paese stava scivolando. Durante il mese di giugno, per esclusivo calcolo politico, lo Shah fece una serie di concessioni superficiali alle forze politiche che lo avversavano, come l’abolizione del “calendario imperiale”, ma continuò altresì con la repressione. Quando il governo perse il controllo di Isfahan, il 17 agosto, l’esercito attaccò la città ed uccise centinaia di dimostranti disarmati. Due giorni più tardi quattrocentodieci persone arsero vive dietro le porte bloccate in un cinema di Abadan, cosa di cui il governo fu ritenuto responsabile .
Il giorno di ‘Id al-fitr, la festa per l’interruzione del digiuno che quell’anno chiudeva il ramadan il 4 settembre, ci furono cortei in tutte le città più grandi; si pensa che in totale vi abbiano partecipato quattro milioni di dimostranti, che chiedevano a gran voce l’abolizione della monarchia e l’insediamento di un governo islamico guidato dall’Imam Khomeini.
Davanti alla realtà di una rivoluzione incombente, lo Shah decretò la legge marziale e proibì ulteriori manifestazioni. Il 9 settembre una folla che si era riunita nella Maydan-I Zhala di Teheran, ribattezzata dopo quel giorno Maydan-I Shuhada’ ( Piazza dei Martiri), fu attaccata dall’esercito che aveva bloccato tutte le vie d’uscita, e solo nella piazza rimasero uccise circa duemila persone. Altre duemila vennero uccise altrove, per le vie di Teheran, dagli elicotteri militari forniti dagli USA che si libravano a bassa quota. Fu questa giornata di massacri, nota come venerdi nero, a segnare davvero il punto di non ritorno. Era stato versato troppo sangue perché il regime potesse avere speranza di sopravvivere, e gli stessi militari cominciarono ad essere stanchi di obbedire all’ordine di massacrare.
Mentre l’Iran si trovava in questa situazione, l’Imam Khomeini redasse un’intera serie di messaggi e di discorsi che circolavano per l’Iran non soltanto sottoforma di stampati, ma anche su cassette registrate. Si poteva sentire la sua viva voce che si congratulava con il popolo per i sacrifici che aveva sopportato, che dipingeva senza mezzi termini lo Shah come un criminale incallito, e che sottolineava le responsabilità degli USA per le stragi e per la repressione (Il presidente americano Carter aveva visitato Teheran per il Capodanno del 1978, e con involontaria ironia si era complimentato con lo Shah per aver creato “un’isola di stabilità in una delle più turbolente aree del mondo” (NY Times, 2 gennaio 1978). Mentre ogni parvenza di stabilità veniva meno, gli USA continuarono a sostenere lo Shah militarmente e politicamente, nulla cambiando nel proprio comportamento fatta salva qualche superficiale esitazione). Khomeini affermò soprattutto che una congiuntura irripetibile si stava verificando per la storia dell’Iran: un momento di sincera tensione rivoluzionaria, un’occasione che doveva essere colta, perché non si sarebbe più ripresentata. Lanciò anche ammonimenti contro le tendenze al compromesso, e perché nessuno si facesse ingannare dagli sporadici gesti di riconciliazione che venivano da parte dello Shah.
Così, in occasione dell’ ‘Id al-Fitr di quell’anno, dopo che cortei imponenti avevano attraversato una Teheran tranquilla soltanto all’apparenza, pronunciò queste parole: “Nobile popolo dell’Iran! Insistete con le vostre manifestazioni e non perdetevi d’animo neppure per un momento; so bene che non lo farete! Che nessuno pensi che dopo il sacro mese del Ramadan le consegne che Dio gli ha affidato siano cambiate. Le manifestazioni che spazzano via la tirannia e promuovono la causa dell’Islam rappresentano una forma di devozione che non è limitata soltanto a certi mesi o certi giorni, perché il suo intento è quello di salvare il paese, di instaurare la legge islamica, e di stabilire una forma di governo di ispirazione divina basato sulla giustizia” (Sahifa-yi Nur, I, p. 97).
Per uno dei moltissimi errori di calcolo che contraddistinsero i suoi tentativi di distruggere il movimento rivoluzionario, lo Shah decise che si doveva provare ad allontanare Khomeini dall’Iraq, senza dubbio nella convinzione che una volta costretto ad abbandonare la sede di Najaf, prestigiosa e vicina al confine iraniano, sarebbe stato in qualche modo ridotto al silenzio. Con un incontro a New York tra i ministri degli esteri iraniano ed iracheno fu ottenuto il via libera di Baghdad, ed il 24 settembre 1978 l’esercito circondò la casa di Khomeini a Najaf. Gli fu intimato di cessare ogni attività politica se voleva rimanere in Iraq, una condizione che fu ovviamente rifiutata. Il 3 ottobre, Khomeini lasciò l’Iraq alla volta del Kuwait, ma fu respinto alla frontiera. Dopo qualche esitazione, e dopo aver preso in considerazione la Siria, il Libano e l’Algeria come destinazioni possibili, Khomeini partì per Parigi su consiglio del suo secondogenito Hajj Sayyid Ahmad, che lo aveva nel frattempo raggiunto. A Parigi, l’Imam trovò una sistemazione nel sobborgo di Neauphle-le-Chateau, in una casa presa in affitto per lui da esuli iraniani in Francia.
Il fatto di dover vivere in un paese non musulmano fu senza alcun dubbio ritenuto insopportabile dall’Imam Khomeini, che con una dichiarazione rilasciata a Neauphle-le-Chateau l’11 ottobre 1978, quarantotto giorni dopo i massacri del venerdì nero, annunciò la disponibilità a trasferirsi in qualunque paese islamico gli avesse assicurato libertà di parola (Sahifa-yi Nur, II, p. 143). Nessun paese si mostrò disponibile in questo senso. La sua partenza forzata da Najaf accrebbe in compenso più che mai il risentimento popolare in Iran. In fin dei conti, il regime dello Shah soffrì ulteriormente a causa dell’effetto boomerang della propria decisione. Telefonare a Teheran era più facile da Parigi che da Najaf, grazie alla determinazione con cui lo Shah aveva voluto che l’Iran fosse collegato in ogni modo possibile al mondo occidentale, e così i messaggi e le istruzioni che l’Imam comunicava poterono susseguirsi senza interruzioni dal modesto quartier generale che aveva messo in piedi in una casetta dall’altro lato della strada rispetto a quella in cui viveva. Giornalisti da tutto il mondo cominciarono a recarsi in Francia, e presto l’immagine e le parole dell’Imam divennero una presenza quotidiana nei mass media di tutto il mondo.
Nel frattempo, in Iran, lo Shah operava continui rimpasti di governo. Nominò innanzitutto primo ministro Sharif Imami, un individuo che aveva fama di essere vicino ai più conservatori tra gli ulema. Poi, il 6 novembre, formò un governo militare sotto la guida del generale Ghulam Riza Azhari, una mossa, questa, cui fu esplicitamente esortato dagli Stati Uniti. Simili manovre politiche non ebbero alcun effetto sostanziale nel contrastare il progredire della rivoluzione. Il 23 novembre, una settimana prima dell’inizio del Muharram, Khomeini diffuse un discorso in cui paragonava il mese sacro ad “una spada divina nelle mani dei soldati dell’Islam, delle nostre grandi guide spirituali, dei nostri rispettati devoti, di tutti i seguaci dell’Imam Hussein, il Primo tra i Martiri”. Essi dovevano, affermava poi, “farne il più ampio uso; confidando nell’onnipotenza divina, devono tagliare le residue radici di quest’albero di oppressione e di tradimento”. Dal momento che il governo militare era contrario all’istituzione della legge sacra, secondo l’Imam opporsi ad esso era un preciso dovere religioso (Sahifa-yi Nur, III, p. 225).
Imponenti manifestazioni di piazza in tutto l’Iran salutarono l’inizio del mese di Muharram.
Migliaia di persone indossarono sudari bianchi, mostrando con questo segno che erano pronte al martirio e furono uccise per non aver rispettato il coprifuoco notturno. Il 9 di Muharram, un milione di persone partecipò ad un corteo a Teheran chiedendo la fine della monarchia, ed il giorno seguente, quello dell’Ashura, più di due milioni di manifestanti approvarono per acclamazione una dichiarazione in diciassette punti, il più importante tra i quali prevedeva la formazione di un governo islamico guidato da Khomeini. L’esercito continuò ad uccidere, ma la disciplina militare cominciò a vacillare e la rivoluzione acquistò anche una dimensione economica grazie alla proclamazione di uno sciopero nazionale per il 18 dicembre.
Dal momento che il suo regime si stava indebolendo, lo Shah tentò di coinvolgere politici secolari e liberalnazionalisti, per impedire la formazione di un governo islamico. Il 3 gennaio 1979, Shahpur Bakhtiyar, del Fronte Nazionale (Jabha-yi Milli) sostituì il generale Azhari alla poltrona di primo ministro; furono messi a punto i piani per consentire allo Shah di abbandonare il paese per quella che si pensava sarebbe stata un’assenza temporanea. Il 12 gennaio fu annunciata la formazione di un consiglio di reggenza costituito da nove membri, capeggiato da un Jalal ad-Din Tihrani di cui si vantavano le credenziali religiose, destinato a fare le veci dello Shah durante la sua assenza. Nessuna di queste manovre distolse l’Imam da un obiettivo che si faceva adesso ogni giorno più vicino. Il giorno successivo a quello della formazione del consiglio di reggenza, annunciò da Neauphle-le-chateau la formazione di un Consiglio per la Rivoluzione Islamica (Shaura-yi Inqilab-i Islami), un organismo incaricato di formare un governo di transizione che sostituisse l’amministrazione Bakhtiyar. Il 16 gennaio, in mezzo a scene di giubilo popolare, lo Shah abbandonò il paese alla volta dell’esilio e della morte.
Ormai c’era soltanto da rimuovere Bakhtiyar e da prevenire un eventuale colpo di stato militare che permettesse il ritorno dello Shah. Il primo obiettivo fu sul punto di essere raggiunto il giorno in cui Sayyid Jalal al-Din Tihrani andò a Parigi per tentare di raggiungere un compromesso con l’Imam khomeini. Khomeini rifiutò di riceverlo fino a quando non si fosse dimesso dal consiglio di reggenza e lo avesse dichiarato illegale. Nell’esercito la rottura tra gli alti gradi, incondizionatamente fedeli allo Shah, e gli ufficiali inferiori e soldati, un crescente numero dei quali simpatizzava per la rivoluzione, si faceva sempre più profonda. Quando gli USA incaricarono il generale Huyser, comandante delle forze di terra della NATO in Europa, di verificare se vi fosse la possibilità di un colpo di stato militare, Huyser dovette riferire che non valeva neppure la pena di considerare una simile eventualità.
Ormai sussistevano tutte le condizioni perché Khomeini rientrasse in Iran e dirigesse di persona le ultime fasi della rivoluzione. Dopo una serie di ritardi, dovuti tra l’altro all’occupazione militare dell’aeroporto di Mehrabad tra il 24 ed il 30 gennaio, l’Imam poté imbarcarsi su un volo charter dell’Air France la sera del 31 gennaio, e giunse a Teheran la mattina successiva. In mezzo a scene di gioia popolare mai viste prima –si pensa che più di dieci milioni di persone si siano riversate sulla città di Teheran per dargli il bentornato- Khomeini si diresse immediatamente al cimitero di Bihisht-i Zahra a sud di Teheran, dove sono sepolti i martiri della rivoluzione. Qui condannò apertamente il governo Bakhtiyar definendolo “l’ultimo flebile rantolo del regime dello Shah” ed espresse l’intenzione di mettere in piedi un governo che avrebbe rappresentato “un pugno in faccia al governo Bakhtiyar” (Sahifa-yi Nur, IV, p. 281). Il 5 febbraio il governo islamico provvisorio che l’Imam si era impegnato a realizzare era pronto. Era guidato da Mahdi Bazargan, un personaggio attivo per anni in molte organizzazioni islamiche, e specialmente nel Movimento per la Libertà (Nahzat-i Azadi). Il confronto decisivo ci fu meno di una settimana dopo. Davanti al disfacimento progressivo delle forze armate, con moltissimi casi di ufficiali e soldati che disertavano portandosi dietro le armi e passavano ai Comitati Rivoluzionari che stavano nascendo ovunque, Bakhtiyar istituì il coprifuoco a Teheran, a partire dalle quatto del pomeriggio. Il 10 febbraio Khomeini ordinò che il coprifuoco venisse ignorato, ed avvertì anche che se i soldati rimasti fedeli allo Shah avessero continuato a sparare e ad uccidere, avrebbe proclamato formalmente una fatwa a favore della guerra santa (Sahifa-yi Nur, V, p. 75). Il giorno successivo il Supremo Consiglio Militare tolse a Bakhtiyar il proprio appoggio, e finalmente, il 12 febbraio 1979 tutti gli organi politici, amministrativi e militari del regime crollarono definitivamente.
La rivoluzione aveva trionfato.
Nessuna rivoluzione può ovviamente essere considerata frutto del lavoro di un singolo uomo, né può essere interpretata in termini meramente ideologici; lo sviluppo economico e quello sociale avevano preparato il terreno per il movimento rivoluzionario del 1978-79. Soprattutto durante le sue fasi finali, quando la vittoria sembrava ormai assicurata, la rivoluzione vide anche il coinvolgimento marginale di elementi laici, liberalnazionalisti e della sinistra. Non può tuttavia esserci dubbio alcuno sul ruolo centrale ricoperto da Khomeini e sulla natura integralmente islamica della rivoluzione che egli capeggiò. Fisicamente lontano dai suoi compatrioti per quattordici anni, seppe coglierne e portarne alla luce in modo infallibile le potenzialità rivoluzionarie e seppe mobilitare le masse del popolo iraniano perché tendessero a quello che a molti osservatori in Iran, ivi incluso Bazargan, premier che Khomeini aveva scelto, pareva un obiettivo eccessivamente lontano ed ambizioso. Il suo ruolo non fu semplicemente quello dell’ispiratore morale e della guida simbolica: Khomeini comandò la rivoluzione sul campo. Accettò a volte consigli su dettagli e strategie da parte di altre persone in Iran, ma prese da solo tutte le decisioni fondamentali mettendo a tacere fin dall’inizio tutti i sostenitori di una politica di compromesso con lo Shah. La rivoluzione fu organizzata nelle moschee e durante le preghiere di massa; le sue armi principali furono, fino alle ultimissime fasi, le manifestazioni ed il martirio.


6 – I primi dieci anni della Repubblica Islamica, gli ultimi dieci anni nella vita dell’Imam


Khomeini ebbe anche un ruolo centrale nel dare forma al nuovo sistema politico che nacque dalla rivoluzione, la Repubblica Islamica dell’Iran. In un primo momento sembrò che potesse esercitare il suo ruolo direttivo da Qom, perché vi si recò da Teheran il 28 febbraio trasformando di fatto la città nella seconda capitale del paese. Un referendum tenuto in tutta la nazione tra il 30 ed il 31 marzo ebbe come esito un massiccio voto favorevole all’instaurazione di una repubblica islamica. Il giorno successivo, 1 aprile 1979, fu definito dall’Imam “Il primo giorno del governo di Dio” (Sahifa-yi Nur, V, p. 233). La legittimazione istituzionale della nuova forma di governo continuò con l’elezione, il 3 agosto, di un’Assemblea di esperti (Majlis-I Khubragan), che aveva il compito di perfezionare la bozza di una costituzione pronta già il 18 giugno; cinquantacinque eletti su settantatre erano studiosi in materie religiose.
Non si poteva pretendere che una transizione morbida dal vecchio regime al nuovo sarebbe risultata possibile. Poteri e compiti del Consiglio Islamico Rivoluzionario, che avrebbe dovuto servire da legislatore ad interim, non erano stati definiti con precisione dai membri del governo provvisorio presieduto da Bazargan.  I due organismi divergevano soprattutto per la prospettiva e l’approccio con cui affrontavano i problemi. il Consiglio, composto soprattutto di ulema, vedeva di buon occhio un cambiamento immediato e radicale e avrebbe voluto rafforzare gli organismi rivoluzionari esistenti: i comitati, i tribunali rivoluzionari incaricati di reprimere i membri del passato regime giudicati colpevoli di gravi crimini, ed il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Sipah-I Pasdaran-I Inqulab-I Islami). Si insediò il 5 maggio 1979. Il governo, guidato da Bazargan e comprendente molti tecnocrati liberali di orientamento islamico, considerava irrinunciabile una normalizzazione della situazione il più rapida possibile, ed il graduale abbandono degli organismi nati con la rivoluzione.
Anche se Khomeini esortò i membri dei due organi a lavorare di concerto ed evitò in più occasioni di fare da arbitro tra di loro, le sue simpatie andavano chiaramente al Consiglio della Rivoluzione Islamica. Il primo luglio Bazargan presentò a Khomeini le sue dimissioni, che vennero rifiutate; quattro membri del Consiglio, Rafsanjani, Bahunar, Mahdavi-Kani e l’ayatollah Sayyid Ali Khamna’i entrarono nel governo Bazargan per tentare di migliorare la coordinazione dei due soggetti politici. Oltre ai contrasti interni al governo, un altro fattore di instabilità era rappresentato dalle attività terroristiche di gruppi che operavano nell’ombra, decisi a privare la nascente repubblica islamica di alcune tra le sue più competenti personalità. Il primo maggio 1979 l’ayatollah Murtaza Mutahhari, membro influente del Consiglio della Rivoluzione Islamica ed ex allievo carissimo a Khomeini fu ucciso a Teheran. Per una volta, l’Imam si mostrò apertamente in preda ad un profondo sconforto.
La rottura definitiva tra Bazargan e la rivoluzione si determinò in seguito all’occupazione dell’ambasciata statunitense a Teheran, compiuta il 4 novembre 1979 da un gruppo di studenti universitari. Nonostante dichiarassero di voler “rispettare la volontà del popolo iraniano” e di voler riconoscere la repubblica islamica, gli USA avevano ammesso sul loro territorio lo Shah il 22 ottobre dello stesso anno. La scusa ufficiale era quella della sua necessità di cure mediche, ma in Iran un po’ tutti temevano che il suo arrivo in America, dove si erano rifugiati molti alti ufficiali del regime, potesse preludere ad un tentativo sostenuto dagli USA di riprendere il potere, sulla falsariga del colpo di stato pilotato dalla CIA nel 1953 e conclusosi con un successo. Gli studenti che occupavano l’ambasciata imposero dunque l’estradizione dello Shah come condizione per il rilascio degli ostaggi presenti all’interno.
E’ probabile che gli studenti avessero illustrato in precedenza i particolari della loro azione a qualcuno molto vicino all’Imam, perché Khomeini fu veloce nell’estendere a loro la sua protezione, proclamando il loro atto “una rivoluzione più grande della prima” (Sahifa-yi Nur, X, p. 141). Due giorni dopo, affermò che per quel che riguardava questa “seconda rivoluzione” gli Stati Uniti “non avrebbero potuto tentare un accidente (Amrika hich ghalati namitavanad bukunad)” (Sahifa-yi Nur, X, p. 149).  Una predizione che a molti, anche in Iran, parve piuttosto stravagante; tuttavia una spedizione militare messa in piedi dagli USA il 22 aprile 1980 per soccorrere gli ostaggi americani e magari attaccare alcuni siti strategici a Teheran fallì in modo improvviso ed umiliante quando le cannoniere volanti americane si scontrarono l’una con l’altra durante una tempesta di sabbia vicino a Tabas, nell’Iran sudorientale. Il 7 aprile gli USA avevano formalmente rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran, una mossa che l’Imam Khomeini aveva visto favorevolmente e considerato un’occasione di gioia per l’intero paese (Sahifa-yi Nur, XII, p. 40).  Gli ostaggi americani furono finalmente rilasciati soltanto il 21 gennaio 1981.
Due giorni dopo l’occupazione dell’ambasciata statunitense, Bazargan offrì nuovamente le sue dimissioni, che stavolta vennero accettate. Il governo provvisorio fu sciolto ed il Consiglio della Rivoluzione Islamica assunse pro tempore il governo del paese. Bazargan e tutte le altre personalità a lui affini scomparvero di fatto dalla scena; da allora, il termine liberale è entrato nell’uso come dispregiativo, per indicare quanti avevano la tendenza a mettere in discussione la linea ideologica della rivoluzione. Gli studenti che occupavano l’ambasciata riuscirono inoltre a mettere le mani sui voluminosi faldoni che gli americani avevano messo insieme sul conto di tutte le personalità iraniane che nel corso degli anni avevano frequentato l’ambasciata; queste carte furono pubblicate e gettarono discredito su tutte le persone coinvolte. L’occupazione dell’ambasciata costituì soprattutto una “seconda rivoluzione” in un Iran che si presentava ora come il caso pressoché unico in cui la superpotenza americana era stata sconfitta, e che veniva considerato dai politici statunitensi come il principale avversario in tutta l’area mediorientale.
L’entusiasmo con cui era stata accolta l’occupazione dell’ambasciata contribuì anche ad assicurare un suffragio amplissimo al referendum che si tenne il 2 ed il 3 dicembre 1979, per ratificare la costituzione già approvata dal Consiglio dei Giurisperiti il 15 novembre. La costituzione venne approvata ad amplissima maggioranza ma differiva moltissimo dalla bozza originale, soprattutto per l’inclusione del Consiglio dei Giureconsulti (vilayat-i faqih) come organo principale dello stato.
La questione, brevemente accennata nel preambolo, viene compiutamente sviluppata nell’Art. 5: “Per tutto il tempo in cui il Signore delle Ere (Sahib al-Zaman, il dodicesimo imam) rimarrà occultato, il governo e la guida della nazione sono responsabilità di un giusto e pio Giureconsulto, che abbia familiarità con i problemi della propria epoca, che sia coraggioso, pieno di risorse e competente in materia di amministrazione, che sia riconosciuto ed accettato come guida (rahbar) dalla maggioranza della popolazione. Nel caso che nessun Giureconsulto venga considerato dalla maggioranza all’altezza del compito, le stesse responsabilità spetteranno ad un Consiglio composto da esperti della legge in possesso delle stesse qualità”. L’Art. 109 precisava le competenze e gli attributi del leader, definiti come “disponibilità ad apprendere e ad esercitare la misericordia, come richiesto a chi intenda rivestire le cariche di mufti’ e di marja’”. L’Art. 110 elencava invece i poteri di cui è investito, che comprendono il comando supremo delle forze armate, la nomina dei vertici dell’ordine giudiziario, l’approvazione del decreto che formalizza l’elezione del presidente della repubblica e, in certe condizioni, anche il potere di rimuoverlo dalla sua carica (Qanun-i Asasi-yi Jumhuri-yi Islami-yi Iran, Teheran, 1370 Sh. / 1991, pp. 23-24. 53-58).
Gli articoli qui presentati rappresentavano la giustificazione costituzionale del ruolo guida assunto da Khomeini. Dal luglio 1979 in avanti l’Imam aveva già nominato un Imam Jum’a’s per tutte le città principali, che avrebbe avuto il compito di tenere il discorso del venerdi e di agire come suo rappresentante.
Un rappresentante dell’imam si trovava anche nella maggior parte delle istituzioni governative, anche se in ultima analisi la più importante fonte di influenza era costituita proprio dall’immenso prestigio morale e spirituale dell’Imam, che fece sì che Khomeini venisse designato proprio come l’Imam per antonomasia, ossia come colui che riveste il ruolo di guida della comunità su una molteplicità di piani. (le interpretazioni secondo le quali il titolo gli venne riconosciuto per assimilarlo ai Dodici Imam della tradizione sciita, e dunque per attribuirgli il crisma dell’infallibilità, sono prive di fondamento).
Il 23 gennaio 1980 l’Imam Khomeini, sofferente di cuore, fu portato da Qom a Teheran per ricevervi le cure necessarie. Dopo trentanove giorni in ospedale, si stabilì nel sobborgo settentrionale di Darband, ed il 22 aprile si trasferì in una modesta abitazione di Jamaran, un altro sobborgo a nord della capitale. Un complesso fittamente presidiato crebbe attorno alla casa, e Khomeini avrebbe trascorso qui il resto dei suoi giorni.
Il 25 gennaio, mentre l’Imam era in ospedale, Abu ‘I-Hasan Bani Sadr, un economista che aveva studiato in Francia, venne eletto primo presidente della Repubblica Islamica dell’Iran. In parte, la sua nomina era dovuta al fatto che Khomeini pensava non fosse opportuno che un religioso si candidasse alla presidenza. L’avvenuta elezione, seguita il 14 marzo dalle prime elezioni per la Majlis, può essere considerata come un passo essenziale verso l’istituzionalizzazione e la stabilizzazione del nuovo sistema politico. Tuttavia, l’atteggiamento di Bani Sadr, insieme alle tensioni che presto incorsero nei rapporti tra lui e la maggioranza della Majlis, causò una grave crisi politica che si concluse con le dimissioni di Bani Sadr. Il presidente, la cui megalomania era stata rafforzata dalla vittoria elettorale, non riconosceva volentieri la supremazia di Khomeini ed aveva cercato di mettere insieme un seguito proprio, in gran parte costituito da personaggi provenienti dalla sinistra che dovevano la propria fortuna esclusivamente a lui. Nel corso del tentativo fu per lui inevitabile scontrarsi con il Partito Repubblicano Islamico (Hizb-i Jumhuri-yi Islami), di recentissima formazione, guidato dall’ayatollah Bihishti, che aveva la maggioranza assoluta alla Majlis e si proclamava fedele alla cosiddetta “linea dell’Imam” (khatt-i Imam). Così come aveva fatto in occasione delle dispute tra governo provvisorio e Consiglio della Rivoluzione Islamica, l’Imam tentò di mediare tra le parti e l’11 settembre 1980 fece appello a tutte le componenti del governo ed ai loro membri affinché mettessero da parte le differenze che li dividevano.
Mentre questa nuova crisi di governo era in corso, il 22 settembre 1980, l’Iraq fece attraversare alle proprie truppe la frontiera iraniana e lanciò una guerra di aggressione che sarebbe durata per quasi otto anni. Gli stati arabi del Golfo Persico, primo tra tutti l’Arabia Saudita, finanziarono lo sforzo bellico iracheno. Khomeini, tuttavia, identificò correttamente negli USA il principale istigatore esterno del conflitto, ed il coinvolgimento americano si fece sempre più evidente man mano che la guerra procedeva. Anche se l’Iraq avanzava pretese territoriali nei confronti dell’Iran, il vero e mal camuffato intento dell’aggressione era di approfittare delle difficoltà causate in Iran dalla rivoluzione, e specialmente dell’indebolimento dell’esercito dovuto alle purghe degli ufficiali sleali al nuovo governo, per distruggere la repubblica islamica. Così come aveva fatto durante la rivoluzione, Khomeini insisté perché non si venisse a compromessi ed incitò una tenace resistenza che impedì una rapida vittoria irachena, che molti osservatori stranieri avevano dato per certa, sia pure in via confidenziale. All’inizio gli iracheni ottennero qualche successo, conquistando il porto di Khurramshahr e circondando la città di Abadan.
Il modo di affrontare la guerra divenne un motivo di contesa in più per Bani Sadr e per i suoi oppositori. Nel perdurante tentativo di riconciliare le due fazioni, Khomeini istituì una commissione di tre membri destinata ad indagare quanto fossero fondate le lamentele che una parte avanzava nei confronti dell’altra. La commissione riferì, il primo giugno 1981, che Bani Sadr aveva violato la costituzione e contravvenuto agli ordini dell’Imam. La Majlis lo dichiarò privo delle competenze necessarie a ricoprire la carica di presidente, ed il giorno successivo, secondo quanto stabilito dall’Art. 110 sezione e della costituzione, l’Imam lo rimosse dall’incarico. Bani Sadr si dette alla clandestinità ed il 28 giugno salì su un aereo per Parigi, vestito da donna.
Verso la fine del suo periodo di presidenza Bani Sadr si era alleato con il Sazman-i Mujahidin-i Khalq (Organizzazione dei Combattenti del Popolo; gli appartenenti questo gruppo in Iran vengono spregiativamente detto munafiqin, “ipocriti”, e non mujahidin, a causa della loro ostilità alla repubblica islamica), un’organizzazione dalla storia ideologica e politica estremamente composita e ricca di storture, che sperava, come Bani Sadr, di scalzare l’Imam Khomeini e di insediarsi al potere al suo posto. Dopo che Bani Sadr dovette andare in esilio, alcuni appartenenti all’organizzazione cominciarono ad assassinare esponenti governativi, sperando di far così crollare la repubblica islamica. Prima ancora che Bani Sadr partisse, un’esplosione devastò il quartier generale del Partito Repubblicano Islamico, uccidendo più di settanta persone tra le quali l’ayatollah Bihishti. Il 30 agosto 1981 Muhammad Ali Raja’i, che era successo a Bani Sadr alla carica di presidente, venne ucciso da un’altra bomba. Nei successivi due anni furono compiuti molti altri omicidi, compresi cinque Imam Jum’a’s e molte altre persone che ricoprivano cariche di minore importanza. Sotto questo grandinare di sciagure l’Imam Khomeini conservò sempre la compostezza che gli era propria, affermando per esempio in occasione della morte di Raja’i che queste uccisioni non avrebbero cambiato nulla e dimostrando coi fatti che l’Iran era “il paese più stabile del mondo”, data la capacità del governo di funzionare normalmente anche in un simile frangente (Sahifa-yi Nur, XV, p. 130). Il fatto che l’Iran fosse in grado di affrontare le conseguenze di simili emergenze interne e di continuare a difendersi contro l’Iraq costituì tra l’altro una prova del fatto che le radici del nuovo ordine avevano fatto presa, e che il prestigio dell’Imam Khomeini come leader della nazione non era affatto diminuito.
L’ayatollah Khamna’i, da molti anni vicino e fedele dell’Imam, fu eletto presidente il 2 ottobre 1981 e rimase in carica finché non successe a Khomeini come guida spirituale della repubblica islamica alla morte di lui, nel 1989. Durante la sua presidenza non vi furono crisi di governo paragonabili a quelle dei primi anni di esistenza della repubblica islamica.
Persistevano al contrario vari problemi strutturali. La costituzione prevedeva che le leggi passate all’esame della Majlis venissero poi riviste da un organo composto da esperti di diritto chiamato Consiglio dei Guardiani (Shaura-yi Nagahban) che verificasse la conformità della legge con quanto prescritto dal ja’fari fiqh [i dettami della giurisprudenza sciita, nella versione diffusa dall’insegnamento del sesto imam Jafar al Sadiq, nato nel 702 e morto nel 756 d.C.].  Questo portava a frequenti intoppi, che riguardavano anche questioni legislative di primaria importanza. In almeno due occasioni, nell’ottobre del 1981 e nel gennaio 1983, Hashimi Rafsanjani, all’epoca presidente della Majlis, chiese a Khomeini di chiarire una volta per tutte la questione, definendo le competenze del vilayat-i faqih e risolvendo l’ìmpasse. Khomeini si prestò di malavoglia, perché preferiva sempre che le due parti riuscissero per conto proprio a giungere ad un accordo.  Il 6 gennaio 1988, in una lettera indirizzata a Khamna’i, l’Imam espose un’ampia definizione di vilayat-i faqih, dichiarato ora “assoluto” (mutlaqa), che rendeva teoricamente possibile per la presidenza il superare tutte le obiezioni che fossero giunte da esso.  Quello del governo, affermava Khomeini, è il più importante tra i precetti divini (ahkam-i ilahi) e deve avere la precedenza su tutti gli altri, che vanno considerati secondari (ahkam-i far’ya yi ilahiya). Non soltanto lo stato islamico è dunque nel lecito quando promulga leggi non menzionate in modo specifico nelle fonti della legge sacra, come quella sulla proibizione degli stupefacenti o quella per l’abbattimento delle tasse di importazione, ma può anche decretare la sospensione di un dovere religioso fondamentale come il pellegrinaggio (hajj), nel caso che questo sia necessario per il bene supremo della comunità dei credenti (Sahifa-yi Nur, XX, pp. 170-171). Di primo acchito la teoria del vilayat-i mutlaqa-yi faqih potrebbe sembrare la giustificazione teorica per l’illimitato potere di cui gode la sola figura del leader (rahbar). Un mese dopo questi eventi, tuttavia, l’Imam Khomeini investì di queste prerogative, finalmente definite per esteso, una commissione chiamata Assemblea per la definizione dell’interesse dell’ordine islamico (Majma’-i Tashkhis-i Maslahat-i Nizam-i Islami).  L’Assemblea ha il potere di dirimere in modo definitivo i contrasti che possano sorgere tra Majlis e Consiglio dei Guardiani in merito ad ogni questione legislativa.
La guerra contro l’Iraq continuò ad affliggere l’Iran fino al luglio del 1988.
L’Iran aveva concluso che lo scopo della guerra non era soltanto la liberazione di tutte le parti del territorio nazionale occupate dagli iracheni, ma anche il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, che il susseguirsi di un certo numero di vittorie militari aveva fatto percepire come obiettivo realistico. Il 29 novembre 1981 l’Imam Khomeini si congratulò con i suoi comandanti militari per i successi conseguiti in Khuzistan, sottolineando il fatto che gli iracheni erano stati costretti alla ritirata al cospetto della fede e della sete di martirio dei soldati iraniani (Sahifa-yi Nur, XV, pp. 234). L’anno seguente, il 24 maggio, fu liberata la città di Khurramshahr che gli iracheni avevano occupato poco dopo l’inizio della guerra; in mano irachena rimanevano così soltanto piccoli lembi di territorio iraniano. L’Imam approfittò della circostanza per condannare nuovamente i paesi del Golfo che avevano sostenuto Saddam Hussein e descrisse la vittoria come se fosse un dono del cielo (Sahifa-yi Nur, XVI, pp. 154-5). L’Iran non riuscì a sfruttare la vittoria a sorpresa, ed il momento favorevole, che avrebbe potuto condurre alla distruzione del regime di Saddam, andò sprecato; la guerra proseguì con alti e bassi. Gli Stati Uniti si stavano in ogni caso adoperando con determinazione perché l’Iran non conseguisse una vittoria militare decisiva e si intromisero nel conflitto in vari modi, fino al 2 luglio 1988, giorno in cui la marina americana di stanza nel Golfo Persico abbatté un aereo civile iraniano causando la morte dei duecentonovanta passeggeri. Con estrema riluttanza l’Imam Khomeini decise di porre fine alla guerra in base ai termini specificati nella risoluzione n. 598 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma in una lunga dissertazione pubblicata il 20 luglio affermò che lo faceva con lo stesso spirito con cui avrebbe bevuto un veleno (Sahifa-yi Nur, XXI, pp. 227-44).
Qualunque dubbio che l’accettazione del cessate il fuoco con l’Iraq fosse il segnale di una minore prontezza dell’Imam nel combattere i nemici dell’Islam venne meno il 14 febbraio 1989, con l’emissione della fatwa che condannava a morte Salman Rushdie, autore dell’osceno e blasfemo libro I versetti satanici, e tutti coloro che avessero pubblicato o comunque diffuso il libro. Questa fatwa ebbe molto sostegno da parte di tutto il mondo islamico, che vide in essa la miglior incarnazione dell’indignazione popolare per il maiuscolo insulto che Rushdie rivolgeva all’islam. La fatwa non riuscì a raggiungere il suo scopo, ma mostrò chiaramente quali sarebbero state le conseguenze che dovevano aspettarsi eventuali imitatori di Rushdie, ed ebbe dunque un importante effetto di deterrenza. All’epoca ci fu poca considerazione per il solido retroterra che la giurisprudenza, sia sciita che sunnita, presentavano alla fatwa dell’Imam; in sostanza, in essa non si affermava alcunché di innovativo. Quel che dette alla fatwa un significato tanto particolare fu il fatto che proveniva da un individuo cui veniva riconosciuta grande autorità morale.
L’Imam si era già guadagnato l’attenzione del pubblico non iraniano, sia pure in modo meno spettacolare, il 4 gennaio 1989, quando aveva inviato a Mikhail Gorbaciov, allora segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, una lettera in cui prevedeva il collasso dell’URSS e la scomparsa del comunismo: “D’ora in poi il comunismo si dovrà andarlo a cercare nel museo della storia politica del mondo”. Khomeini mise in guardia Gorbaciov ed il popolo russo affinché non sostituissero il comunismo con un materialismo di tipo occidentale: “Il problema di base del vostro paese non ha nulla a che vedere con la proprietà, l’economia o la libertà; si tratta della mancanza di una vera fede in Dio, lo stesso problema che ha condotto l’Occidente in un vicolo cieco fatto di banalità e di vuotezza di senso” (Ava-yi Tauhid, Teheran, 1367 sh / 1989, pp. 3-5).
Per quanto riguarda la politica interna, il più importante avvenimento dell’ultimo anno di vita di Khomeini fu senz’altro l’estromissione dell’ayatollah Montazeri dalla sua carica di successore alla guida della Repubblica Islamica. Un tempo studioso e compagno tra i più vicini a Khomeini, che era arrivato al punto di definirlo “il frutto della mia vita”, Montazeri aveva incluso tra le persone giustiziate nel corso degli anni per attività controrivoluzionarie anche il proprio genero Mahdi Hashimi, e causato crescenti critiche nei confronti della repubblica islamica ed in particolare verso il suo sistema giudiziario. Il 31 luglio 1988 scrisse una lettera all’Imam lamentando le uccisioni –a suo giudizio arbitrarie- di appartenenti ai Mujahiddin del Popolo che erano avvenute in carceri iraniane dopo che il movimento, dalla sua basi in Iraq, aveva compiuto incursioni ad ampio raggio nel territorio iraniano durante le ultime fasi della guerra con l’Iraq. La vicenda si concluse l’anno seguente, ed il 28 marzo 1989 l’Imam scrisse a Montazeri che accettava la sua rinuncia alla successione, rinuncia che, date le circostanze, egli era stato obbligato a presentare (Sahifa-yi Nur, XXI, pp. 112).


7 - La fine

Il 3 giugno 1989, dopo undici giorni trascorsi in ospedale per un’operazione destinata a fermare un’emorragia interna, l’Imam Khomeini entrò in coma e morì.  Le espressioni di cordoglio furono massicce e spontanee in una perfetta contrapposizione con quelle di gioia che avevano accolto il suo ritorno in patria poco più di dieci anni prima. Tale era l’ampiezza della folla in lutto, stimata in circa nove milioni di persone, che il suo corpo dovette essere portato sul luogo di sepoltura –a sud di Teheran, sulla strada per Qom- con un elicottero. Attorno alla tomba dell’Imam è sorto un complesso di edifici ancora in espansione; sul posto sta in sostanza sorgendo una città vera e propria, dedicata al pellegrinaggio [ziyara] ed agli studi religiosi.
Il testamento di Khomeini fu reso pubblico poco dopo la sua morte. Si tratta di un lungo documento che si rivolge essenzialmente alle diverse classi della società iraniana e le esorta ad adoperarsi per la conservazione ed il rafforzamento della Repubblica Islamica.
E’ significativo che esso si apra con una lunga meditazione sullo hadith-i thaqalayn: “Io vi lascio due grandi e preziose cose: il Libro di Dio e la mia discendenza; non verranno separate l’una dall’altra, fin quando non mi incontreranno alla fonte”. Khomeini interpreta le avversità che i Musulmani hanno dovuto affrontare nel corso della loro storia, ed in particolare quelle dell’epoca attuale, vedendo in esse il risultato degli sforzi deliberatamente compiuti per separare il Corano dalla discendenza dell'Inviato (benedizione su di lui).

Khomeini ha lasciato un retaggio considerevole. Non soltanto ha lasciato al suo paese un sistema politico che riesce a far coesistere il principio della leadership religiosa con quello di un organismo legislativo e di un capo dell’esecutivo sottoposti ad elezione, ma anche un’etica ed un’immagine nazionale completamente nuovi, un atteggiamento di dignitosa indipendenza nel confronto con l’Occidente che è raro riscontrare nel mondo islamico. Khomeini era profondamente imbevuto della tradizione e della visione del mondo sciite, ma considerava la rivoluzione che aveva guidato e la repubblica che aveva fondato come la base per un risveglio mondiale dell’intera comunità dei credenti. Si adoperò per questo pubblicando in più occasioni, tra l’altro, esortazioni al pellegrinaggio e mettendo in guardia i credenti contro i pericoli provenienti dal dominio americano in medio oriente, l’instancabile attività di Israele per la sovversione del mondo islamico, e l’atteggiamento servile verso Israele e gli USA tenuto da molti governi mediorientali. Il raggiungimento dell’unità tra sciiti e sunniti fu una tra le cause per cui si adoperò più a lungo; Khomeini fu tra l’altro la prima autorità sciita a dichiarare incondizionatamente valida la preghiera di fedeli sciiti ufficiata da un imam sunnita.
Va infine sottolineato che, nonostante l’ampiezza dei traguardi politici raggiunti, la personalità di Khomeini era essenzialmente quella di uno gnostico, per il quale l’attività politica non rappresentò altro che lo sbocco naturale di una intensa vita interiore dedita alla devozione. La visione onnicomprensiva dell’Islam che riuscì ad articolare e di cui costituì vivo esempio rappresenta la sua eredità più importante.

Bibliografia

Opere dell’Imam Khomeini

[a] Opere sulla gnosi
[b] Opere sul fiqh
[c]  Scritti sul governo islamico
[d] Proclami, discorsi, messaggi, lettere, testamento
[e] Altre fonti bibliografiche

[a] Opere sulla gnosi
(1) Sharh Du'a' al-Sahar, commento sulla preghiera di implorazione pronunciata nel corso del Ramadan dall’Imam Muhammad al-Baqir, ed. Sayyid Ahmad Fihri, Tehran, 1362 Sh./1983 (scritto in arabo).
(2) Traduzione in persiano di (1) ad opera di Fihri, Tehran, 1370 Sh./1991.
(3) Sharh Hadith Ra's al-Jalut, commento su uno scritto dell’Imam Riza diretto al Rabbino Capo suo contemporaneo, non pubblicato (arabo).
(4) Hashiya 'ala Sharh Hadith Ra's al-Jalut, glosse ad un commento di Qazi Sa'id Qommi diretto alla stesso personaggio, non pubblicato (arabo).
(5) Al-Ta'liqa 'ala 'l-Fawa'id al-Radawiya, glosse ad un commento di Qazi Sa'id Qommi su alcuni hadith dell’Imam Riza, Tehran, 1417/1996 (arabo).
(6) Sharh-i Hadith-i 'Junud-i 'Aql va Jahl, un’opera dettagliata e sistematica che illustra il pensiero dell’Imam Khomeini sulla gnosi, l’etica e la teologia, di prossima pubblicazione (persiano).
(7) Misbah al-Hidaya ila 'l-Khilafa wa 'l-Wilaya, sulla realtà interiore dell’Inviato e dei Dodici Imam della Ahl al-Bayt, introduzione e commento a cura di Sayyid Jalal al-Din Ashtiyani, Tehran, 1372 Sh./1993 (arabo).
(8) Ta'liqat 'ala Sharh Fusus al-Hikam wa Misbah al-Uns, note sul commento di Qaysari's al Fusus e sul commento di Muhammad Fanari al Miftah al-Ghayb di Sadr al-Din Qunawi, Qom, 1365
Sh./1986 (arabo).
(9) Sharh-i Chihil Hadith, un ponderoso commento a quaranta hadith, la maggior parte dei quali inerenti questioni di gnosi e di etica, Tehran, 1372 Sh./1993 (persiano).
(10) Sirr al-Salat (Salat al-'Arifin wa Mi'raj al-Salikin), dettagliata analisi dei significati principali del pregare, con una prefazione dell’Ayatollah Javadi-Amuli, Tehran, 1369 Sh./1980 (persiano).
(11) Adab-i Namaz , altra indagine sulle caratteristiche della preghiera, Tehran,1372 Sh./ 1993
(persiano).
(12) Risala-yi Liqa'ullah, un breve trattato sul significato che andrà assegnato in futuro all’espressione “l’incontro con Dio” pubblicato in appendice ad un più lungo lavoro di Hajj Mirza Javadi
Maliki-Tabrizi sullo stesso argomento e con lo stesso titolo, Tehran, 1360 Sh./1981, pp. 253-60
(persiano).
(13) Hashiya bar Asfar-i Arba'a, note in margine all’Asfar di Mulla Sadra, non pubblicate (arabo?).
(14) Risala fi 'l-Talab wa 'l-Irada, traduzione in persiano e commento a cura di Sayyid Ahmad Fihri,
Tehran, 1362 Sh./1983 (arabo).
(15) Tafsir-I Sura-yi Hamd, commenti vari sul Surat al-Fatiha, Tehran, 1375 Sh./1996
(persiano).

Traduzioni:
(1) "Lectures on Surat al-Fatiha," in Islam and Revolution, tradotto da Hamid Algar, Berkeley,
1981, pp. 365-425;
(2) Rahasia Basmalah dan Hamdalah, tradotto da Zulfahmi Andri, Bandung, 1994
(3) Noqta-yi 'Atf, una raccolta di lettere e di scritti diretti a Hajj Sayyid Ahmad Khomeini,
Tehran, 1373 Sh./1995 (Persiano)
(4) Mahram-i Raz, altra raccolta di documenti dello stesso genere, Tehran, 1373 Sh./1995 (Persiano)
(5) Jilvaha-yi Rahmani, terza raccolta, Tehran 1371 Sh./1992 (Persiano)
(6) Divan-i Imam Khomeini, una raccolta di ghazal di prevalente argomento mistico, scritti nello stile di Jalal al-Din Rumi e di Hafiz, Tehran, 1372 Sh./1993 (Persiano)
(7) Sabu-yi 'Ishq, i ghazal scritti dall’Imam Khomeini durante gli ultimi due anni della sua vita,
Tehran, n.d. (Persiano)
(8) Jihad-i Akbar ya Mubaraza ba Nafs, lezione sull’autopurificazione tenuta a Najaf, Tehran, 1373
Sh./ 1994. (Persiano)

[b] Opere sul fiqh
(1) Anwar al-Hidaya fi 'l-Ta'liqa 'ala 'l-Kifaya, note sul Kifayat al-Usul di Shaykh Muhammad
Kazim Khurasani sullo usul al-fiqh, 2 volumi, Tehran, 1372 Sh./1993 (Arabo)
(2) al-Rasa'il, una serie di quattro trattati Qa'idat La Darar; al-Istihsab; al-Ta'adul wa 'l-Tarjih; e
Fi 'l-Taqiya, annotati da Mujtaba Tihrani, Qom 1385/1965 (Arabo)
(3) Bada'i' al-Durar fi Qa'idat Nafy al-Darar, edizione critica del primo trattato dello al-Rasa'il, Tehran,
1414/1993 (Arabo)
(4) Manahij al-Wusul ila 'ilm al-usul, trattazione sistematica sullo usul al-fiqh, con introduzione e note dello Ayatollah Fazil Lankurani, 2 volumi, Tehran, 1372 Sh./1993 (Arabo)
(5) Risala fi Qa'idat Man Malak, inedito (Arabo)
(6) Risala fi Ta'yin al-Fajr fi 'l-Layali 'l-Muqmara, uno scritto sul come determinare il momento dell’alba nelle notti di luna, Qom, 1368 Sh./1990 (Arabo)
(7) Kitab al-Tahara, su questione di purificazione rituale, 4 volumi, Najaf, 1389/1969
(8) Ta'liqa 'ala 'l-'Urwat al-Wuthqa, commento allo al-'Urwat al-Wuthqa di Sayyid Muhammad Kazim Yazdi (m. 1919), un trattato onnicomprensivo su tutte le categorie del fiqh, Qom, 1340 Sh./ 1961
al-Makasib al-Muharrama, sui modi illeciti di arricchirsi, 2 volumi, Qom, 1381/1961 (Arabo)
(9) Ta'liqa 'ala Wasilat al-Najat, commento alla raccolta di fatwa  dello Ayatollah Sayyid Abu 'l-Hasan Isfahani (m. 1946), Qom, n.d. (Arabo)
(10) Hashiya bar Risala-yi Irth, commento al trattato di Mulla Hashim Khurasani sul diritto ereditario, Qom, n.d. (Persiano)
(11) Taudih al-Masa'il (Risala-yi Ahkam), manuale di introduzione al fiqh, ristampato molte volte; la miglior edizione è quella curate dallo Ayatollah Rizvani, Tehran, 1408/1987 (Persiano)
(12) Zubdat al-Ahkam, versione araba condensata del precedente, Tehran, 1404/1984
(13) Kitab al-Bay', su questioni inerenti le transazioni commerciali, 5 volumi., Najaf, 1396/1976
(Arabo)
(14) Kitab al-Khilal fi 'l-Salat, sugli atti che possono invalidare la preghiera, Qom, n.d. (Arabo)
(15) Tahrir al-Wasila, manuale su tutte le questioni del fiqh, 2 volumi, Najaf, 1390/1970 (Arabo)
(16) Al-Dima' al-Thalatha, note dello Hoyatoleslam Sadiq Khalkhali sulle lezioni dell’Imam in materia di purificazione rituale, Qom 1403/1983 (Arabo)
(17) Istifta'at, una raccolta di circa duemilacinquecento fatwa emesse dall’Imam dopo il trionfo della rivoluzione, Qom, Vol. I, 1366 Sh./1987, Vol. II, 1372 Sh./1993 (la maggior parte in lingua persiana, alcune in arabo)
(18) Ahkam al-Islam bayn al-sa'il wa 'l-imam, un’antologia di fatwa tratte dal testo precedente, Beirut, 1413/1992 (Arabo)
(19) Manasik-i Hajj, una trattazione sui rituali del pellegrinaggio, Tehran, 1370 Sh./1991 (Persiano).

[c] Sul governo islamico
Vilayat-i Faqih ya Hukumat-i Islami, raccolta delle lezioni tenute dall’Imam Khomeini a Najaf  nel 1348 Sh./1969. Varie ristampe.

Traduzioni:
al-Hukumat al-Islamiya, Najaf, 1389/1969; "Islamic Government," in Islam and Revolution,
tradotto da Hamid Algar, Berkeley, 1981, pp. 27-166.

[d] Proclami, discorsi, messaggi, lettere e testamento
(1) Majmu'a'i az Maktubat, Sukhanraniha, Payamha va Fatavi-yi Imam Khumayni, 2 volumi, Tehran,
1360 Sh./1981 (Persiano)
(2) Sahifa-yi Nur, 22 volumi, Tehran, 1361-1371 Sh./1982-1992 (disponibile anche su CD Rom) (Persiano)
(3) Payam-i Inqilab , 2 volumi, Tehran, 1360 Sh./1981 (Persiano)
(4) Kauthar, 2 volumi, Tehran, 1373 Sh./1994 (Persiano)
(5) Ava-yi Tauhid, testo del messaggio inviato a Gorbaciov, Tehran, 1367 Sh./1989 (Persiano)
(6) Sahifa-yi Inqilab: Vasiyat-nama-yi Siyasi-Ilahi-yi Rahbar-i Kabir-i Inqilab-i Islami va Bunyanguzar-i Jumhuri-yi Islami-yi Iran Hazrat-i Ayatollah al-'Uzma Imam Khumayni, Tehran, 1368 Sh./1989.

Traduzioni:
Nass al-Wasiyat al-Ilahiyat al-Siyasiya li 'l-Imam al-Qa'id Ruhullah al-Musawi al-Khumayni, Tehran,
1989; Ultime volontà e testament dello Ayatollah Khomeini, Washington D.C., 1989

[e] Altre fonti bibliografiche
(1) Hamid Algar, "Imam Khomeini, 1902-1962: The Pre-Revolutionary Years,"
(2) Islam, Politics and Social Movements, eds. Edmund Burke ed Ira Lapidus, Berkeley e Los Angeles, 1989, pp. 263-88 Idem, "Religious Forces in Twentieth Century Iran," Cambridge History of
Iran, VII, Cambridge, 1991, pp. 751-5, 759-64; Idem, "The Fusion of Gnosticism and Politics in the
Personality and Life of Imam Khomeini," in corso di pubblicazione
(3) Anonimo, Biugrafi-yi Pishva, Najaf, n.d.
(4) Hamid Ansari, Hadis-i Bidari, Tehran, 1374 Sh./1995 Idem, Muhajir-i Qabila-yi Iman, Tehran,
1375 Sh./1996 (una biografia di Hajj Sayyid Ahmad Khomeini, secondogenito dell’Imam)
(5) Muhammad Taqi Bushihri, "Ruhullah Khumayni: Tufuliyat, Sabavat va Shabab," Chashm-andaz, 5 (autunno, 1368 Sh./1989), pp. 12-37; Idem, "Ruhullah Musavi Khumayni: Dauran-I Tahsil va Ta'allum dar Dar al-Aman-i Qom," Chashm-andaz, 10 (spring, 1371 Sh./1992), pp. 52-68 Idem, "Ruhullah Musavi Khumayni: Ta'allum dar Hauza-yi 'Ilmiyya-yi Qom," Chashm-andaz, 11 (inverno, 1371 Sh./1992), pp. 38-5; Idem, "Ruhullah Musavi Khumayni: Mu'alliman va Ustadan," Chashmandaz, 12 (Winter, 1372 Sh./1993), pp. 44-57; Idem, "'Arif-i Kamil Mirza Muhammad 'Ali Shahabadi, Mu'allim va Murad-i Ruhullah Musavi Khumayni," Chashm-andaz, 13 (Spring 1373 Sh./1994), pp. 32-41.
(6) Christian Bonaud, L'Imam Khomeyni, un gnostique méconnu du Xxe siecle, Beirut, 1997
(7) Norman Calder, "Accommodation and Revolution in Imami Shi'I Jurisprudence: Khumayni and the Classical Tradition," Middle Eastern Studies, 18 (1982), pp. 3-20
(8) Robin Woodsworth Carlsen, The Imam and his Islamic Revolution, Victoria B.C., 1982
(9) 'Ali Davani, Nahzat-i Ruhaniyun-i Iran, 11 volumi, Tehran, n.d.
(10) Muhammad Riza Hakimi, Tafsir-i Aftab, Tehran, n.d.
(11) Hajj Sayyid Ahmad Khumayni, Pidar, ay 'Alamdar-i Maktab-i Mazlum, Tehran, 1372 Sh./1993
(12) Heinz Nussbaumer, Khomeini: Revolutionar in Allahs Namen, Munich and Berlin, 1979
(13) Ayatollah Pasandida, Khatirat, Tehran, 1374 Sh./1995
(14) Muhammad Hasan Rajabi, Zindagi-nama-yi Siyasi-yi Imam Khumayni az Aghaz ta Tab'id, Tehran, 1370 Sh./1991
(15) Muhammad Sharif Razi, Asar al-Hujja, Qom, 1332 Sh./1953, I, pp. 44-6
(16) Sayyid Hamid Ruhani, Barrasi va Tahlili az Nahzat-i Imam Khumayni, I, Najaf, 1356 Sh./1967, II, Tehran, 1364 Sh./1985
(17) Farhang Rajaee, Islamic Values and World View: Khomeyni on Man, the State and International Politics, Lanham, Maryland, 1983
(18) Kalim Siddiqui, Hamid Algar, et al., Gerbang Kebangkitan: Revolusi Islam dan Khomeini dalam Perbincangan, Yogyakarta, 1984
(19) Dirasat fi 'l-Fikr al-Siyasi li 'l-Imam al-Khumayni, ed. Muhammad 'Ali Taskhiri, Qom, 1416/1995
(20) Shahidi Digar az Ruhaniyat, Najaf, n.d. (documenti e testimonianze su Hajj Sayyid Mustafa Khomeini, il primogenito dell’Imam)
(21) Sarguzashtha-yi Vizha az Zindagi-yi Hazrat-i Imam Khumayni, 6 volumi, Qom, 1368 Sh./1989 (ricordi dell’Imam espressi da varie personalità).