lunedì 29 aprile 2013

L'aggressione della NATO alla Jamahiria Araba di Libia Popolare e Socialista: ecco come i sostenitori dei diritti umani sono riusciti a fare più schifo dei neoconservatori


Recensione di Slouching Towards Sirte: NATO's War on Libya and Africa di Maximilian Forte, pubblicata su Asia Times da Dan Glazebrook.

Negli ultimi tempi i mass media hanno messo la sordina alle notizie sulla Libia. E' chiaro che agli imperialisti liberali non piace rimestare nei propri crimini, e la cosa non sorprende. Il modus operandi dell'imperialismo umanitario non è fatto di riflessioni informate, ma di una continua delegittimazione dei leader del sud del mondo; nel mondo sovvertito dell'interventismo liberale l'unico crimine di cui l'Occidente è capace si chiama "fallimento nell'azione".
Nel modo di vedere di Maximilian Forte, il codice morale degli interventisti liberali afferma che "Se non passiamo all'azione siamo responsabili per le azioni altrui. Se invece passiamo all'azione, non siamo responsabili per le nostre". Dopo la morte di Muhammar Gheddafi, c'è bisogno di un'altra figura odiosa su cui spargere veleno, come il Presidente della Repubblica Araba di Siria Bashar al Assad, o il leader nordcoreano Kim Jong Un; spargere veleno dà molta più soddisfazione che non soppesare davvero quale sia il proprio ruolo nella creazione delle umane miserie. Ecco la mentalità colonialista della feccia liberale.
Gli esecutivi che ci portano in guerra ritengono del tutto logico pestare i piedi perché si invada un paese prima e ancora di aver smesso di considerare l'invasione precedente. Se per esempio interiorizzassimo il fatto che bombardare la Serbia nel 1999 -secondo quanto prescritto dal bignami dell'intervento umanitario- non ha fatto altro che facilitare quella pulizia etnica del Kosovo che si pensava di impedire, potremmo non essere altrettanto pronti a pretendere lo stesso trattamento per ogni altro paese che si discosti dai nostri illusori ideali.
Ecco perché questo libro è importante. Frutto di ricerche a tutto campo e ricco di riferimenti precisi, racconta la storia dei veri obiettivi e delle vere conseguenze della guerra in Libia nel contesto del suo inquadramento storico.
Uno degli intenti che il testo raggiunge è quello di demolire per intero le pretese giustificazioni della guerra. Forte ci dimostra che le "truppe di Gheddafi" non hanno commesso alcuno "stupro di massa", come invece affermavano all'epoca Susan Rice in qualità di rappresentante permanente degli USA all'ONU, l'ex Segretario di Stato Hillary Clinton, e il pubblico ministero del tribunale penale internazionale Luis Ocampo, e come successivamente smentito da Amnesty International, dall'ONU e persino dallo stesso esercito statunitense.
Con buona pace dei mass media e dei loro reportage isterici, non c'è alcuna prova del fatto che i dimostranti siano stati oggetto di bombardamenti aerei; la cosa l'ha ammessa persino l'ex capo della CIA Robert Gates. Gheddafi non aveva pianificato alcun massacro a Bengasi, come invece asserivano rumorosamente i capi di governo britannici, francesi e statunitensi. Le truppe governative libiche non hanno commesso massacri contro la popolazione civile in nessuna delle città di cui avevano ripreso il controllo, né Gheddafi aveva minacciato di fare qualcosa di simile a Bengasi.
In un discorso che i mass media occidentali hanno praticamente tutti riportato in maniera distorta, Gheddafi aveva promesso che non avrebbe avuto pietà per quanti avevano preso le armi contro il governo e allo stesso tempo prometteva l'amnistia per quanti avevano "gettato le armi"; in nessun punto del discorso minacciava rappresaglie contro i civili. Quando l'aggressione della NATO ebbe inizio, i jet francesi bombardarono di fatto una piccola colonna di blindati libici in ritirata nei sobborghi di Bengasi, composta da quattordici carri armati, venti blindati da trasporto truppe, qualche camion e alcune ambulanze: nel complesso nulla che fosse in grado di commettere un "genocidio" a carico di un'intera città, come si voleva dare a intendere.
L'immagine dei "manifestanti pacifici che vengono massacrati" rappresenta dunque un completo stravolgimento della realtà. Piuttosto, scrive Forte, i ribelli "hanno incendiato centrali di polizia, fatto irruzione nelle installazioni dei servizi di sicurezza, attaccato gli uffici del governo e dato veicoli alle fiamme" fin dal primo momento; a questi atti le autorità hanno risposto con "lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma": metodi molto simili a quelli in uso nelle nazioni occidentali contro manifestanti ben più pacifici, nei quali manca l'intento della sedizione". Solo dopo che i ribelli hanno occupato le caserme di Bengasi, ne hanno saccheggiato le armi ed hanno iniziato a usarle contro i militari governativi la situazione ha iniziato a peggiorare.
La più devastante delle menzogne che hanno preparato il terreno all'aggressione in Libia è stato il mito del "mercenario africano". I pogrom razzisti sono stati una caratteristica della ribellione libica sin dal suo primo divampare: cinquanta migranti dall'Africa subsahariana sono stati bruciati vivi ad Al Bayda il secondo giorno dell'insurrezione.
Secondo un resoconto di Amnesty International del settembre 2011 non si trattò di un caso isolato. "Quando Al Bayda, Bengasi, Derna, Misurata ed altre città sono cadute sotto il controllo del Consiglio Nazionale di Transizione lo scorso febbraio, le forze ostili a Gheddafi sono andate casa per casa, hanno commesso omicidi ed altre azioni violente" contro persone dell'Africa subsahariana e contro libici di pelle scura; "Quello che sta accadendo nella Libia occidentale è in linea con quello che abbiamo già visto a Bengasi e a Misurata dopo che queste due città sono cadute in mano ai ribelli": incarcerazioni arbitrarie, torture ed esecuzioni di persone di colore.
Il mito del "mercenario africano" è stato creato apposta per giustificare i pogrom e i mass media occidentali hanno pressoché per intero definito "mercenari" -o "presunti mercenari", nel caso di quelli più ponderati e competenti- le vittime di essi, indicandole come aggressori e come legittimi obiettivi.
Questa storia è stata per intero confutata da Amnesty International: un suo incaricato ai limiti dell'esasperazione riferì ad un intervistatore televisivo che Amnesty aveva "Esaminato con molta cura la questione, senza trovare alcuna prova a riguardo: i ribelli hanno diffuso queste dicerie ovunque, con conseguenze terribili per i lavoratori immigrati dall'Africa". Una commissione dell'ONU è arrivata alle stesse conclusioni, ma tutto questo è successo soltanto dopo che entrambi le organizzazioni avevano già aiutato la diffusione delle stesse menzogne.
Il fatto che i sostenitori liberali dei diritti umani abbiano scatenato una guerra di aggressione per facilitare massacri a sfondo razziale non è una cosa ironica come potrebbe sembrare di primo acchito. Forte scrive che "se quanto accaduto deve essere definito intervento umanitario, la denominazione è giusta solo se non si considerano gli  africani come membri della specie umana".
Il non considerare gli africani come uomini è una prassi sistematica del liberalismo che dai tempi di John Locke passa dalla guerra d'indipendenza americana e attraversa gli imperialismi del diciannovesimo secolo arrivando anche più in là. Forte sostiene che "la paura a sfondo razziale di babau africani che si aggirano per la Libia come zombi" è, a malapena velata, implicita nella storia del "mercenario africano" e che è stata formulata al preciso scopo di rientrare nel filone, storicamente ricco, delle fantasie europee in materia della iattura rappresentata dalle rivolte dei neri. Il fatto che la diceria abbia preso tanta forza a dispetto della sua totale inconsistenza, scrive Forte, "ci dice molto sul ruolo dei pregiudizi razziali e della propaganda nella mobilitazione dell'opinione pubblica occidentale e nell'organizzazione delle relazioni internazionali".
Il razzismo dei ribelli non è stato utile soltanto a mobilitare l'opinione pubblica europea. Ha avuto anche una funzione strategica, almeno per quanto riguardava gli strateghi della NATO. Portando al potere un governo virulentemente ostile ai neri, l'Occidente si è assicurato che la linea di condotta politica della Libia come paese panafricano terminasse bruscamente e che le sue ricchezze petrolifere non venissero più usate per lo sviluppo dell'Africa.
Forte spiega in modo stringato che "l'obiettivo dell'intervento militare statunitense era quello di scardinare l'intento di indipendenza che stava emergendo, assieme alla rete di rapporti di collaborazione con i paesi africani che avrebbe facilitato il crescere dell'autoconsapevolezza dell'Africa, un qualcosa che contrastava con le ambizioni geostrategiche e con le ambizioni economiche e politiche delle potenze europee extracontinentali ed in particolare degli Stati Uniti".
Molto spazio nel libro è dedicato al ruolo in ascesa che la Libia aveva nella creazione dell'Unione Africana e nelle sue successive mosse per l'unificazione continentale sul piano economico, politico e militare. Questo comprendeva l'investimento di miliardi di petrodollari nello sviluppo industriale di tutto il continente, la realizzazione di un satellite africano per le comunicazioni e l'erogazione di massicci contributi finanziari tramite l'African Development Bank e l'African Monetary Fund, istituzioni fatte apposta per sfidare l'egemonia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Gheddafi sottolineava con fervore il fatto che il denaro che la Libia otteneva dal petrolio venisse utilizzato per aiutare l'industrializzazione del continente e per creare "valore aggiunto" ai beni che esso esporta, distogliendo l'Africa dal ruolo che era prescritto che essa avesse nell'economia mondiale come fornitrice di materie prime a buon mercato.
La cosa costituiva una minaccia al controllo che la finanza occidentale e le multinazionali hanno sull'economia dei paesi africani; assieme agli investimenti cinesi in ascesa, veniva ritenuta un ostacolo al predominio occidentale e doveva essere tolta di mezzo. Secondo Forte, "Gli Stati Uniti, la Francia ed il Regno Unito non potevano assistere allo spettacolo di alleati che avevano curato premurosamente, quando non li avevano messi direttamente al potere, che venivano man mano allontanati dalla loro orbita dalla Libia, dalla Cina e da altre potenze".
L'African Oil Policy Initiative Group -un comitato statunitense di alto livelle che comprende membri del Congresso, personale militare e lobbisti dell'industria dell'energia- ha notato nel 2002 la crescente dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio africano ed ha raccomandato che "ci si concentrasse con nuova energia sulla cooperazione militare coi paesi dell'Africa subsahariana, prevedendo la messa a punto di una struttura di comando unificata che operasse in modo significativo a tutela degli investimenti statunitensi".
Si notava anche che "un fallimento nell'affrontare la questione del concentrare e del massimizzare l'organizzazione della diplomazia e del comando militare... potrebbe... involontariamente rivelarsi un incentivo per i rivali degli Stati Uniti come la Cina, e gli avversari come la Libia". In altri termini, in un momento in cui il loro controllo economico sul continente africano viene seriamente messo in discussione, i paesi occidentali dovrebbero ricorrere in misura sempre maggiore ad un militarismo aggressivo per la tutela dei propri interessi.
Le raccomandazioni di questo comitato avrebbero poi trovato realizzazione nel 2006 con la creazione di AFRICOM, il comando militare statunitense in Africa. AFRICOM è stato pensato come una specie di "Scuola delle Americhe" per l'Africa, destinato ad addestrare gli eserciti africani affinché servano da forza di prossimità per il mantenimento del controllo occidentale; nel 2010 la strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha esplicitamente nominato l'Unione Africana come una delle organizzazioni regionali che si doveva cercare di coinvolgere.
La Libia, invece, si è dimostrata assolutamente restia a collaborare. I cablogrammi diplomatici statunitensi indicano con chiarezza che la Libia veniva considerata dagli Stati Uniti come il principale ostacolo all'instaurazione a tutti gli effetti di una muscolare presenza militare statunitense nel continente africano, perché metteva ad ogni occasione in evidenza la propria "opposizione" ed il proprio "ostruzionismo" nei confronti dell'AFRICOM. Gheddafi era ancora una voce rispettata all'interno dell'Unità Africana, di cui era stato presidente nel 2009; Gheddafi esercitava un'influenza significativa e se ne serviva per capeggiare l'opposizione a quelli che considerava gli obiettivi neocolonialisti di un'iniziativa come AFRICOM.
Nel frattempo gli investimenti cinesi in Africa stavano crescendo in maniera sostenuta, passando dai sei miliardi di dollari del 1999 ai novanta miliardi di dieci anni dopo, togliendo agli Stati Uniti il titolo di maggior partner commerciale del continente. La necessità di una presenza militare statunitense che tutelasse la declinante influenza occidentale diventava sempre più impellente. Ma l'Africa non stava al gioco e Gheddafi era giustamente considerato come quello che suonava la carica.
Andiamo velocemente al 2012. Il generale statunitense Carter Ham, capo di AFRICOM, può dire che "la condotta delle operazioni militari in Libia rappresenta adesso l'opportunità di stabilire una collaborazione militare con la Libia, cosa fino ad oggi inesistente". Carter Ham si è spinto fino a ventilare l'ipotesi di una base statunitense nel paese (Gheddafi aveva espulso statunitensi e britannici poco dopo aver preso il potere nel 1969), dicendo che sarebbe stato necessario un qualche genere di "assistenza", sottoforma di una "presenza militare".
Il Presidente Obama non ha perso tempo ed ha anunciato che soldati sarebbero stati dislocati in altri quattro paesi africani entro poche settimane dalla caduta di Tripoli, e da AFRICOM hanno annunciato una tornata senza precedenti di esercitazioni congiunte in Africa: quattordici, da tenersi nel corso dell'anno successivo.
L'aggressione NATO non ha soltanto distrutto una potente forza che si batteva per l'unità e l'indipendenza dell'Africa ed un ostacolo piuttosto rilevante alla penetrazione militare occidentale nel continente, ma ha anche posto condizioni perfette da accampare a giustificazione di ulteriori invasioni.
Gli Stati Uniti avevano già cercato di sostenere che la loro presenza militare in Nord Africa era necessaria per combattere Al Qaeda; il programma transsahariano contro il terrorismo è stato realizzato per questo. Ma come ebbe a spiegare Muattasim Gheddafi a Hillary Clinton a Washington nel 2009, il programma era diventato superfluo perché esisteva già una strategia di sicurezza molto efficiente basata sul CEN-SAD, la Comunità degli Stati del Sahara e del Sahel guidata dalla Libia, e sulla North African Standby Force.
Come nel più classico dei casi del racket delle protezioni, gli inglesi, gli statunitensi e i francesi decisero che se della loro protezione non c'era bisogno, avrebbero pensato loro stessi a far sì che questo bisogno ci fosse. La distruzione della Libia ha colpito al cuore il sistema di sicurezza nordafricano, ha riempito tutta la regione di armi e ha fatto diventare la Libia un rifugio sicuro e privo di governo per milizie dedite alla violenza. L'instabilità che ne è risultata, e che era per intero prevedibile, si è diffusa in Mali e l'Occidente se ne sta servendo come scusante per un'altra guerra e un'altra occupazione.
Il libro è stato pubblicato prima della recente invasione francese in Mali: in un ammonimento in cui prevede il futuro, Forte ha scritto che "intervento armato causa intervento armato: per risolvere i problemi causati da un intervento militare, ne serve un altro".
Il libro esprime in modo incisivo anche l'ideologia dell'industria dei diritti umani ed il ruolo che essa ha nella guerra in Libia. L'umanitarismo liberale occidentale, pensa Forte, "può funzionare soltanto se prima si crea in modo diretto o indiretto una sofferenza a qualcuno, e se poi si considera ogni mano come una mano tesa, in un gesto di supplica o di benvenuto". Forte spiega come funzionano i gruppi come Amnesty International o Human Rights Watch, che hanno contribuito a rafforzare alcune delle peggiori menzogne su quanto stava succedendo in Libia come le invenzioni sui "mercenari africani" o sugli "stupri di massa"; nel caso di Amnesty, essa "per giorni interi dopo l'inizio dell'insurrezione, e anche ben prima di essa, ha avuto la possibilità di accertare, di convalidare o di convermare qualsiasi fatto si verificasse sul terreno... invece ha iniziato a lanciare in pubblico accuse contro la Libia, contro l'Unione Africana e contro il Consiglio di Sicurezza dell'Onu per non essere riusciti ad intervenire".
Invocando il congelamento dei fondi libici e l'embargo sulle armi ("e altre azioni concrete ogni giorno che passava") Amnesty "si è di fatto trasformata in una delle parti in lotta"; è entrata a far parte della propaganda bellica e della fabbrica di menzogne messa a punto per facilitare l'invasione.
La cosa, dati i trascorsi di Amnesty, non dovrebbe sorprendere. Soccorrevole, Forte ci ricorda la campagna di Amnesty in favore delle menzogne sui "bambini nelle incubatrici" che fecero da giustificativo alla guerra in Iraq del 1991; molti senatori attribuirono in seguito all'influenza di quella diceria l'essersi pronunciati in favore dell'attacco. In quell'occasione il voto al Senato fu favorevole per soli sei voti di scarto. La guerra del 1991 ha devastato l'Iraq, che aveva appena iniziato a riprendersi dal conflitto con l'Iran, e fece più di centomila vittime. Altre centinaia di migliaia morirono nelle epidemie che infierirono nel paese dopo la distruzione deliberata degli acquedotti e delle fognature.
Poca sorpresa dovrebbe destare il fatto che Suzanne Nossel, funzionario al Dipartimento di Stato nella squadra della Clinton, sia diventata direttore generale della sezione statunitense di Amnesty nel novembre del 2011. Al Dipartimento di Stato la Nossel aveva avuto un ruolo fondamentale per strappare al Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU una risoluzione contro la Libia che era poi servita come piattaforma per la risoluzione numero 1973 del Consiglio di Sicurezza, che a sua volta portò all'aggressione.
Forte mette in luce anche il ruolo di Soliman Bouchuiguir, ex presidente della "Lega Libica per i Diritti Umani", che si rivela essere il Curveball libico. Curveball era il nome della "fonte" irachena che produsse loe menzogne sulle inesistenti "fabbriche mobili di armi chimiche" di Saddam Hussein, che furono usate per giustificare la guerra in Iraq nel 2003. E' verosimile che quanto riferito -ed ampiamente gonfiato- da Soliman Bouchuiguir in materia di vittime abbia fornito il materiale di base per le isteriche risoluzioni dell'Alto Commissariato dell'ONU per i Rifugiati contro la Libia, e dato il calcio d'inizio alla partita della guerra. Bouchuiguir ha ammesso in seguito davanti alle telecamere che non esisteva alcuna prova di quanto aveva asserito... ma questo, dopo che oltre settanta organizzazioni non governative avevano già sottoscritto un appello che "pretendeva che si passasse all'azione" proprio sulla base dei suoi racconti.
In altre sedi è stato scritto molto sui neocon, che sono giustamente odiati a causa del concetto demenziale e manesco che hanno dei mutamenti sociali. Tuttavia i sostenitori liberali dei diritti umani riescono ad essere persino peggiori perché alla fin fine i neocon non hanno mai preteso di essere delle persone intelligenti o interessate a qualcosa di diverso rispetto al loro particolare utile. Pare che i sostenitori liberali dei diritti umani siano guidati -o almeno così garantiscono essi stessi- da una sorta di proposito più nobile, cosa che rende il loro continuo invocare guerre di aggressione ancora più ripugnante.
Forte sintetizza in modo brillante: "Nella concezione del genere umano coltivata dagli imperialisti liberali, gli uomini non sono altro che urlanti sacche di emozioni. Si tratta di una antropologia elitaristica che considera gli esseri umani meri fasci di nervi e di muscoli che fremono di sdegno e si sentono stringere il cuore tutte le volte che viene fuori una storia come quella dei bambini nelle incubatrici, si accalorano per l'arresto della Lesbica di Damasco e arrivano al soccorso quando sentono parlare di stupri di massa fatti a furia di Viagra".
Dall'isteria di massa sul Cinguettatore fino alle centinaia di migliaia che firmano una petizione su Avaaz in cui si invocano i bombardamenti sulla Libia in nome dei diritti umani, finisce che diventiamo tutti nervi di reazione di massa... Vogliamo che si passi all'azione e lo scriviamo sui "media sociali", coi ditini che pestano furibondi sui nostri "smart" phones [*]... Alla fin fine tutto il nostro agire consiste soltanto nel chiedere al macchinario militare controllato dall'alto di darsi da fare a nome nostro". A questa antropologia fa da pendant "la sociologia implicita della NATO, secondo la quale si può rifondare una società tramite un'intensa campagna di bombardamenti da alta quota e con gli attacchi dei droni".
Nel libro si spiega anche il modo preciso con cui è stata rifondata la Libia. Le elezioni del luglio 2012 in Libia per il solo fatto di esistere sono state presentate dai mass media occidentali come se fossero un risarcimento immediato per ogni atto di bassa macelleria che ogni guerra comporta, senza dare alcun peso all'effettiva capacità del parlamento appena eletto di esercitare una qualche influenza sul paese. Ad esse ha partecipato meno della metà del corpo elettorale. Anora più eloquenti i risultati di un'inchiesta condotta in Libia dall'Oxford Research International: solo il 13% dei libici voleva la democrazia entro un anno, e solo il 25% entro cinque anni.
Intanto le nuove autorità si davano da fare per perseguitare i loro nemici, reali o immaginari che fossero. La cittadina di Tawergha è stata vuotata della sua popolazione di circa ventimila libici dalla pelle scura dopo che miliziani provenienti da Misurata, con il sostegno del governo centrale, hanno iniziato a dare sistematicamente fuoco ad ogni casa e ad ogni attività economica.
Gli ex residenti adesso vivono in campi profughi dove c'è chi continua a dar loro la caccia e ad ucciderli, o in condizioni di detenzione arbitraria in carceri alla buona. Sono esclusi dall'elettorato passivo i lavoratori privi di qualifica (per presentarsi è necessaria una qualifica professionale), tutti coloro che hanno avuto impieghi governativi di qualsiasi genere negli anni compresi tra il 1969 ed il 2011 (a meno che non possano dimostrare di aver "prontamente e senza ambiguità" appoggiato l'insurrezione), tutti coloro il cui percorso universitario abbia in qualche modo avuto a che fare con il Libro Verde di Gheddafi, e tutti coloro che sono stati gratificati economicamente da Gheddafi.
Un costituzionalista ha notato che restrizioni del genere finiscono per squalificare il popolo libico. Altre leggi di fresca approvazione proibiscono la diffusione di "notizie, dicerie o propaganda" che possa "essere di nocumento allo stato", con pene che arrivano fino all'ergastolo: il carcere è previsto anche per chiunque diffonda notizie suscettibili di "indebolire il morale della popolazione", per chiunque "attacca la rivoluzione del 17 febbraio, denigra l'Islam, le autorità dello stato o le sue istituzioni".
Ecco la nuova Libia per la quale gli imperialisti dei diritti umani e i loro fiancheggiatori hanno fatto lobby, ucciso e torturato così tanto.
"La prossima volta che l'impero bussa alla porta in nome dei diritti umani, facciamoci trovare in piedi e decisi a resistere", conclude Forte.
Questo volume rappresenta una lettura obbligata per chiunque sia seriamente interessato a comprendere i motivi e le conseguenze dell'aggressione occidentale contro la Libia e contro lo sviluppo dell'Africa.

Slouching Towards Sirte: NATO's War on Libya and Africa di Maximilian Forte. 341 pagine.  Baraka Books (2012). ISBN-10: 1926824520. ISBN-13: 978-1926824529.


Dan Glazebrook è docente e scrittore specializzato nelle relazioni economiche e militari tra Sud del mondo ed Occidente.
L'articolo è originariamente apparso in Ceasefire Magazine.


[*] Gioco di parole difficilmente traducibile: uno smartphone sarebbe un telefono intelligente: l'utilizzo che ne viene fatto mette il più delle volte in discussione questa intelligenza, forse più quella dell'utente che quella dell'apparato.

venerdì 26 aprile 2013

Firenze, quartiere di San Frediano: Insicurezza, degrado e terrorismo (reprise)


 Il 25 aprile nello stato che occupa la penisola italiana si celebra una ricorrenza civile che il gazzettaio "occidentalista" e i ben nutriti buoni a nulla che ne rappresentano la committenza hanno sempre fatto oggetto di campagne denigratorie.
A Firenze i risultati sono stati -come sempre- opposti a quelli voluti perché molto giustamente e molto logicamente una celebrazione informale e priva di referenti istituzionali organizzata da molti anni nel quartiere di Santo Spirito dalle forze politiche e sociali più odiate dagli "occidentalisti" fa regolarmente il pieno di partecipanti.
Quest'anno è stata anche occasione per verificare de visu le condizioni d'i'ddegràdo e della 'nsihurézza in tutta la zona. Un tema cui le gazzettine dedicano ogni giorno moltissima attenzione.
Nella foto in alto si vede uno degli ingressi del giardino Nidiaci. Sulla recinzione qualcuno ha scritto "Non si recingono le libertà dei bambini!".
Davanti sfilano un corteo ed una bandiera No Tav.

Le strade di questa zona della città sono ricche di affissioni dal contenuto sensato, realistico e costruttivo. Ne abbiamo letta una, firmata da almeno una decina di sigle, che denuncia l'aperta collaborazione dei gazzettieri alla campagna mediatica che deve preparare il terreno alla disumanizzazione del quartiere che la politica istituzionale è decisa a perseguire. L'esaltazione gazzettiera di una gendarmeria che si accanisce contro chi dorme per strada, è la sintesi dello scritto, serve ad avallare la cacciata da Firenze di tutti coloro che non  rispettano i criteri di reddito e i comportamenti di consumo reputati come desiderabili dal democratismo di rappresentanza.
Non è dato sapere se gli intenti dei gazzettieri, e ancora di più quelli della politica istituzionale, arriveranno a realizzarsi. Fuori dai ristoranti di lusso che compendiano il mondo e le frequentazioni di questa parodistica élite si vedono soltanto un impoverimento generale ed un precipitare delle sorti destinati secondo i più ad accelerare ulteriormente.

In via del Leone numero sessanta, qualcun altro ha rotto gli indugi ed occupato uno stabile. Sul muro all'angolo, un'altra affissione fornisce indicazioni di massima su come comportarsi per resistere ad uno sfratto. Il testo è tradotto in rumeno ed in arabo.

lunedì 22 aprile 2013

Un matrimonio indiano a Firenze. Chissà se si è bevuto alla salute di qualche fuciliere di marina.


Firenze, aprile 2013.
I foglietti "occidentalisti" raccontano con un mucchio di particolari il matrimonio della figlia di un facoltoso industriale indiano.
La foto sopra fa vedere anche la completa scomparsa d'i'ddegrado e dell'insihurézza (in una parola, dell'insihurezzeddegràdo) dalla piazza in cui si sono svolte le nozze. Sempre secondo le gazzette l'anfitrione avrebbe pagato per tutto quanto più di otto milioni di euro, finiti in varia misura nelle tasche dell'amministrazione fiorentina e di svariate imprese di settore.
Dei rimasugli dell'occidentalame politico fiorentino, nessuna traccia.
Niente Casaggì.
E niente Boutique Pound.
Neanche un fumogeno, per i loro fucilieri di marina.
Neanche un coro da pallonaio.
Neanche uno striscione, anche quello come quelli del pallonaio.
Si vede che le cinquanta persone raccolte a Taranto da una manifestazione in tema hanno indotto a più miti consigli; con numeri del genere tanto vale ritrovarsi in qualche spaghetteria a prezzo fisso, senza stare a scomodare le piazze.
Il blog Pampalea aveva per tempo fatto le uniche considerazioni sensate che si potessero fare. Pecunia non olet.
Provateci un po' a andare a attaccare gli "striscioni per i marò" il giorno del matrimonio della figlia del signor Aloke Lohia, buffoni. Quando si sceglie la strada dei servi, è bene percorrerla e stare zitti. Un servo non ha nessun diritto di sentirsi superiore; è un servo e basta.

sabato 20 aprile 2013

La Repubblica Araba d'Egitto, la Repubblica Araba di Siria e il contesto mediorientale nell'aprile 2013 secondo Conflicts Forum



Traduzione da Conflicts Forum.

I Fratelli Musulmani sono sotto attacco da ogni lato. Un'analisi di parte saudita raffigura Hassan Banna, il fondatore dei Fratelli, come un mero attore politico pragmatico; un'altra nota invece che i Fratelli hanno commesso un errore forse fatale in Egitto quando sono venuti ai ferri corti con Al Azhar -che è il simbolo istituzionale dell'islam sunnita moderato- e con il suo influente sceicco, e quando hanno perso le simpatie dei servizi segreti e del sistema giudiziario.
Ci si può comunque chiedere chi c'è dietro i Fratelli: in uno scritto che vede le cose da sinistra e che si intitola necessità della violenza rivoluzionaria, l'autore sostiene che l'irritazione dei rivoluzionari non è dovuta ai Fratelli in quanto tali, ma al loro tradimento nei confronti di un autentico mutamento sociale che passa dalla condiscendenza da essi mostrata nei confronti di tutte le strutture che fanno capo al potre neocolonialista, rimaste tutte al loro posto con le loro prerogative di violenza tutelata dallo stato a garanzia di interessi radicati. Secondo l'autore dello scritto la risposta consiste nel far fronte alla violenza istituzionale intrinseca nelle strutture neocolonialiste con la violenza rivoluzionaria.
Da un altro punto di vista ancora i Fratelli Musulmani devono affrontare le critiche dell'opposizione siriana in esilio per l'ingerenza esercitata nella sfera politica di essa al fine di mantenerne l'esclusivo controllo (almeno per quanto riguarda le organizzazioni dell'opposizione costituite all'estero). Qui in Conflicts Forum abbiamo già affrontato l'argomento di queste fratture politiche e sociali, che si stanno moltiplicando in tutto il Medio Oriente. I Fratelli tuttavia paiono continuare a non curarsi delle critiche e a proseguire imperterriti e fiduciosi nella costruzione del loro progetto. Forse si sentono più vulnerabili nei confronti delle pressioni dei salafiti e si comportano in modo da venire loro incontro. Alcuni dei Fratelli, ma non tutti, fanno dei veri sforzi per mitigare il brutto settarismo che prevale al giorno d'oggi sottolineando i motivi politici e sociali del conflitto piuttosto che quelli settari, ma anche in questo modo si trovano in ogni caso obbligati a prendere in considerazione l'atteggiamento settario che resta prevalente. Fino ad oggi il centro di tutte queste divisioni politiche e religiose è stato la Siria, ma è verosimile che in futuro le loro irradiazioni si concentrino, attraverso la lente della politica, sull'infiammabile materiale rappresentato dall'Egitto. Ci sono commentatori che parlano con disinvoltura dell'arrivo sulla scena dei militari, come se essi costituissero una soluzione facile. Potrà anche essere, ma quello che è certo anche per le montanti critiche è che i Fratelli Musulmani restano una forza potente e profondamente radicata, specialmente in Egitto. Sarebbe un errore avere poca considerazione per questo, o pensare che i Fratelli Musulmani si farebbero estromettere dalla stanza dei bottoni senza resistere.

La deflagrazione interna all'Islam sunnita radicale e le sue ripercussioni (specie nell'area che va dalla Siria all'Iraq) è ben rappresentata da quanto segue. Intanto che l'attenzione si concentra sulla Siria, ecco cosa succede in un solo giorno, il quindici di aprile del 2013, in Iraq.
1. Almeno settantacinque iracheni sono morti, e altri trecentocinquantasei sono rimasti feriti, in una serie di attacchi in tutto il paese. Solo nell'estremo sud e nel Kurdistan iracheno non si sono verificati fatti di sangue. Molti degli attacchi paiono essere coordinati, e si sono verificati più o meno alla stessa ora del mattino. Hanno anche preceduto di pochi giorni una tornata elettorale locale nella maggior parte delle province. Il governo a guida sciita ha rinviato le elezioni nelle province di Ninive e di Anbar, a forte preponderanza sunnita.
2. A Baghdad le bombe hanno fatto trenta morti e novantadue feriti. Una di queste è esplosa nel sobborgo di Kamaliya facendo quattro morti e tredici feriti: le forze di sicurezza hanno sparato in aria per disperdere la folla. Vicino all'aeroporto due bombe hanno ucciso tre persone e ne hanno ferite altre sedici. Quattro persone sono morte e altre quindici sono rimaste ferite quando degli ordigni sono esplosi al mercato e alla stazione degli autobus di Umm al Maalif. A Karrada un'altra bomba ha fatto due morti e quindici feriti. Un'autobomba a Shurta ha ucciso due persone e ne ha ferite altre nove. Un ordigno a bordo strada ha ferito cinque poliziotti a Baladiyat. Due persone sono rimaste uccise e altre nove ferite in un'esplosione a Habibiya.
3. A Kirkuk almeno nove persone sono state uccise e settantanove ferite da una serie di sei autobombe. In periferia le bombe sono esplose in tre sobborghi di diversa connotazione etnica, facendo pensare che i bersagli non fossero costituiti da un gruppo etnico in particolare. Sono esplosi ordigni in zone arabe, turkmene e curde. Le altre tre esplosioni si sono verificate in sobborghi esterni al centro urbano: una ha avuto per bersaglio la casa di un politico sciita. Uomini armati di fucile hanno ferito un medico nel corso della notte.
4. Alcune esplosioni a Tuz Khormato hanno fatto sei morti e sessantasette feriti.
5. A Mossul uomini armati hanno ucciso un civile. Due persone sono rimaste ferite da bombe a bordo strada. Una coppia di sposi è stata uccisa. Le forze di sicurezza hanno ucciso un uomo che portava una bomba. Un'altra esplosione non ha fatto vittime. Un soldato è morto in uno scontro. Tre poliziotti sono rimasti feriti da un ordigno.
6. A Falluja un attacco suicida con un'autobomba ha ucciso due poliziotti e ne ha feriti altri sei ad un posto di blocco.Un civile è stato ferito a morte. Una granata ha ucciso due civili. Un'altra bomba nella zona sud della città è esplosa senza fare vittime.
8. In una sede di partito a Tikrit quattro persone sono morte e tre sono rimaste ferite da una bomba. Un'altra bomba ha ferito tredici poliziotti.
10. Un poliziotto è stato ucciso a Buhriz dall'esplosione di una granata.
11. Vicino a Ramadi, una bomba che aveva per bersaglio un religioso sunnita leader di proteste antigovernative ha ucciso due delle sue guardie del corpo e ne ha ferita almeno un'altra. Suo cugino era stato ucciso dall'esplosione di una granata a Falluja.
12. Un poliziotto è stato colpito a morte con armi da fuoco a Tarmiya.
13. Una bomba a Khalis ha ucciso un bambino e ne ha feriti otto.
14. Diciannove persone sono rimaste ferite da ordigni nella provincia di Babil.
15. A Dowr, tredici persone sono rimaste ferite da un'esplosione.
16. Sette persone sono rimaste ferite da ordigni lanciati contro l'abitazione di un candidato alle elezioni della provincia di Salah ad Din.
17. A Muqdadiya un'autobomba ha ferito sette persone.
18. A Tal Abta, un'esplosione ha ucciso un poliziotto e ne ha feriti altri due.
19. A Baquba due poliziotti sono rimasti feriti per l'esplosione di una bomba. In un altro caso analogo sono rimaste ferite tre persone.
21. Un giovane 22. Un civile è rimasto ferito per una bomba su una strada di campagna a Bani Saad. 

I più eminenti tra gli "Amici della Siria" (sic) dovrebbero incontrarsi oggi [il 19 aprile 2013, n.d.t.] ad Istanbul. Un ex diplomatico che ha lavorato nella stessa sede scrive: le osservazioni sulla Siria fatte mercoledi dal Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov vanno considerate tra le più perentorie mai fatte. Il suo ammonimento contro un intervento militare straniero significa che se qualcosa di simile si verificasse la situazione continuerebbe a precipitare e l'unico risultato non potrebbe essere altro che l'emergere di Al Qaeda. Lavrov ha affrontato direttamente i cosiddetti "Amici della Siria", il cui obiettivo è quello di rovesciare il governo. Ha detto che "se viene messo in piedi qualcosa che  sia in grado di isolare una delle due parti in conflitto, o che cerchi anche soltanto di farlo, perdiamo ogni possibilità di dialogare e di cercare una via d'uscita che porti ad una soluzione". Queste osservazioni erano dirette essenzialmente allo zoccolo duro degli "Amici della Siria" in procinto di riunirsi ad Istanbul venerdi; secondo i turchi all'incontro parteciperanno almeno dieci personalità, tra le quali il Segretario di Stato statunitense John kerry. A Washington pare che sia il Presidente Obama che il Segretario Hegel si mantengano molto cauti: Hegel ha detto ad alcuni senatori: "Prima di prendere qualsiasi iniziativa farete meglio ad essere più sicuri che potete: una volta che si comincia non si può tornare indietro, se si tratta di una zona con divieto di sorvolo, di un corridoio sicuro... Non è che poi si può dire 'Le cose non vanno bene come pensavamo, sicché lasciamo perdere'". Nonostante le forti pressioni esercitate dalla lobby interventista il Presidente, a nostro modo di vedere, sa che chi parteggia per un'intervento occidentale, anche se sta rumorosamente perorando a favore di una zona con divieto di sorvolo su tutta la Siria o su una parte di essa, deve ancora trovare degli argomenti validi in favore dell'idea che l'uso del potenziale aereo occidentale inciderebbe in modo positivo sulla situazione generale invece che peggiorarla e renderla ancora più ingarbugliata. Negli Stati Uniti si comincia anche a dubitare del fatto che mandare altre armi all'opposizione filooccidentale consentirebbe ad essa di prevalere sul Fronte di Al Nusra piuttosto che il contrario, e del fatto stesso che l'opposizione armata possa giungere alla vittoria. La visita in turchia del Segretario Kerry (la terza) secondo i resoconti (disponibili qui) forse ha a che vedere con il disaccordo statunitense per l'apparente convinzione dei turchi che sia intelligente servirsi del Fronte di Al Nusra (una locale emanazione di Al Qaeda) come strumento per rovesciare il Presidente Assad, sull'assunto del fine che giustifica i mezzi.
 
In conclusione, un giornalista dello stato sionista ha fatto qualche riflessione sull'incontro del comitato politico di Hamas previsto per oggi a Doha. Si tratta del primo incontro della leadership di Hamas dopo che Khaled Meshaal è diventato per la quarta volta il capo del comitato politico dell'organizzazione. Ci si aspetta che dall'incontro emergano decisioni significative, prima fra tutte quella sull'atteggiamento di Hamas nei confronti dello stato sionista e dell'Occidente. L'autore, notando che gli incontri precedenti si tenevano di solito a Damasco, capitale e nucleo dell'"asse di resistenza" e degli intransigenti, si chiede se il cambiamento di sede e di atmosfera non possa influire sul risultato. Il giornalista nota che al contrario di Damasco, l'emiro del Qatar è per mentalità e per orientamento politico interamente filooccidentale. Adesso che i vertici di Hamas sono a Doha, possono accordarsi con lo Hamas di Gaza per un appello a "mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente" o per lanciare una terza Intifada? Hamas sarebbe in grado di lanciare attacchi suicidi in risposta ad un'altra aggressione da parte dello stato sionista? In queste condizioni Hamas può decidere di rinnovare e riformulare le strette relazioni che intratteneva con l'Iran, e farsi finanziare da Tehran? Nell'articolo, nessuna delle tre domande trova una risposta.

lunedì 8 aprile 2013

Enrico Fenzi educatore. Dedicato a Valerio Vagnoli e al "Gruppo di Firenze"


Nell'aprile 2013 un certo Valerio Vagnoli scrive a una gazzetta fiorentina e si proclama infastidito per il fatto che persone a lui invise si "elevino al ruolo di educatori". Bersaglio dell'invettiva era un certo Enrico Fenzi. Della questione si è già lungamente riferito, e al nostro primo scritto rimandiamo chi avesse bisogno di dettagli limitandoci qui a ricordare che secondo Vagnoli chi ha compiuto esperienze di combattente irregolare non avrebbe diritto di parola in materia di letteratura medievale.
Il volume in cui Enrico Fenzi descrive la propria esperienza di combattente irregolare è stato reperito in una biblioteca pubblica della periferia di Firenze, alla quale Valerio Vagnoli potrà indirizzare eventuali contumelie.
In attesa di completarne la lettura e di scriverne una recensione, ne presentiamo alcuni paragrafi, scelti tra quelli che possano maggiormente urtare l'autoritarismo c'a' pummarola di cui si fa professione in certe sedi.
La lettura delle righe che seguono ci ha fatto pensare che Enrico Fenzi possa affiancare alle proprie indiscutibili competenze di letterato anche un'esperienza di vita tale da permettergli di presentarsi come valido educatore. Il nostro auspicio è che il libro di Enrico Fenzi, a cominciare dal brano che segue, venga letto dalla totalità degli allievi delle scuole in cui Valerio Vagnoli esercita, ha esercitato o eserciterà la sua attività professionale, e che essi traggano sul suo conto e sulla sua visione del mondo le conclusioni più adeguate.
Quando sono stato arrestato la prima volta, con Isabella, nel maggio del '79, i carabinieri hanno trovato una pistola nascosta nel camino della nostra casa di campagna, e proprio su quell'arma si è retta allora l'accusa di appartenenza a banda armata. La pistola non era affatto nostra, né l'avevamo messa lì: con ogni evidenza, ce l'avevano messa quelli stessi che poi l'hanno trovata. La cosa è stata fatta in ogni caso in maniera così maldestra che prima il giudice di Chiavari, nel processo per direttissima, e poi quello di Genova, un anno dopo, ci hanno assolti, il che di per sé già la dice lunga sulla questione. Ma non è questo il punto: negli anni successivi, per accenni o per battute, sia io che Isabella abbiamo molte volte verificato come fosse noto e addirittura scontato che quella pistola fosse stata nascosta in casa nostra proprio per incastrarci. Recentemente, avendo subito un furto, Isabella ha avuto occasione di parlare con alcuni carabinieri che ricordavano le nostre passate vicende. Polemicamente è tornato fuori il discorso della pistola, e proprio uno dei carabinieri ha detto allora una frase che mi ha colpito non certo per la sua particolare novità, ma perché appariva così intimamente connessa con la nostra vicenda personale: “Ma signora, cosa pretende? Allora, contro il comunismo c'era l'ordine di fare qualsiasi cosa”. Qualsiasi cosa: dal minimo episodio della pistola messa in casa mia, e del quale per la verità non ho mai pensato di dovermi troppo lamentare, su su allo stupro di Franca Rame, per arrivare sino alle bombe nelle banche, nelle stazioni, nelle piazze e sui treni... Qualsiasi cosa davvero, visto che ho letto tanto tempo fa, su “OP”, il giornale di Pecorelli, un articolo del generale Miceli, allora capo dei servizi segreti, che teorizzava come si dovesse ricorrere all'aiuto della mafia per sconfiggere le Brigate Rosse (in parte, qualcosa del genere è stato poi tentato con Cutolo). La cosa mi torna in mente oggi, quando leggo che il giudice Colombo ha ricordato i patti tra la mafia e gli americani, al tempo dello sbarco in Sicilia: trovo infatti che lo schema del giudice potrebbe utilmente essere aggiornato proprio con quell'articolo che, non fosse che per la firma che portava, non nasceva evidentemente dal nulla.
Tutto questo è il minimo che si possa fare, affinché l'"occidentalismo" fiorentino abbia come sempre dall'intraprendenza dei suoi attivisti il maggior danno ed il maggior ridicolo possibili.

sabato 6 aprile 2013

Invitiamo tutti ad assistere alla lectura Dantis di Enrico Fenzi, prevista a Firenze il 10 maggio 2013


Il Corriere della Sera è una gazzettina che i nostri lettori conoscono bene per le prove di competenza e di professionalità che ha fornito nel corso degli ultimi anni, dando carta bianca a personalità autorevoli e preparate come Oriana Fallaci o Magdi Apostata Condannato Allam.
Sempre a caccia di personalità autorevoli, preparate e soprattutto ben vestite -una caratteristica che in "Occidente" fa fede per le altre due, quando non le supplisce direttamente- l'edizione fiorentina del Corriere della Sera fa sapere ai sudditi che un certo Valerio Vagnoli non vuole che un certo Enrico Fenzi partecipi ad una lectura Dantis.
Valerio Vagnoli è preside di una scuola per ricchi tra le cui attività essenziali rientra roba che si chiama ballo delle debuttanti. Solo che adesso i presidi hanno cambiato nome, e Valerio Vagnoli si fa chiamare dirigente scolastico reggente: segno che quella dei presidi è una categoria che conta un certo numero di appassionati -oltre che del ben vestire- anche delle cariche altisonanti e degli onori ad essi connesse. I nostri lettori ricorderanno Massimo Primerano, il preside del Liceo Carcere Michelangiolo promotore di una specie di regolamento interno in cui il crimen laesae maiestatis nei confronti della sua persona costituiva la più grave delle infrazioni. In questo non c'è nulla di strano perché lo stato che occupa la penisola italiana si fa rappresentare da individui che inveiscono al pallonaio come mangiaspaghetti qualsiasi ogni volta che non passano il tempo a trattare come feccia i sudditi che si dimentichino di conferir loro i titoli cui pensano di aver diritto.
Con questo non si intende affatto sminuire la rappresentatività di quanti dispongano del più miserabile dei brandelli di potere perché obiettivamente i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana non potrebbero trovarsi meglio rappresentati.
Valerio Vagnoli, dal pezzettino di potere che gli spetta come retribuito corresponsabile di una scuola nel sistema in cui non servi a nulla contribuisce anche ad un inane gruppo di Firenze che riunisce quanti non sono ancora soddisfatti del livello di carcerizzazione cui è giunto ogni àmbito della vita associata. Il gruppo di Firenze aiuta i gazzettieri più annoiati fornendo loro materiali utilizzabili per invocare quei giridivite tolleranzazzèro con cui il giornalame denuncia ai sudditi quel persistere di insihurezzeddegràdo tanto utile a mantenere un clima sociale da cui la marmaglia "occidentalista" possa trarre suffragi e soprattutto utili. Ovviamente il gruppo di Firenze non si presenta in modo tanto scoperto, e preferisce asserire di combattere "per una scuola del merito e della responsabilità". Questa sovversione del linguaggio costituisce una prassi abituale della politica "occidentalista" -recentemente definita da Franco Battiato come qualcosa "che non attiene agli esseri umani"- nella quale non esiste bellicista incompetente, obeso e cialtrone che non tenga moltissimo ad autopresentarsi come "moderato".
La politica "occidentalista" è espressione satanica della sovversione e costituisce il male di cui pretende di essere la cura. Nel caso della scuola ci sono i risultati di dieci anni di Inglese, Internet e Impresa, di stigmatizzazione di "professori sessantottini" che nessuno ha mai visto o conosciuto, di demonizzazioni venate di isterismo contro personaggi invisi e di intromissioni ciarliere e delatorie operate da propagandisti miserabili a far fede per chiunque voglia vederli.
Sta di fatto che da tanto documentate basi e da tanto costruttivo ambiente un Valerio Vagnoli statuisce che Enrico Fenzi non deve occuparsi dell'Alighieri. Naturalmente nessuno avrebbe avuto occasione di interessarsi al ristretto mondo degli studiosi dell'Alighieri, e men che meno alla persona di Enrico Fenzi, se la ciarliera intraprendenza del signor Vagnoli non ne avesse fornito occasione. Nell'asserzione di Valerio Vagnoli compare tra l'altro il nome dello stato che occupa la penisola italiana, cosa di cui ci scusiamo con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare. 
«Provo fastidio a vedere personalità che hanno contribuito a dare all’Italia anni di inferno elevarsi al ruolo di educatori. E leggere uno dei poeti che sulla libertà non ha detto delle banalità»
Gli "anni di inferno" sono rimasti nella nostra memoria come un periodo di partecipazione attiva e consapevole alla vita sociale oggi inimmaginabile, e già questo sarebbe sufficiente per accogliere con una risata considerazioni come questa. Potremmo anche aggiungere che come gli "occidentalisti" considerano solitamente le carceri degli hotel a quattro stelle a meno che non si trovino a Tehran, allo stesso modo la guerriglia e i combattenti irregolari non provocano anni d'inferno a nessuno, purché si trovino a Damasco.
E i sindacati non sono certo la rovina del "paese", come vorrebbe la propaganda "occidentalista": basta che agiscano in Polonia.
Wikipedia presenta Enrico Fenzi come docente universitario di letteratura. La stessa gazzetta "occidentalista" in cui fanno l'interesse della committenza dando ascolto ai vagnoli pubblicò nel 1995 un articolo su di lui in cui è elencata una lunga serie di pubblicazioni accademiche. Questo spiega bene l'ostilità di Vagnoli, essendo l'odio per la competenza uno dei tratti fondanti della politica "occidentalista". Le immagini che ritraggono Enrico Fenzi lo raffigurano di solito in abiti sobri e lodevolmente dimessi, cosa che deve aver contribuito ancora di più ad irritare un organizzatore di serate eleganti e a procurargli il ritiro di quel minimo di rispettabilità che gli "occidentalisti" conferiscono alla peggior spazzatura umana disponibile purché abbia l'accortezza di indossare abiti costosi.

Non sappiamo in quanti abbiano assistito alla lectura Dantis di Valerio Vagnoli tenutasi il 25 gennaio al Liceo Carcere Michelangiolo; da parte nostra ci impegnamo innanzitutto a fare il possible per presenziare a quella di Enrico Fenzi, prevista per il prossimo dieci maggio, e a dare la massima pubblicità possibile all'avvenimento.
Enrico Fenzi è anche autore di un libro sulla sua esperienza di combattente, Armi e bagagli - Un diario dalle Brigate Rosse, pubblicato l'ultima volta da Costa e Nolan nel 2006. Come facemmo qualche tempo fa con il Dossier Foibe di Giacomo Scotti, che servì agli "occidentalisti" fiorentini per una delle loro campagne di denigrazione, consideriamo preciso dovere il procurarcene immediatamente una copia, di cui pubblicheremo accurata recensione.
Segnaliamo anche il post Lectura Dantis pubblicato su Ekbloggethi, in cui le prime righe di un comunicato delle Brigate Rosse sono state riscritte in terzine.

Tutto questo è il minimo che si possa fare, affinché l'"occidentalismo" fiorentino abbia come sempre dall'intraprendenza dei suoi attivisti il maggior danno ed il maggior ridicolo possibili.