mercoledì 29 aprile 2015
domenica 26 aprile 2015
Firenze. Jacopo Alberti minaccia l'elettorato attivo.
Su internet un certo Jacopo Alberti figura come questo o quello o quest'altro della formazione "occidentalista" "Lega Nord - Toscana".
Agli effetti pratici, Jacopo Alberti non è.
Questo non gli impedisce di minacciare le persone serie da un afasico sito in Wordpress: Da oggi, nel vostro domani c'è Lega Nord.
Potremmo sostituire "Lega Nord" con una marca di assorbenti igienici e ricollocare tutto in una campagna pubblicitaria per quei prodotti e per quel target: il ben vestito sulla destra si presenta come un testimonial autorevole e di granitica competenza settoriale.
Purtroppo per lui, Firenze non è Saronno: ancora vi alligna una umanità poco addomesticabile che invece di perdere tempo con il Libro dei Ceffi è capace di fare proposte molto costruttive e molto concrete per il futuro senza scomodare partiti... o assorbenti igienici.
Il minimo che possa succedere è che qualcuno che considera gli jacopoalberti come parte dei problemi invece che come parte delle soluzioni spenga il computer, esca di casa, passi dalla più vicina mesticheria e si procuri uno spray a vernice nera.
E con uno spray a vernice nera qualcuno ha corretto un pannello pubblicitario di Jacopo Alberti, vaticinandogli di finire appeso nella piazza omonima.
Piazza Alberti è lievemente decentrata: la recente costruzione di un parcheggio multipiano l'ha dotata anche di punti d'appoggio elevati, che assicurerebbero buone prospettive mediatiche a tutte le fasi dell'operazione. Tutto questo fa pensare che a Firenze, crisi nonostante, si trovino ancora persone seriamente orientate al pragmatismo e al problem solving.
Jacopo Alberti, dicono le gazzettine, ci è rimasto male.
Ma male proprio.
Male al punto da non aver capito che a Firenze chi vuol fare politica "occidentalista" va a iscriversi al PD, e che i ben vestiti paracadutati da chissà dove per rappresentarvi l'occidentalame alla moda finiscono invariabilmente col fracassarsi il grugno prima contro un disprezzo mai nascosto e interclassista, e poi, con calma, contro i risultati degli scrutini.
Agli effetti pratici, Jacopo Alberti non è.
Questo non gli impedisce di minacciare le persone serie da un afasico sito in Wordpress: Da oggi, nel vostro domani c'è Lega Nord.
Potremmo sostituire "Lega Nord" con una marca di assorbenti igienici e ricollocare tutto in una campagna pubblicitaria per quei prodotti e per quel target: il ben vestito sulla destra si presenta come un testimonial autorevole e di granitica competenza settoriale.
Purtroppo per lui, Firenze non è Saronno: ancora vi alligna una umanità poco addomesticabile che invece di perdere tempo con il Libro dei Ceffi è capace di fare proposte molto costruttive e molto concrete per il futuro senza scomodare partiti... o assorbenti igienici.
Il minimo che possa succedere è che qualcuno che considera gli jacopoalberti come parte dei problemi invece che come parte delle soluzioni spenga il computer, esca di casa, passi dalla più vicina mesticheria e si procuri uno spray a vernice nera.
E con uno spray a vernice nera qualcuno ha corretto un pannello pubblicitario di Jacopo Alberti, vaticinandogli di finire appeso nella piazza omonima.
Piazza Alberti è lievemente decentrata: la recente costruzione di un parcheggio multipiano l'ha dotata anche di punti d'appoggio elevati, che assicurerebbero buone prospettive mediatiche a tutte le fasi dell'operazione. Tutto questo fa pensare che a Firenze, crisi nonostante, si trovino ancora persone seriamente orientate al pragmatismo e al problem solving.
Jacopo Alberti, dicono le gazzettine, ci è rimasto male.
Ma male proprio.
Male al punto da non aver capito che a Firenze chi vuol fare politica "occidentalista" va a iscriversi al PD, e che i ben vestiti paracadutati da chissà dove per rappresentarvi l'occidentalame alla moda finiscono invariabilmente col fracassarsi il grugno prima contro un disprezzo mai nascosto e interclassista, e poi, con calma, contro i risultati degli scrutini.
sabato 25 aprile 2015
Orrore a Firenze: aggressione vitivinicola cinese!
Il Brunello coi piselli sequestrato vicino a Firenze (foto da "La Repubblica")
Da circa venti anni ci si accorge che nel "paese" dove mangiano maccheroni sta per tenersi una consultazione elettorale dalla puntualità con cui le gazzette intensificano campagne di denigrazione contro bersagli facili, di solito individui a basso reddito scelti con cura per la loro origine non peninsulare.
La strategia ha sempre pagato: accontenta la committenza assicurandole i suffragi necessari ad insediare a decidere su questioni vitali individui autenticamente rappresentativi del corpo elettorale (fannulloni, incapaci, corpivendole, elegantoni, bulli di quartiere, yes men, fallite, frequentatori di ristoranti, avanzi di ristorante, cocainomani, scarti di produzione, tenutarie, bocciati a scuola e/o cattivi d'animo puri e semplici) e permette ai gazzettieri di far giornata senza disturbare nessuno e senza nessuna fatica. La probabilità che qualcuna delle vittime (di solito gente costretta a ben altro che picchiettare su qualche bottoncino per avere di che vivere) chieda loro conto di quanto scribacchiato sono per forza di cose molto esigue.
Secondo l'edizione fiorentina di "Repubblica" un furbastro originario della Repubblica Popolare Cinese sarebbe stato sanzionato dalla gendarmeria mentre cercava di immettere in commercio una partita di "Brunello fatto coi piselli".
Chi leggesse da località normali sappia che con Brunello si intende un vino pregiato, dal packaging inconfondibile, a cui sovrintendono uomini ed organizzazioni dalla ferrea e specchiata integrità.
La gazzetta su nominata sa bene che nessuno legge più: meglio mettere una foto dei materiali sequestrati, tanto per chiarire il concetto.
Trandosi la zappa sui piedi. Ma anche questo non importa, tra qualche ora ne avranno inventata un'altra.
L'immagine a corredo dell'articolo mostra bottiglie di superalcolico con ideogrammi sull'etichetta, simili a quelle qui sotto. In comune con quelle di vino più o meno pregiato non hanno neppure la forma. E il signore che si è preso la briga di importarle ha avuto problemi semplicemente per etichette dalla traduzione sbrigativa: nelle intenzioni del legislatore a prodotti del genere non può essere apposta la dicitura di "vino" o "grappa", che nella penisola italiana dovrebbero indicare soltanto derivati dall'uva.
Il Brunello senza piselli, sequestrato da nessuno.
mercoledì 22 aprile 2015
Matteo Salvini contestato a Livorno
Una delle più abiette -e dunque rappresentative- formazioni "occidentaliste" protagoniste della vita politica nella penisola italiana si fa chiamare "Lega Nord".
Nelle realtà normali chi caldeggia e promuove la secessione di questa o quella parte di uno stato sovrano non può attendersi troppi riguardi dalle istituzioni. Dal momento che la normalità non riguarda a nessun titolo lo stato che occupa la penisola italiana ed i suoi sudditi (e men che mai i loro rappresentanti) nel corso degli anni gli esponenti della "Lega Nord" hanno fatto ottime carriere politiche nello stesso stato che andavano dicendo di voler disgregare. La normalità ed il "paese" dove mangiano maccheroni percorrono rotte parallele, al punto che invece di fucilarlo come un cane per alto tradimento, hanno trovato normalissimo affidare per anni ad un esponente di questa formazione politica la carica di ministro degli affari interni.
Nonostante abbia avuto molta fortuna in altre zone della penisola, in Toscana la "Lega Nord" ha seguito strategie propagandistiche che denotano una pessima conoscenza del terreno e la presenza dei suoi esponenti in occasione di questa o quella campagna elettorale è servita soltanto a tenere occupati i gazzettieri e soprattutto la gendarmeria. I suffragi ottenuti nel 2010 servirono a mandare in consiglio regionale quattro nullità il cui gruppo si dissolse nel giro di due anni.
A complicare le cose c'è anche il fatto che l'ultima revisione ideologica della "Lega Nord" ha definitivamente incistato il "partito" nel truogolo dell'"occidentalismo" più ebefrenico, che ha il brutto difetto di essere gremito: inoltre i sedicenti avversari dell'"occidentalismo" ne hanno depredato il patrimonio propagandistico e la loro offerta politica non è in alcun modo distinguibile da quella "occidentalista". Detto altrimenti, le formazioni politiche che additano ai sudditi un incubo distopico di zingari, scippatori e tagliagole cui interessano solo le comodità di una casa popolare (ah, e le schede telefoniche) sono più di quante gli organi di rappresentanza possano ospitarne. La concorrenza è forte, il target è sempre quello, la propaganda ha saturato. Il numero del "comizio" a Livorno con salvataggio dell'oratore da parte della gendarmeria viene ripetuto ad ogni consultazione elettorale ed è talmente logoro che solo gazzette "occidentali" possono trovare visibilità da dedicargli, magari frignando di democratismo. La cosa parrebbe improbabile, ma chissà che non esistano limiti almeno fisici persino alla corsa al ribasso imposta dalla politica "occidentalista".
I nostri lettori sanno che lo sfaticato Matteo Salvini, nonostante le gazzette ne ricordino la carica di "segretario federale della Lega Nord" altro non è che un diplomato divorziato e in sovrappeso con l'abitudine di sputare nel piatto in cui mangia.
Difficile farsi notare con un simile curriculum: le mescite della penisola italiana raccolgono migliaia di elementi del genere.
Tocca cercare di far notizia sperando nell'equivalente gazzettiero del farsi largo a gomitate, e che un numero sufficiente di sudditi si senta rappresentato da un diplomato divorziato e in sovrappeso che sputa abitualmente nel piatto in cui mangia.
Vista la storia politica della penisola italiana la cosa è più che probabile, concorrenza nonostante: Matteo Salvini può dormire tranquillo.
sabato 18 aprile 2015
Alastair Crooke - Le "guerre del Tesoro" e i loro rischi geofinanziari
Traduzione da Valdai Discussion Club, 11 aprile 2015.
Fino ad oggi il mercato dell'energia è sempre stato considerato soggetto a rischi politici (caduta di questo o quel governo, disordini interni eccetera) oltre che ai consueti rischi economici. In passato la geopolitica è stata considerata come la variabile indipendente: era la politica a determinare in larga misura quello che succedeva nel campo finanziario e in quello energetico: una cosa nasceva dall'altra. Le cose stanno ancora in questo modo, anche oggi? Forse dovremmo iniziare a ridefinire la questione, perché oggi come oggi è sempre più il campo geofinanziario ad influire sul geopolitico.
Nelle particolari circostanze del dopoguerra, in cui l'economia statunitense era effettivamente l'unica economia sviluppata rimasta sulla scena -controllava il cinquanta per cento del commercio mondiale- l'AmeriKKKa è riuscita ad utilizzare per i propri interessi Bretton Woods, una situazione in cui il dollaro era la valuta di riserva per eccellenza ed aveva un'influenza determinante sul Fondo Monetario Internazionale e sulla Banca Mondiale. Tutto questo permise all'AmeriKKKa di assumere il controllo dell'economia mondiale.
Negli ultimi anni, dopo l'infelice esperienza fatta dall'AmeriKKKa con i massicci interventi militari in giro per il mondo allo scopo di mantenere il controllo sull'ordine mondiale, il Tesoro degli Stati Uniti ha iniziato a sostenere la posizione privilegiata del dollaro in quelle che potremmo definire "guerre del Tesoro" facendo abbondante ricorso, per conseguire fini politici, all'equivalente finanziario della bomba al neutrone: l'esclusione dal sistema commerciale e finanziario basato sul dollaro. In questo momento è in corso una guerra geofinanziaria, tra gli altri, contro la Russia, contro la Cina sia pure in misura minore, e contro l'Iran. Con un pizzico di discrezione in più, lo stesso sistema è stato utilizzato per far cadere questa o quella testa in vari governi europei. La guerra del Tesoro dispiega campagne di disinformazione, guerra psicologica, droni e operazioni speciali: sono il principale strumento per mantenere il controllo di un ordine mondiale che si sta disgregando.
Questo introduce rischi di un altro genere: spingendo Russia e Cina a sviluppare un sistema commerciale e finanziario non basato sul dollaro per ridurre la propria vulnerabilità nei confronti delle pretese della giurisdizione del dollaro, ci siamo imbarcati in un confronto che finirà col danneggiare tutti, in particolare il Medio Oriente. Iran, Turchia ed Egitto sono i tre paesi fondamentali dell'area: ciascuno per le proprie ragioni, stanno tutti passando al blocco euroasiatico non basato sul dollaro.
E' inevitabile che i flussi del mercato energetico in futuro siano influenzati dal risultato di questa guerra geofinanziaria. Non esiste ragione per pensare che l'insieme di alleanze geofinanziarie che emergerà da questa guerra corrisponderà alla mappa politica oggi esistente, e che risale al dopo guerra fredda. E' verosimile che l'assetto attuale e quello futuro si incroceranno l'uno con l'altro. Per esempio, in Medio Oriente ci saranno vincitori e sconfitti tra i paesi produttori di energia: alcuni stati dell'OPEC potranno finire in uno dei circuiti finanziari, altri nell'altro.
Quello che fa alzare i rischi insiti in questo nuovo tipo di guerra, e quello che ne incrementa l'imprevedibilità dei risultati, è il fatto che ad un certo punto la politica dei tassi di interesse vicini allo zero e del quantitative easing si ritrovano ad aver creato un ampio eccesso di debito denominato in dollaro, al momento quantificabile in nove trilioni. Un debito molto sensibile alle oscillazioni dei cambi. Oggi, questa è la situazione in cui ci troviamo. Alla guerra delle valute ha contribuito anche la guerra per il prezzo del petrolio. Poi abbiamo anche una guerra di sanzioni, che opera assieme alle guerre sui tasssi di cambio, a quelle sulle valute e a quelle sui prezzi dell'energia. Tutto questo, oggi, sta succedendo tutto insieme mentre una delle più grosse bolle finanziarie della storia sta venendo gonfiata dalla tempesta monetaria senza precedenti che abbiamo scatenato.
Nessuno sa come andrà a finire con questa miscela esplosiva perché le scienze economiche tradizionali in questo caso ci sono di scarso aiuto. Quello che è chiaro è che produttori e consumatori di energia devono cambiare radicalmente la prospettiva da cui considerare i rischi che corrono. C'è chi ha cominciato ad adottarne una che mescola la vulnerabilità insita nel sistema finanziario con le dinamiche della guerra geofinanziaria; altri stati ed altre regioni cercano di sfuggire all'egemonia di tutto questo costruendo una struttura che non è basata sul dollaro. La futura mappa degli oleodotti e dei flussi energetici sarà determinata in gran parte da questa complicata guerra, in cui ci saranno vincitori e vinti.
venerdì 17 aprile 2015
Alastair Crooke - Nei negoziati sul nucleare con la Repubblica Islamica dell'Iran le posizioni si irrigidiscono su entrambi i fronti
Traduzione da Conflicts Forum.
Paradossalmente i tentativi delle due parti di arrivare a mettersi d'accordo su qualche cosa, dopo due anni e mezzo di colloqui, pare abbiano prodotto l'effetto contrario. Invece di evidenziare punti comuni -e qualche accordo è stato raggiunto davvero- tutto questo manovrare la messo in luce ed ingigantito le divergenze. Il problema è che le parti hanno raggiunto qualche accordo su questioni di tipo essenzialmente tecnico -e anche qui i disaccordi rimangono e su materie non certo secondarie, per esempio su cosa si debba fare delle scorte di uranio a basso arricchimento che l'Iran ancora possiede- mentre non esiste alcun accordo sulla sostanza di una qualsiasi potenziale soluzione.
Le due divergenti narrative non dicono che il re è nudo: insomma, ha solo un cappello e i guanti, sicché è in un déshabillié di una certa distinzione. Lo spettacolo ci ha in qualche misura scioccato, ma la conseguenza essenziale è che l'AmeriKKKa si è fissata con l'interpretazione puntigliosa della propria "scheda informativa" e adesso sarà difficile distoglierla da lì senza suscitare aspre critiche da parte dell'opposizione, sia interna che all'estero. In Iran, invece, sono stati messi in discussione anche i principi stessi sulla cui base si svolgevano i colloqui. La Guida Suprema ha scritto su Twitter il 2 aprile 2015: "Se le sanzioni non vengono meno appena sarà raggiunto un accordo, che cosa negoziamo a fare?"
Le divergenze sostanziali hanno a che vedere con la struttura stessa della soluzione, non con i dettagli. Le parti non convergono assolutamente sui presupposti necessari ad arrivare ad un accordo formale, sulla forma che questo accordo deve prendere, sulla scansione dei tempi di tutto quanto e sui metodi con cui si dovranno mettere in pratica i termini dell'accordo. Praticamente un baratro.
Secondo la scheda informativa ameriKKKana le condizioni indispensabili per arrivare ad un accordo sono che dalla AIEA arrivi conferma che sono soddisfatte le richieste in materia di arricchimento, degli impianti di Fordow e di Arak, di possibile utilizzo militare ed in materia di verifiche. Allora, e solo allora inizierà la sospensione, non l'abolizione, delle sanzioni. E anche quello sarà un processo graduale. Gli iraniani la vedono in tutt'altro modo. Tanto per cominciare, non ci sono prerequisiti da rispettare per cominciare. L'accordo è fatto da un testo, detto "piano di azione" e dalla sua presentazione sottoforma di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Approvata la risoluzione si passa a metterla in pratica. Possiamo dire che i possibili aspetti militari della questione rappresentano un bastone tra le ruote che i sostenitori dello stato sionista e dell'Arabia Saudita hanno voluto fosse incluso nella bozza: si ricordano bene di come si arrivò a costringere l'indiziato Saddam Hussein ad addossarsi l'onere della prova. Fornire prove negative inoppugnabili fu impossibile, e questo permise ai neoconservatori statunitensi ed europei di mettere in piedi una serie sempre più stringente di pretese e di conseguenti sanzioni che portò alla guerra.
Per quello che riguarda i meccanismi per arrivare ad un accordo, gli Stati Uniti dicono che ci si arriverà, una volta appurata la presenza dei requisiti, di una risoluzione ONU non vincolante, che sostene l'accordo e che preme per la sua messa in pratica, mentre allo stesso tempo mantiene in vigore le altre restrizioni, che riguardano gli armamenti convenzionali e i missili balistici. L'Iran afferma che ci si è accordati per una risoluzione sulla base del Capitolo Sette dello statuto dell'ONU, che la risoluzione comprende anche il piano d'azione e che è vincolante ed esecutiva per tutti i paesi membri. Questo significa che non solo l'Iran, ma anche l'AmeriKKKa e i suoi alleati sarebbero legalmente vincolati da quanto stabilito nell'accordo.
La "scheda informativa" ameriKKKana non fa precisi riferimenti alla tempistica, ma indica implicitamente che l'edificio delle sanzioni è destinato a restare in piedi per tutto il tempo necessario a mettere in pratica gli accordi. Nel testo statunitense ci sono scadenze fissate ai dieci, ai quindici e ai venticinque anni. Questa progressiva sospensione delle sanzioni inizierà quando tutti i prerequisiti, ivi compresa la composizione delle più urgenti questioni in materia dei possibili aspetti militari, saranno stati verificati. Per questo non si stabilisce alcuna tempistica precisa e da altre dichiarazioni si capisce che non sarà una cosa veloce. Nella versione iraniana invece la tempistica è precisa: da oggi fino al trenta giungno si mette a punto il piano d'azione, che a sua volta diventerà esso stesso una risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Appena l'Iran darà inizio alla messa in pratica delle misure concordate, tutte le sanzioni decadranno in un dato e precisato giorno.
Sulle necessità di trasparenza per il dopo accordo, il documento statunitense prevede che venga adottato un protocollo per le nuove ispezioni della AIEA, una nuova e dettagliata catena di meccanismi per l'ispezione delle scorte che riguardi l'intero programma iraniano per il combustibile nucleare, dalle miniere di uranio fino agli impianti in cui vengono assemblate le centrifughe, più -novità anche questa- un regime di ispezioni "intensivo" che col pretesto dei già ricordati "possibili aspetti militari" permetterebbe l'ispezione di qualsiasi struttura militare o di sicurezza o di qualsiasi altro sito la AIEA possa guardare con sospetto. Di nuovo è evidente, nelle proposte del "cinque più uno", l'influenza del meccanismo di gioco al rialzo adoperato con l'Iraq; già era evidente nelle sospette prove che lo stato sionista ha fornito alla AIEA in materia dei possibili fini militari del nucleare iraniano.
L'interpretazione iraniana è piuttosto diversa: la Guida Suprema Khamenei ha ribadito il 2 aprile la posizione del suo paese: "Non è accettabile alcuna ispezione non convenuta che metta l'Iran sotto sorveglianza speciale. Non è ammessa alcuna sorveglianza straniera su questioni di sicurezza".
Un disaccordo tanto ampio tra due parti che stanno invece cercando di sottolineare l'accordo raggiunto è sorprendente. Com'è stato possibile arrivare a questo, e quali le conseguenze?
Qualche abbozzo di risposta lo si può trovare in questa lunga intervista video del Presidente Obama con Tom Friedman, che l'ha condotta tenendo smaccatamente parte per lo stato sionista, e nell'offerta ai paesi del Golfo di ritrovarsi in un meeting stile Camp David per mettere a punto una nuova politica di sicurezza. Detto altrimenti, pare che la "scheda informativa" statunitense riguardi più l'equilibrio dei poteri in Medio Oriente che non i negoziati con l'Iran di per sé. Soprattutto è probabile che non sia mai stata intesa come modo per costituire una riflessione ponderata sullo stato dei lavori. Al contrario, è stata concepita come un'arma politica di parte nella lotta a coltello in corso col Congresso, con la lobby sionista e con la lobby dei paesi del Golfo: tutti hanno le loro ragioni per tenere l'Iran in una quarantena perenne e per sempre sotto sanzioni.
Dal punto di vista dell'amministrazione statunitense sembra che questa schermaglia con chi si oppone al dialogo con l'Iran sia di importanza fondamentale. Se i colloqui con l'Iran sono minati alla base da chi è interessato ad opporvisi, il retaggio della presidenza Obama e quella che Tom Friedman ha chiamato "la dottrina Obama" -che sostiene che è possibile e preferibile arrivare a risultati negoziando anziché con una guerra che va considerata come ultima risorsa- sono destinati ad affondare assieme ai negoziati. Forse, anche la presa d'atto di Zarif secondo cui dalle dichiarazioni di massima sarebbero emerse narrative discordanti fa pensare che i negoziatori iraniani fossero stati avvertiti dalle loro controparti ameriKKKane che gli Stati Uniti avrebbero dovuto vedersela con lo stato sionista e col Congresso prima che si potesse arrivare a qualunque accordo definitivo. E' probabile che da parte iraniana si siano capite le difficoltà statunitensi, ma è altrettanto probabile sia stato detto loro senza mezzi termini che in tutti i casi avrebbero dovuto ingoiare il rospo perché così voleva l'Amministrazione e così doveva fare, per il suo stesso interesse.
Il ministro degli esteri Zarif e il Presidente Rouhani possono anche pentirsi di tutto quanto, e possono anche pensare che l'Amministrazione statunitense abbia aggiustato le cose più velocemente e con più libertà di quanto si sarebbero aspettati. Tuttavia la questione fondamentale è se la diatriba sulle "schede informative" comporterà conseguenze non volute. Ali Saleh, che rappresenta l'Iran alla AIEA, afferma che il suo paese ha preparato una scheda informativa formale dopo aver dapprima rilasciato ai mass media un "sommario di massima delle soluzioni concordate come punto comune per arrivare a definire un piano d'azione completo e condiviso".
Gli Stati Uniti troveranno difficile abbandonare i risultati che vantavano raggiunti nel corso dei colloqui e che andavano dicendo di avere praticamente già in tasca. Anche gli iraniani si sono trincerati e il Presidente Rouhani ha detto che non firmerà nessun accordo a meno che tutte le sanzioni non vengano abolite il giorno stesso in cui si arriverà all'accordo. La Guida Suprema ed il Ministro della Difesa hanno detto che mai consentiranno ad ispezioni straniere delle infrastrutture militari e di sicurezza; il Parlamento chiede che la cosa sia messa nero su bianco nei dettagli dei colloqui. La stampa conservatrice ha presentato in modo caustico i risultati che l'Iran afferma di aver ottenuto con i colloqui.
In poche parole la "scheda informativa" può esser stata un tentativo degli Stati Uniti di massimizzare l'utile derivante dal capitale politico accumulato coi collooqui, in modo da segnare un punto in anticipo contro Netanyahu e contro il Congresso; forse il prezzo finale di questa trovata sarà che essa sarà stata resa possibile a spese degli stessi negoziatori. Anche in Iran, come nota Mehdi Khalaji dello Washington Institute "il continuare di questa guerra delle interpretazioni potrebbe creare alla squadra di governo del Presidente Hassan Rouhani qualche problema serio quando si tratterà di cercare giustificazioni all'accordo raggiunto davanti al popolo iraniano, e quando dovranno difenderlo dai sostenitori della linea dura".
Il senso di delusione per l'AmeriKKKa che questo episodio ha acceso in Iran, per giunta a livello della sua massima leadership, contribuirà in modo determinante ad irrigidire le posizioni negoziali iraniane ed allungherà la durata di tutto il processo: i negoziatori insisteranno perché in futuro non vi sia alcuna ambiguità, di alcun genere. I negoziatori iraniani non possono fare nulla di meno, date le ampie critiche (si veda qui e qui) che hanno dovuto sostenere per aver permesso che venissero fuori interpretazioni tanto contrastanti: la Guida Suprema aveva avvertito in anticipo che non si verificasse una cosa del genere. Sembra che le nuove "linee rosse" iraniane, i punti non negoziabili, diventeranno la caduta di tutte le sanzioni nel momento stesso in cui verrà raggiunto un accordo, e la pretesa che la caduta delle sanzioni trovi definizione giuridica nel diritto internazionale. La "scheda informativa" dell'amministrazione statunitense prevede qualche spazio politico per questo compromesso?
Il fatto che in Iran si sia imboccata la strada dell'intransigenza ha già scatenato una prima reazione perentoria con l'attacco saudita contro lo Yemen, che a sua volta è in parte una reazione dei sauditi alla prospettiva di un imminente accordo tra "cinque più uno" ed Iran. Secondo accreditati editorialisti sauditi non esiste dubbio sul fatto che la politica saudita sia quella di "tirar via il tappeto" da sotto i piedi dell'Iran, ovunque sia possibile. In Siria è evidente un inasprimento del conflitto: i servizi segreti sauditi e turchi stanno collaborando nel rinfocolare ancora una volta lo jihadismo contro lo stato siriano. Lo stesso inasprirsi è evidente nello Yemen ed in altre regioni del Medio Oriente.
L'Ayatollah Khamenei ha reagito con veemenza: "Li avverto: che si trattengano [i sauditi] da qualsiasi mossa criminosa nello Yemen. Anche gli Stati Uniti falliranno, e perderanno la faccia in questo... I sauditi di solito si rapportavano con noi con compostezza, ma adesso al potere sono arrivati dei giovinastri inesperti, che hanno sostituito la compostezza con la barbarie".
L'imperatore si è tolto anche i guanti. Magari a Washington hanno pensato che sostenere l'Arabia Saudita nell'avventura nello Yemen significasse trovare un equilibrio dei poteri nella regione, e che fosse la cosa ovvia da fare per calmare i timori sauditi. Solo che la tendenza, in Medio Oriente, non è quella di trovare un nuovo equilibrio, un bilanciarsi in qualche modo. Al contrario, la prova di forza lungamente attesa tra Arabia Saudita ed Iran è oggi in corso. Possiamo attenderci che gli Stati Uniti non troveranno un Iran disposto a cedere, né sulla questione dello Yemen, né su quella dei colloqui per il nucleare.
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lunedì 13 aprile 2015
Alastair Crooke - Mentre la guerra di prossimità tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell'Iran diventa guerra vera, l'AmeriKKKa resta paralizzata.
Traduzione da Conflicts Forum di un articolo scritto per lo Huffington Post.
In Medio Oriente, finalmente, ci siamo arrivati. Dopo guerre su guerre, comprese quelle in Afghanistan e in Iraq, gli Stati Uniti non hanno più alcuna intenzione di intervenire militarmente nei molti ed intricati conflitti della regione. Se mai, vogliono rimettere in pari le maggiori potenze regionali per arrivare ad una situazione in cui gli antagonismi si equilibrino, e lasciare che se la vedano tra loro. "Sono problemi settari vostri, vedetevela voi". Un editorialista saudita ha descritto in questo modo l'atteggiamento ameriKKKano alle rimostranze dei sauditi sulle iniziative degli Houthi nello Yemen.
Gli ameriKKKani sperano che se mai si arriverà ad una tale situazione di equilibrio sarà possible tirarsi fuori da quel ginepraio mediorientale che tutte le volte pare capace di tirarli per i capelli dentro alle sue dispute micidiali. A Washington si pensa che l'intervento delle forze speciali sia invece un'altra questione: con quelle, le operazioni finanziarie, i droni e la guerra delle comunicazioni telematiche gli Stati Uniti possono influire sulla situazione indirizzandola in un modo piuttosto che in un altro a seconda di come cambiano gli interessi. I colloqui sul nucleare servono a comprendere l'Iran all'interno del gioco di equilibri.
Mi sono già chiesto se nel Medio Oriente di oggi un simile approccio sia costruttivo, visto che gli attori statali e nono statali che vi operano possono semplicemente decidere di tirarsi fuori dai giochi e dalle regole non scritte che consentono di mantenere questo equilibrio. Così ha fatto l'Arabia Saudita, che sta facendo pressioni sulla Turchia perché faccia allo stesso modo. Gli ultimi avvenimenti fanno pensare che invece che verso un equilibrio si stia andando verso una confusa prova di forza, inevitabile per far sì che i contorni di un nuovo Medio Oriente possano trovare definizione, che per qualcuno potrebbe anche rivelarsi un disastro senza rimedio.
Continuerò ad essere sincero, notando che nelle condizioni in cui si trova oggi l'AmeriKKKa sul piano interno, l'idea di disimpegnarsi è stata probabilmente la miglior opzione disponibile in un ventaglio di possibilità tutte negative. Solo che una buona scelta sul piano razionale puà non essere, o non essere per il momento, una buona scelta sul piano psicologico. Alla psiche può servire un po' più di tempo per rimettersi in quadro, e di solito perché si arrivi a questo aggiustamento occorre che certi ego un po' troppo pompati soffrano qualche lezione dolorosa.
La bozza di accordo tra "cinque più uno" e Repubblica Islamica dell'Iran contiene più incertezze che altro, e potrebbe anche rivelarsi insostenibile per l'Iran che ha fatto ampie concessioni in cambio di benefici che a giudicare dai primi documenti disponibili sono piuttosto vaghi. Comunque, è certo che non servirà a calmare le paranoie dei sauditi. L'Arabia Saudita continua a credere che l'Iran stia fomentando ovunque l'insurrezione sciita contro l'attuale stato di cose, e che stia cercando di portare tutto il Medio Oriente dentro i confini di un nuovo impero persiano.
Non è verosimile che la maggior parte dei sauditi creda davvero che l'Iran covi ambizioni imperiali ed espansionistiche: da mezzo millennio l'Iran non invade territori altrui. E' più probabile che i sauditi siano in apprensione perché sanno bene che in Iran il sanguinoso saccheggio di Karbala ad opera degli wahabiti nel 1801-1802 non è stato dimenticato, al pari della indiscriminata distruzione dei santuari sciiti allora e dopo, della denigrazione degli sciiti alla stregua di apostati degni solo di essere ammazzati, dell'incitamento dello jihadismo radicale contro gli sciiti e della repressione delle popolazioni sciite in tutto il Golfo Persico.
I sauditi non temono certo di verdersi arrivare i carri armati iraniani alla frontiera. I sauditi temono la portata rivoluzionaria dei concetti espressi dal pensiero sciita ed il contagio che potrebbe derivarne; è il pensiero sciita che i sauditi temono, e che stanno cercando di delegittimare e di isolare.
Uno strumento affidabile: lo jihadismo sunnita
Questa crescente psicosi nei confronti dell'Iran, che deriva dal pur parziale riavvicinamento dell'AmeriKKKa all'Iran, un risultato fuori di questione lo ha ottenuto: la breve sintonia dei sunniti con la battaglia occidentale contro lo jihadismo e l'estremismo che aveva caratterizzato gli ultimi mesi è finita. La prova di forza ora in corso impone di tornare all'utilizzo del vecchio, affidabile arnese che consiste nell'incendiare lo jihadismo sunnita.
Il fatto è che l'Iran e i suoi alleati non lo permetteranno. Iran, Hezbollah, le milizie sciite irachene, l'esercito siriano e le milizie Houthi cercheranno di rispondere infliggendo una sconfitta di vaste proporzioni a qualunque tentativo di riattizzare lo jihadismo sunnita nelle rispettive aree di competenza. Il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ne ha parlato in un discorso il ventisette marzo. Nasrallah ha parlato senza mezzi termini: nell'imminenza dell'accordo sul nucleare, in Iran non si pensa più che si possa arrivare a comporre il dissidio coi sauditi. Secondo Nasrallah l'Arabia Saudita ha scelto di fare pressione ad ogni livello contro l'Iran e contro i suoi alleati: il suo discorso lascia intendere che vi sarà una risposta altrettanto forte. Invece di trovare un proprio equilibrio, il Medio Oriente si sta avviando ad ulteriori e drammatici rovesci nella situazione politica.
In mezzo a tutto questo digrignare di denti, l'AmeriKKKa è effettivamente messa fuori gioco dalla sua politica defilata oltre che dall'aver investito politicamente nella guerra allo Stato Islamico, con tutte le contraddizioni e le tensioni che questo comporta. In Iraq, per esempio, la guerra contro lo Stato Islamico è guidata dall'Iran e dalle alleate milizie sciite. Nello Yemen gli Houthi sostenuti dall'Iran sono impegnati in scontri sanguinosi contro Al Qaeda. Nel primo caso l'AmeriKKKa riconosce implicitamente il contributo iraniano. Nel secondo, invece, appoggia i bombardamenti contro chi combatte gli jihadisti, apparentemente sulla base del fatto che un fiancheggiatore dell'Iran non può permettersi di minacciare una fondamentale via di approvvigionamento petrolifero.
L'AmeriKKKa è in pratica immobilizzata, presa fra il martello di alleati infingardi e profondamente compromessi in un modo o nell'altro con i sunniti radicali, e l'incudine dei limiti imposti dalla sua linea politica di sempre, che le impediscono qualunque autentico avvicinamento agli autentici avversari dello Stato Islamico che sono l'Esercito Arabo Siriano, Hezbollah, le milizie Houthi ed irachene.
"Strappate via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani!"
"Dobbiamo rimettere le mani nelle cose che contano. La posta in gioco, oggi, è questa". Si pensi che la frase viene da Jamal Khashoggi, un esperto editorialista saudita ed ex consigliere governativo che l'ha riferita al NY Times. "L'Arabia Saudita sta prendendo le iniziative necessarie a strappar via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani, in tutto il Medio Oriente". A suo dire, l'operazione sta conseguendo dei successi anche senza l'aiuto degli AmeriKKKani.
L'articolo del Times così prosegue: "L'Arabia Saudita e la Turchia", afferma Khashoggi, "hanno sostenuto la coalizione di gruppi jihadisti [Jabhat al Nusra, Al Qaeda] che poco tempo fa ha preso la città siriana di Idlib: la prima vittoria importante dopo molti mesi, contro il governo del Presidente Bashar al Assad... a prendere Idlib sono stati appartenenti alla coalizione jihadista: si tratta di un risultato importante, e credo che vedremo anche più di questo" ha aggiunto Kashoggi, affermando che "il coordinamento tra i servizi segreti turchi e sauditi non è mai stato buono come oggi".
Khashoggi si riferisce agli sforzi collettivi che per iniziativa dei servizi segreti turchi e con il sostegno del Qatar e dell'Arabia Saudita sono riusciti a mettere in campo migliaia di jihadisti in una coalizione che è finita col provocare il ritiro tattico dell'esercito siriano da quei quartieri di Idlib il cui controllo, già precario, richiedeva l'utilizzo di lunghe linee di rifornimento. Si può dire che nel più ampio contesto della guerra in corso, non si tratta di un evento molto significativo.
Nonostante questo, il fatto ha una grossa importanza simbolica. Turchia ed Arabia Saudita hanno cooperato per facilitare la presa di Idlib da parte di Jabhat al Nusra che è il braccio siriano di Al Qaeda, qualcosa che fa di Idlib il contraltare alla città di Raqqa, centro di potere dello Stato Islamico. Adesso, vari eminenti esperti sia del Golfo che occidentali ci vengono a raccontare che, anche se si tratta di Al Qaeda, siamo comunque davanti all'espressione di uno jihadlismo pragmatico che "potrebbe diventare un alleato nella lotta contro lo Stato Islamico". Soltanto pochi mesi fa, sostenere una cosa del genere avrebbe praticamente portato diritti ad un interrogatorio con qualche funzionario dei servizi occidentali. Ma come cambiano le cose, col tempo!
Il desiderio dei sauditi di "strappare via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani" sta avendo effetti anche in Iraq. The Times ha scritto che i sauditi avrebbero avvertito Washington "di non permettere alle milizie spalleggiate dall'Iran di impadronirsi di parti del territorio troppo vaste nel corso dei combattimenti contro lo Stato Islamico. Questo, secondo alcuni diplomatici arabi impegnati nei colloqui". Detto altrimenti, va bene sconfiggere lo Stato Islamico, ma senza esagerare.
Al centro della nuova politica assertiva dell'Arabia Saudita c'è ovviamente la guerra nello Yemen. La campagna di bombardamenti aerei contro il movimento Houthi chiamato Ansar Allah e contro le forze armate fedeli all'ex presidente Saleh altro non è che il modo, molto personale, in cui il ministro della difesa saudita Principe Mohammed bin Salman ha deciso di fare quello che secondo alcuni sauditi l'AmeriKKKa dovrebbe fare e invece non sta facendo.
I bombardamenti voluti da bin Salman per adesso sono stati accolti con entusiasmo in certi ambienti del Golfo. Il co-reggente di bin Salman Muhammad bin Nayef invece non ha fatto commenti. Bin Nayef è considerato un rivale di bin Salman ed è possibile che se ne stia aspettando tranquillamente che le sue iniziative si risolvano in un fallimento. Decidere di imitare l'AmeriKKKa sia nelle iniziative che nella maniera di condurle, vale a dire puntando tutto sul potere di fuoco, è una mossa imprudente, e le forti emozioni che nascono dalle riprese degli attacchi aerei trasmesse in televisione spesso si raffreddano quando si capisce che non servono a gran che.
L'ottimismo, tuttavia, è arrivato a punte tali che il commentatore saudita Khashoggi scrive:
Chi li mette gli anfibi sul terreno?
E poi? Ci sarà un'invasione, condotta da una forza militare araba coordinata? E' chiaro che questa forza di invasione non è stata certo messa a punto nei dettagli prima di iniziare a bombardare. Tutto questo sa più di propaganda che di pianificazione seria ed accurata. Gli Houthi e i loro alleati stanno continuando a combattere per Aden: l'Arabia Saudita sembra sia stata colta di sorpresa e sta cercando in giro qualcuno che occupi la città portuale. Né gli Stati Uniti né il Pakistan sembrano disponibili a farsi carico della cosa.
La riluttanza dei sauditi a compiere un'invasione di terra potrebbe anche venire meno. Se succede, ci saranno conseguenze di ampia portata. Se i sauditi falliscono nel pacificare lo Yemen, la cosa indebolirà ulteriormente l'autorevolezza e l'identità dei sunniti. Chissà che sia l'Iran che l'AmeriKKKa non abbiano proprio fatto un calcolo del genere: lasciare che bin Salman vada avanti per la sua strada, aspettando che, come probabilmente accadrà, gli passi la voglia di risolvere con certi sistemi le crisi regionali. Chissà che anche Mohammad bin Naif non abbia fatto le stesse considerazioni.
Certo, se l'idea di una forza di coalizione sunnita si rivela una chimera e se lo Yemen per i sauditi diventa un fallimento, assisteremo di sicuro, come diretta conseguenza, ad un rinfocolarsi della guerra jihadista in Siria ed in Iraq. La solita panacea.
In questo contesto, le parole di Nasrallah suonano appropriate più che mai. Nasrallah ha detto senza dirlo che le vecchie regole del gioco hanno smesso di valere quando l'Arabia Saudita ha attaccato lo Yemen. Se nello Yemen verranno dislocate truppe saudite, di terra o d'aria che siano, allora perché mai le milizie e l'esercito iracheni dopo aver riconquistato Tikrit non dovrebbero per ipotesi proseguire verso la frontiera siriana, attaccare da nord assieme all'esercito siriano, farsi strada attraverso il paese e chiudere lo Stato Islamico in una sacca?
Si tratta solo di un'idea...
In Medio Oriente, finalmente, ci siamo arrivati. Dopo guerre su guerre, comprese quelle in Afghanistan e in Iraq, gli Stati Uniti non hanno più alcuna intenzione di intervenire militarmente nei molti ed intricati conflitti della regione. Se mai, vogliono rimettere in pari le maggiori potenze regionali per arrivare ad una situazione in cui gli antagonismi si equilibrino, e lasciare che se la vedano tra loro. "Sono problemi settari vostri, vedetevela voi". Un editorialista saudita ha descritto in questo modo l'atteggiamento ameriKKKano alle rimostranze dei sauditi sulle iniziative degli Houthi nello Yemen.
Gli ameriKKKani sperano che se mai si arriverà ad una tale situazione di equilibrio sarà possible tirarsi fuori da quel ginepraio mediorientale che tutte le volte pare capace di tirarli per i capelli dentro alle sue dispute micidiali. A Washington si pensa che l'intervento delle forze speciali sia invece un'altra questione: con quelle, le operazioni finanziarie, i droni e la guerra delle comunicazioni telematiche gli Stati Uniti possono influire sulla situazione indirizzandola in un modo piuttosto che in un altro a seconda di come cambiano gli interessi. I colloqui sul nucleare servono a comprendere l'Iran all'interno del gioco di equilibri.
Mi sono già chiesto se nel Medio Oriente di oggi un simile approccio sia costruttivo, visto che gli attori statali e nono statali che vi operano possono semplicemente decidere di tirarsi fuori dai giochi e dalle regole non scritte che consentono di mantenere questo equilibrio. Così ha fatto l'Arabia Saudita, che sta facendo pressioni sulla Turchia perché faccia allo stesso modo. Gli ultimi avvenimenti fanno pensare che invece che verso un equilibrio si stia andando verso una confusa prova di forza, inevitabile per far sì che i contorni di un nuovo Medio Oriente possano trovare definizione, che per qualcuno potrebbe anche rivelarsi un disastro senza rimedio.
Continuerò ad essere sincero, notando che nelle condizioni in cui si trova oggi l'AmeriKKKa sul piano interno, l'idea di disimpegnarsi è stata probabilmente la miglior opzione disponibile in un ventaglio di possibilità tutte negative. Solo che una buona scelta sul piano razionale puà non essere, o non essere per il momento, una buona scelta sul piano psicologico. Alla psiche può servire un po' più di tempo per rimettersi in quadro, e di solito perché si arrivi a questo aggiustamento occorre che certi ego un po' troppo pompati soffrano qualche lezione dolorosa.
La bozza di accordo tra "cinque più uno" e Repubblica Islamica dell'Iran contiene più incertezze che altro, e potrebbe anche rivelarsi insostenibile per l'Iran che ha fatto ampie concessioni in cambio di benefici che a giudicare dai primi documenti disponibili sono piuttosto vaghi. Comunque, è certo che non servirà a calmare le paranoie dei sauditi. L'Arabia Saudita continua a credere che l'Iran stia fomentando ovunque l'insurrezione sciita contro l'attuale stato di cose, e che stia cercando di portare tutto il Medio Oriente dentro i confini di un nuovo impero persiano.
Non è verosimile che la maggior parte dei sauditi creda davvero che l'Iran covi ambizioni imperiali ed espansionistiche: da mezzo millennio l'Iran non invade territori altrui. E' più probabile che i sauditi siano in apprensione perché sanno bene che in Iran il sanguinoso saccheggio di Karbala ad opera degli wahabiti nel 1801-1802 non è stato dimenticato, al pari della indiscriminata distruzione dei santuari sciiti allora e dopo, della denigrazione degli sciiti alla stregua di apostati degni solo di essere ammazzati, dell'incitamento dello jihadismo radicale contro gli sciiti e della repressione delle popolazioni sciite in tutto il Golfo Persico.
I sauditi non temono certo di verdersi arrivare i carri armati iraniani alla frontiera. I sauditi temono la portata rivoluzionaria dei concetti espressi dal pensiero sciita ed il contagio che potrebbe derivarne; è il pensiero sciita che i sauditi temono, e che stanno cercando di delegittimare e di isolare.
Uno strumento affidabile: lo jihadismo sunnita
Questa crescente psicosi nei confronti dell'Iran, che deriva dal pur parziale riavvicinamento dell'AmeriKKKa all'Iran, un risultato fuori di questione lo ha ottenuto: la breve sintonia dei sunniti con la battaglia occidentale contro lo jihadismo e l'estremismo che aveva caratterizzato gli ultimi mesi è finita. La prova di forza ora in corso impone di tornare all'utilizzo del vecchio, affidabile arnese che consiste nell'incendiare lo jihadismo sunnita.
Il fatto è che l'Iran e i suoi alleati non lo permetteranno. Iran, Hezbollah, le milizie sciite irachene, l'esercito siriano e le milizie Houthi cercheranno di rispondere infliggendo una sconfitta di vaste proporzioni a qualunque tentativo di riattizzare lo jihadismo sunnita nelle rispettive aree di competenza. Il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ne ha parlato in un discorso il ventisette marzo. Nasrallah ha parlato senza mezzi termini: nell'imminenza dell'accordo sul nucleare, in Iran non si pensa più che si possa arrivare a comporre il dissidio coi sauditi. Secondo Nasrallah l'Arabia Saudita ha scelto di fare pressione ad ogni livello contro l'Iran e contro i suoi alleati: il suo discorso lascia intendere che vi sarà una risposta altrettanto forte. Invece di trovare un proprio equilibrio, il Medio Oriente si sta avviando ad ulteriori e drammatici rovesci nella situazione politica.
In mezzo a tutto questo digrignare di denti, l'AmeriKKKa è effettivamente messa fuori gioco dalla sua politica defilata oltre che dall'aver investito politicamente nella guerra allo Stato Islamico, con tutte le contraddizioni e le tensioni che questo comporta. In Iraq, per esempio, la guerra contro lo Stato Islamico è guidata dall'Iran e dalle alleate milizie sciite. Nello Yemen gli Houthi sostenuti dall'Iran sono impegnati in scontri sanguinosi contro Al Qaeda. Nel primo caso l'AmeriKKKa riconosce implicitamente il contributo iraniano. Nel secondo, invece, appoggia i bombardamenti contro chi combatte gli jihadisti, apparentemente sulla base del fatto che un fiancheggiatore dell'Iran non può permettersi di minacciare una fondamentale via di approvvigionamento petrolifero.
L'AmeriKKKa è in pratica immobilizzata, presa fra il martello di alleati infingardi e profondamente compromessi in un modo o nell'altro con i sunniti radicali, e l'incudine dei limiti imposti dalla sua linea politica di sempre, che le impediscono qualunque autentico avvicinamento agli autentici avversari dello Stato Islamico che sono l'Esercito Arabo Siriano, Hezbollah, le milizie Houthi ed irachene.
"Strappate via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani!"
"Dobbiamo rimettere le mani nelle cose che contano. La posta in gioco, oggi, è questa". Si pensi che la frase viene da Jamal Khashoggi, un esperto editorialista saudita ed ex consigliere governativo che l'ha riferita al NY Times. "L'Arabia Saudita sta prendendo le iniziative necessarie a strappar via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani, in tutto il Medio Oriente". A suo dire, l'operazione sta conseguendo dei successi anche senza l'aiuto degli AmeriKKKani.
L'articolo del Times così prosegue: "L'Arabia Saudita e la Turchia", afferma Khashoggi, "hanno sostenuto la coalizione di gruppi jihadisti [Jabhat al Nusra, Al Qaeda] che poco tempo fa ha preso la città siriana di Idlib: la prima vittoria importante dopo molti mesi, contro il governo del Presidente Bashar al Assad... a prendere Idlib sono stati appartenenti alla coalizione jihadista: si tratta di un risultato importante, e credo che vedremo anche più di questo" ha aggiunto Kashoggi, affermando che "il coordinamento tra i servizi segreti turchi e sauditi non è mai stato buono come oggi".
Khashoggi si riferisce agli sforzi collettivi che per iniziativa dei servizi segreti turchi e con il sostegno del Qatar e dell'Arabia Saudita sono riusciti a mettere in campo migliaia di jihadisti in una coalizione che è finita col provocare il ritiro tattico dell'esercito siriano da quei quartieri di Idlib il cui controllo, già precario, richiedeva l'utilizzo di lunghe linee di rifornimento. Si può dire che nel più ampio contesto della guerra in corso, non si tratta di un evento molto significativo.
Nonostante questo, il fatto ha una grossa importanza simbolica. Turchia ed Arabia Saudita hanno cooperato per facilitare la presa di Idlib da parte di Jabhat al Nusra che è il braccio siriano di Al Qaeda, qualcosa che fa di Idlib il contraltare alla città di Raqqa, centro di potere dello Stato Islamico. Adesso, vari eminenti esperti sia del Golfo che occidentali ci vengono a raccontare che, anche se si tratta di Al Qaeda, siamo comunque davanti all'espressione di uno jihadlismo pragmatico che "potrebbe diventare un alleato nella lotta contro lo Stato Islamico". Soltanto pochi mesi fa, sostenere una cosa del genere avrebbe praticamente portato diritti ad un interrogatorio con qualche funzionario dei servizi occidentali. Ma come cambiano le cose, col tempo!
Il desiderio dei sauditi di "strappare via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani" sta avendo effetti anche in Iraq. The Times ha scritto che i sauditi avrebbero avvertito Washington "di non permettere alle milizie spalleggiate dall'Iran di impadronirsi di parti del territorio troppo vaste nel corso dei combattimenti contro lo Stato Islamico. Questo, secondo alcuni diplomatici arabi impegnati nei colloqui". Detto altrimenti, va bene sconfiggere lo Stato Islamico, ma senza esagerare.
Al centro della nuova politica assertiva dell'Arabia Saudita c'è ovviamente la guerra nello Yemen. La campagna di bombardamenti aerei contro il movimento Houthi chiamato Ansar Allah e contro le forze armate fedeli all'ex presidente Saleh altro non è che il modo, molto personale, in cui il ministro della difesa saudita Principe Mohammed bin Salman ha deciso di fare quello che secondo alcuni sauditi l'AmeriKKKa dovrebbe fare e invece non sta facendo.
I bombardamenti voluti da bin Salman per adesso sono stati accolti con entusiasmo in certi ambienti del Golfo. Il co-reggente di bin Salman Muhammad bin Nayef invece non ha fatto commenti. Bin Nayef è considerato un rivale di bin Salman ed è possibile che se ne stia aspettando tranquillamente che le sue iniziative si risolvano in un fallimento. Decidere di imitare l'AmeriKKKa sia nelle iniziative che nella maniera di condurle, vale a dire puntando tutto sul potere di fuoco, è una mossa imprudente, e le forti emozioni che nascono dalle riprese degli attacchi aerei trasmesse in televisione spesso si raffreddano quando si capisce che non servono a gran che.
L'ottimismo, tuttavia, è arrivato a punte tali che il commentatore saudita Khashoggi scrive:
Ora che l'operazione Tempesta Decisiva ha preso il via, occorre che qualcuno tenga d'occhio la situazione. Quello che è successo sta fissando una nuova regola nella scienza della risoluzione delle crisi e se le cose vanno bene altre potenze regionali troveranno il coraggio di applicare la stessa soluzione anche in altri contesti.Khashoggi prosegue citando le affermazioni del consigliere del Presidente Erdoğan Ibrahim Kalin, che avrebbe detto "...Sì, ci sono sia delle somiglianze che delle differenze con la situazione siriana. Sia in Yemen che in Siria, in ogni caso, i problemi, le circostanze e vli avveersari sono gli stessi. L'operazione saudita può essere ripetura in Siria: è una cosa cui dobbiamo pensare".
I siriani hanno invocato un approccio dello stesso tipo dopo che l'operazione è cominciata, perché si sono accorti che esiste una chiara somiglianza tra la loro situazione e quella dello Yemen, ed hanno sperato che il loro delegittimato presidente e il suo governo venissero colpiti da una serie di attacchi come quelli di Tempesta Decisiva.
Il fatto essenziale sta nel vedere se l'operazione nello Yemen avrà successo oppure no. Al di là della propaganda, l'Arabia Saudita non sembra per niente vicina a raggiungere il suo obiettivo, che è quello di riportare al potere l'ex Presidente Hadi: il suo mandato è scaduto e sul terreno può contare su una rappresentanza politica debole. La campagna di attacchi aerei ha a mala pena impedito che le forze di Ansar Allah e di Saleh estendessero il loro controllo sulla maggior parte del territorio del paese. Spesso, le campagne di bombardamenti aerei riescono solo a far sì che un paese faccia fronte comune contro un nemico esterno. Nello Yemen pare sia successo proprio questo.
Chi li mette gli anfibi sul terreno?
E poi? Ci sarà un'invasione, condotta da una forza militare araba coordinata? E' chiaro che questa forza di invasione non è stata certo messa a punto nei dettagli prima di iniziare a bombardare. Tutto questo sa più di propaganda che di pianificazione seria ed accurata. Gli Houthi e i loro alleati stanno continuando a combattere per Aden: l'Arabia Saudita sembra sia stata colta di sorpresa e sta cercando in giro qualcuno che occupi la città portuale. Né gli Stati Uniti né il Pakistan sembrano disponibili a farsi carico della cosa.
La riluttanza dei sauditi a compiere un'invasione di terra potrebbe anche venire meno. Se succede, ci saranno conseguenze di ampia portata. Se i sauditi falliscono nel pacificare lo Yemen, la cosa indebolirà ulteriormente l'autorevolezza e l'identità dei sunniti. Chissà che sia l'Iran che l'AmeriKKKa non abbiano proprio fatto un calcolo del genere: lasciare che bin Salman vada avanti per la sua strada, aspettando che, come probabilmente accadrà, gli passi la voglia di risolvere con certi sistemi le crisi regionali. Chissà che anche Mohammad bin Naif non abbia fatto le stesse considerazioni.
Certo, se l'idea di una forza di coalizione sunnita si rivela una chimera e se lo Yemen per i sauditi diventa un fallimento, assisteremo di sicuro, come diretta conseguenza, ad un rinfocolarsi della guerra jihadista in Siria ed in Iraq. La solita panacea.
In questo contesto, le parole di Nasrallah suonano appropriate più che mai. Nasrallah ha detto senza dirlo che le vecchie regole del gioco hanno smesso di valere quando l'Arabia Saudita ha attaccato lo Yemen. Se nello Yemen verranno dislocate truppe saudite, di terra o d'aria che siano, allora perché mai le milizie e l'esercito iracheni dopo aver riconquistato Tikrit non dovrebbero per ipotesi proseguire verso la frontiera siriana, attaccare da nord assieme all'esercito siriano, farsi strada attraverso il paese e chiudere lo Stato Islamico in una sacca?
Si tratta solo di un'idea...
giovedì 9 aprile 2015
Firenze: un mattino di aprile n'i'ddegràdo e nell'insihurézza.
In via Alfani si apre uno degli ingressi della facoltà -o scuola, come si sarebbe tenuti a chiamarla adesso- di lettere e filosofia.
Accanto, a circa un metro e settanta dal suolo, c'è questo grosso DEGRADATEMI che sembra essere lì da parecchio tempo.
L'ambiente è uno dei più invisi in assoluto all'"occidentalismo" fiorentino, che deve avere valide ragioni per temerlo. Non ci sarebbe da meravigliarsi se il dileggio della propaganda con cui la feccia "occidentalista" sporca da tanti anni la vita delle persone serie avesse avuto proprio in questa zona le sue prime manifestazioni.
Muri puliti, popoli asserviti.
sabato 4 aprile 2015
Firenze: al PD di Bagno a Ripoli non piace il Partito Comunista dei Lavoratori. Un concerto con Laura Franchini e Cristian Barsacchi.
Qualche mese fa abbiamo avuto modo di parlare del Partito Comunista dei Lavoratori.
A Firenze il PCL è una delle molte organizzazioni che si ostinano ad operare nel mondo della politica attiva, che è ristretto e prodigiosamente litigioso.
La politica attiva ha varie caratteristiche intollerabili per il democratismo contemporaneo, prima tra tutte quella di ostinarsi a pensare e ad agire sul piano concreto con manifestazioni, presidi, volantini, occupazioni ed altre iniziative inconcepibili in un contesto sociale in cui gli unici comportamenti non sanzionati penalmente sono quelli di consumo (e neppure tutti) ed in cui è sufficiente alzare troppo la voce al pallonaio per vedersela con la polizia politica.
In "Occidente" i limiti ammessi alla partecipazione alla vita politica concidono con l'adeguamento incondizionato allo stato di cose presente, che come corollario ha il confinamento dello scontento alla risibile e posticcia libertà garantita dalla telematica. La partecipazione alla vita politica, in definitiva, consiste soprattutto nell'agevolare in ogni modo il lavoro di un manovratore il cui refrain non si discosta mai dal "Non ci sono alternative" e "Più galera per tutti".
Non è il caso qui di ripetere quanto denunciato per molti anni da voci ben più autorevoli e documentate della nostra, che con ragione parlano di "dittatura liberale" e di "intolleranza liberale". E' appena il caso di ricordare che nello stato che occupa la penisola italiana i temi sostanziali della propaganda "occidentalista", ivi incluso il derubricare a terrorismo qualunque comportamento non sposti denaro dalle tasche di chi ne ha poco a quelle di chi ne ha molto, non vengono seriamente messi in discussione da nessuna forza politica ammessa agli organi di rappresentanza. Nella "democrazia da esportazione" che è il principale vanto dell'"Occidente" contemporaneo l'esclusione del dissenso non riguarda solo gli organi di rappresentanza, ma coinvolge ogni àmbito ed ogni livello della vita associata e colpisce tanto più perentoriamente quanto più competenti e documentate sono le voci che dissentono. Il Partito Comunista dei Lavoratori di Firenze offre a fine marzo 2015 un piccolissimo campione della prassi con cui il democratismo "occidentale" agisce ad ogni livello, a cominciare da quello interpersonale. Negli stessi giorni un altro campione del genere ci viene offerto da Miguel Martinez, ex addestratore di bande paramilitari convertitosi all'attivismo di quartiere e trovatosi -non certo per la prima volta- a constatare de visu quali siano i pregi sostanziali del democratismo rappresentativo.
Dunque, il blog del PCL fiorentino riporta un episodio insignificante.
Durante un concerto un non meglio specificato "portavoce di sezione" sarebbe stato "aggredito verbalmente" da una altrettanto poco specificata "consigliera comunale del PD presente in sala" che sarebbe poi passata "a sistemi più maneschi grazie all'aiuto del proprio accompagnatore".
Per sapiente caso eravamo presenti al concerto. Alla acutissima sensibilità democratista non sfuggono neppure le manifestazioni artistiche; come al pubblico del pallonaio si impone a suon di legislazione penale di non rompere niente e di cantare cori casti e puri degni di figurare nella manifestazione-prodotto in cui esso ha il ruolo di comparsa pagante, così il massimo di libertà consentito alla musica è quello delle acconciature estrose.
I Malasuerte Firenze Sud suonano da oltre quindici anni ed il loro miscuglio di rock, ska e punk tocca sistematicamente e con accurato puntiglio moltissimi argomenti invisi all'"occidentalismo", dalla guerriglia partigiana all'indipendenza basca. Componenti e claque non sfoggiano stracci firmati e non hanno comportamenti che assecondano la tranquillità "occidentalista"; che il "portavoce di sezione" di cui sopra avesse spazio per esprimere il poco gradimento suscitato presso le persone serie dalle ultime iniziative del piddì senza la elle nella zona di Firenze Sud era il minimo che potesse accadere.
L'agenda politica del piddì senza la elle, anche nel livello locale, non è in alcun dettaglio distinguibile da quella dei suoi sedicenti avversari. Di qui il successo elettorale del "partito", ma di qui anche le non poche critiche che qualsiasi persona competente può avanzare senza tema di smentita. In dettaglio, il portavoce del PCL si è limitato a ricordare che, contando solo gli ultimi tre mesi, il piddì di Bagno a Ripoli si è rivelato indistinguibile dai suoi avversari in almeno due occasioni.
Nel primo caso, ha avallato l'iniziativa elettorale di cui è stato protagonista un diplomato divorziato e in sovrappeso specializzato nello sputare nel piatto in cui mangia abbondantemente da molti anni. Gli "occidentalisti" propriamente detti (in Toscana da sempre minoranza disprezzata e sporca in ogni senso) sono perfettamente rappresentati da elementi di questo genere. La mobilitazione di protesta cui il PCL ha preso parte ha fatto sì che l'iniziativa abbia potuto svolgersi solo grazie alla mobilitazione di decine di gendarmi, cosa oltremodo lodevole perché ha rimesso un po' di cose al loro posto, confermando innanzitutto la consuetudine costruttiva e molto buona che le iniziative "occidentaliste" a Firenze possano svolgersi solo dopo che la militarizzazione del territorio è intervenuta a garantire l'incolumità degli organizzatori.
Nel secondo caso, il "partito" avrebbe esplicitamente autorizzato una serie di iniziative di cui non troppo tempo fa persino le gazzette amiche evidenziavano i lati farseschi prima che abietti, e che consistono sostanzialmente nella pratica assidua ed esplicita della delazione. A qualunque sigla di partito faccia riferimento, l'"occidentalismo" ha una sua coerenza, in questo caso quella di applicare la legge ai poveri e di interpretarla per i ricchi.
La cosa non è piaciuta a Laura Franchini, la "consigliera comunale" di cui sopra cui deve essere parso inconcepibile che un concerto e un pubblico del genere avessero priorità e weltanschauung diverse da quelle di un neomelodico qualsiasi. Di qui i commenti sarcastici e il passaggio a sistemi più maneschi grazie all'aiuto del suo accompagnatore.
A questo punto è utile che si passi in breve rassegna di quale prestigio, di quali competenze e di quale autorevolezza possono dare prova questi due signori.
Sul sito locale del "partito" Laura Franchini pubblica a proprio nome qualche riga priva di ogni rilievo. Del piddì con la elle a Bagno a Ripoli sarebbe vicesegretario[*]. E' molto probabile che a questa Laura Franchini realmente esistente corrisponda anche una omonima autoschedatura sul Libro dei Ceffi, che conferma anche in questo caso la sua repellente funzione di sentina di mediocri. Al momento in cui scriviamo l'autoschedatura a nome Laura Franchini presenta un guazzabuglio di cani, pallonieri, musichette con ragazze poco vestite, attorucoli strapagati e un bric-à-brac di quelle buone cause del tipo che uno fa clic e a Tabriz smettono di lapidare le adultere. Nulla che permetta la minima inferenza obiettiva -e meno che mai lusinghiera- sulle competenze di una Franchini reale, sulla cui capacità argomentativa sarà pietoso non trarre conclusioni.
L'autoschedatura riporta anche l'affermazione "Fidanzata ufficialmente con Cristian Barsacchi dal 28 giugno 2013", da cui si viene a sapere che le autoschedature si scambiano promesse di matrimonio.
Secondo la logica delle autoschedature, è probabile che in un Cristian Barsacchi realmente esistente vada identificato l'accompagnatore passato a vie di fatto. Alcuni dei presenti che hanno seguito con attenzione tutta la scena ci hanno riferito che ha dovuto essere allontanato come un mangiaspaghetti qualunque prima che gli astanti infastiditi se ne occupassero altrimenti.
Secondo la logica delle autoschedature, è probabile che in un Cristian Barsacchi realmente esistente vada identificato l'accompagnatore passato a vie di fatto. Alcuni dei presenti che hanno seguito con attenzione tutta la scena ci hanno riferito che ha dovuto essere allontanato come un mangiaspaghetti qualunque prima che gli astanti infastiditi se ne occupassero altrimenti.
Sul Libro dei Ceffi esiste anche una autoschedatura intitolata a Cristian Barsacchi (temi trattati: pallone, pallone travestito, balocchini vari) il cui redattore tiene molto ad evidenziarne le caratteristiche migliori: "Ha studiato scienze confuse presso gingillometria applicata". Un individuo unico ed insostituibile, capace di sorprendenti guizzi di autoconsapevolezza, come quello che lo ha portato a identificarsi in una scimmia.
La politica "occidentale" si avvale di simili difensori e propagandisti ad ogni livello, dal circolo di paese in su; in "Occidente" da molto tempo chiunque abbia un minimo di rispetto di sé evita di confondersi con la politica istituzionale, quindi la differenza tra una Laura Barsacchi, un Cristian Franchini ed i loro superiori gerarchici è soltanto una faccenda di potere d'acquisto, non certo di competenze.
Un motivo in mezzo a tanti per evitare di avere a che fare con certi aspetti della vita aggregata.
[*] "...Neanche cuoco... Sottocuoco...!" (cit.)
giovedì 2 aprile 2015
Repubblica Islamica dell'Iran: gli accordi sul nucleare e le loro ripercussioni geopolitiche
Traduzione da Conflicts Forum.
Non sappiamo se Repubblica Islamica dell'Iran e "cinque più uno" arriveranno ad un accordo: questo tipo di negoziati rischia sempre di saltare anche all'ultimo minuto. Non sappiamo nemmeno quali potranno essere i termini dell'accordo, se mai ci si arriverà. Quello che filtra fa pensare che il primo obiettivo degli Stati Uniti -e cosa fondamentale per lo stato sionista e per il Congresso statunitense- sia che la cosiddetta "capacità di break out", il tempo necessario ad accumulare materiale sufficiente alla costruzione di un'arma, rimanga superiore ad un anno; questo stesso prerequisito, a sua volta, è responsabile di molte altre variabili che sono il tipo ed il numero delle centrifughe ammissibili, l'imposizione di un tetto alla quantità ammessa di uranio a basso arricchimento, limiti alla percentuale più alta di arricchimento, l'eliminazione di tutte le scorte di uranio che superino questi limiti, ed un sistema per la verifica di tutto questo. Inoltre, l'amministrazione statunitense ha anche, come seconda priorità, l'obiettivo di congelare la capacità di break out iraniana per dieci o più anni, sperando che dopo che l'attuale classe politica iraniana avrà abbandonato la scena l'Iran possa nuovamente essere attratto nella sfera occidentale. Di fatto il Presidente Obama ha presentato questo congelamento decennale della capacità di break out come se si trattasse di un ultimatum, nell'intevista pubblicata alla vigilia del discorso di Netanyahu al Congresso.
La questione del break out deriva da un aspetto tecnico al centro dei negoziati, anche se ve ne sono altri oltre a questo; se su questo punto si raggiunge un qualche accordo, è possibile che esso possa fare da base per un documento in cui inquadrare ulteriori negoziati inerenti un campo più propriamente politico. E proprio il campo politico si presenta spinoso, perché in esso le distanze restano grandi: quanto a lungo deve durare questo congelamento? Quando e come verranno tolte le sanzioni? E soprattutto, quale sarà il significato di un simile gesto? In cosa consisterà davvero la "normalizzazione" delle relazioni tra Iran e Stati Uniti? In altre parole, arrivare senza problemi in fondo al periodo di verifica permetterà di dire che il contenzioso tra i due paesi è arrivato alla fine? O forse si continueranno a sollevare altre questioni, magari quella dei diritti umani, e a bloccare l'accettazione da parte dell'Occidente dell'Iran come potenza regionale di primaria importanza?
Perché in AmeriKKKa si teme tanto un esito tanto ambiguo ed irrisolto? E i negoziati come sono impostati oggi, davvero raggiungerebbero gli obiettivi desiderati? Quale potrebbe essere il loro impatto sull'orientamento geopolitico dell'Iran? Potrebbero alla fine portare una nuova generazione di iraniani a guardare verso Occidente?
Fondamentalmente, il punto di partenza essenziale per capire il desiderio di arrivare a segnare qualche punto di vantaggio contro l'Iran si trova nei fallimenti politici e militari dell'AmeriKKKa in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq, Libia e Siria). In tutti questi casi gli Stati Uniti non sono riusciti a far sì che le loro indubitabili capacità militari diventassero conquiste politiche consolidate: anzi, l'uso della forza militare ha portato ad esiti politici opposti a quelli voluti. Comprensibilmente, a Washington non c'è molta voglia di ricorrere alla propria decisiva potenza militare per arrivare ad un altro risultato del genere, in special modo per quanto riguarda l'Iran. Detto altrimenti, in AmeriKKKa non si crede più che un intervento militare di forza permetta di arrivare a risultati politici: di qui la guerra fatta sotto copertura, con i droni, a livello telematico e geofinanziario. Si pensa che il ricorso a questi metodi possa permettere all'AmeriKKKa di arrivare almeno a qualche risultato politico, che è venuto invece a mancare sul campo dell'intervento militare di tipo classico.
Nel caso dell'Iran, la situazione è più complicata. Non esiste alcuna garanzia che un'azione militare risoluta da parte degli Stati Uniti (che escluda giusto l'utilizzo delle armi atomiche) contro il programma nucleare iraniano si rivelerebbe un successo militare -i siti sono molti, fortificati e sotterranei- e meno che mai che porterebbe a risultati politici soddisfacenti. La distruzione del programma nucleare iraniano potrebbe di fatto rivelarsi al di là delle capacità militari ameriKKKane, ed anche al di là della stessa volontà politica. Per dirla con Rumsfeld, "il noto sconosciuto" è questo. Questo dato di fatto -e la maggioranza degli alti gradi dell'apparato di sicurezza sionista è d'accordo su un'azione militare limitata- lascia sostanzialmente all'AmeriKKKa una sola realistica possibilità, che è quella di cercare di arrivare, con l'Iran, ad un accordo che preveda delle limitazioni. Vista la condizione politica in cui si trovano gli Stati Uniti, non esistono davvero altre alternative. I toni frustrati che cogliamo nelle comunicazioni che l'amministrazione ha indirizzato ad un Netanyahu insofferente della strategia del dialogo sono dovuti a questo; è come se Obama dicesse sarcastico a Netanyahu "allora, hai qualcosa di meglio da suggerirci? Non sei di nessun aiuto". Sullo Washington Post Fardiz Zakariya ha scritto che "Netanyahu si trova letteralmente nel paese delle meraviglie: ha ritratto uno scenario che non ha alcun rapporto con la realtà".
Sicuramente la narrativa rimane quella che vede nelle sanzioni il fattore essenziale che ha spinto l'Iran al tavolo del negoziato: e le sanzioni possono anche essere inasprite. Ma è vero che sono state le sanzioni a indurre l'Iran a negoziare? A portare l'Iran ai negoziati è stato un sentimento condiviso da una fazione ramificata e relativamente rivolta all'Occidente che vede nello stile relazionale e nella battagliera diplomazia dell'Iran un qualcosa che più di ogni altra rafforzava le sanzioni. Questa corrente, sostenuta dal Presidente Rohani, pensava che cambiando lo stile e la sostanza della diplomazia si potesse arrivare ad un accordo, e di questo è riuscita a convincere l'elettorato. In effetti ha peccato di troppo ottimismo: il fatto di "non essere Ahmadinejad" non è stato di per sé sufficiente a far sì che la politica occidentale cambiasse.
Arrivare ad un accordo con l'Iran sarebbe importante per l'AmeriKKKa anche per un altro motivo: aiuterebbe l'amministrazione ad uscire dal ginepraio rappresentato dalla gestione di un Medio Oriente che non sta più insieme. Il mondo è cambiato sempre più velocemente davanti ad un'AmeriKKKa che non intende impelagarsi oltre nei complessi e ramificati conflitti mediorientali, né osa abbandonare del tutto la regione.
L'AmeriKKKa è dunque in cerca di una posizione nuova e meno ambiziosa: sta cercando una soluzione basata sul bilanciamento dei poteri, una soluzione che sa di diciannovesimo secolo, che magari le permetta di cogliere l'esito di conflitti limitati e congelati sul nascere ma senza azzardare nulla di più. Questi conflitti limitati sono considerati come potenziali strumenti che possano aiutare il raggiungimento di questo equilibrio; possono essere usati per far pendere da una parte o dall'altra in modo corrispondente agli interessi ameriKKKani l'equilibrio tra le quattro potenze della regione, che sono lo stato sionista, l'Arabia Saudita, la Turchia e l'Iran. L'AmeriKKKa sta facendo il vecchio gioco imperiale del divide et impera, ed in questa macchina di bilancieri e controbilancieri l'Iran è un ingranaggio essenziale. Il fatto che lo stato sionista lamenti la perdita del proprio ruolo di alleato privilegiato, dunque, non desta meraviglia. Nel coro dei poteri lo stato sionista è stato declassato al rango di voce tra le altre.
Nel caso gli Stati Uniti raggiungessero i loro obiettivi nell'àmbito di un accordo quadro, la cosa trapelerebbe? Nei fatti l'inconfondibile atteggiamento con cui l'AmeriKKKa si approssima ai colloqui può paradossalmente portare l'Iran a rivolgersi ad est piuttosto che ad ovest. Se le sanzioni non verranno tolte, ma solo sospese ogni sei mesi per decreto per un periodo di vari anni, nessun grosso investitore occidentale nel campo dell'energia cercherà di impegnarsi a lungo termine in Iran a fronte di un orizzonte temporale breve e rinnovato di sei mesi in sei mesi, che rappresenta di fatto una spada di Damocle rinnovata ogni volta e destinata a durare per più di dieci anni. A conferma di tutto ciò si nota che i cinesi, che si erano temporaneamente ritirati facendo pensare che vi fosse spazio per un discusso ritorno degli europei, hanno ricominciato a frequentare l'Iran in gran numero. Un congelamento decennale da parte dell'Occidente finirà quasi certamente per fissare l'Iran, nuove generazioni comprese, nel suo orientamento euroasiatico, sia dal punto economico che dal punto di vista culturale.
Ci sono ancora più dubbi su tutta l'idea che il Medio Oriente così com'è oggi possa essere controllato basandosi sul bilanciamento dei poteri, come se fosse un cubo di Rubik. Nell'Europa del diciannovesimo secolo il concetto ha funzionato in parte perché vi esistevano stati nazionali ben definiti, e perché vi erano una certa stabilità, una visione del mondo relativamente condivisa e anche un certo grado di consenso sulle regole del gioco. Nel Medio Oriente di oggi non esiste nulla di tutto questo. Nessuna delle quattro potenze principali tributa particolare rispetto agli Stati Uniti, nessuna è particolarmente disposta a fare il gioco degli interessi occidentali, ed alcuni tra i principali attori sulla scena non sono neppure degli stati nazionali. Soprattutto non esiste alcuna stabilità: anzi, si assiste al suo continuo erodersi, ovunque. In che modo un approccio basato sul bilanciamento dei poteri potrebbe aiutare a risolvere la situazione in Libia, per esempio?
Che altro potrebbe fare l'AmeriKKKa? La domanda, forse, non ha risposta. E' più probabile che saranno gli stati della regione a cercare di raggiungere una situazione di equilibrio per proprio conto, senza alcun riguardo per i progetti degli Stati Uniti.
E l'Iran, quali possibilità ha? E' o non è tagliato fuori dal sistema finanziario globale occidentale, escluso dalla cosiddetta comunità internzionale e colpito dalle sanzioni? In realtà l'Iran non è così isolato, anzi. Russia e Cina non chiedono di meglio che di stabilire relazioni strategiche con l'Iran, e la gran parte del mondo non occidentale è disposto a stabilire relazioni politiche e commerciali più strette. La situazione strategica dell'Iran in Medio Oriente è consolidata e si sta rafforzando in Iraq, in Siria e nello Yemen. SUl fronte interno in Iran la società si presenta più coesa, dopo i disordini del 2009. L'Iran ha presentato domanda per entrare nell'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione e potrebbe esservi ammesso a partire dalla prossima estate.
Le sanzioni e il crollo nel prezzo del petrolio hanno sicuramente avuto i loro effetti, ma le esportazioni di beni petroliferi e non hanno continuato a crescere bene. Ancora più significativo è il fatto che i mutamenti sul piano geoeconomico stanno cambiando anche i calcoli iraniani: la Cina ha proposto un corridoio economico euroasiatico che passa dalla Turchia e che ha offerto al Medio Oriente un polo di attività economica alternativo a quello europeo. I percorsi e le opportunità commerciali stanno subendo mutamenti sostanziali a causa della volontà russo-cinese di realizzare un sistema finanziario, commerciale e di transazioni alternativo a quello basato sul dollaro.
L'Iran ha già abbandonato il dollaro come moneta commerciale. Il sistema economico non basato sul dollaro si espande, perché è già stato lanciato un sistema di transazioni finanziarie SWIFT alternativo che prevede scambi tra banche centrali in valute che non sono il dollaro ed anche un ipotetico sistema bancario "a giurisdizione non-dollaro" attualmente in fase di messa a punto a cura di Cina e Russia. Gli iraniani adesso possono cercare un'alternativa con più calma, e cominciano ad essere stanchi di rimanere attaccati all'eterno dilemma sull'abolizione o meno delle sanzioni.
L'Iran, dunque, un'alternativa pensa di averla. Ma l'Iran potrebbe anche acconsentire ad un accordo di tipo politico, ad un accordo che non risolve il conflitto in corso con gli Stati Uniti. Per quale motivo? Perché l'Iran sa bene che almeno per adesso gli Stati Uniti non stanno cercando di inasprire i toni, tutt'altro. L'AmeriKKKa ha bisogno dell'Iran per uscire più agevolmente dall'Afghanistan, ha bisogno dell'iniziativa parallela che l'Iran sta conducendo per contenere o per sconfiggere lo Stato Islamico, ha bisogno dell'Iran per trovare una soluzione in Siria, in Libia e nello Yemen. In altre parole, l'AmeriKKKa avrà bisogno dell'aiuto discreto dell'Iran in molti campi, e questo comporta la conferma, sia pure indiretta, del suo status di potenza regionale. Sul campo stanno accadendo cose che già mostrano che in Medio Oriente vige un nuovo equilibrio dei poteri sul terreno; un accordo politico rifletterebbe in qualche misura questo cambiamento, e forse farebbe scendere la tensione con l'AmeriKKKa anche se la situazione delle sanzioni rimane in gran parte la stessa.
Se in AmeriKKKa si prende un'altra strada perché la campagna per le elezioni presidenziali promette di rispolverare la retorica dell'interventismo, o se il Congresso inasprisce le sanzioni, l'Iran riprenderà probabilmente il suo programma di arricchimento, e ricomincerà ad arricchire uranio al venti per cento.
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