Traduzione da Conflicts Forum.
Com'è la situazione nei paesi arabi del Medio Oriente alla fine del 2013? Sappiamo tutti che le cose vanno male, e non intendiamo aggiungere cose tristi a già presenti -e spesso mal riposte- tristezze ripassando la lista di tutto quello che non va, come il franare dei modelli di governance che lo caratterizzano, da quello tipico dei paesi del Golfo a quello turco passando per lo ikhwani dei Fratelli Musulmani, il cedimento delle strutture di pensiero e delle istituzioni nazionali, l'implosione delle identità, il pervasivo crollo dei sistemi statali, la rottura del contratto sociale e l'esplosione di insurrezioni di vario genere, ma tutte anti-sistema. Intendiamo però chiederci a che cosa stiamo facendo da spettatori, e perché in Occidente non si è capito nulla della realtà mediorientale. Si tratta di un interrogativo appropriato, specie in un momento in cui una serie di notabili occidentali e di figure istituzionali vanno dicendo, dopo due anni di guerra e di lutti, che la cosa migliore per la Siria, tutto considerato, sarebbe che il Presidente Assad conservasse il potere. Come mai si sono sbagliati tanti calcoli e tanto spesso, e con esiti tanto distruttivi?
Per meglio capire cos'è successo negli ultimi tempi, dovremmo forse rifarci ad un periodo precedente della travagliata storia regionale. Non si tratta di un vero e proprio paragone con l'oggi, ma pensiamo aiuti a capire qualche cosa della crisi in atto. E' un qualcosa che si collega a quello che gli storici definiscono "la grande trasformazione", iniziata in Europa nel XVIII secolo. La grande trasformazione si basava su una filosofia morale che considerava il benessere dell'umanità in generale come qualcosa di contingente rispetto all'operare efficiente dei mercati. Strettamente connessa a questo concetto c'era un'altra idea, mutuata dal puritanesimo inglese e profondamente radicata nella storia anglosassone, che vedeva la mano invisibile della Provvidenza operare anche nella politica e nell'economia. Lasciata libera di agire, questa mano invisibile sarebbe intervenuta per portare ad un risultato altrettanto ideale. Uno dei punti fermi di questa concezione era che le contorsioni e le traversie della contesa politica tra tribù anglosassoni agli inizi della loro convivenza avessero finito per dare origine ad una spontanea armonia e ad un assetto politico stabile, cosa che apparteneva più al mito che alla realtà. L'idea che esistesse un "mercato politico" in cui funziona una competizione armonica e ordinata grazie all'intervento della "mano invisibile" è alla base della convinzione dei puritani inglesi che le istituzioni anglosassoni e le loro strutture democratiche costituissero un compendio di libertà personale e di giustizia, e che fossero sorte spontaneamente. Simili idee trovarono nella loro interezza terreno fertile in AmeriKKKa, e restano influenti anche al giorno d'oggi.
Questo modo di pensare ha prepotentemente dominato la politica occidentale per più di trecento anni. A partire dagli anni Venti del passato secolo, la sua penetrazione in Medio Oriente lo ha portato letteralmente sull'orlo del disastro, in una crisi in cui è a mala pena riuscito a rimanere in piedi. Come già successo in Europa, il travolgente impatto dell'ingegneria sociale e lo stradicamento delle popolazioni che questo modo di intendere le cose pretendeva in nome dell'efficienza dei mercati sono stati autentici traumi. Le conseguenze negative dell'industrializzazione e dello sradicamento sono state tali, nell'Europa del XIX secolo, da sfociare in rivoluzioni sanguinose. Queste idee occidentali, che comprendevano il concetto secondo il quale la riforma dell'economia passava dalla secolarizzazione, sono state fatte proprie con il prestante zelo dei neoconvertiti dai capi politici della Turchia, della Persia e dell'Egitto.
Circa cinque milioni di musulmani europei sono stati cacciati dalle loro case tra il 1821 e il 1922, epoca in cui l'Occidente sosteneva gli stati nazionali a maggioranza cristiana in quelle che un tempo erano state le provincie occidentali dell'impero ottomano. La decisione dei Giovani Turchi di imitare in Turchia la modernizzazione europea laica e liberalmercantile venne pagata a prezzi enormi. Morirono un milione di armeni e duecentocinquantamila assiri, mentre un milione di greci ortodossi fu espulso dall'Anatolia. L'identità curda fu soppressa per legge; Kemal Ataturk demonizzò l'Islam e lo abolì. Le istituzioni islamiche furono chiuse, e dopo millequattrocento anni fu abolito il califfato. Tutto questo per creare uno stato nazione forte e centralizzato, potente quanto bastava a condurre ad una struttura sociale "moderna" e liberalmercantile.
Meno evidente ma altrettanto distruttivo fu il concomitante sradicamento di uomini e donne dal loro contesto comunitario, la loro deprivazione culturale, la loro separazione dai valori e dalle tradizioni. Privi di un orientamento, orbati della loro cultura e ridotti allo sbando, molti si diedero al socialismo radicale o alla rivoluzione islamica.
Nel riallineamento che seguì la Grande Guerra, le potenze in carica instaurarono in Medio Oriente un sistema di blocchi di potere in competizione tra loro, definendo differenze etniche, settarie o tribali in modo che rispecchiassero gli interessi delle potenze europee influenti. Le autorità che ne risultarono non avevano alcuna base che rispecchiasse un qualche contratto sociale e potevano rimanere al loro posto soltanto con l'uso pesante della forza e con la repressione dei centri di potere rivali. Non sorprende il fatto che nel corso degli anni Venti molti giovani si mettessero in cerca di un nuovo modo di pensare e diventassero fieri oppositori del sistema.
Nel corso degli ultimi trent'anni, l'Occidente e ancora una volta i suoi addentellati mediorientali sono rimasti prigionieri di un armamentario ideologico altrettanto potente, rappresentato dall'orientamento neoliberale del conservatorismo ameriKKKano; tradizionalmente, il conservatorismo ameriKKKano è stato per lo più isolazionista e non interventista. Nel corso degli ultimi dieci anni questa ideologia potente, perseguita dall'Occidente e dai suoi alleati regionali, si è dimostrata altamente nociva. Non si tratta soltanto dei milioni di profughi dall'Afghanistan, dall'Iraq, dalla Palestina e dalla Siria e delle guerre e delle sofferenze, ma soprattutto del fatto che, ancora una volta, a monte di tutto questo c'è stato un modo di intendere la politica in cui le persone vengono ridotte a meri individui, sradicate dalla loro comunità, dai loro valori tradizionali, dall'attaccamento al contesto locale, alla loro identità e in fin dei conti private della loro autostima. In fin dei conti, è stato questo uno dei principali obiettivi della globalizzazione: chi condivide questo modo di pensare è portato più che altro a concludere che per arrivare ad una modernità globalizzata sia necessario fare tabula rasa: spazzar via tutto e rifondare la psicologia umana in modo da allentare i condizionamenti della tradizione e preparare le persone alla modernità. Di qui il loro interesse per lo shock and awe e per le implicazioni psicologiche degli effetti delle crisi.
A differenza del primo periodo compreso tra il 1820 ed il 1920, in cui le trasformazioni furono di tipo essenzialmente strutturale e fisico, la trasformazione attualmente ancora in corso non è stata pensata come altrettanto fisica, milioni di profughi nonostante, quanto come una "distruzione della consapevolezza" ottenuta con una serie di trasformazioni e cambiamenti che hanno impatto sull'esistenza, come in Iraq, e con la diffusione di una determinata narrativa e con l'utilizzo dei mass media. Nel caso del Medio Oriente la narrativa utilizzata è quella che si basa sulla "democrazia" e sulla "libertà", i due ideali di fondo della Grande Trasformazione europea, guidata ai vecchi tempi dai puritani. Cromwell usò esattamente la stessa narrativa quando parlò nel 1658 al parlamento inglese. Il problema è che oggi i concetti di "democrazia" e di "libertà" sono stati velocemente compendiati nella dottrina Carter, secondo la quale gli Stati Uniti non avrebbero accettato che in Medio Oriente si affermasse un qualche governo a loro ostile, e che poco o nulla è cambiato rispetto a prima: gli oligarchi emersi dall'accordo Sykes-Picot sono andati avanti tranquillamente, con il sostegno di corpi armati tanto forti quanto parziali.
In poche parole, almeno dagli anni Venti non esiste alcun autentico contratto sociale tra popolo e governanti, o tra governanti e popolo. Soprattutto, non c'è stato alcun tentativo di costruire delle vere nazioni o delle società. E' in particolare il caso dei paesi del Golfo, in cui l'abbondanza dei petrodollari ha permesso di bypassare l'incombenza di costruire delle nazioni vere e proprie; il problema è stato semplicemente eluso. Al contrario, si è affermata in tutta la regione una élite esclusiva e considerevolmente ricca, che ha tagliato ogni legame con le proprie radici e dalle proprie comunità per meglio corrispondere alla virtuale e deculturalizzata comunità dei veramente ricchi. In Medio Oriente la dottrina economica classica secondo cui i benefici economici procedono dall'alto verso il basso non ha trovato alcun riscontro.
In Russia il Presidente Putin ha fatto tesoro di una storia non diversa ed ha sviluppato un'ideologia antisistema di tipo conservatore come reazione all'esperienza russa che è passata prima dalla modernità marxista disgregatrice dell'identità e poi dalla modernità globalizzatrice di tipo neoliberale. In un recente discorso alla Duma, Putin ha parlato della necessità di un nuovo conservatorismo. Un conservatorismo che dovrebbe essere definito come un nuovo approccio fondato, secondo Fyodor Lukyanov, sul "fatto che ogni [progresso], oggi, si tradurrà per forza in un risultato negativo". In altre parole, il perseguimento della modernità secondo l'approccio neoliberale si è tradotto ovunque in qualcosa di dannoso, e di strategicamente incoerente nei suoi esiti.
Putin sostiene che la disparità tra i valori tradizionali [dei russi], del senso di appartenenza, dei valori familiari, del modo di crescere i figli e la nuova gamma di valori europea che scaturisce dall'universalismo è troppo grande, e che i valori russi devono essere protetti. In altre parole, ogni nazione ed ogni cultura sono uniche e soprattutto ogni sistema di valori ha una propria identità specifica. Putin sta in effetti avanzando un nuovo conservatorismo strategico che rifiuta il globalismo liberale e che si rifà ad una dimensione nazionalista per quanto riguarda i suoi concetti fondamentali di sovranità e di legittimazione. Ha descritto questi valori come conservatori non nel senso di qualcosa che si oppone al progresso, ma nel senso di qualcosa che previene un regresso, la caduta in un abisso morale. In quest'ottica, il progresso non è il progresso della modernità, quanto il desiderio di tornare a ciò che è umano, a ciò che Baudelaire ha descritto in questo modo: "Progredire non significa avanzare o conquistare, ma ritornare e ritrovare... Il progresso dunque, l'unico progresso possibile, consiste nel voler ritrovare l'Unità perduta..." (si veda qui per una più ampia discussione sulle implicazioni delle idee di Putin [in francese]).
In un certo modo, Putin ha indicato la nautra della crisi in Medio Oriente, anche se si stava riferendo alla Russia. Patrick Buchanan (un conservatore ameriKKKano che non si riconosce nella corrente neo-con) ha notato, in uno scritto intitolato "Putin è uno di noi [conservatori]?" che Putin sta cercando di ridefinire quello che sarà il conflitto mondiale del futuro inteso come un "noi contro di loro" nei termini di un conflitto in cui conservatori, tradizionalisti e nazionalisti di ogni continente e di ogni paese si oppongono all'imperialismo ideologico e culturale di quello che egli considera un Occidente in decadenza, i cui valori globalizzanti mettono adesso in difficoltà molti paesi.
"Noi non andiamo contro l'interesse di nessuno", ha detto Putin, "e neppure cerchiamo di insegnare a qualcun altro come vivere". Il contendente che ha identificato non è, secondo Buchanan, "l'AmeriKKKa in cui siamo cresciuti, ma quella in cui viviamo oggi, che Putin considera pagana e sfrenatamente progressista. Senza fare il nome di alcun paese, Putin ha denunciato 'i tentativi di rafforzare i modelli di sviluppo maggiormente progressisti' in altri paesi, cosa che ha portato a 'declino, barbarie e spargimento di sangue'"; secondo Buchanan "un colpo diretto agli interventi degli Stati Uniti in Afghanistan, Iraq, Libia ed Egitto".
Buchanan si avvicina al punto, ma non abbastanza. Il conservatorismo di Putin viene formulato in termini antipolari ed antisistema e secondo molti mediorientali si tratterebbe di una posizione di resistenza. Il Presidente Assad o Sayyed Hassan Nasrallah approverebbero. Non occorre molta immaginazione per capire quale attrattiva queste idee avraanno in Medio Oriente: esse forniscono la base per una nuova piattaforma regionale attorno a cui gli stati sovrani possono unirsi, e che potrebbe imporre una direzione univoca alla politica russa.
In un altro senso, il discorso di Putin si inserisce nel dibattito a lungo preesistente e che risale al XX secolo sul come il Medio Oriente o i musulmani in genere vivono nel mondo contemporaneo senza perdere senso di appartenenza alla comunità, radici locali, tradizioni, valori e identità. Le insurrezioni arabe si focalizzavano in modo preciso sulla perdita dei valori in politica ed in economia e sulle conseguenze di essa per il tessuto sociale. Lo stesso interrogativo si è presentato anche in Europa per la "grande trasformazione" nel sud del continente nota come "dottrina dell'austerità"; si vedano a questo proposito le proteste antisistema in corso nella penisola italiana in questo periodo. La sensazione che le anima in profondità è che le élites europee siano responsabili di aver stracciato il contratto sociale dell'Europa.
Per questo, non esistono risposte; è più facile formulare l'idea di un "ritorno ad un modo di vita umano" che non trasformare questo concetto in qualcosa di praticabile a livello politico. Il problema, nondimeno, resta questo e sarà un cammino pericoloso perché certa gente sarà capace di qualsiasi cosa perché le cose restino come sono; qualcuno farà un'istituzione dell'Islam intransigente, qualcun altro di un altrettanto intransigente laicismo; qualcuno si adopererà per la rivoluzione, qualcun altro per dare fuoco a tutto. Ci vuole un bel coraggio per affermare che il risultato di tutto questo sarà la stabilità e che nei prossimi anni si avrà un ritorno all'ordine.
Come mai così tanti in Occidente sbagliano tanto spesso, quando si parla di Medio Oriente? Secondo noi è sempre una questione di narrativa; la narrativa della "democrazia", la narrativa della "libertà", o anche la narrativa del "la caduta del Presidente Assad è una questione di quando, non di se". Abbiamo spiegato come queste narrative abbiano un'origine puritana vecchia di vari secoli e siano profondamente radicate. Nella nostra epoca il pensiero politico interno all'orientamento conservatore ameriKKKano dei "neo-con" ebbe molto a preoccuparsi a causa dell'ambiguità dei giovani per la guerra in Vietnam. Rifacendosi al pensiero originariamente formulato da Carl Schmitt e poi fatto proprio dalla Scuola di Chicago, questi pensatori giunsero alla conclusione che un paese intento a mantenere la propria potenza e la propria posizione non potesse concedere nulla a questa ambiguità morale; i nemici dovevano essere ritratti in maniera tale da farne degli "altri" così assoluti e così assolutamente malvagi da rendere impossibile ogni ambiguità morale nei loro confronti. Di qui l'insistere su una sola narrativa. La narrativa, da questo punto di vista, rappresenta l'arma più potente negli arsenali per la cosiddetta "guerra di quarta generazione" (si veda qui). La narrativa diventa "la realtà che noi costruiamo", come ebbero a dirci conservatori "neo-con" nel 2003.
Non c'è dubbio che si tratti di una narrativa potente (lo si vede in Siria) ma insistere in questo modo su una narrativa basata su un semplicistico bianco e nero può avere le conseguenze che ha il fidarsi di un'arma a doppio taglio, nonostante la sua efficacia come arma nella guerra psicologica. Adottarla significa rendersi ciechi su qualunque altro aspetto di un conflitto, che viene semplicemente negato perché ostacola il mantenimento di una narrativa che non ammette sfide. In fin dei conti i responsabili della politica finiscono per credere alla loro stessa narrativa, che li intrappola fino a quando gli eventi, come sta succedendo in Siria, non si incaricano di esporne le falsità in modo definitivo e doloroso.