sabato 28 novembre 2015

Per quale motivo il pubblico della "libera informazione" è tanto ostile allo Stato Islamico?


Una cosa non torna.
Il pubblico delle gazzette "occidentali", e segnatamente quello che è solito commentarne gli articoli, produce ogni giorno compendi forcaioli in cui un'autoconsapevolezza da larve carnarie si unisce ad un'incompentenza priva di qualunque limite. Il meccanismo della "libera informazione" si autoalimenta di queste interazioni e le utilizza per definire parte dei contenuti di ogni issue: tra i molti utili servigi che la "libera informazione" rende ogni giorno c'è quello di ritrarre la penisola italiana come popolata da nullafacenti in là con gli anni il cui principale traguardo nella vita è quello di freddare un ladruncolo sorpreso nei sei metri quadri di giardino del proprio terratetto condonato.
Negli ultimi tempi l'Islàmme e lo Stato Islamico sono importanti nello agenda setting, e questo li ha messi al centro delle elaborazioni di un consistente numero di mangiatori di maccheroni, cui la telematica fornisce un pulpito eccezionale perché permette loro di tutto e al tempo stesso li mette al riparo dalle reazioni scomposte che le stesse asserzioni procurerebbero loro in qualunque pubblica sede frequentata da persone serie.
Il problema è questo.
Da quanto si legge in giro, esistono testimonianze di una certa sostanza che fanno pensare che lo Stato Islamico sia la distopia finalmente realizzata che la feccia delle gazzette "occidentali" e i quattro quinti dell'elettorato vagheggiano ogni giorno: nessuno che fuma, strade impeccabili, tutti a lavorare, legge, ordine, disciplina, rispetto assoluto della religione e dei suoi simboli, e soprattutto proprietà privata tutelata con il più efficace dei sistemi.
Su tutto vigila la forza delle armi -con tanti saluti ai pacifinti- che ammettono un solo grado di giudizio: oltre a far piazza pulita del buonismo cattocomunista delle toghe rosse e del loro garantismo si arriverebbe a troncare persino i rapporti informali che sono l'essenza di ogni relazione sociale, contribuendo così alla realizzazione di quelle "pari condizioni di partenza" in cui la mano invisibile del mercato può agire regolatrice e indisturbata: nessun liberista potrebbe chiedere di meglio.
E il liberismo, nella sua versione più pura, è l'unica concezione del mondo che non incontra mai alcuna contestazione da parte di questa torma di buoni a nulla.
Il perché lo Stato Islamico trovi tanti detrattori proprio nel pubblico che maggiormente dovrebbe apprezzarne i rigori, dunque, è cosa che meriterebbe qualche serio supplemento di indagine.

giovedì 26 novembre 2015

No alla NATO a Firenze


Negli ultimi mesi del 2015 il boiscàut Matteo Renzi ha sporcato la città di Firenze invitandovi il Primo Ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu, che non ha bisogno di alcuna presentazione, e l'emiro Mohammed bin Zayed al Nayhan, capo di stato maggiore di un'aeronautica che ha partecipato alla distruzione della Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare Socialista.
Nel novembre 2015 le forze armate degli Emirati Arabi Uniti sono impegnate (con risultati poco incoraggianti, pare) a fianco di quelle saudite nell'aggressione allo Yemen.
In occasione della visita ufficiale dell'emiro il boiscàut non perse occasione per parlare di pallone, come d'uso tra individui strapagati per deliberare in merito a questioni vitali. 
C'era da completare il tris, e Matteo Renzi ci è riuscito ospitando a Firenze un vertice della NATO, una "alleanza difensiva" che mette arsenali nucleari a disposizione di un ceto politico fatto di avidi, cialtroni, incoscienti, bugiardi, frequentatori di attrici, apprendisti stregoni, buoni a nulla e decerebrati raccattati in ventotto diversi paesi sovrani.
In tutte e tre le occasioni lo stato che occupa la penisola italiana ha militarizzato Firenze mobilitando centinaia di armati retribuiti: un'altra occasione per ricordare a chi vuole vederlo che il denaro drenato con le tasse non finisce soltanto nelle tessere telefoniche degli immigrati.
La NATO, al pari dell'antologia di ben vestiti che vi ha voce in capitolo, non è mai parte delle soluzioni. Il più delle volte è invece parte dei problemi, proprio come i due evitabili visitatori che Firenze ha ospitato nei mesi scorsi.
L'impegno della "libera informazione" è ovviamente volto a giurare il contrario, specie dopo che a metà novembre un gruppo di fucilieri e di attentatori suicidi ha fatto una strage nel pieno centro di Parigi, vale a dire in uno degli agglomerati urbani più militarizzati e sorvegliati del mondo.
Un dato eloquente sull'utilità di certe pratiche e di certe organizzazioni, ma nessuna gazzetta ospiterà mai attribuzioni causali di questo genere: in questi casi è essenziale evitare ogni asserzione razionale, e occupare issues interi da una settimana all'altra con buoni a nulla di varia carica e varia retribuzione dispostissimi ad asserire che l'islàmme odia l'"Occidente" perché è troppo libero.
L'idea diffusa dalla "libera informazione" è che l'"Occidente" possa e debba agire a piacimento in un vuoto umano e politico senza doverne rendere conto a nessuno e men che meno debba subirne qualsivoglia conseguenza. Questo assunto può essere contestato solo da frange facilmente marginalizzabili anche ricorrendo ad affermazioni ridicole: nelle ultime settimane è successo che chi osasse mettere in dubbio la liceità dei comportamenti "occidentali" venisse bollato all'incirca come "fuori moda".

Ecco un esempio di "libertà occidentale" da difendere coi missili da crociera, una delle vette correnti del pensiero, della superiorità intellettuale, del bon vivre messo a rischio da quei cialtroni in caffetano: non c'è nulla che i monsummani detestino di più.

Lesley Stahl: We have heard that half a million children have died. I mean, that is more children than died in Hiroshima. And, you know, is the price worth it? Madeleine Allbright: I think that is a very hard choice, but the price, we think, the price is worth it. (May 1996)

E non si trova più neppure un Follereau ad illustrare che null'altro sarebbe in pericolo se non il volto orrendo della barbarie.

mercoledì 25 novembre 2015

Omar al Ward - Viaggio nel califfato. L'oppressiva giustizia dello Stato Islamico


Traduzione dal blog di Joshua Landis su imbeccata del blog kelebekler.
Da quanto al Wardi riferisce viene da pensare che lo Stato Islamico sia finalmente la distopia realizzata che la feccia delle gazzette "occidentali" e i quattro quinti dell'elettorato vagheggiano ogni giorno: nessuno che fuma, strade impeccabili, tutti a lavorare, legge, ordine, disciplina, rispetto assoluto della religione e dei suoi simboli.
Tutto tutelato con la forza delle armi, che ammettono un solo grado di giudizio (così si farebbe piazza pulita anche del buonismo cattocomunista delle toghe rosse e del loro garantismo) e sono arrivate a troncare persino i rapporti informali che sono l'essenza di ogni relazione sociale, contribuendo così alla realizzazione di quelle "pari condizioni di partenza" in cui la mano invisibile del mercato può agire regolatrice e indisturbata: nessun liberista potrebbe chiedere di meglio.


Omar al Wardi è lo pseudonimo di un cittadino siriano cresciuto nella regione siriana di Jazira. Al Wardi vi si è recato più volte dopo che lo Stato Islamico ne ha preso il controllo.
Tradotto in inglese da Richard Hanania, studente di scienze politiche alla UCLA.

Molti credono che i sudditi dello Stato Islamico vivano in una incessante condizione di terrore. Qualcuno penserebbe impossibile che in queste zone esista un qualche cosa che si possa definire "vita normale". Io stesso ho scritto molto sui crimini e sulle azioni disumane compiute dallo Stato Islamico nei territori che controlla nella Siria orientale, soprattutto a Raqqa e a Deir ez Zor, e la maggior parte di quello che è stato scritto sulla questione corrisponde a verità. Solo che la maggior parte di coloro che se ne sono occupati l'hanno fatto adottando un punto di vista ristretto e guardando con un occhio solo. Parecchi di loro non si sono mai recati in zona, parlano di una realtà che hanno solo immaginato. Accettano stereotipi che i mass media hanno ripetuto fino alla nausea. Io invece sono cresciuto da quelle parti [la Jazira corrisponde pressappoco al governatorato di Al Hasakah, all'estremo est del paese. N.d.r.] e ci sono andato varie volte dopo che lo Stato Islamico ne ha preso il controllo. Mi sono intrattenuto in varie cittadine per farmi un'idea dell'atteggiamento di parenti, conoscenti e simili.
Quando sono stato la priuma volta ad al Bukamal dopo la conquista da parte dello Stato Islamico nell'estate del 2014, ho pensato di essere in viaggio sulla strada dell'inferno: ero terrorizzato. Ad ogni momento mi aspettavo di essere cacciato fuori dalla macchina, ammanettato e torturato. Pensavo che non sarei mai tornato vivo dai territori controllati dallo Stato Islamico. Avevo interiorizzato il concetto che lo Stato Islamico governa solo col terrore. Ad ogni posto di blocco lungo la strada sono praticamente morto di paura. Solo che a parte l'ovvia imponenza degli sbarramenti e dei posti di blocco non ho mai visto una scena che si accordasse con i luoghi comuni sullo Stato Islamico che avevo fatto miei e che i mass media hanno diffuso.
Arrivato ad al Bukamal ho notato che la cittadina era sorprendentemente tanquilla: nessuno può aggredire gli altri, imbrogliare la gente al mercato o inghirlandare le strade di mozziconi di sigaretta. Non avevo mai visto al Bukamal più pulita o meglio tenuta. L'uso di fumare pareva del tutto scomparso e non si vedeva più neanche l'ombra di tutta quella gente che era solita starsene seduta in giro a perdere tempo nei caffè. Rispetto a come la ricordavo quando è esplosa la crisi siriana la cittadina era completamente diversa. Sul governo dello Stato Islamico i quattrocentomila abitanti tra città e periferia hanno raggiunto un qualche accordo, e la prova più forte a sostegno di questo fatto è forse il fatto che le zone controllate dallo Stato Islamico sono tra le regioni del paese da cui i giovani sono meno propensi a fuggire in Europa: una cosa che a molti pare essere sfuggita. Se la vita fosse stata davvero infernale, ad al Bukamal e dintorni, tutti sarebbero emigrati in Germania, in Austria o anche soltanto in Turchia. Invece la maggior parte della gente è rimasta e non ha abbandonato il proprio paese e la propria terra.
Ho evitato di porre la domanda solita, che è "Odiate lo Stato Islamico?". So già perché alcuni odiano questa formazione, e la domanda cui volevo dare risposta io era il perché invece altri possano apprezzare un'organizzazione sanguinaria e criminale come questa, che taglia teste e scarica per le strade corpi di gente uccisa e decapitata. Ho ricevuto risposte coerenti e improntate al realismo, tutte focalizzate su un solo concetto: lo Stato Islamico aveva portato in città una sorta di giustizia.
Ho visto con i miei occhi che la popolazione di al Bukamal non è affatto oppressa come lo è stata in passato. Ad al Bukamal la maggior parte di quanti sono stati messi in carcere dallo Stato Islamico è costituita da appartenenti allo Stato Islamico stesso. Il governo dello Stato Islamico non esita a reprimere i suoi stessi appartenenti quando infrangono la legge. Anche un emiro dello Stato Islamico è stato processato e gettato in prigione dal governatore locale, quando è venuto fuori che aveva abusato del suo potere ed aveva aggredito gente innocente.
Il modello di giustizia che lo Stato Islamico si sta impegnando ad assicurare a chi vive ad al Bukamal e a Raqqa è questo. Le città della zona si sono date allo Stato Islamico e gli hanno accordato il monopolio della violenza per punire quanti commettono crimini o commettono dei torti. Tutti hanno volontariamente cessato di ricorrere alla violenza pur di vivere in condizioni di maggiore giustizia e uguaglianza. Non si permette al forte di spadroneggiare sul debole, al ricco di sfruttare il povero, ai capi clan di angariare i sottoposti. Sotto la legge dello Stato Islamico sono tutti uguali: non ci sono "amici degli amici" o eccezioni che tengano.
Il più importante fattore ad aver da solo convinto la gente ad accettare il "califfato" è il fatto che adesso i cittadini possono uscire di casa ad ogni ora del giorno e della notte senza essere vessati dal "Libero" Esercito Siriano o essere rapinati a caso da gente che dice di essere di Jabhat an Nusra. E questo è vero soprattutto nelle aree tribali della provincia.
Più di una persona mi ha detto che l'onore delle donne non viene mai violato. Questa è una cosa che anche i nemici locali dello Stato Islamico sono disposti a riconoscere: da quando lo Stato Islamico ha assunto il controllo della situazione, non si è dato un solo caso di violenza ai danni di una donna o di una ragazza. L'esatto contrario di quanto succedeva nel contesto sociale in via di dissoluzione che c'era quando ad al Bukamal governava Jabhat an Nusra. All'epoca i bordelli funzionavano in bella vista. Oggi si può essere sicuri che andando da Deir ez Zor fino alla provincia irachena di al Anbar, a trecentocinquanta chilometri di distanza, nessuno procurerà noie finché si mostra ossequio alla legge.
Uno dei più importanti motivi per cui lo Stato Islamico è stato accettato ad ampia maggioranza è che nei primi anni della sollevazione contro Assad la corruttela imperversava dappertutto. All'inizio comandavano milizie che si definivano "Libero" Esercito Siriano. Il loro comportamento non differiva in nulla da quello dei ladri e dei banditi. La popolazione civile viveva in condizioni di perenne timore che i beni posseduti potessero esserle sottratti uno dopo l'altro e temendo di poter essere angariata e magari anche uccisa. Poi è stata la volta di an Nusra, cui interessava solo il potere e poco o nulla si curava della giustizia o del buon governo. Tra "Libero" Esercito Siriano e an Nusra, per la società civile è stata la rovina. Nessuno osava rivolgersi alle autorità per risolvere una qualche disputa. Dopo che il Califfato ha preso il controllo della zona, la gente ha inziato a tirare il fiato e si è sentita meno oppressa.
In concreto, i cittadini di al Bukamal non hanno motivo di odiare i membri dell'organizazione e chi coopera con loro dal momento che li vedono cercare di far arrivare acqua ed elettricità alla gente, e a prezzi accessibili. E neppure possono odiare un'organizzazione che mantiene i prezzi a livelli ragionevoli. I combattenti dello Stato Islamico sovrintendono alle loro necessità e fino a notte su adoperano per farvi fronte. Questo stato di cose reale annichilisce l'odio e anche se esiste qualcuno che non vuole che lo Stato Islamico resti al potere, i più deboli vogliono che vi rimanga, e lo vogliono i poveri che non hanno nessuno che prenda le loro parti. Certo, alcuni combattenti godono di particolari privilegi, ma si tratta di una minoranza e comunque non sono cose paragonabili a quelle di cui godevano gli ufficiali prima alleati del governo, o i combattenti del "Libero" Esercito Siriano o di an Nusra.
Lo Stato Islamico ha le risorse morali e materiali che gli servono per ricostruire i centri urbani che controlla. Cosa ancora più importante, ha la volontà di far sì che la gente abbia migliori condizioni di vita. Non è ancora in grado di adottare le moderne tecnologie necessarie a migliorare la qualità della vita come promette di fare, ma sta facendo ogni sforzo per avervi accesso.
Gli aerei che sorvolano i territori controllati dallo Stato Islamico hanno conseguito un'unica vittoria vera e propria. Non è l'aver ucciso combattenti o aver ostacolato i movimenti dell'organizzazione: è invece l'avergli impedito di assicurare servizi alle comunità. Questo è stato l'unico obiettivo raggiunto dalla coalizione che combatte lo Stato Islamico.
Sto cercando di ritrarre lo Stato Islamico in modo realistico, in un quadro che possa essere paragonato e opposto alla sua immagine di organizzazione sanguinaria. E'impossibile, per un governo dedito all'assassinio sanguinario, governare senza stabilire sicurezza fisica e sociale; solo che questo aspetto viene ricordato poche volte, per macchiare l'immagine di un'organizzazione che invece per reggersi non ha bisogno altro che della verità.
Il problema è questo: lo Stato Islamico ha sviluppato una propria società? L'organizzazione è riuscita ad integrarsi in una comunità più ampia? Oggi come oggi il gruppo non può concretamente parlare di una "società dello Stato Islamico" perché sono ancora la paura ed il terrore a tenere in pugno la comunità. Col passare del tempo però, se questo governo rimarrà al potere per altri tre anni almeno, mi aspetto che nasca una vera e propria società dello Stato Islamico: per quanto riguarda l'est della Siria il timore più grande è questo. Dalla società dello Stato Islamico nasceranno estremisti e ideazioni terroriste.

martedì 24 novembre 2015

Obama e l'eredità del lato oscuro


Traduzione da Conflicts Forum.

"Ci sarà da lavorare anche su quella specie di lato oscuro, se si vuole".

Dick Cheney

All'inizio di agosto l'ex funzionario di più alto grado dei servizi di informazione del Pentagono, luogotenente generale Michael Flynn, ha detto che l'"Occidente" si era incaponito a sostenere l'ascesa di una "entità statale salafita più o meno dichiarata nell'est della Siria" per fare pressione sul governo siriano, e poi ha proseguito confermando che il rapporto delle agenzie di informazione della difesa statunitense del 2012 recentemente reso pubblico in cui si trattava dell'ascesa dello Stato Islamico in Siria conteneva espliciti ammonimenti sulla possibilità che "uno stato islamico" venisse dichiarato "grazie all'unificazione con altre organizzazioni terrroristiche dell'Iraq e della Siria". Nel mainstream la cosa è passata quasi sotto silenzio: nessuno si è azzardato a toccare il nervo scoperto rappresentato dalla possibile collusione degli Stati Uniti con le forze del califfato.
Quello che il generale americano andava dicendo era comunque chiaro quanto basta: la trasformazione del conflitto siriano in uno jihad era frutto di una decisione politica perseguita con ostinazione, sin dai tempi in cui al Qaeda e l'embrionale Stato Islamico erano gli unici movimenti in grado di instaurare un califfato del genere sui territori siriani ed iracheni. A questo ha tranquillamente fatto seguito la tacita accettazione di questo risultato da parte dell'amministrazione statunitense e dei suoi alleati, in nome dell'interesse ad indebolire o a sovvertire lo stato siriano.
In Occidente molti hanno trovato difficile credere alle considerazioni del Generale Flynn, nonostante la sua conoscenza in prima persona degli avvenimenti: ma come può essere successa una cosa simile, che a tanti osservatori e a tanti lettori deve essere sembrata contro ogni logica? Oltretutto sono cose che toccano una ferita ancora aperta nella psicologia occidentale: gli avvenimenti dell'undici settembre 2001. Solo che ormai con l'intervento militare russo ed iraniano il pantano in cui si è cacciato l'Occidente ha preso fin troppa evidenza: la Russia sta fornendo copertura aerea all'Esercito Arabo Siriano che è all'opera per tagliare da una parte le linee di rifornimento che uniscono gli insorti alla Turchia, e dall'altra le comunicazioni tra Mossul ed Aleppo, per porre così le basi della sconfitta strategica dello Stato Islamico.
A fronte di tutto questo i leader occidentali vengono per lo più considerati dei prevaricatori capacissimi di andare a mettere bastoni tra le ruote e di danneggiare direttamente i tentativi che i russi e tutti gli altri stanno facendo per sconfiggere le forze radicali del califfato, avallando l'arrivo in Siria di un grosso quantitativo di missili portatili e anticarro inviati da paesi del Golfo Persico. Ma da che parte sta l'Occidente?!
A volte l'alleanza dei "quattro più uno" deve affrontare avversari che non sono lo Stato Islamico e che si chiamano an Nusra e Arhrar al Sham: jihadisti e forze del califfato che non hanno assolutamente alcun interesse ad arrivare ad un accordo politico che non contempli la loro vittoria. Eppure i politici occidentali gridano ogni volta al fallo, cosa che implica il fatto che quelle formazioni sono in qualche modo i "loro uomini" e che non dovrebbero essere attaccate. A quanto sembra, il pantano in cui l'Occidente si è cacciato si estende sul Medio Oriente intero: gli USA e i loro alleati sono ufficialmente in guerra contro i tagliatori di teste del radicalismo sunnita e al tempo stesso continuano a imbastire tresche con loro. Com'è potuto succedere? Come rimediare a questo pasticcio?
Le radici dell'atteggiamento ambiguo che gli USA hanno nei confronti dello scatenato Islam sunnita radicale (come abbiamo già spiegato) si trovano principalmente nel gruppo di neoconservatori americani che hanno messo insieme una influente cerchia di "combattenti da Guerra Fredda" attorno al Vicepresidente Dick Cheney e che sono ossessionati dal pensiero di dover cacciare l'influenza soietica dal Medio Oriente e rovesciare i paesi arabi socialisti e nazionalisti, visti allo stesso tempo sia come servi dei sovietici che come minacce per lo stato sionista.
David Wurmser, consigliere di Dick Cheney per le questioni mediorientali, nel 1996 insisteva sul fatto che per l'america "determinare e velocizzare il caotico collasso" del baathismo doveva essere la più importante priorità nella regione. Secondo Wurmser non si doveva dare quartiere al nazionalismo arabo laico, nemmeno perché costituiiva un argine contro il fondamentalismo islamico. L'america ha fatto della distruzione del laicismo nazionalista il suo obiettivo imprescindibile e si è trovata così in obbligo con alleati come i re del Golfo e gli emiri, che hanno sempre fatto ricorso allo jihadismo sunnita servendosene come un anticorpo contro il contagio democratico.
Solo che l'utilizzo dei movimenti jihadisti sunniti radicali da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna in nome dei "più vasti fini geostrategici" era già una pratica corrente ben prima del 1996.
A domanda se gli rincrescesse il fatto che la CIA aveva dato sostegno sotto copertura agli jihadisti in Afghanistan sei mesi prima che i sovietici invadessero il paese (su richiesta di Kabul) il consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Carter Zbig Brzezinski rispose:
Ad essere precisi era il tre luglio 1979 il giorno in cui il Presidente Carter firmò la prima direttiva che ordinava aiuti sottobanco per gli oppositori del governo filosovietico di Khabul [i sovietici intervennero il 24 dicembre 1979]. Quello stesso giorno io scrissi al presidente una nota in cui gli spiegavo che a mio modo di vedere questi aiuti [diretti alle forze islamiche radicali] avrebbero indotto i sovietici ad intervenire [in Afghanistan].
D.: Nonostante il rischio fosse questo, lei ha sempre difeso questa operazione sotto copertura. Forse lei stesso voleva che i sovietici entrassero in guerra e ha cercato di provocarli?
Brzezinski: No, non è stato propriamente così. Noi non abbiamo spinto i russi a intevenire, ma abbiamo consapevolmente fatto salire le probabilità che lo facessero. 
D.: Quando i sovietici si giustificarono affermando che intendevano combattere contro il segreto coinvolgimento degli USA in Afghanistan nessuno gli credette. Eppure era sostanzialmente la verità. Non ha nulla di cui pentirsi oggi?
Brzezinski: Pentirmi di cosa? Quell'operazione segreta fu un'idea eccezionale perché attirò i russi nella trappola afghana; me ne dovrei pentire? Il giorno in cui i sovietici passarono ufficialmente la frontiera io scrissi a Carter: "Adesso abbiamo la possibilità di dare all'Unione Sovietica il suo Vietnam..."
D.: Non è pentito nemmeno di aver appoggiato i mujaheddin islamici, fornendo armi e addestramento a futuri terroristi?
Brzezinski: Cos'è che conta di più nella storia universale? I talebani o il crollo dell'impero sovietico? Un pugno di musulmani turbolenti o la liberazione dell'Europa centrale e la fine della guerra fredda?
D.: Un pugno di musulmani turbolenti? Ma se dicono e ripetono che il fondamentalismo islamico è oggi una minaccia mondiale...
Brzezinski: Sciocchezze...!
Questo manipolare lo jihadismo sunnita scatenato in nome dei fini geopolitici statunitensi era già allora una pratica consolidata, anche se le origini del pantano siriano risalgono più che altro agli eventi del 2006 e del 2007. La guerra in Iraq nel 2003 non era finita con la creazione del blocco regionale filostatunitense e filosionista vagheggiato dai neoconservatori: anzi, aveva fatto da stimolo per la resistenza di una potente "mezzaluna sciita" estesa dall'Iran al Mediterraneo, che i leader del Golfo cominciavano a temere. Gli stati sunniti erano "attoniti davanti alla rivalsa sciita, e cresceva il risentimento alimentato dal nostro intendercela con gli sciiti moderati in Iraq", disse all'epoca un consigliere del governo statunitense. "Noi non possiamo annullare l'avanzata sciita in Iraq, ma possiamo arginarla".
La goccia che fece traboccare il vaso fu il fallimento dello stato sionista, che nella guerra del 2006 non riuscì a infliggere danni seri a Hezbollah: paesi del Golfo e stato sionista ne furono snervati. Tutto questo provocò un vivace dibattito a Washington: "Pare che a livello governativo ci sia stata una discussione su quale sia il pericolo più grave, l'Iran o i sunniti radicali" disse a Seymour Hersh Vali Nasr del consiglio per gli affari esteri. "I sauditi e qualche membro del governo pensano che la minaccia più seria venga dall'Iran e che i sunniti radicali siano dei nemici di minor conto. Per la linea saudita è una vittoria".
In un certo senso fu una vittoria anche per i vertici del Libano, di stretta osservanza saudita, che negli anni precedenti avevano consolidato i propri legami con i gruppi estremisti sunniti che avevano fatto propria una visione militante dell'Islam (per esempio Fatah al Islam) manifestando ostilità per l'America e vicinanza ad Al Qaeda. Questi taciti alleati dell'Alleanza del Quattordici Marzo vennero considerati dalla élite sunnita libanese come un braccio militare potenziale, formato da combattenti fattisi esperti nel conflitto iracheno, che si poteva foraggiare e in ultima analisi mantenere al meglio delle proprie potenzialità in modo che si contrapponesse militarmente a Hezbollah. Sarebbero state le forze d'assalto dell'Alleanza del Quattordici Marzo e sarebbe toccato a loro arginare l'infuenza sciita e magari, in fin dei conti, sconfiggerla.
Il caso libanese è stato presentato al governo USA da individui come Jeff Feltman, all'epoca ambasciatore statunitense in Libano, come se fosse un esempio in piccola scala di quello che si sarebbe potuto fare in Siria. I capi dell'Alleanza del Quattordici Marzo si dissero sicuri di poter controllare tranquillamente questi elementi radicali e che nonostante la loro propensione per al Qaeda si trattava di organizzazioni comunque comprese sotto l'ampio ombrello sunnita realizzato da Saad Hariri e dall'Arabia Saudita. La caduta della Siria sarebbe stata come una chiave inglese cacciata tra gli ingranaggi che legavano l'Iran allo spauracchio dello stato sionista: Hezbollah. Per l'amministrazione statunitense era una prospettiva intrigante. Seymour Hersh scriveva: "Questa volta, mi ha riferito il consulente del governo degli Stati Uniti, Bandar e gli altri sauditi hanno garantito alla Casa Bianca che non perderanno d'occhio i fondamentalisti religiosi. Come se ci avessero mandato a dire che loro hanno creato questo movimento, e loro lo controllano. Non è che noi non vogliamo che i salafiti scaglino bombe: dipende da chi è il bersaglio... [dovrebbero tirarle a]: Hezbollah, Moqtada al Sadr, l'Iran e anche i siriani, [nel caso dovessero] proseguire a cooperare con Hezbollah e l'Iran".
In ogni caso, non tutti i sauditi ostentavano tanta sicurezza. Un ex diplomatico saudita a colloquio con Hersh accusò il leader di Hezbollah Nassrallah di star cercando di "prendere il controllo del paese" ma deplorò anche il sostegno che libanesi e sauditi davano agli jihadisti sunniti in Libano: "i salafiti sono pazzi e pieni di odio e sono molto contrario all'idea di averci a che fare", disse. "Odiano gli sciiti, ma odiano ancora di più gli americani. Se cercate di fregarli, loro fregheranno noi. Sarà brutto".
Nonostante tutto questo Cheney e i suoi si sono fatti affascinare dalle idee che Bandar aveva sul conto della Siria, anche se si sono mossi con cautela: "Dobbiamo fare tutto il possibile per destabilizzare il governo siriano e sfruttare ogni singolo momento in cui non riusciranno a tenere il passo dal punto di vista strategico". In un'intervista con il Telegraph del 2007 David Wurmser, ex consigliere di Cheney e di John Bolton, confermò che questo "comprende anche l'intenzione di arrivare fin dove possiamo per rovesciare il governo [siriano], se necessario". Disse che "la fine del governo baathista a Damasco potrebbe innescare un effetto domino che porterebbe all'abbattimento del governo iraniano".
Bandar si era vantato di essere capace di controllare gli jihadisti: "lasciate fare a me". Il consigliere di Cheney per la sicurezza nazionale, John Hannah, ebbe a ricordare in seguito che all'epoca vi fu generale consenso: "Che Bandar operi senza far riferimento agli interessi degli USA è cosa che ovviamente desta preoccupazione. Ma Bandar che sta dalla nostra parte... contro il comune nemico iraniano, è una cosa che ha un'importanza strategica fondamentale". L'ingresso dell'Arabia Saudita in questa inziativa di vaste proporzioni contro la Siria segnò l'inizio dell'alleanza strategica tra sauditi e stato sionista, uniti dalla comune ostilità verso l'Iran.
In effetti, l'ex diplomatico saudita aveva ragione. Né Hariri né il principe Bandar erano in grado di controllare le esagitate forze del califfato con cui avevano a che fare. Erano tanto pervase di moderazione che continuarono a scivolare politicamente verso al Qaeda e il califfato dello Stato Islamico, e con loro passarono di parte anche gli armamenti che la CIA gli aveva fornito. Il conflitto siriano è diventato sempre più jihadista nella sua essenza, proprio come nel 2012 il Generale Flynn aveva detto che sarebbe successo.
Alla faccenda dei "moderati" Obama ha detto chiaramente di non aver mai creduto, fin dall'inizio. Nel 2012 disse a Jeffry Goldberg: "Quando c'è un esercito composto da militari di professione, ben armato e sovvenzionato da due grandi paesi che hanno grossi interessi in gioco e sono in guerra contro un contadino, un carpentiere, un ingegnere che hanno iniziato con le manifestazioni di piazza e all'improvviso si trovano nel mezzo di una guerra civile -comunque la si possa intendere- è chiaro che questo non riguarda le forze statunitensi: in quei contesti non è mai successo che si cambiassero le cose sul terreno" (il corsivo è di Conflicts Forum).
Obama non credeva nei moderati, ma era sotto pressione da parte dei falchi -tra i quali c'erano anche i suoi inviati Fred Hof e il generale Allen- perché si accelerasse la cacciata del Presidente Assad. Solo che Obama era stato chiarissimo: "Non ci getteremo a corpo morto in una guerra civile cui prendono sì parte alcune frange popolari che davvero vogliono una vita migliore, ma in cui si trovano anche soggetti che a lungo termine provocherebbero danni agli Stati Uniti". Come spesso succede, si reagì rivolgendosi a sistemi più discreti, in modo da dare un contentino ai falchi aumentando le operazioni clandestine in sostegno all'opposizione, jihadisti compresi.
Obama: ...Abbiamo ragione di credere che [il Presidente Bashar al Assad] abbia i giorni contati. Non è in questione il se, ma il quando. Ora, possiamo accelerare questa cosa? Stiamo lavorando con la comunità internazionale per cercare di arrivarci... (...)
Goldberg: C'è nulla che potreste fare per sveltire le cose?
Obama: Nulla di quello che posso dirle, perché lei non ha permessi sufficienti per venire a parte di certe informazioni riservate [risata].
Ovviamente l'amministrazione si è potuta accorgere di come altri, e non certo "in modo chiaro", stessero "cambiando le cose sul terreno". Nel 2014 il vicepresidente Biden ammise con ancor maggiore candore:
L'essenza della questione è l'essere in grado di identificare un centro moderato in Siria. Centro moderato che non esiste perché un centro moderato è fatto di bottegai, non di soldati...
Quello di cui mi lamentavo di continuo era che il problema più grosso sono i nostri alleati: i nostri alleati in Medio Oriente erano il problema più grande, in Siria. I turchi... i sauditi, i vari emirati... Cosa stanno combinando? Davero volevano cacciare Assad e alla fine ritrovarsi con una guerra di prossimità tra sunniti e sciiti? Che cosa hanno fatto? Hanno rovesciato centinaia di milioni di dollari e decine, migliaia di tonnellate di armamenti addosso a chiunque avrebbe combattuto contro Assad, solo che a ricevere tutto questo sono state an Nusra e al Qaeda, oltre ad elementi dello jihadismo estremista arrivati da altre parti del mondo...
...E non c'è stato verso di convincere i nostri colleghi a smettere di rifornire questa gente. Che cosa è successo? Ora tutto a un tratto -non è che voglia scherzarci troppo su- hanno visto la luce [i paesi del Golfo avevano detto che si sarebbero uniti ad una coalizione contro lo Stato Islamico]? Ora ci troviamo in questa situazione: il Presidente è riuscito a mettere insieme una coalizione che riunisce i nostri partner sunniti, perché gli Stati Uniti non possono permettersi di invadere un'altra volta un paese musulmano e di passare da aggressori: la coalizione deve essere a guida sunnita, deve andare e combattere contro un'organizzazione sunnita".
Paradossalmente John Hannah deve aver tratto beneficio dall'esperienza fatta, perché riferendosi all'incontro che Obama ha avuto nel giugno 2015 a Camp David con i leader del Golfo Persico ha espresso queste considerazioni sulla politica siriana del Presidente. Hannah ha notato che dopo "aver messo in chiaro che comprende la minaccia rappresentata dall'Iran per tutta la regione"
...[Obama] si è lasciato andare a questa piccola perla: a suo modo di vedere gli arabi devono imparare dall'esempio iraniano. In concreto dovrebbero capire bene come funziona la Forza Quds e sviluppare delle proprie organizzazioni sul terreno che siano capaci di contrastare passo dopo passo gli agenti iraniani e di sconfiggerli. Il Presidente è sembrato meravigliato dal fatto che da Hezbollah agli Houti passando per le milizie irachene, l'Iran possa contare su tanti sostenitori locali in grado di adoperarsi per i suoi interessi. "Dove sono gli equivalenti sunniti", ha chiesto: in particolare voleva sapere perché i sauditi e i loro alleati non sono stati capaci di tirare abbastanza yemeniti dalla loro parte in modo da rivolgere contro gli Houthi le sorti del conflitto. Obama ha detto che gli arabi hanno grandissimo bisogno di sviluppare un insieme di strumenti che vada al di là della forza bruta e dell'intervento diretto: dovrebbero essere più sottili, più occhiuti, più efficaci... insomma, un po' più come l'Iran.
E queste le riflessioni di John Hannah, senz'altro grazie alle esperienze fatte:
"Pensiamoci un momento. Minacciati, alla disperazione, poco sicuri del sostegno statunitense e impegnati in uno scontro mortale con un Iran sciita che diventa sempre più settario, a chi potrebbero rivolgersi gli wahabiti per farne in fretta e furia un potenziale alleato sul terreno? Ad al Qaeda nella Penisola Arabica in Yemen? A Jabhat an Nusra in Siria? Allo Stato Islamico in Iraq? Impossibile? Chissà, forse sì. Ma forse no. Il passato non sempre è prodromo del presente ma costituisce di sicuro una ragione per muoversi con molta cautela. Sembra che il presidente sia molto appassionato delle operazioni clandestine, sotto copertura e paramilitari, che costano relativamente poco e si svolgono senza visibilità. Sembra anche alla disperata ricerca di un modo per alleviare il peso che per gli USA ha il mantenimento di una leadership mondiale imponendo a certi alleati problematici di farsi avanti e di pattugliare loro stessi il proprio vicinato. Se si mettono insieme tutte queste cose, si vede che tutto torna a meraviglia come insieme di misure per arginare l'Iran. Solo che il Medio Oriente è questo, e il prossimo conflitto settario jihad contro jihad è appena all'inizio. Quindi bisogna fare attenzione a quello che si vuol fare".
Di qui la natura esatta del pasticcio in Siria. A volte proprio non si può arrivare a quadrare il cerchio concedendo un po' di questo e un po' di quello a tutte le parti in causa, falchi di casa, industria delle operazioni speciali, alleati del Golfo, mentre si cerca al tempo stesso di tenere una linea che eviti un intervento militare decisivo da parte degli Stati Uniti. A parte le questioni di vocabolario e un certo mercato delle vacche, al Qaeda o an Nusra e altra gente del genere come Ahrar al Sham e così via possono cambiare nome ogni volta che vogliono, senza che questo autorizzi a considerarle formazioni moderate, né nel senso di "moderati alla Weybridge" come dicono nel Regno Unito, né in alcun altro senso.
Tom Friedman ha detto correttamente:"Obama ha fatto bene ad ostentare indecisione sulla questione del coinvolgimento in Siria. Solo che gli è mancato il coraggio di illustrarne le ragioni al popolo americano. Continua a farsi impaniare in fatti e detti che a pelle sa bene che non funzioneranno, e si trova così nella peggiore delle situazioni, quella in cui la retorica supera la politica, e la politica che non funziona".
Non sorprende il fatto che qualcuno negli USA stia, sia pure con cautela, guardando all'intervento militare del Presidente Putin come all'unico modo per venire a capo di questo nodo di Gordio e per togliere Obama dall'imbarazzo della sua indecisione. Che siano la Russia e i suoi alleati a sconfiggere lo Stato Islamico, e ben venga il fatto che "un contadino, un carpentiere, un ingegnere che hanno iniziato con le manifestazioni di piazza e all'improvviso si trovano nel mezzo di una guerra civile" -per dirla con le parole di Obama- vengano chiamati a far parte del processo politico. Sarebbe già un risultato.

domenica 22 novembre 2015

Gli Stati Uniti scorgono qualche opportunità nella situazione in Siria?


Traduzione da Conflicts Forum.

In politica quando gli eventi deviano dai copioni noti o dai binari stabiliti è bene chiedersi perché questo succede: magari questo discostarsi dalla rotta prevista indica un mutamento più profondo a livello geopolitico di quanto una superficiale presa d'atto degli eventi potrebbe suggerire.
Il 30 ottobre 2015 a Vienna l'assemblea dei paesi esteri che reclamano un ruolo nel conflitto siriano si è trovata d'accordo su una sorprendente serie di punti di principio. Tra l'altro, hanno statuito l'unità, l'indipendenza, l'integrità territoriale ed il carattere laico della Siria. Basta con la divisione del paese, lungamente caldeggiata: le istituzioni dello stato siriano devono rimanere intoccabili. Ancora più notevole è il fatto che la dichiarazione congiunta non fa alcun riferimento ad un "governo di transizione". Si limita ad invitare l'ONU ad adoperarsi per un processo politico che conduca ad una nuova costituzione e a nuove, libere e democratiche elezioni sotto la supervisione delle Nazioni Unite. La dichiarazione inoltre afferma che "il processo politico, ancorché supervisionato dall'ONU, sarà condotto dai siriani e controllato dai siriani; il futuro della Siria sarà deciso dal popolo siriano". Il futuro ruolo del Presidente Assad è stato puramente tralasciato ed è ancora oggetto di discussione.
Se questi sono i fatti, i principi stabiliti a Vienna fanno pensare ad un risultato di tutto rispetto per la diplomazia russo-iraniana e per la condiscendente co-presidenza dell'assise di John Kerry e Sergej Lavrov. Dunque? Sir Arthur Conan Doyle, in una delle sue storie di Sherlock Holmes del 1892 in cui si racconta di un assassinio articolò la trama attorno ad un particolare saliente:
Gregory (investigatore di Scotland Yard): "C'è qualcosa d'altro cui dovrei fare attenzione, secondo lei?"
Holmes: "Sì: la strana cosa successa al cane durante la notte."
Gregory: "Ma il cane non ha fatto niente, durante la notte."
Holmes: "Appunto: la cosa strana è proprio questa."
Nella notte viennese c'è stato forse qualche cane che è rimasto inattivo? Sicuramente. Si chiama "clientite": il parlare compulsivamente in nome degli espliciti obiettivi politici dei propri clientes, anche quando non corrispondono ai propri. Si tratta di una malattia che nel caso degli USA è iniziata ai tempi della prima guerra del Golfo, quando i neoconservatori a Washington marchiarono i paesi arabi baathisti, nazionalisti e laici come "burattini sovietici" e nemici dello stato sionista. Tutte vestigia dello scomparso potere sovietico che bisognava spazzar via, affermavano gli emuli di David Wurmster, per sostituirle con più accomodanti monarchie come quella hashemita o quella dei Saud (si veda qui). Di conseguenza lo stato sionista e le monarchie del Golfo persico sono diventati automaticamente clientes degli USA, cosa mai successa prima, neppure dopo il ritiro dei britannici dal Golfo nel 1971. Dapprincipio gli Stati Uniti avevano lasciato cadere l'esplicito invito a farsi successori della Gran Bretagna.
Il patto era che in cambio della loro assimilazione all'impero -quello della benevola egemonia statunitense- i clientes avrebbero ricevuto protezione e stabilità dagli USA e avrebbero in cambio concesso agli Stati Uniti i mezzi per proiettare il loro "ordine" mondiale tramite il disseminamento di basi militari e l'integrazione dei clientes nelle reti di servizi occidentali. In altre parole i clientes avrebbero agevolato l'AmeriKKKa nel suo ruolo di tutore dell'ordine mondiale di cui essa stessa era autrice, ed avrebbero avuto come contropartita la garanzia del loro status quo.
Il problema è che all'atto pratico questa "assimilazione" ha portato anche al fatto che gli USA facessero propri gli obiettivi politici dei clientes. La clientite è appunto questo rimanere inchiodati agli obiettivi politici altrui anche quando corrispondono poco ai propri e vi corrispondono sempre meno. L'espressione indica la paralisi politica che segue dal fatto che non si è capaci di prendere le distanze o di disconoscere le ambizioni politiche dei propri clientes, dal tmore concreto di finire sotto accusa per aver indebolito la capacità dell'AmeriKKKa di comportarsi come benevolo egemone o poliziotto a livello globale e dunque di essere colpevoli di aver accelerato il "declino" ameriKKKano.
Ecco di cosa si parla, quando si parla di una "strana cosa successa al cane durante la notte": John Kerry, e con lui tutti gli altri, non hanno fatto una piega quando il Ministro degli Esteri saudita Adel Jubeir è stato preso a pesci in faccia dal suo collega iraniano. Il Segretario statunitense si è guardato bene da far suoi gli obiettivi politici di Jubeir, il che significa che Kerry sembra sia riuscito a scuotersi dalla paralisi indotta dalla clientite.
Cosa significa questo? Forse che Zarif, il Ministro degli Esteri della Repubblica Islamica dell'Iran, può rammentare senza giri di parole agli astanti che quindici dei diciannove attentatori dell'undici settembre 2001 erano cittadini sauditi, e chiedere con quale diritto l'Arbia Saudita si arroga il privilegio di decidere chi dovrebbe diventare Presidente della Siria, intanto che Kerry, il suo collega francese e il suo collega britannico se ne stanno zitti. Gli accordi raggiunti dai "cinque più uno" stanno già riplasmando il panorama politico mediorientale, non fosse che per il fatto che l'Iran adesso è una potenza che va considerata con serietà. Per il Ministro degli Esteri saudita dev'esser stato un brutto colpo, abituato com'era ad un'acquiescenza predssoché completa degli occidentali verso gli interessi del suo paese (grazie al suo denaro).
Washington potrebbe non essere in grado di disconoscere pubblicamente i suoi clientes, nonostante i loro interessi e le loro azioni divergano marcatamente dai suoi, ma a Washington ci sono comunque persone in grado di percepire le debolezze altrui: persone magari disposte a lasciarli cuocere nel loro brodo.
L'indebolirsi dell'Arabia Saudita è evidente: l'aggressione allo Yemen è un disastro da cui non riuscirà a sganciarsi facilmente. E anche se il regno dei Saud riuscisse a trovare il modo di uscire da quel ginepraio, dovrà farlo senza dubbio pagando un prezzo umiliante, che potrebbe anche contemplare dei rischi gravissimi per Mohammed bin Salman, di fatto il leader del paese. La doviziosità del regno saudita poi sta finalmente mostrando il fondo e le sue risorse petrolifere sono più una minaccia per l'industria petrolifera statunitense che un suo cespite.
Anche la Turchia è impelagata in una crisi che non fa che approfondirsi, ed in cui si è cacciata con le sue mani.
Il 4 novembre il Presidente Erdogan ha caldeggiato il proseguimento degli attacchi contro il PKK, fino a quando l'ultimo combattente "non verrà liquidato". Il giorno dopo il PKK ha risposto dichiarando la fine del cessate il fuoco.
Sia la Turchia che l'Arabia Saudita si stanno indebolendo dal punto di vista geostrategico, e questo ci riporta alla situazione in Siria. Sembra possibile che l'appoggio dato da Kerry ai principi stabiliti a Vienna (forse sotto la guida di Lavrov) rifletta la probabilità che qualcuno nell'amministrazione stia cominciando a presentire l'idea che l'AmeriKKKa riesca a raggiungere un accordo che tirerebbe la volata alla presidenza Obama: una soluzione politica a Damasco e in più l'indebolimento dello Stato Islamico in Siria. Un'altra tacca sul calcio del fucile, dove già c'è quella corrispondente all'aver preso lo scalpo di Bin Laden.
E' interessante notare che l'amministrazione sta mostrando una certa impazienza verso un maggior coinvolgimento, almeno simbolico, nella guerra contro lo Stato Islamico. Alla base c'è soltanto il desiderio di non farsi surclassare da Putin, o forse Kerry vuole getare le basi per poter vantare un qualche progresso statunitense in Siria facendo credere che l'AmeriKKKa può ancora avervi un ruolo importante sia sul piano militare che su quello diplomatico (facendo squadra con i russi)? Forse a premere per questo ripensamento c'è il fatto che i cittadini statunitensi si dice stiano prendendo d'aceto per come Obama si è comportato con lo Stato Islamico fino ad oggi. Un sondaggio pubblicato l'altro giorno dalla Associated Press indica che oltre sei cittadini su dieci non sono più d'accordo su come il Presidente Obama sta affrontando la minaccia che lo Stato Islamico rappresenta.
Per Kerry non sarebbe un problema troppo grosso -e questo Lavrov l'ha sicuramente compreso nei suoi calcoli- caldeggiare elezioni libere e supervisionate dalla comunità internazionale sia in Siria che fuori: sarebbe ameriKKKano come la torta di mele. E chissà che tra qualche mese, con l'opposizione siriana già profondamente coinvolta in un processo politico intanto che l'offensiva militare ridimensiona lo Stato Islamico, con l'Arabia Saudita ancora più in crisi e Jubeir ancora più isolato gli appelli dei sauditi perché si inizi con il ritiro delle truppe russe ed iraniane e con la cacciata del Presidente Assad non vengano semplicemente ignorati.
Il signor Putin sa come sbrigarsela in questi casi: il 4 novembre aveva già cominciato a cercare Erdogan. L'idea è quella di convincere i turchi e i sauditi che non hanno alcuna speranza di ottenere tutto quello che vorrebbero, ma che continuando a far parte del processo magari riusciranno ad ottenere qualcosa, che è sempre meglio che uscirne umiliati.
Patrick Cockburn ha scritto che esiste anche un'altra realtà. "Benché al mondo esistano molti più sunniti che sciiti, in Medio Oriente le cose non stanno così. Tra l'Afghanistan ed il Mediterraneo ci sono più di cento milioni di sciiti, e trenta milioni di sunniti". La pretesa dell'Arabia Saudita secondo cui tutti gli stati ivi compresi con l'eccezione dell'Iran fossero e siano a tutt'oggi parte per natura di un blocco arabo e sunnita centrato sul Golfo Persico, e che la politica dovesse riflettere questo dato di fatto, ha poco senso. La Siria è a tutti gli effetti l'unico paese dell'area in cui esista una maggioranza sunnita. E se il Ministro degli Esteri saudita intende parlare in termini settari di sunniti contro sciiti -un quadro che non è appropriato per la Siria- non si capisce che problema dovrebbe esserci in caso di consultazioni elettorali: se i sunniti sono già la maggioranza, con l'occasione dimostreranno il loro peso. E' difficile ritrarre i sunniti della Siria come se fossero una "minoranza tenuta ai margini".
Kerry si sta muovendo in generale tenendo presente il fatto che Obama non vorrebbe si toccassero la narrativa e lo eccezionalismo statunitensi, e neppure la "benevola missione" degli USA: si dovrebbe invece tenere a freno la bramosia ameriKKKana senza tanto chiasso, in via amministrativa, mantenendola all'altezza dei suoi effettivi mezzi.
In questo senso, come altro dovremmo considerare i perentori avvertimenti statunitensi verso l'Arabia Saudita affinché la smetta con la guerra nello Yemen ("O ci pensate da soli o saremo costretti a farlo noi al posto vostro"), l'atteggiamento silenzioso di John Kerry a Vienna, l'articolo alla dinamite che Tom Friedman ha scritto sul New York Times nei giorni della visita di re Salman negli USA, la ritrovata propensione dei media ameriKKKani a pubblicare ripugnanti e dettagliate cronache sugli inciampi dei principi sauditi sul sentiero della moralità? Sembra chiaro che i sauditi non sono più esenti dalle censure e dalle critiche.
Quanto successo a Vienna fa pensare che l'effetto indiretto degli accordi dei "cinque più uno" sia quello di una ridefinizione macroscopica del panorama regionale: un processo che è già in corso.

sabato 21 novembre 2015

Quale politica estera lascerà Barack Obama?


Traduzione da Conflicts Forum.

Ad Obama resta poco più di un anno per cercare di mettere insieme una politica estera da lasciare al suo successore. La dottrina Obama è stata una reazione agli aneliti imperiali dei neoconservatori, tenuti a bada assecondando le mutate pressioni cui è soggetta la potenza statunitense, e si basa in grande misura sul fragile pilastro degli accordi sul nucleare iraniano. Ultimamente però il Presidente Putin sta facendo balenare agli occhi del Presidente degli USA qualche cosa di più sostanzioso: la possibilità di mettere insieme l'accordo con l'Iran ad un possibile accordo in Siria, paradossalmente grazie all'intervento armato russo ed iraniano. Obama avrebbe almeno qualche cosa da contrapporre al fatto di non esser stato capace di porre fine alla lunga guerra in Afghanistan e di lenire la triste esperienza ameriKKKAna in Medio Oriente, come aveva promesso.
Se Obama accettasse l'offerta russa non si ritroverebbe solo con un altro accordo tra le mani: avrebbe la possibilità di chiudere la bocca ai neoconservatori liberandosi dalla loro stretta e passando da un percorso di crescenti tu per tu con Cina, Russia ed altri non trascurabili paesi ad uno meno basato sulla conflittualità.
In effetti si tratta di un azzardo: in potenza, si potrebbe cambiare il corso della storia mettendo l'AmeriKKKa in linea con i mutamenti politici ed economici che si sono succeduti dopo la seconda guerra mondiale invece che con una "politica reaganiana fatta di forza militare e di purezza morale". Di contro c'è il fatto che questa scelta non presenta alcuna certezza di un risultato finale che rappresenti un netto successo per gli Stati Uniti: la posizione degli USA in Medio Oriente potrebbe finire agganciata a paesi i cui interessi sono sostanzialmente diversi da quegli statunitensi. Tuttavia, con gli occhi alle dichiarazioni di quanti potrebbero succedergli alla presidenza, Obama deve chiedersi quanto durevole potrebbe essere un riallineamento del genere, e magari anche se si tratta di qualcosa di concretamente possibile.
Come ha scritto Jim Lobe,
Un gruppo di esperti di questioni di sicurezza nazionale per lo più di orientamento neoconoservatore ha pubblicato quello che è forse il primo compendio di quella che pensano potrebbe essere la politica estera repubblicana dopo lo Inauguration Day del 2017. Si intitola "Choosing to lead: AmeriKKKan Foreign Policy for a Disordered World"... Non è lontano dal vero chi pensa che si tratti di una riedizione del "Progetto per un nuovo secolo ameriKKKano", anche se Bob Kagan e Bill Kristol, i cofondatori di quella iniziativa, non fanno parte del folto numero di coautori. [ Il "Progetto per un nuovo secolo ameriKKKano" pubblicò due volumi: Present Dangers e Rebuilding AmeriKKKan Defenses, che insieme costituirono il manifesto dei neoconservatori favorevole al candidato repubblicano alle elezioni del 2000. Dapprincipio questa organizzazione appoggiò John McCain].
Ovviamente nel più recente elaborato non c'è nemmeno una traccia di scuse per la caterva di errori commessi dai neoconservatori: Stephen Walt ha già scritto che "i neoconservatori continuano a lavorare imperterriti al proprio ritorno sulla scena perché di quante volte si sono sbagliati non gli importa assolutamente nulla: gli importa solo dire e fare qualsiasi cosa possa servir loro a rimanere visibili agli occhi del pubblico". L'assunto di fondo di questo materiale è che con un presidente del tipo che dicono loro e perseguendo le linee politiche adeguate gli USA potranno continuare -e ci riusciranno- a guidare il mondo e prolungare la durata di questo loro ruolo unipolare. Insomma, non ci sarebbe motivo per cui nel ventunesimo secolo l'AmeriKKKa non dovrebbe continuare a "fare da guida" e a "garantire l'ordine mondiale".
"[Gli autori] considerano le aspirazioni di Pechino [quelle russe e quelle iraniane] come inaccettabili e deplorano la "sostituzione dell'ordine plasmato dall'AmeriKKKa che pure ha permesso la pacifica ascesa dei cinesi con uno in cui noi [ameriKKKani] altro non siamo che uno tra i molti che partecipano su un terreno di parità", scrive Jim Lobe. Si tratta di una aperta invocazione dell'impero, che Kristol ed altri hanno senza mezzi termini paragonato ai film di Guerre Stellari. In particolare, Kristol si è dilungato sulla sua simpatia per il Lato Oscuro: Dick Cheney ha fatto sua questa espressione, e l'ha usata per riferirsi alla politica estera statunitense.
Josh Rogin di Bloomberg nota:
Ci sono molti candidati sostenuti da gruppi di pressione che sembrano davvero ben preparati (sic): la cosa strana è che tra loro esiste un accordo perfetto per quanto riguarda le questioni della politica estera. La maggior parte deve essersi rivolta alle stesse persone, ad una specie di infrastruttura che ha messo a punto una campagna basata su una politica estera ombra che aspettava soltanto di sapere quale candidato sarebbe giunto alla ribalta".
Da quando Mitt Romney è uscito sconfitto nel 2012, il gruppo che gli elaborava la politica estera si è dato da fare per restare unito e per diventare prezioso per quanti più candidati alle primarie possibile, per mettersi in una posizione tale da poter influenzare il prossimo presidente nel caso fosse un repubblicano. Per candidati che a questo punto non hanno tempo o risorse per mettere insieme un proprio gruppo di esperti in politica estera questo progetto, chiamato John Hay Initiative, rappresenta uno strumento maneggevole per avere risposte efficaci su questioni complicate, e anche per affrontare in modo deciso alcune  questioni che riguardano la sicurezza nazionale.
All'interno del partito il gruppo è onnipresente dietro le quinte, e questo sta contribuendo alla stesura di un'agenda in politica estera da falchi che stanno "a destra di Hillary Clinton" e che sta rapidamente diventando posizione ufficiale su cui basare le speranze per un fruttuoso 2016".
Choosing to lead è il manifesto di questo gruppo. "i protagonisti di Hay Initiative dicono di considerare il progetto non solo come qualcosa di valido solo per la campagna elettorale, ma come l'embrione di uno staff per la politica estera del futuro presidente [seguendo il precedente del "Futuro secolo ameriKKKano"]", scrive Rogin.
Ci sono comunque altri stimati istituti di politica estera, al di sopra delle parti e degni di fiducia, che hanno fatta propria una posizione di questo genere soprattutto nei confronti della Cina, a cominciare dal Council on Foreign Relations. Come Conflicts Forum ha fatto presente a maggio del 2015, "Il Council on Foreign Relations ha appena pubblicato un documento di lodevole franchezza in cui... non fa mistero dei propri intenti, e scrive nero su bianco che la Cina deve essere sconfitta, perché rappresenta una minaccia all'egemonia globale degli Stati Uniti.
"Sin dai tempi della loro fondazione, gli Stati Uniti hanno coerentemente perseguito una strategia centrata sull'acquisizione e sul mantenimento della supremazia nei confronti di rivali di ogni genere, prima sul continente nordamericano, poi nell'emisfero occidentale e infine in tutto il mondo". Il documento procede poi a lodare l'amministrazione Bush, per aver aver ribadito con peveggenza che la strategia degli USA deve adesso centrarsi sull'impedire l'ascesa di qualunque altro futuro competitore mondiale.
"Il considerevole successo economico conseguito dalla Cina nel corso degli ultimi trent'anni le ha permesso di mettere insieme una potenza formidabile, rendendola la nazione meglio in grado di dominare il continente asiatico e di attentare al tradizionale obiettivo geopolitico statunitense di assicurare che questa zona del mondo resti libera da un controllo egemonico [in competizione con gli USA]".
Il documento prodotto dal Council on Foreign Relations si chiama Revising U.S. Grand Strategy Toward China. Nell'introduzione il presidente Richard Haass scrive che i suoi autori "pensano anche che la Cina non sia diventata quel "portatore di intressi responsabile" che negli USA molti speravano che diventasse... Da questa valutazione non nasce altro che l'invito, da parte degli autori di questo testo, ad adottare una nuova strategia verso la Cina che consideri innanzitutto il modo di rispondere alla sua ascesa anziché continuare ad assistervi da spettatori... Detto altrimenti, gli autori raccomandano che gli USA adottino una politica di contenimento della potenza cinese che in effetti implica un mutamento negli equilibri della politica sin qui seguita dagli Stati Uniti, passando da un atteggiamento basato sul sostegno e la cooperazione ad uno più centrato sulla pressione e la competizione. Si asseconderebbe meno e si contrasterebbe di più" oppure, come affermano gli autori del lavoro, vi sarebbe "una intensa competizione strategica tra USA e Cina".
La necessità che la politica estera ameriKKKana cambi passo viene ribadita anche in un libro cui Haass ha lavorato nello stesso periodo: Foreign Policy begins at Home. In esso si sostiene che le guerre senza giustificazione che l'AmeriKKKa ha fin qui scatenato "nel migliore dei casi, non avevano alcun senso dal punto di vista strategico [e tantomeno sarebbero] difendibili oggi, in un momento in cui gli Stati Uniti devono affrontare difficili sfide alla propria solvibilità".
Haass continua scrivendo che gli USA si trovano "in una posizione molto vulnerabile nei confronti di forze o di inziative che vanno al di là del loro controllo. Oggi come oggi il governo statunitense ha bisogno di entrate per oltre un milliardo di dollari al giorno per sostenere un massiccio debito federale, che attualmente ammonta a sedicimila miliardi e cresce di oltre mille miliardi ogni anno. La storia ci insegna cosa può succedere quando un governo straniero si trova per le mani un simile potere. Nel 1956 il governo statunitense, furibondo contro quello britannico che aveva partecipato all'invasione dell'Egitto dopo la nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser, bloccò il credito che era necessario ai britannici per evitare il collasso della loro moneta. Il governo in carica allora fu costretto a dimettersi. Adesso pensate a cosa potrebbe succedere se la Cina minacciasse qualcosa di simile contro gli USA, magari nel corso di una crisi che coinvolga Taiwan o il Mar Cinese Meridionale".
I neoconservatori si stanno riorganizzando -e molti che non sono neoconservatori stanno dando loro una mano- per rovesciare la dottrina Obama, a loro detta colpevole di esaurirsi in un'enfatica concezione dell'AmeriKKKa come "potenza declinante".
Come spesso succede, pochi sono i punti di disaccordo tra queste organizzazioni e i quattro accademici interpellati perché fornissero dati concreti alla commissione del senato sulle forze armate il 22 ottobre scorso. Il professor Eliot Cohen è copresidente della Hay Initiative ed ha fatto parte del "Progetto per un Nuovo Secolo AmeriKKKano" ed è l'unico neoconservatore vero e proprio ad aver preso parte all'incontro. Solo che tutti i partecipanti, chi esplicitamente e chi no, hanno negato che si possa parlare di un declino ameriKKKano anche se ci potrebbe essere bisogno di una maggiore cautela nell'esercizio del potere; nessuno si è mostrato in disaccordo con il concetto generale, di stampo neoconservatore, secondo cui la "benevolenta egemonia" ameriKKKana è come una frittata, che non si può fare se non rompendo qualche uovo. Questa definizione è di un discepolo di William Kristol, a sua volta ideatore nel 1996 dell'espressione "benevola egemonia globale" dell'AmeriKKKa.
Cosa c'entrano la Cina, la Russia, l'Iran ed altri paesi con tutto questo? Pare che i repubblicani si siano schierati in blocco dietro la Hay Initiative, con l'eccezione, forse, di Donald Trump. Hillary Clinton, più che probabile candidato democratico, è quella che ha detto "Siamo arrivati, abbiamo visto, lui è morto" all'indomani del linciaggio di Gheddafi: un caso concreto di applicazione della dottrina di cui Kristol o Wolfowitz sarebbero stati orgogliosi.
In Russia, ovviamente, domina per questo il pessimismo circa la possibilità di evitare di arrivare ad un confronto. In Cina è lo stesso. E' chiaro che sia i russi che i cinesi suppongono di essere destinati, nella frittata dell'egemonia, a fare la parte delle uova da rompere. Qui c'è un articolo in russo sulle "contromisure [economiche] urgenti" che i consiglieri della presidenza russa stanno pensando di proporre per contrastare quella che è una minaccia all'esistenza stessa del loro paese.
Come ulteriore esempio della ritrovata iniziativa neoconservatrice c'è un articolo scritto per lo Washington Free Beacon da Matthew Continetti: A Reagan Doctrine for the 21st Century, concepito come un adattamento alle mutate circostanze del Verso una politica estera neoreaganiana, di Kristol e Kagan. Secondo Continetti la Russia è l'"impero del male" (secondo l'odiosa definizione di Reagan) e non è sconfitto, ma è soltanto rimasto sopito per qualche tempo. Il sottotitolo del pamphlet di Continetti è dunque Come opporsi a Vladimir Putin. Continetti invoca un "nuovo secolo ameriKKKano" e mette le carte in tavola: oggi serve il reaganismo almeno quanto serviva nel 1996, insiste. A suo dire, ce ne sarebbe due volte bisogno perché la Russia è riemersa come "...la più grande minaccia militare ed ideologica nei confronti degli Stati Uniti e dell'ordine mondiale che essi hanno costruito nel corso dei decenni come garanti della sicurezza internazionale".
Se questa è l'aria che tira non c'è da stupirsi se Putin ha giocato l'azzardo di forzare la mano di Obama in Siria, in un tentativo di bloccare in anticipo la prospettiva di un'amministrazione ameriKKKana maggiormente propensa allo scontro nel 2016. Il gioco di Obama invece è diverso. Per lasciare un'eredità maggiormente consistente, ha bisogno di lasciare la carica dopo aver in qualche modo rafforzato in Medio Oriente la posizione degli USA e quella dei loro alleati, che a Washington sono visti in misura sempre maggiore come nocivi per gli interessi ameriKKKani. L'accordo con l'Iran è stato un primo passo in questa direzione, ma rimodellare il quadro delle alleanze e la posizione del paese non è facile perché la politica ameriKKKana in Medio Oriente ha una storia ed una tradizione consolidata che l'ancora rilevante "partito" neoconservatore non accetterà di lasciare facilmente.
Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, il generale Wesley Clark, ex comandante supremo per l'Europa, disse:
"Nel 1991 Wolfowitz era Sottosegretario alla Difesa: per ordine d'importanza la terza carica al Pentagono. Ebbi un incontro con lui, ed ero un generale ad una stella, comandante del centro nazionale di addestramento (...). Gli dissi: "Signor Segretario, deve essere veramente orgoglioso per come i soldati si sono comportati nell'operazione Desert Storm".
Lui mi disse: "Sì, ma non del tutto, perché veramente avremmo dovuto liberarci di Saddam Hussein e invece non l'abbiamo fatto... Ma in compenso abbiamo imparato che possiamo usare la forza militare in Medio Oriente senza che i sovietici possano fermarci. Ora abbiamo cinque o dieci anni per liberarci dei vecchi governi alleati dei sovietici -Siria, Iran, Iraq- prima che emerga una prossima grande potenza in grado di sfidarci."
Nel documento che pubblicò nel 1996 col titolo Coping with Crumbling States: A Western and Israeli Balance of Power Strategy for the Levant, David Wurmser fece proprie le idee di Wolfowitz. Questo lavoro deriva direttamente da Clean Break, un odioso testo di strategia politica scritto qualche mese prima per Bibi Netanyahu. Scrivendo di Coping with Crumbling States, Daniel Sanchez sottolinea che
Wurmser ha definito il rovesciamento del governo in Iraq ed in Siria -paesi in cui sono al potere governi baathisti- come qualcosa che "accelera il caotico collasso" del nazionalismo arabo laico in generale, oltre che del baathismo in particolare. In questo, è d'accordo con re Hussein di Giordania, che pensa che "il fenomeno del baathismo" sia stato fin dall'inizio "l'agente della politica di un entità estranea, sovietica per l'esattezza". ...Wurmser pensa che "...la battaglia per l'Iraq rappresenta il disperato tentativo dei residuali alleati del blocco sovietico in Medio Oriente di impedire che si verifichi anche in quella regione il collasso che tutto il resto del blocco sovietico ha dovuto affrontare nel 1989".
Wurmser dileggiò il baathismo in Iraq e in Siria, "una ideologia in disgregazione ed orfana del suo protettore sovietico", e ancora "nulla più che un residuale nemico dei tempi della Guerra Fredda, ormai alla resa dei conti".
Wurmser esortò l'Occidente a dare il colpo di grazia a questo anacronistico avversario, per portare così a compimento la vittoria statunitense nella Guerra Fredda, così come suggerito da Kristolian. Il baathismo avrebbe dovuto essere sostituito da quella che lui chiamava "l'opzione hashemita". Dopo essere crollati nel caos, Iraq e Siria sarebbero tornati possedimenti hashemiti ma sarebbero stati dominati dalla casa reale di Giordania, che è a sua volta controllata dagli USA e dallo stato sionista".
Soprattutto, Wurmser insisté sul fatto che la distruzione del baathismo doveva essere al primo posto fra le priorità in Medio Oriente. "Si deve essere spietati col nazionalismo laico arabo", aggiunse, "e non avere alcun riguardo neppure per il fatto che esso costituisce un argine al fondamentalismo islamico" (corsivo di Conflicts Forum).
Assieme a Clean Break queste considerazioni hanno avuto un grosso impatto sul pensiero di Washington ai tempi dell'amministrazione Bush, della quale lo stesso Wurmser fece parte. Obama sta combattendo contro gli strascichi di tutto questo. In un certo senso, questi articoli di strategia politica sono un po' la somma di ogni cosa: con l'"Impero del Male" in piena disgregazione, l'AmeriKKKa aveva la possibilità di riplasmare il Medio Oriente, di affermarsi come potenza unipolare in tutto il mondo tramite le proprie basi militari, di distruggere l'Iraq e l'Iran e di "rimettere al suo posto la Siria", come suggerito in Clean Break, perché ne traesse vantaggio la sicurezza dello stato sionista.
Quello che suscitava la profonda e radicata ira dei neoconservatori non era solo il fatto che i governi arabi laici e nazionalisti erano dei crollanti residui della malvagia Unione Sovietica, ma anche il fatto che dal 1953 in poi la Russia si era sempre schierata a loro fianco in tutti i loro conflitti con lo stato sionista. Una cosa che i neoconservatori non potevano né tollerare, né dimenticare.
Ecco cosa deve affrontare Obama, intento a portare la sua politica per il Medio Oriente verso la logica conclusione che l'AmeriKKKa deve prendere le distanze dalle a volte moleste conseguenze dei rapporti con gli alleati nell'area (dalle priorità piuttosto capricciose): lo stato sionista, l'Arabia Saudita, la Giordania e gli stati del Golfo. Nel far questo, Obama attraversa innanzitutto le principali "linee rosse" dei neoconservatori, mettendo potenzialmente a rischio la capacità dell'AmeriKKKa di proiettare il proprio potere su scala globale perché i paesi citati potrebbero reagire rifiutando agli USA l'utilizzo della plètora di basi sparpagliate nei loro territori. 
Mettere allo stesso modo in discussione i legami di sicurezza e di intelligence fin qui intessuti significherebbe, agli occhi dei neoconservatori, agevolare il "declino" ameriKKKano, la perdita dell'egemonia mondiale e lo sfumare della possibilità di fare del ventunesimo secolo un altro secolo ameriKKKano. Inoltre, indebolire i legami con gli alleati supera le "linee rosse" che proibiscono di indebolire il primato regionale dello stato sionista e di erodere il potere finanziario globale degli Stati Uniti, magari perché gli stati del Golfo abbandonano il mercato del petrolio in dollari o diminuiscono i propri investimenti sulle piazze finanziarie europee e a Wall Street.
Ecco quali sono i dati di fatto che determinano la politica estera statunitense: quando i neoconoservatori hanno plasmato la linea politica di George W. Bush prendendo di mira stati laici e nazionalisti, hanno deliberatamente legato l'AmeriKKKa ai re e agli emiri del Golfo, come Wurmser riconosce esplicitamente. Poi hanno lasciato Obama alle prese con la complicata eredità dell'atteggiamento ambivalente tenuto nei confronti dell'Islam sunnita radicale, e questa è una cosa anche più grave: da una parte lo si considera un babau temibile, dall'altra uno strumento da usare contro baathisti, nasseristi, sovietici, iraniani e quant'altri. E' proprio questa ambivalenza -e la debolezza della guerra al "terrorismo" che ne consegue- a mettere in imbarazzo gli USA in Siria oggi.
Quello che davvero fa impazzire i neoconservatori è che la Russia sta sloggiando la presenza statunitense dalla regione e si permette persino di invitare Obama a collaborare. Obama sa anche che nonostante l'influenza dei neoconservatori sia diminuita, essi possono comunque portare a segno colpi considerevoli. Come abbiamo visto, la sottile proiezione del concetto di AmeriKKKa come "benevolo egemone mondiale" costretto di quando in quando a rompere qualche uovo, e di "garante dell'ordine mondiale che ha portato stabilità e sicurezza nel mondo" portata avanti da Kristol e Kagan ha sugli ameriKKKani e su certi europei una presa che non andrebbe sottovalutata. Obama correrà il rischio di un confronto con i neoconservatori, per risparmiare all'AmeriKKKa la prospettiva di uno scontro con la Cina e la Russia? Staremo a vedere.



mercoledì 18 novembre 2015

Gli attacchi di Parigi e l'ordinaria malafede "occidentale"


Gli attacchi nella Repubblica Francese del 13 novembre 2015 hanno ridato la sveglia all'occidentalame da gazzetta, che tra le altre cose ha nuovamente statuito in blocco le virtù profetiche della "scrittrice" che questo blog è nato per irridere e disprezzare. 
Naturalmente quello che è successo è soltanto colpa della classe politica francese liberissimamente eletta, che nel caso venisse colta da un improbabile soprassalto di dignità farebbe bene a leccarsi le ferite e a mettersi ad aspettare la prossima strage invece di starnazzare di spietatezza e di altrui invidia, in questo aiutata da pennaioli che hanno allagato con la solita roba ogni spazio a disposizione. Nel "paese" dove mangiano spaghetti ha imperversato per qualche ora un certo Ezio Mauro, che è uno dei tanti inutili e strapagati che in questi casi se ne viene fuori a dire che "L'Occidente è sotto attacco perché la nostra [la loro] libertà fa paura". Tocca ripetersi, e ricordare che in "Occidente" si gode di tante e tali libertà che è sufficiente alzare un po' la voce al pallonaio per vedersela con la polizia politica, dal momento che gli unici comportamenti non sanzionati (e neppure in tutti i casi) sono soltanto quelli di consumo, con un coro intonato di gazzettieri ad approvare con sistematicità ogni inasprimento di leggi e di pene.
Ormai gli esponenti della "libera informazione" e la torma di cinguettatori, autoschedati, caduti dal pero, begli spiriti e bambini viziati cui forniscono visibilità mediatica ricordano la caricaturale Principessa Vespa di un vecchio film di Mel Brooks, che bersagliata da decine di cannoncini laser non trova di meglio che esclamare, con un tono fra il sorpreso e l'indignato: "Ma non possono farlo... Io sono ricca!!". A sentir loro, ogni tanto qualche malvagio metafisico si alza dal letto la mattina e decide di punire l'"Occidente" perché è troppo libero.
Nelle realtà normali ovviamente le attribuzioni causali prendono tutt'altre e ben più realistiche strade. Nella Repubblica Islamica dell'Iran il quotidiano Vatan-e Emruz ha mostrato una foto dei fatti di Parigi con la scritta befarmâyid shâm. Befarmâyid shâm dovrebbe essere anche il titolo di una serie televisiva, e significare qualcosa come “prego, la cena [è pronta]”.
Come dire, "Eccovi serviti".
Il gioco di parole sta nel fatto che shâm, oltre che “cena” vuol dire anche “Siria”.
Chi semina raccoglie.
O meglio, manda a raccogliere i malcapitati lì per caso, perché ai seminatori nessuno arriva mai a chiedere conto.
Il Presidente della Repubblica Islamica dell'Iran è stato tra i pochi che si sono fatti la voce roca a ripetere che soffiare sul fuoco di una "ribellione moderata" che in Siria esisteva solo nelle relazioni dei mai abbastanza disprezzati think tank statunitensi -tutto andava bene pur di far fuori Assad- non era proprio una pensata costruttiva.
Naturalmente, trattandosi di un retrogrado in caffetano che passa ad impiccare omosessuali tutto il tempo che non passa a lapidare adultere, nessuno lo è stato nemmeno a sentire.
Ora, il mainstream purulento di ciance sui "monsummani che odiano la libertà" tende a sorvolare sulle non troppo residuali responsabilità di chi ha trescato per decenni con l'estremismo sunnita, sfasciato l’Iraq, distrutto la Siria, cancellato la Grande Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista e messo in moto un'ondata migratoria cui si è pensato bene di rispondere coi reticolati -incolpandone Bashar al Assad e il suo regime- intanto che sta aiutando l'Arabia Saudita nella sua aggressione allo Yemen.
In realtà si tratta di un aspetto parziale del problema, forse addirittura di un aspetto secondario, essendo stato senz'altro più determinante ancora l'approccio che la politica francese ha tenuto per decenni sui problemi delle banlieues e della racaille che ci vive, utile soltanto a rastrellare i voti di un elettorato viziato e incattivito.
Si dice in ogni caso che del senno di poi siano piene le fosse: il potere "occidentale" riesce a fare ovviamente di meglio, perché non arriva nemmeno a concepire una qualche resipiscenza tardiva.
Il brano qui tradotto risale al 2011 ed è ancora leggibile sul sito di uno di quegli organismi statunitensi citati per acronimo come se fossero degli oracoli ogni volta che la "libera informazione" deve raccontare ai sudditi come mai si sta preparando un'altra guerra, con le sue preventivate vittorie e democratizzazioni.
Questo qui ha anche il coraggio di chiamarsi "Istituto della Pace": fondato dal Congresso nel 1984, dice di servire alla prevenzione non violenta e come calmiere dei conflitti all'estero.
Il John McCain protagonista del testo è uno yankee da caricatura, sfidante per il partito repubblicano alle elezioni del 2008. All'epoca delle elezioni e per poche settimane nella penisola italiana vennero per sapiente caso pubblicizzate a tappeto le patatine fritte omonime, assecondando per motivi commerciali le competenze di sudditi che più in là non ci andavano e non ci vanno, ma al tempo stesso fornendo un paragone inequivocabile delle competenze profuse da questo individuo in materia di geopolitica e di politica estera.
Forse non è sufficientemente chiaro che è ad elementi come questo che l'elettorato "occidentale" delega di solito responsabilità vitali.
Le parole di McCain rappresentano un ritratto preciso della faciloneria incosciente che muove l''imperialismo "occidentale" e fanno di lui un pessimo profeta solo per quanto riguarda i risultati. Lo stato che occupa la penisola italiana si è sempre fatto un dovere di assecondare questi demiurghi da strapazzo: nel caso specifico ha partecipato con Arabia Saudita, USA, Turchia, Qatar, Regno Unito, Francia, Emirati Arabi Uniti, Germania e Giordania ad una rete di "amici della Siria" che in previsione di facili bottini arrivò a contare un centinaio di stati sovrani, ridottisi alla mezza dozzina su elencata appena le cose si rivelarono più complicate del previsto.

Secondo il senatore John McCain gli USA devono sostenere la Primavera Araba.
20 maggio 2011 - Gordon Lubold

Il senatore John McCain considera la Primavera Araba come l'evento maggiormente ricco di cosnseguenze dopo la caduta dell'Impero Ottomano: per gli USA è "un momento in cui mettere in chiaro che cosa sosteniamo, non soltanto a cosa ci opponiamo".
Il 19 maggio il senatore McCain ha tenuto all'Istituto degli Stati Uniti per la Pace il discorso annuale in onore di Dean Acheson in cui ha espresso apprezzamento per il coraggio con cui il Presidente Barack Obama ha condotto il raid contro Osama bin Laden. Un'operazione condotta in modo da risparmiare vite tra il personale dei servizi e gli americani in generale, ha detto.
In un discorso tenuto all'Istituto degli Stati Uniti per la Pace poche ore dopo quello del Presidente Obama sul Medio Oriente, il senatore McCain ha fatto riferimento ai recenti disordini nel mondo arabo dicendo che questi sviluppi rappresentano "una domanda corale di dignità, di opportunità economiche e di mutamenti politici pacifici".
"Si dovrebbe anche smetterla con la brutta presunzione, troppe volte sentita nel corso degli ultimi dieci anni, che vuole il mondo arabo in qualche modo condannato al dispotismo: come se a differrenza di tutti gli altri popoli gli arabi non fossero pronti o non fossero adatti alla democrazia", ha detto il senatore nel salone della sede principale che l'Istituto ha a Washington.
Il senatore McCain ha invocato il rovesciamento dei governi antiamericani, il consolidamento delle nascenti democrazie e la riforma delle autocrazie filoamericane, oltre alla ripresa del processo di pace tra stato sionista e palestinesi, riecheggiando molti tra gli argomenti che il Presidente Obama aveva già affrontato nel suo discorso.
Il repubblicano dell'Arizona guarda con ottimismo all'ondata di rivoluzioni che sta percorrendo il Medio Oriente e il Nord Africa, ma spera che gli USA faranno tutto quanto in loro potere per cogliere l'occasione e non sprecarla. In questo momento è imporante essere uniti, secondo lo stesso spirito che Acheson seppe tenere vivo durante la Guerra Fredda.
"Non possiamo farci paralizzare da questo terremoto: anzi, dobbiamo adoperarci per dargli un indirizzo", ha detto.
I paesi in cui ci sono governi incompatibili con un Medio Oriente libero devono essere costretti al cambiamento. Gli Stati Uniti devono sostenere il Movimento Verde in Iran, ad esempio, sottoponendo quel paese a sanzioni efficaci.
Riguardo alla Siria, il senatore McCain ha detto che poche cose sarebbero peggio del Presidente siriano Bashar al Assad, e che gli USA devono intervenire per rovesciare il governo.
"Pensare che nonostante tutto Bashar al Assad sia un riformatore significa fare esercizio di grossolano autoinganno", ha detto McCain, sottolineando il fatto che il governo di Assad ha "le mani sporche del sangue di centinaia di soldati statunitensi e di innumerevoli civili iracheni".
"Dobbiamo fare tutto quello che possiamo, tranne che intervenire militarmente, per agevolare il successo della rivoluzione siriana", ha detto il senatore McCain affermando che avrebbe "fatto pressioni sull'amministrazione" perché continui ad "inasprire la pressione" sulla Siria, insieme all'Unione Europea e alla Turchia. Ha di nuovo espresso apprezzamento per il Presidente Obama, per le misure che l'amministrazione ha preso contro il governo siriano, anche se ha esortato la Casa Bianca affinché  esorti pubblicamente il presidente siriano a fare un passo indietro.
Per quanto riguarda la Libia, il senatore McCain vorrebbe che gli USA abbandonassero la linea fin qui seguita, fatta di "crescenti pressioni sul leader libico Muhammar Gheddafi, per adottare invece sistemi più incisivi". McCain ha detto che gli piacerebbe che i cacciabombardieri USA "tornassero in azione" per distruggere i centri di comando e controllo di Gheddafi e che il governo statunitense riconoscesse il consiglio nazionale di transizione di Bengasi come "voce legittima" del popolo libico. Il Congresso potrebbe trasferire così miliardi di dollari che si trovano nei conti congelati di Gheddafi al popolo libico, mettendo da parte la preoccupazione che i capi dell'opposizione libica come i Fratelli Musulmani o altri possano essere potenziali terroristi. "Se questa gente è di Al Qaeda, amici miei, allora io sono un liberaldemocratico", ha detto il senatore McCain.
In altri paesi gli USA sono stati criticati per aver tiepidamente osteggiato governi che la gente voleva cambiare, come nel Bahrein. "Gli Stati Uniti dedicano ogni cura alla loro relazione con il Regno del Bahrein e ai rapporti che coltivano con i paesi vicini del Golfo Persico, ma oggi come oggi vogliamo che questi paesi rimangano dal lato giusto della storia, perché si tratta di paesi dove gli Stati Uniti devono rimanere, e dove rimarranno". Adesso è difficile per gli Stati Uniti assecondare il processo che ha preso il via nel luogo natale della Priavera Araba, ha detto McCain.
"Mentre lavoriamo per sostenere le rivoluzioni democratiche in Iran, in Siria e in Libia, il nostro prossimo obiettivo dovrebbe essere il consolidamento del processo democratico in quei paesi dove esso è già iniziato, come la Tunisia e l'Egitto". In tutti e due i paesi l'attivismo politico è letteralmente esploso, specialmente in Tunisia dove sono ormai sessantacinque i partiti politici ufficiali.
"Tutti e due i paesi dovranno affrontare seri problemi economici nell'immediato futuro come conseguenza delle rivoluzioni", ha detto McCain. Il turismo ha sofferto un duro colpo, come ha potuto constatare assieme al senatore Joseph Lieberman del Connecticut, con cui si è recato in viaggio in Tunisia alloggiando in un grande hotel della capitale che ospitava solo loro. In un momento tanto difficile della loro storia, questi paesi hanno bisogno di un sostegno economico perché "E' l'economia che determinerà in larga misura la loro sorte politica".
Questo non significa, ha ripreso McCain, che gli USA debbano distribuire aiuti a pioggia. Al Congresso siedono oggi eletti che hanno il mandato elettorale di tagliare le spese, sicché non è che gli USA possano varare un Piano Marshall per aiutare i paesi attraversati dalla Primavera Araba. L'obiettivo invece deve essere quello di raggiungere accordi di libero scambio, di trovare "modi creativi" per mobilitare il sostegno del settore privato americano e la generosità di paesi come il Qatar, in modo da sostenere queste economie traballanti.
Il senatore McCain ha anche ribadito il suo sostegno per un esito del confronto tra stato sionista e palestinesi che contempli la creazione di due stati: i palestinesi riconoscano lo stato sionista, e tutti vivano fianco a fianco in pace e in sicurezza. McCain è preoccupato dal fatto che "una situazione bloccata o in via di peggioramento" tra stato sionista e palestinesi possa avere un qualche ruolo nelle vicende politiche della Primavera Araba.
Affrontando nuovamente nel suo discorso lo riuscito raid in cui è stato ucciso Bin Laden, il senatore McCain ha detto di aver provato soddisfazione nel sapere che Bin Laden aveva potuto assistere alla nascita di quella Primavera Araba che sembra davvero in antitesi ad un'esistenza all'insegna dell'assassinio e della distruzione di massa come quella che gli era stata propria.
"Potrebbe essere la campana a morto per quel tipo di terrorismo su scala planetaria che ha attaccato noi dieci anni fa: per quel che mi riguarda sono contento che Osama Bin Laden abbia potuto sentirla, appena prima che una squadra di eroi americani mettesse fine alla sua scellerata vita", ha detto McCain.
Il testo completo del discorso è reperibile qui.

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