Recensione di Slouching Towards Sirte: NATO's War on Libya and Africa di Maximilian Forte, pubblicata su Asia Times da Dan Glazebrook.
Negli ultimi tempi i mass media hanno messo la sordina alle notizie sulla Libia. E' chiaro che agli imperialisti liberali non piace rimestare nei propri crimini, e la cosa non sorprende. Il modus operandi dell'imperialismo umanitario non è fatto di riflessioni informate, ma di una continua delegittimazione dei leader del sud del mondo; nel mondo sovvertito dell'interventismo liberale l'unico crimine di cui l'Occidente è capace si chiama "fallimento nell'azione".
Nel modo di vedere di Maximilian Forte, il codice morale degli interventisti liberali afferma che "Se non passiamo all'azione siamo responsabili per le azioni altrui. Se invece passiamo all'azione, non siamo responsabili per le nostre". Dopo la morte di Muhammar Gheddafi, c'è bisogno di un'altra figura odiosa su cui spargere veleno, come il Presidente della Repubblica Araba di Siria Bashar al Assad, o il leader nordcoreano Kim Jong Un; spargere veleno dà molta più soddisfazione che non soppesare davvero quale sia il proprio ruolo nella creazione delle umane miserie. Ecco la mentalità colonialista della feccia liberale.
Gli esecutivi che ci portano in guerra ritengono del tutto logico pestare i piedi perché si invada un paese prima e ancora di aver smesso di considerare l'invasione precedente. Se per esempio interiorizzassimo il fatto che bombardare la Serbia nel 1999 -secondo quanto prescritto dal bignami dell'intervento umanitario- non ha fatto altro che facilitare quella pulizia etnica del Kosovo che si pensava di impedire, potremmo non essere altrettanto pronti a pretendere lo stesso trattamento per ogni altro paese che si discosti dai nostri illusori ideali.
Ecco perché questo libro è importante. Frutto di ricerche a tutto campo e ricco di riferimenti precisi, racconta la storia dei veri obiettivi e delle vere conseguenze della guerra in Libia nel contesto del suo inquadramento storico.
Uno degli intenti che il testo raggiunge è quello di demolire per intero le pretese giustificazioni della guerra. Forte ci dimostra che le "truppe di Gheddafi" non hanno commesso alcuno "stupro di massa", come invece affermavano all'epoca Susan Rice in qualità di rappresentante permanente degli USA all'ONU, l'ex Segretario di Stato Hillary Clinton, e il pubblico ministero del tribunale penale internazionale Luis Ocampo, e come successivamente smentito da Amnesty International, dall'ONU e persino dallo stesso esercito statunitense.
Con buona pace dei mass media e dei loro reportage isterici, non c'è alcuna prova del fatto che i dimostranti siano stati oggetto di bombardamenti aerei; la cosa l'ha ammessa persino l'ex capo della CIA Robert Gates. Gheddafi non aveva pianificato alcun massacro a Bengasi, come invece asserivano rumorosamente i capi di governo britannici, francesi e statunitensi. Le truppe governative libiche non hanno commesso massacri contro la popolazione civile in nessuna delle città di cui avevano ripreso il controllo, né Gheddafi aveva minacciato di fare qualcosa di simile a Bengasi.
In un discorso che i mass media occidentali hanno praticamente tutti riportato in maniera distorta, Gheddafi aveva promesso che non avrebbe avuto pietà per quanti avevano preso le armi contro il governo e allo stesso tempo prometteva l'amnistia per quanti avevano "gettato le armi"; in nessun punto del discorso minacciava rappresaglie contro i civili. Quando l'aggressione della NATO ebbe inizio, i jet francesi bombardarono di fatto una piccola colonna di blindati libici in ritirata nei sobborghi di Bengasi, composta da quattordici carri armati, venti blindati da trasporto truppe, qualche camion e alcune ambulanze: nel complesso nulla che fosse in grado di commettere un "genocidio" a carico di un'intera città, come si voleva dare a intendere.
L'immagine dei "manifestanti pacifici che vengono massacrati" rappresenta dunque un completo stravolgimento della realtà. Piuttosto, scrive Forte, i ribelli "hanno incendiato centrali di polizia, fatto irruzione nelle installazioni dei servizi di sicurezza, attaccato gli uffici del governo e dato veicoli alle fiamme" fin dal primo momento; a questi atti le autorità hanno risposto con "lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma": metodi molto simili a quelli in uso nelle nazioni occidentali contro manifestanti ben più pacifici, nei quali manca l'intento della sedizione". Solo dopo che i ribelli hanno occupato le caserme di Bengasi, ne hanno saccheggiato le armi ed hanno iniziato a usarle contro i militari governativi la situazione ha iniziato a peggiorare.
La più devastante delle menzogne che hanno preparato il terreno all'aggressione in Libia è stato il mito del "mercenario africano". I pogrom razzisti sono stati una caratteristica della ribellione libica sin dal suo primo divampare: cinquanta migranti dall'Africa subsahariana sono stati bruciati vivi ad Al Bayda il secondo giorno dell'insurrezione.
Secondo un resoconto di Amnesty International del settembre 2011 non si trattò di un caso isolato. "Quando Al Bayda, Bengasi, Derna, Misurata ed altre città sono cadute sotto il controllo del Consiglio Nazionale di Transizione lo scorso febbraio, le forze ostili a Gheddafi sono andate casa per casa, hanno commesso omicidi ed altre azioni violente" contro persone dell'Africa subsahariana e contro libici di pelle scura; "Quello che sta accadendo nella Libia occidentale è in linea con quello che abbiamo già visto a Bengasi e a Misurata dopo che queste due città sono cadute in mano ai ribelli": incarcerazioni arbitrarie, torture ed esecuzioni di persone di colore.
Il mito del "mercenario africano" è stato creato apposta per giustificare i pogrom e i mass media occidentali hanno pressoché per intero definito "mercenari" -o "presunti mercenari", nel caso di quelli più ponderati e competenti- le vittime di essi, indicandole come aggressori e come legittimi obiettivi.
Questa storia è stata per intero confutata da Amnesty International: un suo incaricato ai limiti dell'esasperazione riferì ad un intervistatore televisivo che Amnesty aveva "Esaminato con molta cura la questione, senza trovare alcuna prova a riguardo: i ribelli hanno diffuso queste dicerie ovunque, con conseguenze terribili per i lavoratori immigrati dall'Africa". Una commissione dell'ONU è arrivata alle stesse conclusioni, ma tutto questo è successo soltanto dopo che entrambi le organizzazioni avevano già aiutato la diffusione delle stesse menzogne.
Il fatto che i sostenitori liberali dei diritti umani abbiano scatenato una guerra di aggressione per facilitare massacri a sfondo razziale non è una cosa ironica come potrebbe sembrare di primo acchito. Forte scrive che "se quanto accaduto deve essere definito intervento umanitario, la denominazione è giusta solo se non si considerano gli africani come membri della specie umana".
Il non considerare gli africani come uomini è una prassi sistematica del liberalismo che dai tempi di John Locke passa dalla guerra d'indipendenza americana e attraversa gli imperialismi del diciannovesimo secolo arrivando anche più in là. Forte sostiene che "la paura a sfondo razziale di babau africani che si aggirano per la Libia come zombi" è, a malapena velata, implicita nella storia del "mercenario africano" e che è stata formulata al preciso scopo di rientrare nel filone, storicamente ricco, delle fantasie europee in materia della iattura rappresentata dalle rivolte dei neri. Il fatto che la diceria abbia preso tanta forza a dispetto della sua totale inconsistenza, scrive Forte, "ci dice molto sul ruolo dei pregiudizi razziali e della propaganda nella mobilitazione dell'opinione pubblica occidentale e nell'organizzazione delle relazioni internazionali".
Il razzismo dei ribelli non è stato utile soltanto a mobilitare l'opinione pubblica europea. Ha avuto anche una funzione strategica, almeno per quanto riguardava gli strateghi della NATO. Portando al potere un governo virulentemente ostile ai neri, l'Occidente si è assicurato che la linea di condotta politica della Libia come paese panafricano terminasse bruscamente e che le sue ricchezze petrolifere non venissero più usate per lo sviluppo dell'Africa.
Forte spiega in modo stringato che "l'obiettivo dell'intervento militare statunitense era quello di scardinare l'intento di indipendenza che stava emergendo, assieme alla rete di rapporti di collaborazione con i paesi africani che avrebbe facilitato il crescere dell'autoconsapevolezza dell'Africa, un qualcosa che contrastava con le ambizioni geostrategiche e con le ambizioni economiche e politiche delle potenze europee extracontinentali ed in particolare degli Stati Uniti".
Molto spazio nel libro è dedicato al ruolo in ascesa che la Libia aveva nella creazione dell'Unione Africana e nelle sue successive mosse per l'unificazione continentale sul piano economico, politico e militare. Questo comprendeva l'investimento di miliardi di petrodollari nello sviluppo industriale di tutto il continente, la realizzazione di un satellite africano per le comunicazioni e l'erogazione di massicci contributi finanziari tramite l'African Development Bank e l'African Monetary Fund, istituzioni fatte apposta per sfidare l'egemonia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Gheddafi sottolineava con fervore il fatto che il denaro che la Libia otteneva dal petrolio venisse utilizzato per aiutare l'industrializzazione del continente e per creare "valore aggiunto" ai beni che esso esporta, distogliendo l'Africa dal ruolo che era prescritto che essa avesse nell'economia mondiale come fornitrice di materie prime a buon mercato.
La cosa costituiva una minaccia al controllo che la finanza occidentale e le multinazionali hanno sull'economia dei paesi africani; assieme agli investimenti cinesi in ascesa, veniva ritenuta un ostacolo al predominio occidentale e doveva essere tolta di mezzo. Secondo Forte, "Gli Stati Uniti, la Francia ed il Regno Unito non potevano assistere allo spettacolo di alleati che avevano curato premurosamente, quando non li avevano messi direttamente al potere, che venivano man mano allontanati dalla loro orbita dalla Libia, dalla Cina e da altre potenze".
L'African Oil Policy Initiative Group -un comitato statunitense di alto livelle che comprende membri del Congresso, personale militare e lobbisti dell'industria dell'energia- ha notato nel 2002 la crescente dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio africano ed ha raccomandato che "ci si concentrasse con nuova energia sulla cooperazione militare coi paesi dell'Africa subsahariana, prevedendo la messa a punto di una struttura di comando unificata che operasse in modo significativo a tutela degli investimenti statunitensi".
Si notava anche che "un fallimento nell'affrontare la questione del concentrare e del massimizzare l'organizzazione della diplomazia e del comando militare... potrebbe... involontariamente rivelarsi un incentivo per i rivali degli Stati Uniti come la Cina, e gli avversari come la Libia". In altri termini, in un momento in cui il loro controllo economico sul continente africano viene seriamente messo in discussione, i paesi occidentali dovrebbero ricorrere in misura sempre maggiore ad un militarismo aggressivo per la tutela dei propri interessi.
Le raccomandazioni di questo comitato avrebbero poi trovato realizzazione nel 2006 con la creazione di AFRICOM, il comando militare statunitense in Africa. AFRICOM è stato pensato come una specie di "Scuola delle Americhe" per l'Africa, destinato ad addestrare gli eserciti africani affinché servano da forza di prossimità per il mantenimento del controllo occidentale; nel 2010 la strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha esplicitamente nominato l'Unione Africana come una delle organizzazioni regionali che si doveva cercare di coinvolgere.
La Libia, invece, si è dimostrata assolutamente restia a collaborare. I cablogrammi diplomatici statunitensi indicano con chiarezza che la Libia veniva considerata dagli Stati Uniti come il principale ostacolo all'instaurazione a tutti gli effetti di una muscolare presenza militare statunitense nel continente africano, perché metteva ad ogni occasione in evidenza la propria "opposizione" ed il proprio "ostruzionismo" nei confronti dell'AFRICOM. Gheddafi era ancora una voce rispettata all'interno dell'Unità Africana, di cui era stato presidente nel 2009; Gheddafi esercitava un'influenza significativa e se ne serviva per capeggiare l'opposizione a quelli che considerava gli obiettivi neocolonialisti di un'iniziativa come AFRICOM.
Nel frattempo gli investimenti cinesi in Africa stavano crescendo in maniera sostenuta, passando dai sei miliardi di dollari del 1999 ai novanta miliardi di dieci anni dopo, togliendo agli Stati Uniti il titolo di maggior partner commerciale del continente. La necessità di una presenza militare statunitense che tutelasse la declinante influenza occidentale diventava sempre più impellente. Ma l'Africa non stava al gioco e Gheddafi era giustamente considerato come quello che suonava la carica.
Andiamo velocemente al 2012. Il generale statunitense Carter Ham, capo di AFRICOM, può dire che "la condotta delle operazioni militari in Libia rappresenta adesso l'opportunità di stabilire una collaborazione militare con la Libia, cosa fino ad oggi inesistente". Carter Ham si è spinto fino a ventilare l'ipotesi di una base statunitense nel paese (Gheddafi aveva espulso statunitensi e britannici poco dopo aver preso il potere nel 1969), dicendo che sarebbe stato necessario un qualche genere di "assistenza", sottoforma di una "presenza militare".
Il Presidente Obama non ha perso tempo ed ha anunciato che soldati sarebbero stati dislocati in altri quattro paesi africani entro poche settimane dalla caduta di Tripoli, e da AFRICOM hanno annunciato una tornata senza precedenti di esercitazioni congiunte in Africa: quattordici, da tenersi nel corso dell'anno successivo.
L'aggressione NATO non ha soltanto distrutto una potente forza che si batteva per l'unità e l'indipendenza dell'Africa ed un ostacolo piuttosto rilevante alla penetrazione militare occidentale nel continente, ma ha anche posto condizioni perfette da accampare a giustificazione di ulteriori invasioni.
Gli Stati Uniti avevano già cercato di sostenere che la loro presenza militare in Nord Africa era necessaria per combattere Al Qaeda; il programma transsahariano contro il terrorismo è stato realizzato per questo. Ma come ebbe a spiegare Muattasim Gheddafi a Hillary Clinton a Washington nel 2009, il programma era diventato superfluo perché esisteva già una strategia di sicurezza molto efficiente basata sul CEN-SAD, la Comunità degli Stati del Sahara e del Sahel guidata dalla Libia, e sulla North African Standby Force.
Come nel più classico dei casi del racket delle protezioni, gli inglesi, gli statunitensi e i francesi decisero che se della loro protezione non c'era bisogno, avrebbero pensato loro stessi a far sì che questo bisogno ci fosse. La distruzione della Libia ha colpito al cuore il sistema di sicurezza nordafricano, ha riempito tutta la regione di armi e ha fatto diventare la Libia un rifugio sicuro e privo di governo per milizie dedite alla violenza. L'instabilità che ne è risultata, e che era per intero prevedibile, si è diffusa in Mali e l'Occidente se ne sta servendo come scusante per un'altra guerra e un'altra occupazione.
Il libro è stato pubblicato prima della recente invasione francese in Mali: in un ammonimento in cui prevede il futuro, Forte ha scritto che "intervento armato causa intervento armato: per risolvere i problemi causati da un intervento militare, ne serve un altro".
Il libro esprime in modo incisivo anche l'ideologia dell'industria dei diritti umani ed il ruolo che essa ha nella guerra in Libia. L'umanitarismo liberale occidentale, pensa Forte, "può funzionare soltanto se prima si crea in modo diretto o indiretto una sofferenza a qualcuno, e se poi si considera ogni mano come una mano tesa, in un gesto di supplica o di benvenuto". Forte spiega come funzionano i gruppi come Amnesty International o Human Rights Watch, che hanno contribuito a rafforzare alcune delle peggiori menzogne su quanto stava succedendo in Libia come le invenzioni sui "mercenari africani" o sugli "stupri di massa"; nel caso di Amnesty, essa "per giorni interi dopo l'inizio dell'insurrezione, e anche ben prima di essa, ha avuto la possibilità di accertare, di convalidare o di convermare qualsiasi fatto si verificasse sul terreno... invece ha iniziato a lanciare in pubblico accuse contro la Libia, contro l'Unione Africana e contro il Consiglio di Sicurezza dell'Onu per non essere riusciti ad intervenire".
Invocando il congelamento dei fondi libici e l'embargo sulle armi ("e altre azioni concrete ogni giorno che passava") Amnesty "si è di fatto trasformata in una delle parti in lotta"; è entrata a far parte della propaganda bellica e della fabbrica di menzogne messa a punto per facilitare l'invasione.
La cosa, dati i trascorsi di Amnesty, non dovrebbe sorprendere. Soccorrevole, Forte ci ricorda la campagna di Amnesty in favore delle menzogne sui "bambini nelle incubatrici" che fecero da giustificativo alla guerra in Iraq del 1991; molti senatori attribuirono in seguito all'influenza di quella diceria l'essersi pronunciati in favore dell'attacco. In quell'occasione il voto al Senato fu favorevole per soli sei voti di scarto. La guerra del 1991 ha devastato l'Iraq, che aveva appena iniziato a riprendersi dal conflitto con l'Iran, e fece più di centomila vittime. Altre centinaia di migliaia morirono nelle epidemie che infierirono nel paese dopo la distruzione deliberata degli acquedotti e delle fognature.
Poca sorpresa dovrebbe destare il fatto che Suzanne Nossel, funzionario al Dipartimento di Stato nella squadra della Clinton, sia diventata direttore generale della sezione statunitense di Amnesty nel novembre del 2011. Al Dipartimento di Stato la Nossel aveva avuto un ruolo fondamentale per strappare al Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU una risoluzione contro la Libia che era poi servita come piattaforma per la risoluzione numero 1973 del Consiglio di Sicurezza, che a sua volta portò all'aggressione.
Forte mette in luce anche il ruolo di Soliman Bouchuiguir, ex presidente della "Lega Libica per i Diritti Umani", che si rivela essere il Curveball libico. Curveball era il nome della "fonte" irachena che produsse loe menzogne sulle inesistenti "fabbriche mobili di armi chimiche" di Saddam Hussein, che furono usate per giustificare la guerra in Iraq nel 2003. E' verosimile che quanto riferito -ed ampiamente gonfiato- da Soliman Bouchuiguir in materia di vittime abbia fornito il materiale di base per le isteriche risoluzioni dell'Alto Commissariato dell'ONU per i Rifugiati contro la Libia, e dato il calcio d'inizio alla partita della guerra. Bouchuiguir ha ammesso in seguito davanti alle telecamere che non esisteva alcuna prova di quanto aveva asserito... ma questo, dopo che oltre settanta organizzazioni non governative avevano già sottoscritto un appello che "pretendeva che si passasse all'azione" proprio sulla base dei suoi racconti.
In altre sedi è stato scritto molto sui neocon, che sono giustamente odiati a causa del concetto demenziale e manesco che hanno dei mutamenti sociali. Tuttavia i sostenitori liberali dei diritti umani riescono ad essere persino peggiori perché alla fin fine i neocon non hanno mai preteso di essere delle persone intelligenti o interessate a qualcosa di diverso rispetto al loro particolare utile. Pare che i sostenitori liberali dei diritti umani siano guidati -o almeno così garantiscono essi stessi- da una sorta di proposito più nobile, cosa che rende il loro continuo invocare guerre di aggressione ancora più ripugnante.
Forte sintetizza in modo brillante: "Nella concezione del genere umano coltivata dagli imperialisti liberali, gli uomini non sono altro che urlanti sacche di emozioni. Si tratta di una antropologia elitaristica che considera gli esseri umani meri fasci di nervi e di muscoli che fremono di sdegno e si sentono stringere il cuore tutte le volte che viene fuori una storia come quella dei bambini nelle incubatrici, si accalorano per l'arresto della Lesbica di Damasco e arrivano al soccorso quando sentono parlare di stupri di massa fatti a furia di Viagra".
Dall'isteria di massa sul Cinguettatore fino alle centinaia di migliaia che firmano una petizione su Avaaz in cui si invocano i bombardamenti sulla Libia in nome dei diritti umani, finisce che diventiamo tutti nervi di reazione di massa... Vogliamo che si passi all'azione e lo scriviamo sui "media sociali", coi ditini che pestano furibondi sui nostri "smart" phones [*]... Alla fin fine tutto il nostro agire consiste soltanto nel chiedere al macchinario militare controllato dall'alto di darsi da fare a nome nostro". A questa antropologia fa da pendant "la sociologia implicita della NATO, secondo la quale si può rifondare una società tramite un'intensa campagna di bombardamenti da alta quota e con gli attacchi dei droni".
Nel libro si spiega anche il modo preciso con cui è stata rifondata la Libia. Le elezioni del luglio 2012 in Libia per il solo fatto di esistere sono state presentate dai mass media occidentali come se fossero un risarcimento immediato per ogni atto di bassa macelleria che ogni guerra comporta, senza dare alcun peso all'effettiva capacità del parlamento appena eletto di esercitare una qualche influenza sul paese. Ad esse ha partecipato meno della metà del corpo elettorale. Anora più eloquenti i risultati di un'inchiesta condotta in Libia dall'Oxford Research International: solo il 13% dei libici voleva la democrazia entro un anno, e solo il 25% entro cinque anni.
Intanto le nuove autorità si davano da fare per perseguitare i loro nemici, reali o immaginari che fossero. La cittadina di Tawergha è stata vuotata della sua popolazione di circa ventimila libici dalla pelle scura dopo che miliziani provenienti da Misurata, con il sostegno del governo centrale, hanno iniziato a dare sistematicamente fuoco ad ogni casa e ad ogni attività economica.
Gli ex residenti adesso vivono in campi profughi dove c'è chi continua a dar loro la caccia e ad ucciderli, o in condizioni di detenzione arbitraria in carceri alla buona. Sono esclusi dall'elettorato passivo i lavoratori privi di qualifica (per presentarsi è necessaria una qualifica professionale), tutti coloro che hanno avuto impieghi governativi di qualsiasi genere negli anni compresi tra il 1969 ed il 2011 (a meno che non possano dimostrare di aver "prontamente e senza ambiguità" appoggiato l'insurrezione), tutti coloro il cui percorso universitario abbia in qualche modo avuto a che fare con il Libro Verde di Gheddafi, e tutti coloro che sono stati gratificati economicamente da Gheddafi.
Un costituzionalista ha notato che restrizioni del genere finiscono per squalificare il popolo libico. Altre leggi di fresca approvazione proibiscono la diffusione di "notizie, dicerie o propaganda" che possa "essere di nocumento allo stato", con pene che arrivano fino all'ergastolo: il carcere è previsto anche per chiunque diffonda notizie suscettibili di "indebolire il morale della popolazione", per chiunque "attacca la rivoluzione del 17 febbraio, denigra l'Islam, le autorità dello stato o le sue istituzioni".
Ecco la nuova Libia per la quale gli imperialisti dei diritti umani e i loro fiancheggiatori hanno fatto lobby, ucciso e torturato così tanto.
"La prossima volta che l'impero bussa alla porta in nome dei diritti umani, facciamoci trovare in piedi e decisi a resistere", conclude Forte.
Questo volume rappresenta una lettura obbligata per chiunque sia seriamente interessato a comprendere i motivi e le conseguenze dell'aggressione occidentale contro la Libia e contro lo sviluppo dell'Africa.
Slouching Towards Sirte: NATO's War on Libya and Africa di Maximilian Forte. 341 pagine. Baraka Books (2012). ISBN-10: 1926824520. ISBN-13: 978-1926824529.
Dan Glazebrook è docente e scrittore specializzato nelle relazioni economiche e militari tra Sud del mondo ed Occidente.
L'articolo è originariamente apparso in Ceasefire Magazine.
[*] Gioco di parole difficilmente traducibile: uno smartphone sarebbe un telefono intelligente: l'utilizzo che ne viene fatto mette il più delle volte in discussione questa intelligenza, forse più quella dell'utente che quella dell'apparato.