Il rischio di ritrovarsi a rischio, dal punto di vista geostrategico, oggi è sempre più alto. Se consideriamo la guerra civile in Ucraina con i possibili sviluppi della vicenda dell'aereo di linea della Malaysia abbattuto la settimana scorsa, la decisione degli Stati Uniti di "punire" Putin per non aver fatto sì che i miliziani del Donbass si arrendessero a Poroshenko, l'ascesa dell'ISIL e lo smembramento di fatto dell'Iraq o anche l'andamento dei negoziati con l'Iran, che vertono su un concetto di "soglia di capacità" palesemente artificiosa, o anche i cinquecento milioni di dollari stanziati dagli USA per moderare gli insorti moderati in Siria, o infine l'offensiva militare dello stato sionista contro i palestinesi, ci accorgiamo che ciascuno di questi fatti, considerato da solo, ha la potenzialità di causare cambiamenti esplosivi nel panorama politico del Medio Oriente e del mondo intero. Sono tutte crisi che si intersecano e compenetrano, e che costituiscono un rischio per il sistema. Fra l'altro, tutte quante sembrano condividere una caratteristica in comune, quella di mettere in evidenza un qualche fallimento della politica ameriKKKana di tale portata da impedire un serio tentativo di comprendere gli eventi dal punto di vista strategico, insieme ai rischi concatenati che essi comportano. Il problema è questo: perché un rischio sistemico di questa portata viene affrontato con nessuna reattività dallo stesso sistema?
All'inizio l'avanzata dell'ISIL nelle regioni sunnite dell'Iraq -come ci hanno confermato i nostri contatti a Washington- ha originato un dibattito vivace negli USA circa l'opportunità di cooperare con la Repubblica Islamica dell'Iran per contrastare l'impatto di un simile evento, potenzialmente devastante per la stabilità dell'intera regione. Si era accesa anche qualche debole speranza -specie alla Casa Bianca e tra i funzionari del Dipartimento di Stato- sul fatto che una collaborazione del genere avrebbe potuto facilitare i negoziati tra l'Iran ed il "cinque più uno" sulle attività nucleari iraniane. Sulla base di queste prime aspettative, il vicesegretario di Stato William Burns è stato chiamato a far parte della delegazione statunitense ai colloqui viennesi dei "cinque più uno", ripresi il sedici giugno: lo scopo non era solo quello di rendere più incisiva la capacità di negoziazione statunitense, ma anche quello di presentare agli iraniani un interlocutore autorevole, con cui potessero cominciare ad affrontare la questione dell'Iraq.
Le aspettative di Washington sulla prospettata cooperazione con Tehran hanno avuto vita breve.
Negli ambienti politici statunitensi la discussione ha portato all'affermarsi dell'idea che le vittorie dell'ISIL fossero dovute essenzialmente alle politiche settarie del governo di Al Maliki più che ad altri e più sostanziali motivi; il che significa che negli ambienti politici statunitensi le si è considerate una rivolta sunnita e nulla più. Questa conclusione ha portato a sua volta l'amministrazione Obama a propendere per l'idea che qualunque cosa gli Stati Uniti avrebbero potuto fare in Iraq, a prescindere dalla collaborzione con l'Iran, avrebbe dovuto dipendere dall'abbandono di Al Maliki. In queste condizioni i principali attori dell'amministrazione Obama non sono riusciti a raggiungere alcun accordo sul se e sul come coinvolgere l'Iran.
Dapprincipio sia la Casa Bianca che il Dipartimento di Stato si erano mostrati disponibili ad azioni coordinate con Tehran, ma dall'altra parte il Ministero della Difesa si è imposto nel dibattito interno opponendosi all'iniziativa, sopratutto per il timore che una collaborazione del genere potesse far aumentare l'influenza dell'Iran, che in Iraq è già considerevole. A Washington, la pressione delle lobby che agiscono per lo stato sionista e per l'Arabia Saudita affinché l'interesse dell'amministrazione Obama per un coinvolgimento iraniano in Iraq non finisse con l'indebolire la posizione statunitense nei negoziati nucleari con l'Iran ha rafforzato la preoccupazione.
A Tehran invece la situazione venutasi a creare in Iraq è stata affrontata fin dal principio in modo piuttosto diverso. L'Iran non intende considerare la crisi come un qualche cosa che si possa usare per minare la posizione di Al Maliki, il quale tra l'altro ha appena ottenuto la maggioranza dei seggi al parlamento. I politici iraniani hanno messo in chiaro che per avere un qualche effetto positivo qualunque iniziativa gli Stati uniti intendano prendere in risposta alla crisi irachena deve essere diretta la rafforzamento della capacità del governo iracheno di combattere i militanti jihadisti. Il Presidente Rohani ha detto che Washington dovrebbe riconsiderare la questione degli aiuti che fornisce all'estremismo jihadista in Medio Oriente, a cominciare dal sostegno elargito ai militanti jihadisti nella Repubblica Araba di Siria, ed aprire un confronto con l'Arabia Saudita e con gli altri alleati della regione circa il sostegno da essi fornito agli jihadisti takfiri.
L'Iran preferisce di gran lunga evitare un coinvolgimento militare diretto in Iraq, e spera ancora di riuscire ad evitarlo; considera un intervento militare statunitense come intrinsecamente controproducente anche se limitato alle incursioni aeree; a maggior ragione se si trattasse del dislocamento di truppe sul terreno. Di conseguenza Tehran non ha interesse a collaborare mano nella mano con Washington in Iraq, ma ne avrebbe invece a cooperare sul piano della definzione strategica della questione.
Alla fin fine l'amministrazione Obama ha trovato più facile, sul piano politico, abbandonare gli iniziali tentativi di esplorare le possibilità di una cooperazione irano-statunitense sull'iraq. Inoltre, si è riaffermata la radicata resistenza di Washington contro qualsiasi cosa che possa agevolare gli interessi dell'Iran in Medio Oriente, cosa che ha prodotto un ulteriore restringimento dello spazio politico a disposizione per esplorare la possibilità di una cooperazione con Tehran, come ci hanno confermato i nostri contatti negli Stati uniti.
Insomma, l'amministrazione statunitense a fronte di una minaccia da parte dell'estremismo sunnita radicale più seria di quella che è nata negli anni Ottanta dalla guerra in Afghanistan, si accontenta benevolmente di far sì che le implicazioni di quanto siano frutto del
"lasciar fare agli avvenimenti".
L'AmeriKKKa ha chiuso entrambi gli occhi sull'utilizzo che l'Arabia Saudita ha fatto delle forze legate allo jihadismo radicale, ISIL innanzitutto, in nome dei propri fini settari e geopolitici. E' il caso di ricordare che l'idea che lo jihadismo radicale sia sostanzialmente tutta colpa di Assad e di Al Maliki serve a distogliere l'attenzione dal fatto che l'ascesa dell'ISIL è dovuta a questo. Questo atteggiamento presuppone anche il credere, in una certa misura, alle rassicurazioni che arrivano dal Golfo: l'ISIL sarà
sistemato dopo che avrà svolto la sua parte. Un'idea che possiamo ascrivere quasi certamente al mondo della fantasia.
Il punto è che nelle agitate acque della politica statuitense, in cui le correnti avverse sono forti, è stato più semplice NON pensare a quali rischi strategici comporti il soffiare un'altra volta sul fuoco dell'Islam sunnita radicale. La prima volta è stato fatto trent'anni fa, e il risultato sono stati decenni di "Guerra al terrore".
In Palestina stiamo assistendo a qualcosa di simile:
lo stato sionista ha usato il pretesto della ricerca dei tre giovani coloni rapiti, che "si presumevano" ancora in vita ma che il governo sionista sapeva essere già morti, e per mano di palestinesi che NON appartenevano a Hamas, per umiliare Hamas nella West Bank e a Gaza. Il Primo ministro Netanyahu
ha detto, in ebraico: "Adesso penso che il popolo dello stato sionista abbia capito quello che ho sempre detto: non può esistere alcun caso, definito da nessun accordo, che preveda che abdichiamo al controllo della sicurezza sul territorio ad ovest del Giordano". In altre parole, non può esistere alcuna soluzione basata su due stati e non si prevede alcuna fine dell'occupazione.
Netanyahu ha usato gli omicidi per nutrire il risentimento popolare contro Hamas, che il Primo Ministro ha ripetutamente additato come responsabile mentre non lo era affatto. Tra i palestinesi si è acceso un atteggiamento speculare dopo che per vendetta un palestinese sedicenne è stato bruciato vivo. L'obiettivo che Netanyahu si prefiggeva con questo imbroglio era innanzitutto quello di colpire Hamas nella West Bank, e poi quello di tentare di ristabilire lo status quo a Gaza, ovvero il ritorno al governo dell'Autorità Palestinese. L'accordo di cessate il fuoco raggiunto con Hamas a
dicembre del 2012, che secondo i sionisti Hamas avrebbe violato lanciando più volte dei razzi, di fatto prevedeva un alleggerimento al perenne accerchiamento e al sempiterno assedio della popolazione di Gaza;
lo stato sionista non ha mai attuato gli accordi.
Ora, Netanyahu vuole rimettere in piedi un assedio vero e proprio (vale a dire la situazione precedente all'accordo)
facendolo figurare come un cessate il fuoco; Hamas sta cercando di spezzare l'assedio una volta per tutte. Hamas intende utilizzare
le tattiche che Hezbollah ha usato in Libano nel 2006. I vertici del movimento se ne stavano ben nascosti nel sottosuolo e hanno lasciato che i primi bombardamenti a tappeto si accanissero contro le loro forze militari, in gran parte uscite indenni. Nel frattempo i combattenti di Hezbollah continuavano il loro lancio di razzi contro lo stato sionista.
I razzi non sono mai stati usati con l'idea di infliggere ai sionisti una sconfitta militare, ma per costringere l'esercito sionista a scendere sul terreno del Libano meridionale, che è l'ideale per le azioni di guerriglia. E dove i sionisti avrebbero potuto incappare in qualche lezione dolorosa. In effetti, l'unico modo possibile per rispondere al lancio di razzi che possono essere messi in posizione e lanciati in meno di un minuto -molto meno di quanto impiegassero i sionisti a puntare le loro armi sul luogo da cui avveniva il lancio- non può essere che il mandare in zona truppe di terra.
Resta da vedere se le tattiche di Hamas funzioneranno: Gaza è per lo più pianeggiante e sabbiosa, a differenza del Libano del sud, e questo mette Hamas in condizioni di svantaggio. Certamente il braccio militare di Hamas, che è quello cui toccano le decisioni, non vuole un cessate il fuoco immediato, specie se del tipo che nasconde qualche fregatura. "La mia fonte nello stato sionista",
ha scritto l'editorialista Richard Silverstein, "è stato consultato nei negoziati e mi ha detto che i negoziati non sono in realtà una proposta degli egiziani. Sono una proposta dello stato sionista, presentata come se fosse una proposta egiziana. Lo stato sionista ha redatto il protocollo per la tregua. Sicché, una delle due parti ha preparato il cessate il fuoco, lo ha presentato a se stessa e lo ha accettato. L'altra parte non è stata nemmeno consultata". Tony Blair, il rappresentante dei "quattro", ha avallato la "tregua".
Hamas vuole costringere Netanyahu ad invadere Gaza via terra, e pare esserci riuscito. Dal canto loro, Netanyahu e il presidente Al Sissi sperano di poter usare un qualunque accordo di cessate il fuoco per far tornare Gaza allo status quo e soprattutto per sostituire Hamas come autorità e come organismo di governo con l'Autorità Palestinese. In altre parole, per ordire un "golpe morbido" a Gaza, come nel 2007.
Il punto dolente, qui, è la stoltezza di tutto questo. I funzionari dei servizi sionisti hanno detto senza mezzi termini che
falciare l'erba, vale a dire uccidere abitanti di Gaza in numero sufficiente a costituire un deterrente per ogni attacco, almeno fino alla prossima volta in cui il conflitto si riaccenderà, non serve a nulla. Si tratta di una mossa meramente tattica e a breve termine, che non raggiunge alcun risultato strategico. Lo stato sionista deve solamente continuare a lavorare di falce.
La questione palestinese, anche se è uscita un po' dall'attenzione nel corso degli ultimi anni, per la maggior parte dei musulmani resta nevralgica ed iconica. E? a tutt'oggi la materia fondante che può seppellire le diatribe regionali. Può avere, e nei fatti ha, un effetto destabilizzante sulla politica: i leader dei paesi arabi temono ancora il suo irrompere nei telegiornali, anche se la questione non ha più la portata che aveva nei primi decenni. E' chiaro che la situazione a Gaza è instabile e critica, e che non è possibile andare avanti all'infinito in questo modo; l'idea dei due stati è rimasta lettera morta per anni e Martin Indyk ha recentemente confermato il fatto che
è stata abbandonata. Gli
europei e gli ameriKKKani paiono in preda ad una paralisi decisionale, trovano più facile, visto che sul piano politico sono in tanti a remare contro, lasciar fare agli eventi.
Forse, l'unico caso in cui gli Stati Uniti hanno una linea politica chiara è rappresentato dall'Ucraina. L'elemento neoconservatore dell'amministrazione statunitense ha insistito con gli europei affinché venissero implementate sanzioni più dure contro la Russia, anche se Washington non ha ancora spiegato loro a cosa servano, nonostante i politici dell'Unione Europea stiano iniziando a lamentarsi della cosa; Washington non ha nemmeno spiegato quale senso abbiano dal punto di vista strategico, visto che è possibile che danneggino gli interessi europei più di quelli russi.
Tutto questo lavorio non è stato meno controproducente di quanto successo in quei casi in cui l'amministrazione ha deciso di rimanere inerte, o abbia gettato la spugna sotto il peso delle paralisi interne. Gli sforzi dell'amministrazione per sabotare i tentativi di Angela Merkel di arrivare di concerto con Putin ad una soluzione diplomatica della crisi ucraina sono stati attuati spingendo Poroshenko a mettere in atto azioni militari su scala ancora più vasta; questo insistere sulle sanzioni, insieme all'aver minimizzato le preoccupazioni tedesche sulle attività di spionaggio degli Stati Uniti, sono arrivati al punto di mettere veramente in crisi un'alleanza di importanza fondamentale come quella con la Germania. Ed ha causato una frattura nell'Unione Europea; Germania, Austria, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Lussemburgo e Slovenia sono favorevoli ad un atteggiamento conciliante nei confronti della Russia e costituiscono un campo incline a seguire la linea dei tedeschi. Ad esso si contrappone un blocco assai più piccolo che si oppone alla Russia, di cui fanno parte soprattutto la Polonia e i tre paesi baltici, e che ha fatto propria la linea ameriKKKana.
Anche qui troviamo un paradosso: in Occidente si pensa per lo più che mentre le sanzioni diplomatiche occidentali contro la Russia sono state accolte con scherno, l'unica cosa che davvero danneggerà l'economia russa è rappresentata dalle sanzioni unilaterali decise dall'AmeriKKKa e che prevedono un embargo sul mercato dei capitali. La misura è stata imposta ad alcuni settori in cui i russi hanno interessi, le imprese russe si trovano a dover rifondere centoquindici miliardi di dollari di debiti per i prossimi dodici mesi e dopo i fatti di Crimea nessun eurobond russo è stato collocato con successo. SOlo che, come scrive
Bloomberg, è possibile che chi si aspetta che i grandi gruppi russi entrino in sofferenza è probabilmente destinato a rimanere deluso.
I russi devono pagare centoquindici miliardi di dollari in dodici mesi e secondo Il servizio investitori di Moody's e secondo Fitch si troveranno a non poter avere accesso al mercato del prestito e a quello obbligazionario a causa della crisi ucraina. Moody's ha preso in considerazione quarantasette casi ed ha rilevato che le imprese avranno a loro disposizione cento miliardi in denaro liquido e in incassi, nel corso dei prossimi diciotto mesi. Quasi tutti i cinquantacinque casi esaminati da Fitch, invece, sono in una "buona posizione" per affrontare il caso che venga loro meno l'accesso ai finanziamenti per il resto del 2014, questo è scritto in una comunicazione del sedici aprile scorso. Le banche dispongono di oltre venti miliardi in valuta estera che possono concedere in prestito, perché le tensioni hanno spinto i clienti a convertire in valuta i loro risparmi in rubli", spiegano alla ZAO Raiffeisenbank.
"I liquidi a disposizione, il credito bancario e i flussi di cassa previsti sono sufficienti a far sì che le imprese possano tranquillamente far fronte alle proprie necessità", ha detto per telefono Denis Perevezentsev, analista di Moody's a Mosca.
L'inasprirsi dell'atteggiamento statunitense contro la Russia, e contro la persona di Putin in particolare, ha più che altro a che vedere con la politica interna; non è caratterizzato dal minimo desiderio di capire quali rischi strategici comporti il permettere all'incoerenza di dominare in un campo così ampio di situazioni tanto volatili. Con questo non si intende affatto dire che europei e statunitensi dovrebbero agire in modo più incisivo. Non dovrebbero farlo. Ma se pensano che sia più facile lasciar fare agli eventi, in situazioni che richiedono solo un minimo di comprensione in più, non accolgano poi con sorpresa il fatto di essersi fatti sorprendere dagli eventi. Quello che manca è una più profonda comprensione: il fatto che essa manchi è determinate per la qualità dei rischi geopolitici che dobbiamo affrontare oggi.
E che cos'è che ha preso il posto della comprensione? Perché situazioni tanto pericolose come il fatto che si soffi di nuovo sul fuoco del radicalismo sunnita, come la guerra in Ucraina, il conflitto in Siria e quello in Iraq, il termine ultimo dei negoziati con l'Iran che si avvicina e la repressione a Gaza vengono tutte affrontate con tanta incoerenza strategica? Non è che gli ufficiali superiori non ci arrivino, come si suol dire; molti di loro sanno benissimo con cosa hanno a che fare, ma sembra che si trovino con le mani legate, in un vicolo cieco intellettuale e politico che li rende incapaci di prendere decisioni, o di azzardarsi a sbugiardare il gergo politichese.
Abbiamo già scritto del vuoto che si è aperto nella politica occidentale (si veda
qui). Questo vuoto è dovuto al disimpegno e al disincanto che la gente prova nei confronti dei partiti politici e da come i politici di centro, dagli anni Ottanta in avanti, hanno deliberatamente scelto allo stesso tempo di
ritirarsi dalla politica, spesso ostentando disprezzo nei confronti dei loro stessi partiti ed atteggiandosi come gente che in qualche modo si era innalzata al di sopra delle ideologie, dell'etica e che traeva gioia dall'essere riuscita a "depoliticizzare" in qualche modo l'assunzione di decisioni politiche,
diventando più che altro dei tecnocrati che si basavano sul "consiglio di esperti" come i banchieri, gli uomini d'affari e i tecnici. Tutta gente "esperta", da preferire al proprio consiglio dei ministri o al proprio partito. A partire da tutto questo c'è stato qualcuno, ad esempio Tony Blair, che ha potuto sostenere che di fatto non si occupava per niente di politica.
La conseguenza di tutto questo è il fatto che
si è aperto un vuoto politico. Fino a quando la cosa non ha cominciato a riguardarli personalmente,
gli elettori hanno anche potuto fare a meno di preoccuparsi del fatto che erano stati effettivamente privati di ogni potere, ma questa noncuranza è venuta meno quando è stata la volta della "austerità". La gente sente di star pagando, ingiustamente, il prezzo elle pecche del sistema finanziario. Claudio Gallo ha identificato le origini di questo processo di depoliticizzazione nel gemmare del neoliberismo a partire dal liberalismo europeo, che a suo dire resta qualcosa di diverso dalla cosa a cui ha dato origine (la sua analisi trascura l'influenza del trotzkismo sul neoliberismo, specie in quello ameriKKKano). Altri hanno
documentato molto bene in che modo il nuovo spirito neoliberista è stato fatto proprio dai "partiti di centro" del vecchio continente come il Labour Party, che è arrivato in modo semplice e paradigmatico a concludere che
l'ideologia di Wall Street o la City di Londra non si potevano sfidare, e tanto basti: per avere successo in politica -ovvero per vincere le elezioni- occorreva far proprio il neoliberismo finanziario. Il nucleo della "rivoluzione" che ha portato al New Labour è questo. Gallo sostiene che il liberalismo ha sempre cercato, fin dalle sue origini, di presentarsi come "oltre la morale". Gallo nota come, anche prima di pubblicare il suo "La ricchezza delle nazioni" nel 1776, Adam Smith avesse affrontato lo studio dei sentimenti morali e come l'azione economica in Smith "rifugga la morale senza porsi contro di essa (sic)".
Il neoliberismo del New Labour e i democratici alla Clinton si sono proprio presentati come ideologicamente neutrali: la loro è l'ideologia della fine delle ideologie. Il loro non è un sistema politico in mezzo a tanti altri, determinato dalla storia e dal contesto sociale ma un fatto naturale, da considerarsi come dato. Il mercato che si regola da solo diventa dal punto di vista ideologico una specie di categoria universale, presente nella storia dell'umanità fin dai suoi albori.
Il punto critico è che in una società neoliberista non esiste nessuno che detenga davvero il potere politico. L'economia si regola da sola: gli individui massimizzano il proprio interesse materiale e la somma degli interessi individuali fa sì che si determini il benessere della società intesa nel suo complesso. I neoliberisti cercano sempre di fare in modo che le invisibili forze del mercato possano operare senza ostacoli, in modo che possano arrivare ai "verdetti del mercato".
Pare che oggi ci sia dato di vedere all'opera gli stessi principi tecnocratici, applicati alla politica estera. In politica estera le dinamiche del potere vengono considerate rivolte a "verdetti del mercato" di natura razionale, sicché si lascia tutto allo scorrere degli eventi. Secondo la stessa logica il "mercato" internazionale in cui operano gli equilibri di potere dovrebbe essere messo in condizioni di operare senza vincoli. A governare ci pensano tecnici razionali, che si limitano a lasciare che il mercato funzioni e che si adattano a ciò che esso sentenzia. In questo modo, i politici possono davvero sostenere di trovarsi al di sopra delle ideologie ed al di sopra dell'etica, anche se ovviamente la loro è un'ideologia di facciata. Il mantenimento di questa facciata ed il far credere alla gente che essa corrisponde alla realtà hanno avuto un'influenza fondamentale nell'orientare i mass media e la cultura dei nostri tempi.
Tutto questo riesce in qualche misura a rispondere al continuo accumularsi delle incoerenze strategiche in cui l'Occidente è incorso durante l'ultimo decennio? Di sicuro il vuoto che si è venuto a creare con il distacco dalla politica messo in atto sia dai governati che dai governanti, e i tentativi di colmare questo vuoto che sia il nuovo populismo sia i partiti di destra e di sinistra stanno facendo, chiamati come sono ad occupare lo spazio rimasto vacante, rende parzialmente conto della paralisi decisionale in politica estera. Sono tempi pericolosi.