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18 dicembre 2024

Alastair Crooke - La fine della Siria (e della Palestina, per il momento) nella nuova mappa geopolitica in corso di definizione




Traduzione da Strategic Culture, 16 dicembre 2024.

La Siria è finita nell'abisso. I demoni di alQaeda, dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante e degli elementi più intransigenti dei Fratelli Musulmani si librano in cielo. Caos, saccheggi, paura, una terribile frenesia di vendetta che fa scorrere il sangue. Le esecuzioni sommarie si stanno moltiplicando.
Forse Hayat Tahrir al Sham (HTS) e il suo leader Al-Joulani, che sono agli ordini della Turchia, pensavano di tenere la situazione sotto controllo. Solo che quella di HTS è un'etichetta ombrello proprio come quelle di AlQaeda, di ISIS e di An-Nusra, e le sue fazioni hanno già iniziato a scontrarsi fra loro. Lo "Stato" siriano si è dissolto in una notte; la polizia e l'esercito hanno disertato in blocco lasciando i depositi di armi aperti al saccheggio degli Shebab. Le porte delle carceri sono state spalancate (o forzate). Alcuni detenuti erano senza dubbio prigionieri politici, ma molti non lo erano. Alcuni fra i detenuti più feroci ora sono a piede libero.
Lo stato sionista ha completamente distrutto in pochi giorni le difese dello Stato, lanciando oltre quattrocentocinquanta attacchi aerei. La contraerea, gli elicotteri e gli aerei dell'aeronautica siriana, la marina e i depositi di armi sono stati tutti distrutti nella "più grande operazione aerea nella storia dello stato sionista".
La Siria non esiste più come entità geopolitica. A est le forze curde -con il sostegno militare degli Stati Uniti- si stanno impadronendo delle risorse petrolifere e agricole dell'ex Stato. Le forze di Erdogan e i corpi armati sotto il loro controllo sono impegnati nel tentativo di schiacciare completamente l'enclave curda, sebbene gli Stati Uniti abbiano ora mediato una sorta di cessate il fuoco. Nel sud-ovest, i carri armati dello stato sionista si sono impadroniti del Golan e delle terre al di là di esso fino a 20 km da Damasco. Nel 2015 la rivista The Economist aveva scritto: "Oro nero sotto il Golan: i geologi dello stato sionista pensano di aver trovato petrolio in un territorio molto insidioso". I petrolieri dello stato sionista e quelli statunitensi sono convinti di aver trovato un tesoro, in quella landa disagevole.
E la Siria, che era un grande ostacolo per le ambizioni energetiche dell'Occidente, si è appena dissolta.
Dal 1948 la Siria era un contrappeso strategico allo stato sionista. Adesso non esiste più. E all'allentamento delle tensioni che ea in atto tra la sfera sunnita e l'Iran è stata posta brusca fine dal rude intervento dei ribelli dell'ISIS e dal revanscismo ottomano che collabora con lo stato sionista tramite intermediari statunitensi e britannici. I turchi non si sono mai veramente rassegnati agli effetti del trattato del 1923 che aveva concluso la Prima Guerra Mondiale, e con il quale avevano ceduto al nuovo Stato della Siria quelli che erano i suoi territori settentrionali.
In pochi giorni la Siria è stata smembrata, spartita e balcanizzata. Allora perché lo stato sionista e la Turchia continuano a bombardare? I bombardamenti sono iniziati nel momento in cui Bashar Al Assad ha lasciato il paese perché la Turchia e lo stato sionista temono che i conquistatori di oggi possano rivelarsi effimeri e che presto possano essere a loro volta spodestati. Non è necessario possedere qualche cosa per esercitarvi un controllo. In quanto potenze regionali, stato sionista e Turchia vorranno esercitare il controllo non solo sulle risorse, ma anche su quel vitale crocevia che era la Siria.
Probabilmente è inevitabile che prima o poi la "Grande Israele" si scontri con il revanscismo ottomano di Erdogan. Allo stesso modo, il fronte costituito da Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti non vedrà di buon occhio la rinascita dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante sia pure sotto altre spoglie, né di una versione ottomanizzata dei Fratelli Musulmani di ispirazione turca. Quest'ultima rappresenta una minaccia immediata per la Giordania, ora confinante con una nuova entità rivoluzionaria.
Tali preoccupazioni potrebbero spingere questi Stati del Golfo ad avvicinarsi all'Iran. Il Qatar, in quanto fornitore di armi e finanziamenti al cartello dello Hayat Tahrir al Sham, potrebbe subire nuovamente l'ostracismo degli altri leader del Golfo.
La nuova mappa geopolitica pone molti interrogativi diretti su Iran, Russia, Cina e BRICS. La Russia ha ordito un gioco complicato in Medio Oriente, da un lato portando avanti una escalation difensiva contro le potenze della NATO e gestendo interessi energetici chiave, e dall'altro cercando di moderare le operazioni di resistenza verso lo stato sionista per evitare che le relazioni con gli Stati Uniti si deteriorassero del tutto. Mosca spera -senza grande convinzione- che in futuro si possa arrivare a dialogare con il prossimo Presidente degli Stati Uniti.
Mosca probabilmente arriverà a concludere che "accordi" di cessate il fuoco del tipo di quello di Astana che avrebbe contemplato la permanenza degli jihadisti entro i confini della zona autonoma di Idlib in Siria non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti. La Turchia era garante degli accordi di Astana e ha pugnalato Mosca alle spalle. Probabilmente questo renderà la leadership russa più dura nei confronti dell'Ucraina e di qualsiasi discorso occidentale su un cessate il fuoco.
La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran così ha parlato l'11 dicembre: "Non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che ciò che è accaduto in Siria è frutto delle trame ordite nelle sale di comando degli Stati Uniti e dello stato sionista. Ne abbiamo le prove. Anche uno dei Paesi confinanti con la Siria ha avuto un ruolo, ma i pianificatori principali sono gli Stati Uniti e il regime sionista". In questo contesto, l'ayatollah Khamenei ha respinto le speculazioni su un eventuale indebolimento della determinazione alla resistenza.
La vittoria per procura conseguita dalla Turchia in Siria potrebbe tuttavia rivelarsi anche una vittoria di Pirro. Il ministro degli Esteri di Erdogan Hakan Fidan ha mentito alla Russia, agli Stati del Golfo e all'Iran sulla natura di ciò che si stava preparando in Siria. Ma è Erdogan ad essere rimasto col cerino in mano. Chi ha subito questo doppio gioco prima o poi si vendicherà.
L'Iran, a quanto pare, tornerà a dedicarsi come prima al ricollegare i vari fili della resistenza regionale per combattere la reincarnazione di AlQaeda. Non volterà le spalle alla Cina, né al progetto BRICS. L'Iraq -ricordando le atrocità dell'ISIS nella guerra civile- si unirà all'Iran, così come lo Yemen. In Iran sanno che le compagini superstiti del vecchio esercito siriano a un certo punto potrebbero prendere le armi contro il cartello dello Hayat Tahrir al Sham: la notte in cui Bashar al Assad ha lasciato la Siria, Maher al Assad ha portato con sé in esilio in Iraq una intera divisione corazzata.
La Cina non sarà certo soddisfatta per quanto successo in Siria. Gli uiguri hanno avuto un ruolo di primo piano nella rivolta siriana e secondo certe stime ci sarebbero stati trentamila uiguri a Idlib, addestrati da una Turchia che considera gli uiguri come una componente originaria della nazione turca. Anche la Cina probabilmente vedrà il sovvertimento della Siria come una minaccia occidentale alla sicurezza delle proprie linee di approvvigionamento energetico che passano attraverso Iran, Arabia Saudita e Iraq.
Infine, gli interessi occidentali hanno combattuto per secoli per le risorse mediorientali; in ultima analisi, questo è quello che sta alla base della guerra di oggi.
Ci si chiede se Trump sia o meno a favore della guerra, dal momento che ha già indicato che il predominio energetico sarà una strategia chiave sotto la sua amministrazione.
Ora, i Paesi occidentali sono indebitati, i loro margini di manovra in campo fiscale si stanno riducendo rapidamente e i detentori di obbligazioni cominciano a spazientirsi. C'è la corsa a trovare un nuovo collaterale per le valute fiat. Una volta era l'oro; dagli anni Settanta era diventato il petrolio, ma ormai il petrodollaro vacilla. Gli anglosassoni vorrebbero rimettere le mani sul petrolio iraniano -dove le avevano avute fino agli anni '70- per mettere in piedi e per garantire un nuovo sistema monetario legato al valore reale delle materie prime.
Ma Trump dice di voler "porre fine alle guerre" e non di volerne iniziare. Il ridisegno della mappa geopolitica rende più o meno probabile un'intesa globale tra Est e Ovest?
Per quanto si parli di possibili "accordi" di Trump con l'Iran e la Russia, è probabilmente troppo presto per dire se si concretizzeranno o se potranno concretizzarsi.
A quanto pare, Trump dovrà prima "accordarsi" sul fronte interno, prima di sapere se avrà la possibilità di concludere accordi in politica estera. Sembra che le strutture di governo -in particolare la corrente senatoria del movimento Never Trump- lasceranno a Trump una notevole libertà di manovra sulle nomine chiave per i ministeri e le agenzie nazionali che gestiscono gli affari politici ed economici degli Stati Uniti -che sono la preoccupazione principale di Trump- e gli lasceranno anche una certa discrezionalità negli ambienti -diciamo così- più riottosi. Quelli che hanno preso di mira Trump negli ultimi anni, come lo FBI o il Ministero della Giustizia.
Secondo questo presunto "accordo" pare che le nomine di Trump dovranno comunque essere confermate dal Senato e che dovranno essere ampiamente "in linea" con la politica estera delle agenzie governative, in particolare per quanto riguarda la politica nei confronti dello stato sionista. I massimi livelli delle agenzie governative tuttavia, secondo quanto riferito, insistono sul loro veto per le nomine che riguardano le strutture più profonde della politica estera. E qui sta il nocciolo della questione.
Nello stato sionista in generale si fa festa per le "vittorie" conseguite. Questa euforia farà sentire il suo peso sulle élite economiche statunitensi? Hezbollah è stato arginato, la Siria è smilitarizzata e l'Iran non è più ai confini dello stato sionista. Lo stato sionista oggi è soggetto a minacce qualitativamente inferiori. Di per sé basterà questo a consentire un allentamento delle tensioni o a far emergere alcune intese più ampie? Molto dipenderà dalla situazione politica di Netanyahu. Se il premier dovesse uscire relativamente indenne dal processo penale, avrà davvero bisogno della grande scommessa di un'azione militare contro l'Iran, con una mappa geopolitica che si è trasformata in modo tanto improvviso?

28 febbraio 2024

Alastair Crooke - Gli Stati Uniti cercano di limitare la violenza in Medio Oriente: in questo l'Iran è quasi un alleato

 


 Traduzione da Strategic Culture, 26 febbraio 2024.

La duplice strategia dello stato sionista in Libano consiste nel fare pressione attraverso incursioni dirette per incutere timore nella popolazione generale, e nel dispiegare al contempo pressioni diplomatiche per allontanare Hezbollah non solo dal confine, ma anche dalle regioni oltre il fiume Litani (circa 23 km a nord).
Solo che Hezbollah non si muove.
Resiste a piè fermo: non intende allontanarsi dalle regioni del sud che sono la sua culla storica e si rifiuta di discutere la questione.
"Se questa minaccia non sarà eliminata per via diplomatica non esiteremo a intraprendere un'azione militare", insistono ripetutamente i ministri dello stato sionista. Un sondaggio del quotidiano dello stato sionista Ma'ariv ha mostrato che il 71% dei cittadini ritiene che lo stato sionista dovrebbe lanciare un'operazione militare su larga scala contro il Libano per tenere Hezbollah lontano dal confine. Ancora una volta, gli Stati Uniti accettano l'idea che lo stato sionista debba organizzare un'operazione militare in Libano.
Il coordinatore speciale degli Stati Uniti Amos Hochstein, pur sottolineando l'assoluta necessità che i residenti facciano ritorno alle loro case nel nord dello stato sionista, afferma che gli Stati Uniti stanno comunque cercando di mantenere le ostilità in Libano al livello più basso possibile. Ha sottolineato che
Quello che stiamo cercando di fare è di assicurarci di mantenere gli scontri al livello più basso possibile e di lavorare su soluzioni durature che possano portare alla cessazione delle ostilità. Ci sarà molto da fare, sia per costruire le forze armate libanesi che per rimettere in sesto l'economia del Libano meridionale. Questo richiederà il sostegno di una coalizione internazionale, non solo degli Stati Uniti.
In parole povere: Hezbollah ha creato una zona esposta al fuoco che è una zona cuscinetto all'interno dello stato sionista e che si estende per oltre cento chilometri, penetrando in profondità per cinque - dieci chilometri. Lo stato sionista vuole tornare a controllare questa zona cuscinetto e ora insiste per averne invece una propria, fino al cuore del Libano, per "rassicurare" i suoi abitanti di confine che stanno tornando alle loro case: saranno al sicuro.
Hezbollah si rifiuta di cedere un centimetro mentre la guerra a Gaza continua, e le due questioni finiscono per diventare una sola.
Netanyahu ha detto tuttavia chiaramente che la guerra a Gaza deve continuare -e sarà lunga- finché tutti gli obiettivi dello stato sionista (probabilmente irrealizzabili) non saranno raggiunti. Solo che la questione dei cittadini sionisti sfollati sta diventando importante nell'immediato. La tensione in tutta la regione è alta e sta crescendo, mentre si avvicina il Ramadan e si profila un'incursione dello stato sionista a Rafah.
I media sionisti riferiscono che
I funzionari statunitensi temono che il Ramadan possa diventare una "tempesta perfetta", portando al deflagrare di un conflitto regionale.
La totale condiscendenza di Netanyahu nei confronti dei suoi partner di coalizione di estrema destra riguardo all'accesso degli arabi cittadini dello stato sionista al Monte del Tempio, ovvero al complesso di Al Aqsa, durante il Ramadan ha allarmato i funzionari statunitensi, anche se questo è solo uno dei tanti fattori che alimentano il timore che una serie di tendenze preoccupanti possa concretizzarsi e causare tensioni in Medio Oriente nelle prossime due settimane.
In questo momento è in corso un breve momento di calma, con i negoziatori per gli ostaggi che si riuniscono al Cairo e gli Stati Uniti che fanno tutto il possibile perché si arrivi a un sostanziale cessate il fuoco.
Solo che prima o poi lo stato sionista inizierà un'operazione militare in Libano, operazione che in un certo senso è già in corso. Il governo sionista si sente obbligato a cercare il modo di ripristinare la deterrenza. Il ministro Smotrich ha detto che questo obiettivo, in ultima analisi, è più importante anche della liberazione degli ostaggi.
La Resistenza potrebbe riconfigurarsi in vari modi, oltre che seguendo quello di Hezbollah, nel momento in cui lo stato sionista prenderà l'iniziativa in Libano; gli alleati della Resistenza in Iraq potrebbero riprendere a colpire le basi statunitensi, la Siria potrebbe assumere un ruolo più importante e le forze Houthi potrebbero alzare il livello degli attacchi alle navi dello stato sionista, statunitensi e britanniche.
Ed ecco il paradosso: la "soluzione" su cui gli Stati Uniti fanno affidamento per arginare la violenza, e che è rappresentata dalla deterrenza statunitense, un deterrente non lo è più. L'atteggiamento nei confronti della "deterrenza" statunitense tra le forze della Resistenza ha subito uno stravolgimento totale; c'è stato un cambiamento nelle tattiche cui la coscienza occidentale non ha prestato attenzione sufficiente, sempre che si sia degnata di farlo.
Sergei Witte, storico militare, ha descritto in poche parole la questione:
Per cominciare, bisogna capire la logica dei dispiegamenti strategici statunitensi. Gli USA (e la NATO) hanno fatto un uso generoso di uno "strumento" di deterrenza noto colloquialmente come Tripwire Force. Si tratta di una forza sottodimensionata e dispiegata in zone di potenziale conflitto, con l'obiettivo di dissuadere dalla guerra indicando che gli USA sono intenzionati a rispondere.
Un tripwire, un filo di innesco, può presentare degli inconvenienti. Sebbene l'idea sia quella delle deterrenza, nelle mani dei falchi sionisti e statunitensi contro l'Iran queste basi sottodimensionate e vulnerabili si trasformano da deterrente a esche, piazzate apposta perché qualche grosso pesce più o meno iraniano vi abbocchi; ed ecco servita ai falchi la tanto desiderata guerra con l'Iran. Ecco perché le forze statunitensi rimangono in Siria e in Iraq. Quello della "lotta all'ISIS" è sostanzialmente un pretesto.
Il problema, e in effetti anche il limite di questi schieramenti avanzati ridotti all'osso, è che sono troppo piccoli per scoraggiare in modo credibile un attacco, ma abbastanza grandi da invitare qualcuno ad attaccare, magari le irate forze della milizia irachena infuriate per i massacri di Gaza.
Hochstein ci dice che il piano degli Stati Uniti è quello di "gestire" i conflitti (Gaza, Cisgiordania e Libano) mantenendo lo scontro al livello più basso possibile. Eppure a ben vedere gli attacchi di rappresaglia contro le milizie -la risposta standard, nella cassetta degli attrezzi statunitense- sono relativamente inutili per contenere la violenza; la provocano, piuttosto che scoraggiarla. Come conclude Witte:
Vediamo queste dinamiche in atto in un Medio Oriente in cui la perdita di efficacia del potere deterrente degli USA potrebbe presto costringerli a iniziative di maggiore aggressività". Ecco perché le voci che invocano la guerra con l'Iran, per quanto folli e pericolose possano essere, hanno in realtà colto un aspetto cruciale del calcolo strategico statunitense. Le misure limitate non bastano più per intimidire, e questo può togliere dalle alternative qualsiasi scelta diversa da un coinvolgimento a tutti gli effetti.
È a questo punto che l'Iran e la Resistenza giocano il loro ruolo paradossale. Gli Stati Uniti (nonostante i fanatici neocon) non vogliono una guerra di vasta portata, e nemmeno l'Iran. Quest'ultimo, tuttavia, sembra capire che gli attacchi delle milizie irachene alle basi statunitensi avranno anche l'intenzione di mettere sotto pressione gli Stati Uniti affinché si ritirino dall'Iraq, ma finiscono al contrario per fornire ai neoconservatori il pretesto -l'Iran come "testa del serpente"- per spingere a ostilità a tutto campo contro la Repubblica Islamica.
L'interesse dell'Iran e dell'Asse è duplice: primo, mantenere il potere di calibrare con finezza l'intensità del conflitto; secondo, mantenere l'iniziativa nell'escalation. Come nota Al-Akhbar:
La Resistenza, con tutte le sue ramificazioni, non ha intenzione di cedere a condizioni dettate dallo stato sionista suscettibili di aprire la strada a un cambiamento importante nell'equazione che protegge il Libano. Qualsiasi accordo successivo dipenderà dal posizionamento che la Resistenza sceglierà per preservare le sue capacità di deterrenza e di difesa.
Quindi, in Iraq, il capo della Forza al Quds all'interno dell'IRGC ha consigliato alle milizie irachene di cessare il fuoco, per il momento. Questa iniziativa è comunque nell'interesse del governo iracheno, che vuole che tutte le forze statunitensi lascino il paese.
L'armamentario del tripwire schierato dall'Occidente è un classico esempio di paradosso strategico. Un vantaggio di deterrenza che svapora rischia di costringere gli Stati Uniti a un massiccio ed eccessivo dispiegamento militare (anche quando non ne avrebbero l'intenzione). Ed è così che gli USA si trovano sotto scacco matto. Il loro pezzo, bloccato su una casella, è il "Re" sionista; solo che ogni potenziale mossa successiva promette solo di peggiorare la situazione di partenza.
Inoltre, gli Stati Uniti sono messi in scacco matto dal blocco cognitivo che li porta a non interiorizzare del tutto i concetti con cui il generale Qassem Suleimani ha operato mutamenti nella deterrenza già sperimentati nel 2006 durante la guerra dello stato sionista contro Hezbollah.
Lo stato sionista, come gli Stati Uniti, gode da tempo della superiorità aerea. Come si è comportata la Resistenza per far fronte a questa situazione? Una delle inziative è stata quella di trincerare forze, missili e tutti i mezzi strategici a una profondità che nemmeno le bombe per distruggere i bunker riescono a raggiungere. I lanciamissili possono emergere dal suolo, sparare e tornare a esservi riparati. Tutto in novanta secondi.
Altra iniziativa, l'approntamento di una costellazione di combattenti inquadrati in unità autonome addestrate per combattere ininterrottamente secondo un piano prestabilito per un anno o anche due, anche se tutte le comunicazioni con il quartier generale dovessero interrompersi del tutto.
Nel 2006 Hezbollah capì che la capacità della popolazione civile dello stato sionista di tollerare quotidiani e intensi bombardamenti missilistici era molto limitata, e che lo stato sionista non aveva munizioni sufficienti a una campagna di bombardamenti aerei di lunga durata. In quella guerra, Hezbollah continuò a lanciare razzi e missili continuamente, per trentatré giorni. Fu sufficiente; lo stato sionista cercò di porre fine alla guerra. La lezione è che le guerre di oggi sono guerre di logoramento, come nel caso dell'Ucraina, più che campagne di breve durata.
Così, la Resistenza cerca di mantenere il controllo sull'intensità dello scontro al fine di distruggere lo stato sionista, mentre l'esecutivo sionista vuole passare direttamente alla sua versione del Giorno del Giudizio. L'incapacità di interiorizzare le implicazioni di questa nuova guerra asimmetrica ideata dal generale Suleimani -l'arroganza gioca un ruolo importante, in questo- spiega come mai gli Stati Uniti possano essere così ottimisti nei confronti dei rischi che corrono, sia essi stessi che lo stato sionista. Sono rischi che ad altri sembrano ovvi. Gli ufficiali addestrati dalla NATO semplicemente non riescono a concepire come una potenza militare come quella sionista non riesca a prevalere su formazioni di milizia come Hezbollah e gli Houthi. Né riescono a capire come delle tribù di straccioni possano prevalere in un grande scontro bellico navale.
Ma basta ricordare tutti gli "esperti" che avevano previsto che Hamas sarebbe stato schiacciato nel giro di pochi giorni dalla macchina militare dello stato sionista, infinitamente più pesante...

31 gennaio 2020

Alastair Crooke - Medio Oriente: un equilibrio strategico mandato all'aria



Traduzione da Strategic Culture, 6 gennaio 2020.

Si dava per inteso che il Presidente Trump non volesse in Medio Oriente una guerra suscettibile di nuocere alle rosee probabilità di una sua rielezione. Rosee fintanto che il mercato borsistico statunitense resta gonfio e che l'economia tiene, chiaro.
Pat Buchanan è stato tre volte candidato alla presidenza, e ha avvertito Trump che se un pericolo esiste sul cammino verso la rielezione lo si trova proprio nel Medio e nel Vicino Oriente. "I casi in cui la politica estera si è rivelata decisiva negli anni in cui si svolgono le elezioni non sono pochi". Inoltre, l'Iran non stava cercando di alzare il livello dello scontro; non ci stava provando Hezbollah, non ci stavano provando gli iracheni e neppure l'apparato di sicurezza dello stato sionista.
Insomma, l'equilibrio strategico, anche se messo a dura prova, grosso modo teneva. In altre parole, l'Iran e lo stato sionista si erano tenuti appena appena al di sotto dei parametri che definivano le rispettive e tacite "linee rosse", nonostante la retorica roboante. Tutti e due stavano praticando la strategia della pazienza, e l'equilibrio sembrava più o meno sostenibile... fino a quando non si è infranto, con l'assassinio di Qasem Soleimani e del capo delle Unità di Mobilitazione Popolare irachene Al-Muhadis. Assassinio ordinato da Trump.
Nonostante i repellenti toni del suo linguaggio, lo stato sionista non ha portato a segno alcun colpo strategico in Iraq e in Siria. Non ha ucciso iraniani in territorio siriano, fatta eccezione per le vittime nell'aeroporto T4 colpito lo scorso anno nella Siria orientale. Non ha messo nel mirino il capo dell'aeronautica iraniana alla fine dello scorso anno, nonostante alcune relazioni lo indicassero: in quel periodo non si trovava neppure in Iraq, d'altronde. La maggior parte degli attacchi aerei sferrati dallo stato sionista ha colpito magazzini nelle prime ore del giorno, quando non c'era personale. Lo stato sionista ha tagliato via qualcosa qua e là alla catena logistica iraniana, senza provocare alcun danno sul piano strategico.
L'Iran, dopo aver mandato a dire ai paesi el Golfo che era deciso a punire chi partecipava all'assedio econmico, si è chiaramente comportato con attenzione quando si è trattato di reagire alle pressioni. L'Iran ha mantenuto l'occhio fisso sulla situazione diplomatica a livello mondiale (ad esempio con le esercitazioni navali congiunte con Russia e Cina, nel Golfo Persico) mentre contrastava sul piano politico la nuova tattica ameriKKKana di fomentare proteste "colorate" in Libano e in Iraq e di cercare di colpire la Siria sul piano finanziario, rubandole introiti nel settore energetico.
Il punto è questo. Gli USA non si accontentavano più di sottoporre l'Iran alle sole sanzioni. Sotto traccia hanno alzato ovunque il livello dello scontro: hanno fomentato proteste in Iraq, in Libano e nello stesso Iran, hanno lanciato un'offensiva telematica su vasta scala contro l'Iran e infine hanno orchestrato un'operazione di messaggistica allo scopo di trasformare il fondato risentimento popolare contro il malgoverno regionale e contro la corruzione in un'arma diretta a indebolire l'Iran rivoluzionario.
Qualche successo gli USA lo stavano ottenendo, con questo trasformare le proteste in messaggi diretti contro l'Iran. Poi, però, nel corso dell'ultima settimana del 2019 hanno ucciso e ferito molti appartenenti alle forze di sicurezza irachene: Ketaib Hezbollah infatti è una componente delle forze armate irachene.
Alzare il livello fino a massime pressioni è una cosa (e l'Iran era fiducioso di poter farci il callo); assassinare un ufficiale di rango tanto elevato in missione ufficiale è un'altra, piuttosto diversa. Non si è mai dato il caso, in precedenza, dell'assassinio di una personalità estera tanto importante.
Anche le modalità non hanno precedenti. Soleimani era in Iraq in visita ufficiale. Vi era giunto dalla Siria come ospite di riguardo; ad aspettarlo all'aeroporto c'era un funzionario iracheno di pari grado, Al Muhandis, anch'egli assassinato insieme ad altre sette persone. Tutto alla luce del sole. il generale Soleimani usava tranquillamente il proprio telefono personale: era un funzionario di alto grado, se fosse stato ucciso da un altro paese si sarebbe trattato di un atto di guerra.
L'azione, che ha avuto luogo all'aeroporto internazionale di Baghdad, non costituisce solo il superamento di una linea rossa: è un'umiliazione, che colpisce l'Iraq, il governo e il popolo iracheno. Un'umiliazione che rovescerà l'orientamento strategico del paese. I tentativi che l'Iraq ha fatto fino a oggi di barcamenarsi tra Washington e l'Iran finiranno spazzati via dall'avventato arbitrio che Trump si è preso contro la sovranità nazionale irachena, che può benissimo segnare l'inizio della fine della presenza statunitense in Iraq (e quindi anche in Siria) e in definitiva della presenza ameriKKKana in Medio oriente.
Trump può anche raccogliere qualche facile ovazione, per questo suo "Noi siamo l'AmeriKKKa, cazzo!", che è l'espressione con cui un alto funzionario della Casa Bianca ha definito la dottrina Trump per la politica estera. Tuttavia i nodi possono arrivare presto al pettine, sottoforma di conseguenze non previste.
Perché lo ha fatto? Se davvero nessuno voleva la guerra, perché Trump ha alzato il livello dello scontro e ha rovesciato il tavolo? Fino a ora la strada per la rielezione era in discessa; perché giocare il jolly (dagli esiti sempre imprevedibili) di un nuovo conflitto in Medio Oriente?
Voleva forse far marcare una differenza con la gestione Obama di certe situazoini, e che non si voleva ritrovare con le rappresentanze USA assediate come a Bengasi? Era convinto che questi omicidi avrebbero compiaciuto lo zoccolo duro dei suoi sostenitori, che sono lo stato sionista e gli evangelici? O magari sono stati i sostenitori di Netanyahu a Washington a presentargli questa possibilità? Può anche darsi.
Nello stato sionista qualcuno si preoccupa perché ci sono tre o quattro fronti di guerra che si stanno avvicinando. I funzionari superiori dello stato sionista si sono recentemente chiesti se sia probabile che nei prossimi mesi scoppi una guerra regionale. Il Primo Ministro dello stato sionista sta combattendo per sopravvivere politicamente, e ha richiesto l'immunità per tre procedimenti giudiziari che lo riguardano dicendo che si trattava di un suo diritto e che c'era bisogno che lui "continuasse a guidare lo stato sionista" perché era in gioco il futuro del paese. Dall'esacerbare le tensioni con l'Iran Netanyahu non ha niente da perdere e tutto da guadagnare.
I politici di opposizione e i vertici militari dello stato sionista hanno fatto sapere che il Primo Ministro ha bisogno di arrivare ai ferri corti con l'Iran proprio per sottolineare come il paese "abbia bisogno" che egli resti al potere. Per motivi tecnici legati al funzionamento del parlamento, difficilmente le richieste di Netanyahu saranno prese in considerazione prima delle elezioni di marzo. Insomma, Netanyahu ha ancora un po' di tempo per montare il caso pro domo sua.
Alla base della prudenza dello stato sionista nei confronti dell'Iran non c'è tanto l'ostinazione di Netanyahu, ma l'atteggiamento incostante del Presidente Trump. Siamo sicuri che gli USA sosterrebbero senza riserve lo stato sionista, se esso si trovasse nuovamente coinvolto in una guerra in Medio Oriente? No, sembra pensino nello stato sionista e nei paesi del Golfo. Questa valutazione ha una portata significativa: nello stato sionista e negli uomini che esso ha a Washington c'è adesso qualcuno che considera Trump come una minaccia per la sicurezza dello stato sionista in un confronto con l'Iran. Trump ne era al corrente? La sua mossa azzardata serviva a impedire cedimenti in quello zoccolo duro per lui irrinunciabile, in vista delle elezioni? Non si sa.
Ed eccoci a tre interrogativi finali. Fino a quando l'Iran potrà reggere a questo aumento della tensione? Limiterà la propria rappresaglia al territorio iracheno? O gli USA supereranno un'altra linea rossa colpendo il territorio iraniano nei successivi botta e risposta?
Il Segretario di Stato Pompeo definisce le formazioni armate Hash’d a-Sha’abi -che siano parte o no ell'esercito iracheno- come sotto controllo iraniano; lo fa deliberatamente o è solo autismo politico? Sembra che la definizione venga usata come autorizzazione per attaccare tutte le molte unità Hash’d a-Sha’abi presenti sul terreno: dal momento che sono "sotto controllo iraniano" vanno considerate "forze terroristiche". Fallace corollario della definizione è l'idea che gli iracheni sarebbero favorevoli a queste eliminazioni. Ci sarebbe da sghignazzare se la questione non fosse così seria. Le forze dello Hash’d a-Sha’abi hanno condotto la guerra contro lo Stato Islamico e la grande maggioranza del popolo iracheno ne ha stima. Soleimani era in prima linea al fronte, insieme a queste formazioni irachene.
Non si tratta di pedine iraniane. Sono nazionalisti iracheni che condividono con i loro correligionari in Iran e in tutta la regione una comune identità sciita. Condividono la stessa visione culturale e hanno concezioni politiche simili, ma non sono certo dei burattini. Scriviamo questo avendone fatta esperienza diretta.
Mettere le cose in quel modo invece significa agevolare l'estendersi del conflitto: molti iracheni si sentiranno oltraggiati dagli attacchi degli USA sui loro connazionali, e li vendicheranno. Pompeo accuserà l'Iran, senza fondamento. Forse che l'idea di Pompeo è proprio quella di procurarsi un casus belli?
Ma che via d'uscita c'è? L'Iran reagirà di sicuro. La faccenda è stata messa in piedi solo per alzare il livello dello scontro rispetto a schermaglie di poca rilevanza... per arrivare a fino a che punto? Siamo consapevoli del fatto che la questione non è stata affrontata a Washington prima che il Presidente prendesse la sua decisione. Con l'Iran gli USA non hanno veri canali di comunicazione, oltre a quelli di basso livello; e non esiste alcun piano per i prossimi giorni così come non esiste una chiara via di uscita. Trump sta forse facendo ancora una volta affidamento sul suo istinto animale?

10 novembre 2018

Alastair Crooke - Due grandi progetti per l'assetto del Medio Oriente sono in corso di sviluppo e stanno prendendo campo. E sono in rotta di collisione.



Traduzione da Strategic Culture, 12 settembre 2018.

Dalle ceneri delle due vastissime concezioni che hanno caratterizzato il decennio che si chude -la tentata conquista del Medio Oriente da parte dei Fratelli Musulmani e l'opposto progetto delle monarchie del Golfo di mandare in pezzi i Fratelli e di ricostituire il "sistema arabo", un assolutismo tribale di stampo ereditario- stanno sviluppandosi due opposti intenti. Due opposti intenti che stanno prendendo l'abbrivio e che presto o tardi entreranno in rotta di collisione. Di fatto lo sono già. Il problema è fino a dove arriverà la schermaglia.
Uno dei due riguarda l'unificazione del quadrante settentrionale della regione tramite la diffusione di uno spirito politico comune -basato sulla resistenza all'insistere degli USA per essere presenti in zona al fine di ravvivare l'egemonia ameriKKKana- e sul più pratico imperativo di trovare il modo di superare e di sopraffare la macchina da guerra finanziaria degli USA.
Negli ultimi giorni questo movimento ha conseguito una vittoria sostanziale. Elijah Magnier, giornalista esperto di Medio Oriente, così la descrive in poche parole:
Il candidato preferito dagli USA per la carica di Primo Ministro [in Iraq] Haidar Abadi ha perso la sua ultima possibilità di ottenere un secondo mandato quando una rivolta ha provocato nella città meridionale di Bassora un incendio che ha attaccato le mura del consolato iraniano. Mentre gli abitanti dimostravano avanzando a buon diritto la richiesta di acqua potabile, elettricità, lavoro e infrastrutture, gruppi prezzolati con intenzioni diverse si sono infiltrati fra i manifestanti e sono riusciti a incendiare uffici, ambulanze, un edificio governativo e una scuola che faceva capo a al Hashd al Shaabi e ad altri gruppi politici contrari agli Stati Uniti. Il comportamento della folla ha costretto Sayyed Moqtada al Sadr, cui fanno capo cinquantaquattro parlamentari, ad abbandonare il proprio partner politico Abadi e a chiuderne la carriera politica. Al Sadr ha cercato di prendere le distanze dai fatti di Bassora in modo che la colpa ricadesse sul solo Abadi. Si è messo dalla parte del vincitore, si è messo dalla parte dell'Iran...
Questo insieme di eventi ha portato al Sadr ad aggregare i suoi cinquantaquattro deputati alla maggioranza. L'aperto sostegno degli USA e i fatti di Bassora hanno messo fine alla carriera politica di Abadi... La coalizione più grande adesso potrà contare ben più che centosessantacinque deputati, e in questo modo sarà in grado di scegliere il Presidente del parlamento e i suoi due vice, il Presidente e il nuovo Primo Ministro... La grande coalizione che si sta consolidando non avrà più bisogno del sostegno dei quarantadue deputati curdi.
Il leader di questa grande coalizione di partiti sciiti e sunniti sarà con ogni probabilità Faleh al Fayyadi capo di Hashd al Shaabi, le Unità di Mobilitazione popolare. Politicamente parlando l'Iraq è adesso disponibile a entrare nell'alleanza di cui fanno parte russi iraniani e siriani, anche se le divisioni che ci sono fra gli sciiti iracheni continuano ad essere una potenziale fonte di conflitti. Se, come è probabile che succeda, l'Iraq verrà messo sotto embargo dagli USA per non aver ottemperato alle sanzioni statunitensi contro l'Iran, sarà l'imperativo delle circostanze a spingere il paese verso la sfera economica in via di consolidamento che è stata al centro dell'incontro di Tehran del 14 settembre, verso una serie di infrastrutture economiche attualmente in evoluzione i cui fini sono l'abbandono del dollaro e il contrasto alle sanzioni degli USA.
Istigare i dimostranti di Bassora -ci sono consistenti sospetti che dietro ci fosse la mano dei sauditi- è stato un errore di calcolo che per gli USA ha conseguenze anche più ampie. Intanto è possibile che le forze armate ameriKKKane si sentano dire di lasciare il paese. Poi, per il Pentagono sarà più difficile sostenere la propria presenza militare in Siria. Le linee logistiche per lo schieramento ameriKKKano nel nord est della Siria passano dall'Iraq e potrebbero non essere più utilizzabili; le forze USA in Siria si troveranno isolate e saranno quindi più vulnerabili.
Il voltafaccia iracheno sgonfia anche le aspirazioni del Presidente Trump sulla riaffermazione della supremazia degli USA nel campo energetico mediorientale. Si sperava che l'Iran avrebbe finito per capitolare e per arrendersi alle pressioni economiche e politiche, e che l'effetto domino avrebbe trascinato anche l'Iraq in una politica di condiscendenza.
Questo scenario avrebbe lasciato in mano statunitense le principali fonti di energia "a basso costo di produzione" del Medio Oriente. In considerazione di quanto successo però è più probabile che tutto questo, o per lo meno tutto quanto attiene l'Iran e l'Iraq, finisca nell'orbita russa assieme alle prospezioni nel Bacino del Levante siriano, che è inesplorato. Alla fine la "massa continentale" russa produttrice di energia può rivelarsi un avversario più che considerevole per l'aspirazione degli USA, recentemente riaffermata, di tornare a detenere la supremazia del settore.
L'intento che si oppone a questo, e che si sta parimenti affermando, è l'idea di Kushner, Friedman e Greenblatt di mettere fine alla pretesa dei palestinesi di avere un progetto politico. Dal poco che ne trapela sembra di capire che l'idea è quella di svuotare le loro pretese politiche innanzitutto tagliando via pezzo a pezzo i principali pilastri su cui si basa la natura politica del progetto palestinese.
In primo luogo si intende porre fine al paradigma dei due stati e sostituirlo con quello di "uno stato", uno "stato-nazione" ebraico in cui vigono diritti differenziati e prerogative politiche differenziate. In secondo luogo, mettendo fuori discussione l'idea che Gerusalemme possa essere capitale di uno stato palestinese. In ultimo, cercando di eliminare lo status di rifugiati per i palestinesi buttando il peso della loro sistemazione direttamente sulle spalle dei paesi che li ospitano. In questo modo si cacciano i palestinesi fuori dalla sfera della politica promettendogli che se la passeranno meglio e che saranno più "felici" se seguiranno i dettami di Kushner.
Basandosi sulla loro esperienza di immobiliaristi alle prese con quegli inquilini riottosi la cui cacciata è alla base di qualsiasi sviluppo immobiliare di un qualche peso, Kushner e Friedman hanno iniziato con le pressioni togliendo fondi all'Agenzia dell'Onu per i Rifugiati, chiudendo l'ufficio dell'OLP negli USA, tagliando gli aiuti agli ospedali di Gerusalemme Est e demonizzando i leader palestinesi presentandoli come corrotti e poco concentrati sugli asseriti desideri dei palestinesi (per una vita più prospera dal punto di vista materiale).
Di recente quelli di Kushner hanno tirato fuori una vecchia idea, presentata nello specifico dal quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahoronot da Sima Kadmon il 7 settembre scorso, che Abu Mazen non ha respinto a prescindere quando glie ne è stata fatta parola. L'idea risale al gennaio 2010 e fu presentata dal generale dello stato sionista Giora Eiland in un articolo scritto per il Begin-Sadat Center for Strategic Studies. Eiland scriveva:
La soluzione consiste nel fondare un regno federale di Giordania comprendente tre "stati": la East Bank, la West Bank e Gaza. Questi stati nel senso ameriKKKano [della parola] saranno come la Pennsylvania o il New Jersey. Saranno pienamente indipendenti per gli affari interni, avranno un bilancio, istituzioni governative, leggi proprie, polizia e altri espliciti simboli dell'indipendenza. Solo che, come la Pennsylvania e il New Jersey, non avranno responsabilità sulla politica estera e sull'esercito. Questi due settori, proprio come negli USA, resteranno di competenza del governo federale di Amman.
Elland ipotizzava che lo stato sionista avrebbe tratto evidenti vantaggi da una soluzione del genere, invece che da una che contemplasse l'esistenza di due stati. "Innanzitutto si introduce un cambiamento nel modo di vedere la situazione. Non si parla più di popolo palestinese che vive sotto occupazione, ma di un conflitto territoriale fra due paesi: lo stato sionista e la Giordania. In secondo luogo la Giordania può essere più propensa al compromesso su determinate questioni, come quella territoriale." Aggiungeva che "in Medio Oriente l'unico modo per assicurare la sopravivenza di un governo consiste nel controllare a tutti gli effetti la sicurezza... quindi, il modo per prevenire in Giordania disordini fomentati da un futuro governo di Hamas nella West Bank consiste nell'affidare alla Giordania il controllo militare di quella zona [oltre a realizzare una West Bank demilitarizzata che continuerebbe a rimanere sotto il controllo dello stato sionista]."
Insomma, i palestinesi di Gaza (stando a quanto si legge) verranno fatti stabilire a Gaza e nel Sinai (e sorvegliati dai servizi egiziani), mentre le enclave palestinesi rimaste nella West Bank finirebbero sotto controllo della polizia giordana sotto la supervisione generale dello stato sionista. Un corrispettivo governo "federale" in Giordania sarà considerato dallo stato sionista responsabile di tutto quanto.
Ovviamente tutto questo potrebbe non essere altro che un esercizio di fantasia di Kushner e soci. Non sappiamo cosa prevede il più volte rimandato "Accordo del Secolo" di Trump, ma quello che sembra chiaro è che c'è l'intenzione di cancellare il concetto di qualsiasi entità politica palestinese in quanto tale e di redere malleabile il popolo palestinese distaccandolo dai propri leader e offrendogli vantaggi materiali. Al momento attuale i palestinesi sono deboli. Non c'è dubbio che operando di concerto gli USA e lo stato sionista possano riuscire a far fuori qualsiasi opposizione al suddetto accordo. Gerusalemme sarà "consegnata" allo stato sionista. I palestinesi saranno cancellati dalla scena politica. Ma a quale prezzo? Che succederà allora alle monarchie del Golfo?
Lo studioso di Oxford Faisal Devji, in un editoriale sul New York Times, ha sottolineato la situazione problematica dell'Arabia Saudita:
Dopo la prima guerra mondiale la marina statunitense ha sostituito quella britannica, e il petrolio fece del regno una cosa essenziale per il capitalismo occidentale. Solo che la centralità economica e religiosa dell'Arabia Saudita strideva con la sua perdurante marginalità politica: militarmente erano la Gran Bretagna, gli USA e persino il Pakistan ad essere responsabili della sua stabilità sul piano interno e della sua sicurezza dalle minacce provenienti dall'estero.
Al giorno d'oggi l'Arabia Saudita si contrappone a prima vista all'Iran, ma le sue pretese di supremazia trovano spazio solo per il declino dell'Egitto e per la marginalizzazione dell'Iraq e della Siria. A parte l'Iran, solo la Turchia le tiene testa, sia pure con un comportamento ambiguo.
...Il regno del principe Mohammed sembra più un paese laico che teocratico; la sovranità sembra sia stata finalmente strappata dalle mani delle tribù e dei religiosi per essere avocata direttamente dalla monarchia. Ma l'Arabia Saudita può diventare ancora più potente sul piano geopolitico solo mettendo a rischio il suo status religioso... [corsivo dell'autore, N.d.T.]
Il piano per fare dell'Arabia Saudita uno stato definito sul piano politico anziché sul piano religioso distrugge la concezione vecchia di secoli della geografia islamica [sunnita], che ha sempre considerato l'Arabia come un proprio centro depoliticizzato... La Mecca e Medina continueranno a ricevere i pellegrini, ma è probabile che l'Islam [sunnita]... troverà il proprio centro in Asia, dove vive di gran lunga il numero maggiore di seguaci e verso cui si stanno dirigendo in misura sempre maggiore la ricchezza e la potenza mondiali.
Solo che questo non è proprio il caso dell'Islam sciita, che è riuscito a unire il potere politico con un rinnovato status religioso, come attesta il prosperare straordinario di Karbala come centro dei pellegrinaggi degli sciiti, e che ha visto il successo dell'Iran nel contrastare gli jihadisti wahabiti sia in Siria che in Iraq. Di contro, la guerra nello Yemen ha invece eroso le credenziali politiche e religiose dell'Arabia Saudita.
Eppure, nonostante le traiettorie contrastanti, proprio qui può verificarsi la collisione: lo stato sionista si è ineluttabilmente alleato con l'Arabia Saudita e con l'Islam sunnita. E così anche gli USA hanno assunto la stessa posizione di parte dello stato sionista e dell'Arabia Saudita nei confronti dell'Iran. Entrambi stanno alle spalle del re saudita e lo spingono a condurre una guerra su più livelli contro il potente vicino.
Alon Ben David, un corrispondente militare dello stato sionista, sul quotidiano in lingua ebraica Ma'ariv ha scritto il 7 settembre un articolo che costituisce un esempio della narrativa prometeica con cui lo stato sionista celebra i propri successi, dovuti essenzialmente al sostegno incondizionato di Trump: "Le forze di difesa dello stato sionista, che hanno tardato per anni ad accorgersi della potenziale minaccia costituita dall'espansionismo iraniano, hanno capito che dovevano passare all'azione... questa settimana le forze di difesa hanno rivelato che dall'inizio del 2017 in Siria sono stati condotti oltre duecento attacchi aerei. Ma se si considerano le attività svolte in questa guerra dalle forze di difesa nel loro complesso, per lo più effettuate sotto copertura negli ultimi due anni, risulta che le forze di difesa dello stato sionista hanno portato a termine oltre frontiera centinaia di operazioni di vario tipo. La guerra tra le guerre è diventata la guerra delle forze di difesa, ed è stata foraggiata giorno e notte... A tutt'oggi, lo stato sionista si è rafforzato nel confronto diretto con l'Iran... Ogni volta che colpiamo l'Iran, il nostro potere di deterrenza si rafforza."
Beh, questione di opinioni. Di opinioni molto rischiose.

28 marzo 2018

Nat Parry - A quindici anni dall'aggressione all'Iraq, male si è aggiunto a male



Traduzione da Consortium News.

Ignorando chi lo avvertiva che stava per scatenare la fine del mondo in medio oriente, George W. Bush lanciò fra il 19 e il 20 marzo del 2003 un deliberato attacco contro l'Iraq. A tutt'oggi siamo alle prese con le conseguenze di questo gesto.

Robert Jackson, pubblico ministero capo per gli Stati Uniti al processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, disse una volta che la guerra d'aggressione era la più grande minaccia del nostro tempo. L'Europa del 1945 era in gran parte ridotta a rovine fumanti; affermò che "intraprendere una guerra di aggressione [...] non costituisce soltanto un crimine a livello internazionale; un simile atto è il massimo reato a questo livello e differisce dagli altri crimini di guerra solo perché contiene intrinsecamente tutto il male che essi comportano."
Se spostiamo il discorso sull'invasione dell'ira compiuta dagli Stati Uniti 15 anni or sono, è difficile comprendere appieno il potenziale malefico che essa ha comportato. Esistono stime discordanti sui costi della guerra, ma i dati cui si fa comunemente riferimento indicano il costo per i contribuenti statunitensi nell'ordine del trilione di dollari, le vittime irachene in centinaia di migliaia, i caduti statunitensi attorno ai cinquemila. Altri centomila ameriKKKani sono rimasti feriti; i profughi iracheni cacciati dalle loro case sono quattro milioni.
Per quanto questi numeri possono sembrare stupefacenti, essi non arrivano neanche vicino a descrivere il costo reale della guerra o la portata del crimine commesso scatenandola fra il 19 e il 20 marzo del 2003. Oltre al prezzo da pagare in termini di denaro e di sangue il costo a carico dei principi elementari della giustizia internazionale, della stabilità geopolitica nel lungo termine e le conseguenze per il sistema politico statunitense sono altrettanto consistenti.


Lezioni apprese... e poi dimenticate

Sembrava che almeno per una volta le lezioni impartite dalla guerra fossero state ampiamente comprese e avessero avuto effetti sostanziali sulla politica ameriKKKana; ad esempio, i democratici presero controllo del congresso alle elezioni di metà mandato nel 2006 essenzialmente per il crescente senso di ostilità verso la guerra che esisteva nel paese; Barack Obama sconfisse Hillary Clinton alle primarie del 2008 soprattutto per il suo opposto concetto della guerra in Iraq.
Il mondo politico, da allora, ha di fatto spazzato sotto il tappeto tutto questo.
Una delle lezioni impartite dalla guerra fu ovviamente il fatto che i proclami provenienti dal mondo dei servizi meritavano di essere ampiamente presi con le molle. Nella preparazione alla guerra contro l'irata un decennio e mezzo fa, erano coinvolti anche quanti cercavano di mettere un freno ai settori politicizzati e scelti con estrema cura che l'amministrazione Bush usava per convincere il popolo ameriKKKano della necessità della guerra; per la maggior parte però i mass media e il mondo politico non fecero che ripetere a pappagallo le argomentazioni a sostegno della guerra, senza minimamente curarsi di ottenere conferme indipendenti a sostegno di determinate affermazioni e spesso senza neppure rifarsi ai principi elementari della logica.
Per esempio, anche quando gli ispettori delle Nazioni Unite capeggiati dal diplomatico svedese Hans Blix si mossero seguendo i suggerimenti del mondo dei servizi statunitense e non trovarono niente furono in pochi nel mondo mediatico a trarre la logica conclusione che i servizi avevano sbagliato (o che l'amministrazione Bush stava mentendo). Anzi, si disse che gli ispettori dell'ONU erano degli incompetenti e che Saddam Hussein era stato molto furbo a nascondere i propri armamenti di distruzione di massa.
Ecco: nonostante siano stati così mal consigliati nel 2002 e nel 2003, gli ameriKKKani di oggi si mostrano altrettanto creduloni verso i servizi, quando essi affermano che "la Russia ha manipolato le elezioni del 2016" senza produrne alcuna prova. I liberali in particolare si sono buttati a pesce sull'inchiesta condotta dal consigliere speciale Robert Mueller, considerato da più parti un modello di competenza. In realtà, come capo dello FBI ai tempi dell'amministrazione Bush, egli ebbe un ruolo fondamentale nell'avallo della narrativa sugli armamenti di distruzione di massa che servì a scatenare una guerra fuori da ogni diritto.
Davanti al Congresso, Mueller assicurò che "l'Iraq è in testa alla classifica" delle minacce alla sicurezza degli Stati Uniti. "Come già abbiamo riferito a questo Comitato," disse Mueller l'11 febbraio del 2003, "il programma di armamenti di distruzione di massa dell'Iraq rappresenta una chiara minaccia per la nostra sicurezza nazionale." Disse che Baghdad poteva fornire armamenti di distruzione di massa ad Al Qaeda per l'esecuzione di un catastrofico attaccco contro il territorio statunitense.
All'epoca Mueller si tirò addosso varie critiche, anche da parte della delatrice dello FBI Coleen Rowley, per aver parlato di rapporti tra l'Iraq e Al Qaeda; critiche cui si accompagnava la pretesa che lo FBI esibisse qualunque prova avesse a favore di questo ipotizzato legame.
Oggi invece Mueller viene celebrato dai democratici come la più grande speranza per abbattere Donald Trump. Persino George W. Bush ha potuto godere di una ritrovata popolarità, soprattutto grazie alle critiche pubblicamente rivolte a Trump; la maggioranza dei democratici oggi considera con favore il quarantatreesimo Presidente. Molti hanno anche fatto propria l'idea della guerra di aggressione, il più delle volte presentata come "intervento umanitario", come opzione favorita per affrontare sfide in politica estera come quella rappresentata dal conflitto siriano.
Quando il partito democratico scelse la Clinton come proprio candidato nel 2016 diventò chiaro che i democratici avevano accettato anche la sua propensione all'utilizzo della forza militare per arrivare a cambiare il governo di paesi considerati una minaccia per gli interessi statunitensi, Iraq, Iran o Siria che fossero.
Come senatore di New York ai tempi della preparazione della guerra contro l'Iraq, la Clinton non si limitò a votare a favore dell'aggressione statunitense, ma fu una fervente sostenitrice della guerra, che si doveva fare con o senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Il suo discorso in Senato del 10 ottobre 2002 in cui si pronunciava a favore dell'intervento militare presentava le stesse falistà usate dall'amministrazione Bush per alimentare il sostegno alla guerra; si affermava per esempio che Saddam Hussein aveva "aiutato, sostenuto e offerto rifugio ai terroristi, membri di Al Qaeda compresi."
"Se non contrastato," disse la Clinton, "Saddam Hussein continuerà ad alimentare la propria capacità di allestire armamenti biologici e chimici e continuerà a cercare di sviluppare armamenti nucleari. Nel caso dovesse riuscire nel suo intento, potrebbe alterare il panorama politico e le condizioni di sicurezza del Medio oriente, cosa che, come sappiamo tutti troppo bene, riguarda la sicurezza ameriKKKana."
La Clinton continuò a sostenere la guerra anche quando risultò evidente che l'Iraq non possedeva armamenti di distruzione di massa -primo casus belli per l'aggressione- e raffreddò il proprio entusiasmo solo nel 2006, quando fu chiaro che la base democratica era diventata nettamente contraria alla guerra e che la sua posizione da falco danneggiava le sue possibilità di candidarsi alla presidenza nel 2008. Otto anni dopo però i democratici erano a quanto pare passati ad occuparsi di altro, e il suo sostegno alla guerra non fu più considerato uno handicap per la corsa alla presidenza.
Una delle lezioni che andrebbe ricordata oggi, visto che gli USA stanno preparandosi al possibile confronto con altri paesi come la Corea del Nord e la Russia, è data dalla facilità con cui nel 2002-2003 l'amministrazione Bush convinse gli ameriKKKani che il governo di Saddam Hussein, lontano settemila miglia, costituiva per loro una minaccia. Le affermazioni sulle armi di distruzione di massa irachene erano false, e tra i molti che lo sostenevano c'era il gruppo di recente formazione dei Veteran Intelligence Porfessionals for Sanity che rilasciava a cadenze regolari dei memorandum diretti al Presidente e al popolo ameriKKKano in cui smontava le menzogne promosse dall'ambiente dei servizi statunitensi.
Ma anche se quanto si andava dicendo sul conto degli arsenali iracheni fosse stato vero, non ci sarebbe stata comunque ragione di credere che Saddam Hussein fosse sul punto di lanciare un attacco a sorpresa contro gli Stati Uniti. Insomma, gli ameriKKKani erano tutt'altro che convinti che l'Iraq fosse una minaccia per la loro incolumità e per la loro sicurezza. In compenso, il governo degli Stati Uniti era davvero una minaccia per l'incolumità e la sicurezza degli iracheni.
Lungi dal rappresentare una minaccia imminente per gli USA, nel 2003 l'Iraq era un paese già devastato dalla guerra che gli USA avevano capeggiato dieci anni prima e dalle stringenti sanzioni economiche che avevano provocato la morte di un milione e mezzo di iracheni (portando alle dimissioni due coordinatori umanitari dell'ONU, che le avevano definite una misura genocida). 


Minacce e spacconate

Anche se l'invasione non inziò ufficialmente fino al 20 marzo 2003 (a Washington era ancora il 19) gli USA avevano iniziato a minacciare esplicitamente un'aggressione dell'Iraq fin dal gennaio dello stesso anno; il Pentagono rese pubblici i piani per una campagna di bombardamenti del tipo cosiddetto "colpisci e terrorizza".
"Se il Pentagono si attiene al piano prefissato," riferì CBS News il 24 gennaio, "in un solo giorno di marzo l'aeronautica e la marina lanceranno fra i trecento e i quattrocento missili da crociera contro bersagli situati in Iraq... Un numero superiore a quello dei missili lanciati in tutti i quaranta giorni della prima Guerra del Golfo. Per il secondo giorno, i piani prevedono il lancio di altri trecento o quattrocento missili."
Un funzionario del Pentagono disse: "A Baghdad non esisterà posto sicuro."
Queste minacce profferite pubblicamente sembrarono essere una sorta di intimidazione o di guerra psicologica, e quasi certamente violavano la Carta delle Nazioni Unite in cui si stabilisce che "Tutti gli stati membri rifuggiranno, nelle proprie relazioni internazionali, dalla minaccia o dall'uso della forza ai danni dell'integrità o dell'indipendenza politica di qualsiasi stato, o in qualsiasi altro modo che non concordi con gli scopi delle Nazioni Unite."
Il piano ostentato dal Pentagono iniziò con limitati bombardamenti nella notte fra il 19 e il 20 marzo 2003; le forze statunitensi cercarono invano di uccidere Saddam Hussein. Fino al 21 marzo continuarono gli attacchi contro un piccolo numero di bersagli; cominciò quindi la campagna di bombardamenti propriamente detta. Le forze capeggiate dagli USA lanciarono circa 1700 attacchi aerei, 504 dei quali eseguiti con missili da crociera.
Nel corso dell'invasione gli USA gettarono in Iraq qualcosa come 10800 bombe a grappolo, ma sostennero di averne usate in numero molto minore.
"Il Pentagono presentò un quadro fuorviante sulle bombe a grappolo usate nel corso della guerra e sul numero di vittime civili che esse stavano provocando," riferì alla fine del 2003 USA Today. Nonostante si sostenesse che erano stati usati solo 1500 ordigni di questo tipo, con una sola vittima civile, "di fatto, gli Stati Uniti hanno usato 10782 bombe a grappolo," molte delle quali sganciate in zone urbane nel periodo compreso fra la fine di marzo e l'inizio di aprile del 2003.
Le bombe a grappolo hanno ucciso centinaia di civili iracheni e hanno seminato migliaia di ordigni inesplosi che hanno continuato a uccidere e a ferire civili per settimane dopo la fine degli scontri.
L'uso di questo tipo di ordigni è vietato da una convenzione internazionale sulle munizioni a grappolo che gli USA hanno rifiutato di firmare.
Nel tentativo di uccidere Saddam Hussein, il 7 aprile Bush ordinò il bombardamento di un ristorante iracheno. Un bombardiere B1-B sganciò quattro bombe guidate da duemila libbre del tipo usato per colpire i bunker. Gli ordigni distrussero l'edificio preso di mira, quello dove si trovava il ristorante Al Saa, e vari edifici intorno. Al loro posto rimase un cratere profondo sessanta piedi. Numero delle vittime, sconosciuto.
Gli avventori, fra i quali anche bambini, furono fatti a brandelli dalle bombe. Una madre ritrovò prima il busto della propria figlia, e poi la sua testa. In seguito i servizi statunitensi confermarono che Saddam Hussein non c'era.


Resistenza e torture

Dopo qualche settimana dall'inizio dell'invasione era chiaro che l'amministrazione Bush aveva sbagliato nel valutare una questione fondamentale, la volontà di resistenza degli iracheni. Ci si imbatté in una resistenza più accanita del previsto anche in città dell'Iraq meridionale come Umm Qasr, Bassora e Nassiriya, laddove si pensava che Saddam Hussein avesse pochi sostenitori. Poco dopo la caduta del governo, avvenuta il 9 aprile quando l'amministrazione Bush decise di sciogliere l'esercito iracheno, agevolò l'inizio di un'insurrezione contro gli Stati Uniti guidata da molti ex appartenenti all'esercito.
Nonostante il trionfale atterraggio di Bush su una portaerei avvenuto il Primo Maggio e il discorso pronunciato davanti a un enorme striscione con la scritta "missione compiuta", sembrava chiaro che il collasso del governo baathista altro non era stato che un primo passo in quella che sarebbe diventata una guerra di logoramento destinata a durare a lungo. Dopo lo scioglimento delle forze convenzionali irachene, gli USA iniziarono a riscontrare nel maggio 2003 un rapido incremento degli attacchi contro le truppe di occupazione in varie zone del cosiddetto triangolo sunnita.
QUesti attacchi erano sferrati anche da gruppi di insorti che usavano fucili d'assalto e razzi RPG contro le truppe di occupazione statunitensi; cresceva anche l'uso di ordigni improvvisati contro i convogli militari.
Probabilmente in vista di una prolungata occupazione e di una campagna militare contro l'insurrezione, in un memurandum del 2003 gli esperti di diritto dell'amministrazione Bush avevano concepito dottrine giuridiche che giustificassero certe tecniche di tortura, offrendo appigli legali "che potessero rendere una determinata condotta, in altri casi criminali, non contraria alla legge."
Questi esperti sostennero che il presidente o chiunque ne seguisse gli ordini non era sottoposto alle leggi statunitensi o ai trattati internazionali che vietano la tortura; affermarono che la necessità di "ottenere informazioni vitali per la protezione di innumerevoli cittadini ameriKKKani" passava avanti a qualsiasi obbligo l'amministrazione avesse nei confronti della normativa statunitense o del diritto internazionale.
"Al fine di rispettare l'autorità che la costituzione assegna al Presidente nella gestione di una campagna militare," affermava il memorandum, i divieti statunitensi in materia di tortura "devono essere intesi come non applicabili agli interrogatori condotti in forza dell'autorità del comandante in capo."
Nel corso dell'anno successivo vennero alla luce rivelazioni sull'ampio utilizzo della tortura in Iraq al fine di "raccogliere informazioni". Il giornalista d'inchiesta Seymour Hersh rivelò nel maggio 2004 sul New Yorker che un rapporto secretato dall'esercito lungo cinquantatré pagine e redatto dal generale Antonio Taguba concludeva che la polizia militare del carcere di Abu Ghraib era costretta da personale dei servizi a cercare di stroncare la resistenza dei prigionieri iracheni prima degli interrogatori.
"Vari detenuti sono rimasti vittime di molti casi di abusi sadici, plateali e continuati," scrisse Taguba.
Queste iniziative, autorizzate dai massimi livelli, rappresentavano sertie infrazioni alle leggi e al diritto internazionale, compresa la convenzione contro la tortura, la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, allo War Crimes Act statunitense e al Torture Statute.
Probabilmente hanno avuto anche una loro importanza nell'ascesa del gruppo terroristico dello Stato Islamico, le cui origini sono state successivamente rintracciate in un carcere ameriKKKano in Iraq chiamato Camp Bucca. Camp Bucca è stato un luogo di abusi dilaganti contro i prigionieri; uno di essi, Abu Bakr al Baghdadi, è diventato in seguito capo dello Stato Islamico. Al Baghdadi è stato detenuto a Camp Bucca per quattro anni e ha iniziato lì a chiamare alla propria causa altri detenuti.


Le armi di distruzione di massa ameriKKKane

Oltre alla tortura e alle bombe a grappolo i crimini commessi nel corso degli anni contro il popolo iracheno hanno compreso massacri veri e propri, avvelenamenti a lungo termine e la distruzione di intere città.
C'è stato, nel 2004, l'attacco contro Falluja in cui contro i civili fu usato il fosforo bianco proibito dalle leggi di guerra. Ci fu nel 2005 il massacro di Haditha, in cui ventiquattro civili disarmati furono uccisi uno dopo l'altro dai Marines statunitensi. Ci fu il macello degli omicidi collateriali del 2007, rivelato da WikiLeaks nel 2010, che vide l'uccisione indiscriminata di più di dieci persone nel quartiere iracheno di Nuova Baghdad, tra i quali c'erano anche due appartenenti al personale della Reuters.
C'è poi il tragico strascico dei tumori e delle malformazioni neonatali causate dall'ampio utilizzo di uranio impoverito e di fosforo bianco da parte dai militari statunitensi. A Falluja il ricorso all'uranio impoverito ha portato a un tasso di malformazioni neonatali quattordici volte più alto di quello delle città giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki, colpite dalle atomiche statunitensi alla fine della seconda guerra mondiale. Rilevando le nascite di bambini malformati a Falluja, il giornalista di Al Jazeera Dahr Jamail ha detto a Democracy Now nel 2013:
"E venendo a Falluja, di cui ho scritto un anno fa e in cui sono tornato anche in quest'occasione, vi si nota un numero impressionante di malformazioni congenite nei neonati... Sono cose, dico, che è difficilissimo stare a vedere. Sono cose di cui è durissimo riferire. Ma dobbiamo comunque prenderne tutti atto, data la quantità di uranio impoverito usata dall'esercito USA durante il brutale attacco alla città del 2004 e delle altre munizioni tossiche come il fosforo bianco, tra l'altro."
Un rapporto inviato all'Assemblea Generale dell'ONU dal dottor Nawal Majid AL Sammarai, ministro iracheno per la condizione femminile, afferma che nel settembre 2009 all'ospedale di Falluja sono nati 170 bambini. Il 75% di essi presentava malformazioni. Un quarto di essi è morto entro la prima settimana di vita.
L'utilizzo dell'uranio impoverito da parte dei militari ha causato uno spiccato aumento dei casi di leucemia e di malformazioni neonatali anche nella città di Najaf, città in cui si svolse uno dei fatti d'armi più duri all'epoca dell'invasione del 2003. Secondo i medici locali il cancro vi è diventato più frequente dell'influenza.
Alla fine della guerra molte grandi città irachene fra cui Falluja, Ramadi e Mossul erano ridotte in macerie. Nel 2014 un ex direttore della CIA ammise che l'Iraq come stato sovrano era stato sostanzialmente distrutto.
"Io sono dell'idea che l'Iraq abbia letteralmente cessato di esistere," ha detto Michael Hayden, sottolineando che il paese era frammentato in varie parti che non pensava si potessero "rimettere nuovamente insieme." In altre parole gli USA avevano fatto ricorso al proprio ampio arsenale di armi di distruzione di massa vere e avevano completamente distrutto un paese sovrano.


Conseguenze prevedibili

Tra le conseguenze delle politiche adottate c'è stata la prevedibile crescita dell'estremismo islamico; la National Intelligence Estimate, che rappresenta un punto di vista consensuale dei 16 servizi di spionaggio del governo statunitense, ammoniva nel 2006 che l'occupazione statunitense in Iraq stava provocando la nascita di una generazione di islamici radicali completamente nuova. Secondo un funzionario dei servizi statunitensi esisteva concordanza di pareri sul fatto che "la guerra in Iraq ha portato ad un peggioramento del problema del terrorismo inteso nel suo complesso."
La valutazione affermava che esistevano diversi fattori che stavano "nutrendo la diffusione del movimento jihadista," ivi compresi "problemi ben radicati come la corruzione, l'ingiustizia, il timore di una dominazione occidentale che portavano a rabbia, umiliazione e senso di impotenza," insieme ad un "pervasivo sentimento antiameriKKKano diffuso presso la maggior parte dei musulmani; tutte cose che gli jihadisti sfruttano."
Anziché adottare mutamenti sostanziali o tornare indietro rispetto a certe politiche, a Washington si concordò una strategia che perseguiva con ancora maggiore intensità le condotte errate che avevano fatto nascere i gruppi dello jihad radicale. Invece di ritirarsi dall'Iraq, gli Stati Uniti decisero nel 2007 di inviare nel paese ventimila uomini in più, nonostante l'opinione pubblica fosse decisamente contraria alla guerra.
Un sondaggio di Newsweek dell'inizio del 2007 mostrò che il 68% degli ameriKKKani era contrario a questa decisione; un altro sondaggio svolto subito dopo il discorso sullo stato dell'Unione tenuto da Bush nello stesso anno rilevò che secondo il 64% degli interpellati il congresso non era stato sufficientemente perentorio nel contrastare l'amministrazione Bush sul comportamento seguito nel corso della guerra.
Il 27 gennaio 2007 a Washington sfilò un corteo composto da mezzo milione di persone che incitavano il 110º congresso appena insediatosi "a contrastare Bush", esortandolo a tagliare i finanziamenti per la guerra con lo slogan "non un solo dollaro in più, non un solo morto in più." Con questa manifestazione il movimento contrario la guerra mostrava di essere sempre più combattivo: centinaia di manifestanti fecero irruzione attraverso i cordoni della polizia e si diressero verso il Campidoglio.
Anche se vi furono altre manifestazioni molto nutrite un paio di mesi dopo in occasione del sesto anniversario dell'invasione, tra le quali un corteo verso il Pentagono con alla testa i veterani della guerra in Iraq, nel corso degli anni successivi le attività del movimento contrario alla guerra si indebolirono sensibilmente. La stanchezza può anche spiegare in parte lo scemare del sostegno nei confronti delle mobilitazioni di massa, ma gran parte di questo declino può essere senza dubbio spiegata dall'affermarsi della candidatura di Barack Obama. Milioni di persone calarono le loro energie in questa campagna, e molte di esse speravano che Obama rappresentasse un vero cambiamento rispetto agli anni di Bush.
Uno dei vantaggi di Obama sulla Clinton alle primarie del partito democratico era costituita dal fatto che Obama era stato uno dei primi ad opporsi alla guerra in Iraq, mentre la Clinton era stata una delle sue più rumorose sostenitrici. Questo portò molti elettori ameriKKKani a credere nel 2008 di aver eletto qualcuno che poteva mettere un limite all'avventurismo militare degli Stati Uniti e porre rapidamente fine al loro coinvolgimento in Iraq. Solo che non è stato così. La missione di combattimento si trascinò per molto tempo durante il primo mandato del Presidente Obama.


Guerra, guerra e ancora guerra

Dopo i plateali fallimenti in Iraq, gli USA rivolsero la propria attenzione alla Libia e nel 2011 rovesciarono il governo di Gheddafi ricorrendo a milizie armate coinvolte in crimini di guerra e sostenute dal potenziale aereo della NATO. Dopo la caduta di Gheddafi le sue scorte di armmamenti furono fatte arrivare ai ribelli in Siria, alimentando la guerra civile in quel paese. L'amministrazione Obama nutrì un sincero interesse per la destabilizzazione del governo siriano, perseguita facendo arrivare armamenti che spesso cadevano in mano ad estremisti.
La CIA addestrò e armò i cosiddetti "ribelli moderati" in Siria solo per ritrovarsi con formazioni che cambiavano parte unendosi a forze come lo Stato Islamico o gli affiliati ad Al Qaeda del Fronte an Nusra. Altre si arrendevano a gruppi estremisti sunniti e gli armamenti forniti dagli USA finivano presumibilmente negli arsenali degli jihadisti. Altri gruppi ancora lasciavano semplicemente perdere, o sparivano nel nulla.
Oltre alla Siria e alla Libia, Obama estese il coinvolgimento militare ameriKKKano ad altri paesi, compresi lo Yemen, la Somalia e il Pakistan, e rafforzò nel 2009 il contingente in Afghanistan. Nonostante il ritiro -in ritardo- dei soldati dall'Iraq con la partrenza dell'ultimo contingente il 18 dicembre 2011, durante la presidenza Obama sono cresciuti molto gli attacchi tramite droni e i bombardamenti aerei.
Durante il suo primo mandato Obama ha fatto lanciare ventimila tra bombe e missili. Una cifra che si è impennata nel corso del suo secondo mandato arrivando a superare i centomila. Nell'ultimo anno della presidenza Obama, nel 2016, gli USA hanno lanciato quasi tre bombe ogni ora, per ventiquattro ore al giorno.
Obama si è distinto anche per essere stato il quarto presidente di seguito a bombardare l'Iraq. Bersagliato da critici che lo accusavano di aver consentito l'ascesa dello Stato Islamico in Iraq, Obama decise di tornare indietro rispetto all'iniziale decisione di ritirarsi dal paese, e nel 2014 ricominciò con i bombardamenti. In un discorso al popolo ameriKKKano il 10 settembre 2014 il Presidente Obama disse che "lo Stato Islamico rappresenta una minaccia per il popolo iracheno, per il popolo siriano e per il Medio Oriente in generale, ivi compresi i cittadini, il personale e le strutture ameriKKKani."
"Se lasciati liberi di agire," prosegùì, "questi terroristi potrebbero arrivare a costituire una crescente minaccia oltre i limiti della regione e per gli Stati Uniti stessi. Non abbiamo ancora notizia di piani precisi contro il nostro paese, ma i capi dello Stato Islamico hanno minacciato l'AmeriKKKa e i nostri alleati."
Ovviamente questi non sono altro che gli esiti contro cui molte voci che invitavano alla prudenza avevano messo in guardia nel 2002 e nel 2003, quando milioni di ameriKKKani scendevano nelle strade a protestare contro l'imminente aggressione all'Iraq. Sia chiaro che non era solo la sinistra contraria alla guerra a invocare una rinuncia; anche personaggi dello establishment e degli ambienti ultraconservatori si dicevano preoccupati.
L'ex generale Anthony Zinni, per esempio, all'epoca inviato in Medio Oriente per George W. Bush, disse nell'ottobre 2002 che invadendo l'Iraq "faremo una cosa che appiccherà un tale incendio in questa zona che malediremo il giorno che abbiamo avuto quest'idea." Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale nel primo mandato di Bush, disse che attaccare l'Iraq poteva "scatenare uno Armageddon in Medio Oriente".
Non importava. Bush agiva d'istinto e aveva i suoi propositi. Ogni ammonimento fu spazzato via e si andò avanti con l'invasione.


La campagna del 2016

Donald Trump, all'epoca candidato alla presidenza, iniziò a rimbrottare Bush per la guerra in Iraq nel corso della campagna per le primarie del partito repubblicano nel 2015 e nel 2016- Trump definìla decisione di invadere l'Iraq c"un errore bello grosso," e non solo si accaparrò parte dei voti degli ultraliberali contrari alla guerra, ma consolidò la propria immagine di outsider della politica che "dice le cose come stanno."
Dopo che Hillary Clinton si fu affermata come candidato democratico, con tutto il suo curriculum di entusiasta sostenitrice di praticamente tutti gli interventi militari statunitensi e di fautrice di un maggior coinvolgimento in paesi come la Siria, gli elettori sono diventati scusabili se hanno pensato che il partito repubblicano fosse a quel punto il partito pacifista, e quello democratico il partito dei falchi.
Lo scomparso Robert Parry osservò nel giugno del 2016 che "Inebriati dalla sensazione suscitata dall'aver portato per la prima volta una donna alla candidatura presidenziale in uno dei maggiori partiti, i democratici non sembra abbiano badato gran che al fatto che hanno abbandonato la posizione che li caratterizzava da quasi cinquant'anni come partito più scettico sull'utilizzo della forza militare. La Clinton è platealmente un falco; un falco che non ha dato segno di resipiscenza circa il proprio atteggiamento bellicista."
L'ala contraria alla guerra all'interno del partito democratico è stata ulteriormente marginalizzata nel corso della convention nazionale del partito; i cori "mai più guerra" scanditi durante il discorso dell'ex Segretario alla Difesa Leon Panetta furono zittiti dallo establishment del partito che rispose con un coro di "USA!" per soffocare le voci pacifiste, e arrivò a staccare le luci che illuminavano i segmenti pacifisti del pubblico. Un messaggio chiaro; all'interno del partito democratico, per il movimento contro la guerra non c'era posto.
La sorprendente vittoria di Trump contro la Clinton nel novembre del 2016 ha svariate cause. Non occorre sforzare troppo la fantasia però per immaginare che una di queste può essere stata il persistente atteggiamento contrario alla guerra che datava al disastro iracheno e alle altre campagne dell'esercito statunitense. Molti di coloro che erano stanchi dell'avventurismo militare statunitense possono esser stati irretiti dalla retorica di Trump, ai limiti dell'isolazionismo; altri possono aver votato per un partito alternativo, come i Libertari o i Verdi, entrambi fortemente contrari all'interventismo statunitense.
Nonostante le occasionali dichiarazioni di Trump in cui si metteva in discussione l'assennatezza di un impegno militare in paesi lontani come l'Iraq o l'Afghanistan, anche Trump era un sostenitore di crimini di guerra come "far fuori le famiglie" dei sospettati per terrorismo. Trump affermò che gli USA in guerra dovevano smetterla di comportarsi in modo "politicamente corretto".
Insomma; alla fine gli ameriKKKani furono costretti a scegliere tra un irriducibile falco neoconservatore propenso al rovesciamento dei governi altrui -schierato dal partito democratico- e un interventista riluttante che comunque voleva rimettere i terroristi al loro posto ammazzandogli i figli. Anche se è stato il neoconservatore a ottenere il suffragio popolare, i collegi se li è presi il fautore dei crimini di guerra.
Dopo le elezioni venne fuori che quanto a uccisione di bambini il signor Trump era un uomo di parola. In una delle prime iniziative militari prese da presidente il 29 gennaio 2017 Trump ordinò l'attacco di un villaggio yemenita in cui persero la vita qualcosa come ventitré civili, tra i quali un neonato e Nawar al Awlaki, una ragazzina di otto anni.
Nawar era figlia del propagandista di Al Qaeda e cittadino ameriKKKano Anwar al Awlaki, che era stato ucciso dall'attacco di un drone statunitense nello Yemen a settembre del 2011.


L'aggressione come normalità

Il 2017, primo anno della presidenza Trump, si è rivelato il più micidiale per i civili in Iraq e in Siria da quando sono iniziati i raid statunitensi sui due paesi nel 2014. Stando al conteggio dell'organizzazione di controllo Airwars, gli USA hanno ucciso nel corso dell'anno fra i 3923 e i 6102 civili. "Le vittime non combattenti della Coalizione e degli attacchi di artiglieria sono cresciuti di oltre il duecento per cento rispetto al 2016," ha specificato Airwars.
L'impennarsi delle morti di civili ha guadagnato qualche titolo di giornale; anche uno sullo Washington Post. Per lo più le migliaia di innocenti uccisi daghli attacchi aerei statunitensi vengono derubricati a "perdite collaterali". Il macello in corso viene considerato ordinaria amministrazione, e per la classe dei mezzibusti si merita appena qualche commento.
Probabilmente è questo uno dei più duraturi strascichi dell'invasione dell'Iraq del 2003. L'invasione dell'Iraq fu un'aggressione militare basata su affermazioni false che ignorò qualsiasi invito alla prudenza e violò platealmente il diritto internazionale. A nessuno, nei media o nell'amministrazione Bush, è stato chiesto di rispondere del sostegno o dell'iniziativa di quella guerra; quello che abbiamo viston non è che la riduzione dell'aggressione militare ad evento normale, a un livello che venti anni fa sarebbe stato inimmaginabile.
A questo proposito ricordo bene i bombardamenti in Iraq che ebbero luogo nel 1998, nel quadro dell'operazione Desert Fox voluta da Bill Clinton. Nonostante fosse una campagna di limitato respiro e lunga soltanto quattro giorni, vi furono notevoli proteste. Mi unii a un presidio di circa duecento persone davanti alla Casa Bianca; c'era uno striscione scritto a mano che diceva "mettetelo in stato d'accusa per crimini di guerra", un riferimento al fatto che il Congresso all'epoca stava sì mettendo Clinton in stato d'accusa, ma per essersi fatto fare un pompino.
Si paragoni questa circostanza a quanto vediamo -o meglio, non vediamo- oggi. Nonostante gli USA siano coinvolti in almeno sette conflitti, l'attivismo pacifista è poco attivo e meno ancora lo è il dibattito a livello nazionale sull'opportunità, la legalità o la moralità del fare la guerra. Sono in pochi a obiettare per i significativi costi che tutto questo comporta per i contribuenti degli Stati Uniti; ogni giorno, per esempio, vengono spesi per queste guerre circa duecento milioni di dollari.
Quindici anni fa uno degli argomenti del movimento pacifista era che la guerra al terrore stava trasformandosi in una guerra senza limiti temporali e senza frontiere, senza regole e senza una vera e propria fine. In altre parole, gli USA correvano il pericolo di ritrovarsi in uno stato di guerra permanente.
E questa è chiaramente la condizione di oggi. Una realtà che persino il senatore bellicista Lindsey Graham lo ha ammesso un anno fa quando quattro soldati statunitensi sono rimasti uccisi in Niger. Graham ha detto che non sapeva che gli USA fossero militarmente presenti in Niger e, da presidente della commissione senatoriale sullo Stato, le operazioni all'estero e i programmi correlati, ha detto che "questa è una guerra senza fine, senza limiti, senza orizzonti temporali o geografici."
Non era chiaro se questa constatazione fosse dovuta a volontà di lamentarsi o di esprimere invece soddisfazione per questa guerra perenne e senza frontiere. Le sue parole dovrebbero essere considerate un avvertimento sulla situazione degli USA nel quindicesimo anniversario dell'invasione dell'Iraq. E la situazione è quella di una guerra senza fine, senza limiti, senza orizzonti temporali o geografici.