giovedì 31 ottobre 2013

Amministrative 2014: Firenze e Marco Stella. E l'insihurézza. E i'ddegràdo.


Negli ultimi mesi del 2013 i politici "occidentalisti" di Firenze sono all'angolo più che mai e nulla è cambiato in un clima sociale sano al punto da costringerli a limitare le proprie "attività" al Libro dei Ceffi e ad altre sentine di mediocri dello stesso tipo e della stessa irrilevanza. La pratica politica propriamente detta è ormai un terreno in cui si avventurano soltanto gli "occidentalisti" che possono vantare attestazioni di competenza indiscutibili, per esempio quella di essere grassi e di essere di Scandicci.
Nelle stesse ore in cui il fondatore del maggior partito "occidentalista" della penisola italiana ne decideva lo scioglimento di fatto, il ben vestito Marco Stella riusciva a perdere una delle innumerevoli occasioni per tacere che la vita di ogni giorno offre a tutti quelli come lui. Uno di quei microscopici e quotidiani casi in cui la fedele ripetizione della propaganda viene portata avanti fino a ben oltre i limiti del controproducente, e del quale non metterebbe alcun conto di trattare se non fosse che comunicati stampa del genere sono diventati piuttosto rari nell'ambiente politico fiorentino dopo la sparizione di molte delle gazzettine "occidentaliste" che li riportavano con maggiore fedeltà.
29/10/2013
Sparatoria in centro, Stella (PdL-FI): “Assessorato alla sicurezza e militari nelle piazze”
“Firenze diventi città della legalità”

“Ciò che è successo questa mattina in via Alfani, in pieno centro storico, con un giovane ferito da un colpo di arma da fuoco in mezzo ai passanti, è l’ennesima dimostrazione del fatto che a Firenze si è passati dalla percezione di insicurezza alla reale mancanza di sicurezza”. Questo il commento del capogruppo PdL-Forza Italia Marco Stella.
In capo a un paio d'ore è venuto fuori che la ferita è stata con ogni probabilità autoinflitta e che il colpo è stato esploso in un appartamento, non certo "in mezzo ai passanti".
Le gazzette che hanno riferito della cosa hanno attratto l'interesse di un certo numero di mangiaspaghetti che non hanno mancato di lasciar traccia della propria entusiasmante bassezza, utilizzando per questo gli spazi riservati ai commenti.
“Adesso basta. La situazione per i residenti è diventata intollerabile e insostenibile: serve subito l’istituzione di un assessorato alla sicurezza che coordini il lavoro della Polizia Municipale e stimoli sinergie con le Forze dell’Ordine – ha aggiunto Stella –. L’amministrazione comunale si attivi inoltre per stipulare il patto per la sicurezza con il Ministero dell’Interno: sarebbe così possibile avere la presenza di militari nelle nostre piazze”.
Sarebbe interessante avere da Marco Stella una descrizione operazionale di metodi, sistemi e materiali con cui la gendarmeria -o addirittura l'esercito- potrebbero impedire il disinvolto utilizzo di armi da fuoco all'interno di private abitazioni.
Nell'adottare rapidissimo una versione dei fatti confacente alla propaganda veicolata, Marco Stella riesce a fare assai meno di Giovanni Donzelli, autore in ogni tempo di autentici capolavori di putrefacente ed infetta abiezione cui Stella non riesce neppure ad arrivare vicino.
Gli eventi gli hanno consentito di esporsi mediaticamente, e pazienza per la piccola figuraccia; poi c'è il problema della propaganda, che non aspetta e non ammette deviazioni. Le elezioni amministrative sono a primavera del prossimo anno e stavolta non si vedono all'orizzonte pallonieri da riverire per volere supremo.
Due giorni dopo un foglietto fiorentino esperto in insihurezza e ddegràdo aiuta Stella a correggere il tiro, e a riproporre l'esercito dello stato che occupa la penisola italiana a vigilare le fontane pubbliche e la gente che porta a spasso il cane. Non c'è stato neppure bisogno di apportare grosse variazioni al comunicato che occorreva.

giovedì 24 ottobre 2013

Amministrative 2014: Achille Totaro, che è grasso e di Scandicci, si candida a Firenze.


Tra qualche mese nello stato che occupa la penisola italiana si dovrebbe tenere una consultazione elettorale amministrativa estesa un po' dappertutto, Firenze compresa.
Achille Totaro è grasso e di Scandicci, cose che ne fanno un ottimo candidato a sindaco.
La presentazione della lista è fissata per il 25 ottobre nella più adatta e confacente delle sedi.
La straordinaria ospitalità della struttura è quanto di più rispondente ai valori dell'"occidentalismo" si possa oggi trovare nella città di Firenze; gli intervenuti non mancheranno certo di apprezzarla.
Anche se non sono grassi.
Anche se non sono di Scandicci.

lunedì 21 ottobre 2013

Matteo Renzi e Flavio Briatore: una coppia vincente


«Matteo Renzi in questa situazione prenderà molti voti. E se Berlusconi non è più in Forza Italia io stesso voterò Renzi e non il Pdl. Io voto le persone, non voto la politica. Io spero che finalmente arrivi qualcuno a fare la rivoluzione e nel momento in cui inizia gli diamo tutti una mano». È un passaggio dell'intervento di Flavio Briatore, ospite oggi dell'Intervista di Maria Latella su Sky Tg24.
Il trafiletto viene dal Corriere Fiorentino e vi compare il nome dello stato che occupa la penisola italiana; ce ne scusiamo come sempre con i nostri lettori, specialmente con quanti avessero appena finito di pranzare.
Dopo l'illacrimato schianto di molto giornalame, il Corriere Fiorentino è rimasto con pochi altri fogliettini a frignare di degrado e insicurezza tutto il tempo che non ciancia di pallonate, palloneggi e pallonieri e per tutto lo spazio che non riserva a qualcuno di questi perfetti esempi dell'età contemporanea.
All'inizio del dominio mediatico e politico "occidentalista" erano i professori dell'altro ieri ad affrettarsi a cambiare altare; già ricominciavano a respirare, dopo aver indossato le nuove maschere.
Gli ultimi venti anni di vita sociale e politica nello stato che occupa la penisola italiana sono stati caratterizzati dalla metodica distruzione del bene pubblico e dello stato sociale, dalla criminalizzazione capillare di ogni forma di dissenso, dalla denigrazione di ogni comportamento umano diverso da quelli di consumo e da una diffusa ed aperta approvazione per qualsiasi cosa e per qualsiasi atto fossero prevaricatori, aggressivi, abietti, pervertiti, immondi e sporchi in ogni senso. Non esiste nulla che non sia comprensibile o giustificabile, purché commesso per arricchimento.
In un quadro simile il democratismo rappresentativo e la sua propaganda non sanno cosa farsene, di eventuali professori: l'avallo di una qualsiasi delle versioni del "più mercato" e "più galera" che rappresentano l'unica offerta politica sul tappeto deve dunque venire da testimoni più rappresentativi.
Il diplomato Flavio Briatore, dalla vita specchiata ed integerrima e dalle squisite competenze in vari e fondamentali campi (primo fra tutti quello del diritto tributario) è sicuramente tra i migliori di essi.
Ed al boiscàut Matteo Renzi, dal 2009 borgomastro di Firenze in perenne odor di promozione, non resta che incassare con orgoglio un endorsement così appropriato e così rivelatore.

sabato 19 ottobre 2013

Gli yankee rinunciano all'aggressione, il "Libero Esecito Siriano" si spacca. L'inizio di ottobre 2013 in Siria secondo Conflicts Forum


Traduzione da Conflicts Forum.


Conflicts Forum legge molto e segue gli sviluppi in Medio Oriente ed altrove. Oggi, nonostante il nostro seguire la situazione da vicino, non abbiamo idea di cosa succederà. Noi, come molti altri.
Allo stesso modo, tra tutte le opinioni più convinte sullo "shutdown" degli Stati Uniti, non se ne trova alcuna che sappia davvero come finirà. Nessuno può dire come si manifesterà un default tecnico degli Stati uniti, o riferirci quali potrebbero essere le sue conseguenze. Ci muovimamo in un territorio sconosciuto: e in Medio Oriente è la stessa cosa. Non ci può essere una vera visione strategica perché non esiste alcuna strategia. Tutto è in movimento. E tre segnali hanno contribuito ad imporre una brusca accelerazione a questo movimento. Nelle condizioni in cui ci troviamo, per segnale si deve intendere un qualcosa che prende il posto di una conoscenza comprovata.
E tutti e tre questi segnali pare spingano verso una stessa direzione.
Il più evidente è stato la simbolica chiamata telefonica del Presidente degli Stati Uniti al Presidente Rohani.
Il secondo, un commento di Kerry, qualche giorno fa a Bali. "Il governo di Assad in Siria merita fiducia come ha affrontato la questione delle armi chimiche", ha detto Kerry dopo il primo incontro al vertice con la sua controparte russa Sergej Lavrov da quando Mosca e Washington hanno deciso di concordare un piano per la distruzione degli arsenali chimici. Kerry e Lavrov si sono incontrati a margine della riunione dell'APEC a Bali, in Indonesia, lunedi mattina. "Il processo è iniziato a tempi di record ed abbiamo apprezzato la collaborazione dei russi, ed ovviamente la disponibilità dei siriani", ha detto Kerry. Il Segretario di Stato ha affermato anche che gli Stati Uniti sono d'accordo con la Russia che si arrivi il prima possibile ad una conferenza di pace per la Siria. "...Penso che sia stato estremamente significativo che ieri, domenica, ad una settimana dall'approvazione della risoluzione dell'ONU, si stessero già distruggendo alcuni armamenti chimici", ha specificato Kerry. "Penso che si debba renderne merito al governo di Assad. Francamente, si tratta di un buon inizio; un buon inizio che accogliamo bene". Qui, quello che colpisce è il tono. Si tratta certamente di retorica, ma suona molto differente perché fino a questa settimana non c'era dichiarazione occidentale che non traboccasse di invettive contro il Presidente Assad.
Il terzo segnale è rappresentato dalla luce che il New York Times ha gettato su una certa vicenda e che la colloca di sicuro al di fuori dalla linea sin qui seguita: il NY Times sostiene che con l'ammissione del fatto che "sono stati fatti degli errori" da parte del vice primo ministro siriano e del presidente Assad, contenuta in alcune interviste recenti, sia successo qualcosa di nuovo, qualcosa che ha toni inaspettatamente concilianti. "Lo stesso Presidente Assad ha dichiarato che lui e il suo governo hanno commesso degli errori e che tocca anche a loro parte della colpa per la crisi con i ribelli. Il signor Assad ha detto al Der Spiegel, in un'intervista pubblicata lunedi scorso, che non poteva sostenere che tutto quanto fosse colpa dei ribelli e che la sua parte non aveva fatto nulla. La realtà, ha affermato, comprende "varie sfumature di grigio". "Dopo aver passato anni a descrivere la guerra civile contrapponendo bianco a nero e in termini di cospirazione terrorista internazionale, i funzionari siriani negli ultimi giorni stanno cercando di mostrarsi più concilianti mentre le potenze mondiali cercano di organizzare dei colloqui di pace a Ginevra che pongano fine allo stallo sanguinoso e mentre gli ispettori hanno iniziato domenica scorsa la distruzione dell'arsenale chimico siriano", ha scritto barnard al Times. Anche in questo caso, è il tono, che colpisce perché Assad sta dicendo esattamente le stesse cose che ha sempre detto da quando sono iniziati i disordini in Siria. Come notato da un commentatore, la falsa attestazione del NYT circa uno storico cambiamento di rotta da parte del governo siriano può servire ad avallare il mutare dell'atteggiamento statunitense. Se quella che è una consolidata posizione del governo siriano può essere raffigurata come una novità, allora anche i politici statunitensi possono assumere un nuovo atteggiamento nei confronti del governo siriano. "Guardate, Assad ha cambiato idea: allora, possiamo cambiare idea anche noi".
Comunque, questi segnali hanno rimestato il calderone mediorientale. Posizioni e rivendicazioni hanno già cominciato a entrare in crisi sia per l'apparente cambiamento di rotta degli Stati Uniti nei confronti di un accordo con l'Iran sia per le possibili ripercussioni che questo avrebbe in termini di equilibri di potere nella regione. Ma anche per l'impatto più profondo di un'AmeriKKKa in conflitto, apparentemente alle prese con una crisi sistemica e propensa a chiudersi su se stessa.
Secondo certe voci, l'Arabia Saudita si sente abbandonata, rimasta da sola in mezzo alla sala intanto che il ballerino ameriKKKano se ne va via a passo di valzer con una ragazza diversa. Lo smacco è riassunto dal battibecco che ha preceduto la separazione: in primis un brutto litigio sull'Egitto, poi l'accordo sulle armi chimiche siriane che molti sauditi hanno accolto male, e alla fine il duetto con l'Iran. Tutto questo ha comprensibilmente dato origine a sentimenti contrastanti; qualcuno, in preda alla frustrazione, vorrebbe semplicemente farla pagare agli Stati Uniti togliendo ogni limite al flusso di armi dirette agli insorti siriani e mettendo in piedi una coalizione che possa vanificare ogni accordo; ci sono però anche voci contrarie che ritengono probabile che il Principe Bandar, che in questa storia ha il ruolo del falco, possa finire per diventare la prima vittima del nuovo atteggiamento statunitense. In poche parole, i ripensamenti statunitensi hanno fatto emergere anche l'idea che lo smacco, sia pure doloroso, costringa comunque il regno ad affrontare la realtà.
Anche in Siria ci sono state delle ripercussioni: la risoluzione 2118 sostiene l'iniziativa dei russi di distruggere l'arsenale chimico siriano, ma richiede implicitamente che il presidente Assad rimanga al potere per almeno un anno in modo da poter sovrintendere alle operazioni di distruzione. Così i paesi occidentali non solo hanno smesso di pretendere che lasci il potere, ma vedono adesso con favore un prolungamento del suo mandato e un posticipo delle prossime elezioni presidenziali, anche perché l'opposizione è allo sfacio e non ha alcuna credibilità né sul campo né in sede negoziale.
Gli eventi hanno causato dei cambiamenti anche in seno all'opposizione. Il nuovo raggruppamento jihadista ed islamista refrattario ad ogni compromesso chiamato Esercito dell'Islam sembra condividere la sensazione dei sauditi che le zolle tettoniche si siano mosse secondo una nuova corrente fortemente contraria a tutti e due. Entrambi vedono che il Medio Oriente sta cambiando: la semplicistica narrativa fin qui accolta dal mondo esterno lo raffigurava fino ad oggi come il teatro di un conflitto tra "dittatori e democrazia" e adesso lo raffigura, in modo altrettanto semplicistico, come la scena di una lottta epica tra gruppi sul modello di AlQaeda che vogliono "abbattere il sistema per ricostruirlo" cui si contrappongono legge, ordine e stabilità. In questa nuova narrativa i gruppi jihadisti, e in una certa misura anche l'Arabia Saudita, stanno dalla parte del torto. Eppure anche questa è una divisione grossolanamente semplicistica perché l'Arabia Saudita, nonostante sostenga ambiguamente i radicali, è disperatamente impegnata nella tutela dell'ordine costituito. Conseguenza di tutto questo, la nuova formazione di orientamento islamico sta alacremente preparandosi ad affrontare quello che presume sia l'inevitabile assalto armato dell'esercito siriano e delle grandi potenze: un assalto facilitato da qualche ex appartenente dal Libero Esercito Siriano, che ormai si configura come null'altro che una copia dei "consigli del risveglio" già visti in Iraq. Lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante sta ripulendo zone nel nord del paese dagli altri gruppi armati dell'opposizione: si teme che possano trasformarsi in cavalli di Troia per l'attesa offensiva contro gli jihadisti.
La conferenza di Ginevra I si basava sulla presunzione, alquanto prematura, di un ritorno al vecchio mondo bipolare: AmeriKKKa e Russia avrebbero alla fine trovato una soluzione per la Siria. Ginevra I non ha portato ad alcun esito in primo luogo perché gli Stati Uniti, con Gran Bretagna e Francia a sostenerli, pretendevano che la soluzione la trovassero i russi, ma più che altro perché né gli Stati uniti né la Russia avevano alcuna soluzione pronta. In questo momento le divisioni in Medio Oriente sono troppo profonde perché si possa pensare di affrontarle con qualche incontro al vertice. Questo, ai tempi di Ginevra I. Ora sembra che il bipolarismo sia tornato in auge, almeno su questa materia in particolare, ma soprattutto è possibile che si trovi l'elemento che è mancato fino ad oggi, a patto che le iniziative diplomatiche tra Stati Uniti ed Iran portino a qualche frutto. In definitiva, alla Siria serve che si arrivi ad un accordo regionale tra Iran ed Arabia Saudita, che renda a sua volta possibile un qualsiasi accordo con le grandi potenze. Dovremo vedere in che modo il tranquillo impegno che l'Iran profonde nei confronti della Siria sarà utile per trovare un ampio accordo regionale, probabilmente basato su scambi che riguardino la Siria ed il Libano, o che siano tra la Siria ed il Libano direttamente.
Qualunque cosa succeda, a farne le spese saranno i due principali gruppi di opposizione in Siria. L'Esercito dell'Islam si aspetta da un momento all'altro di essere colpito dalle grandi potenze (gli "interessi condivisi" essenziali che uniscono Russia e Stati Uniti) e non ha comunque interesse a giungere ad un accordo. L'altra formazione di maggior consistenza, i Fratelli Musulmani in Siria, teme qualcosa di diverso, ovvero che l'Arabia Saudita si comporti in Siria come si è comportata in Egitto, vale a dire che distrugga il movimento. Qui esiste un resoconto su come essi considerino esattamente in questa prospettiva il nuovo capo della nuova opposizione Ahmad Assi al Jarbah, un leader tribale che molti dei Fratelli chiamano "l'uomo di Bandar bin Sultan". I Fratelli Musulmani pensano che sia stato tirato su dai sauditi apposta per diventare una versione siriana del Generale Sisi, qualcuno che si abbatta su di loro come un maglio.

La virata di centoottanta gradi nell'atteggiamento statunitense pare aver prodotto come effetto che gli elementi più laici dell'opposizione siriana armata hanno capito che non possono sperare di prevalere contro l'Esercito dell'Islam, a meno che non si alleino con l'esercito regolare siriano; cosa temuta ed attesa dallo stesso Esercito dell'Islam. L'Esercito dell'Islam è comunque il più forte gruppo dell'opposizione ed ha un orientamento refrattario ai compromessi; i Fratelli Musulmani nutrono il grosso sospetto di trovarsi davanti ad una trappola in stile egiziano, e pare esserci poco posto per loro in qualsiasi Ginevra II, ammesso che si arrivi mai a tenerne una. Allo stesso modo, poco spazio pare esserci anche per Francia e Gran Bretagna.

mercoledì 16 ottobre 2013

Le esequie di Erich Priebke e la Fraternità Sacerdotale San Pio X



Il signor Erich Priebke è stato uno Hauptsturmführer delle SchutzStaffeln condannato all'ergastolo per crimini di guerra; è morto centenario a Roma l'11 ottobre 2013.
Dei funerali religiosi del cattolico Priebke si sarebbe addossata l'iniziativa la Fraternità Sacerdotale San Pio X, che dispone di un luogo di culto nella vicina Albano Laziale; l'iniziativa è stata bersaglio di contestazioni tanto accese da convincere il celebrante a lasciar perdere.
La Fraternità Sacerdotale San Pio X è oggetto ricorrente di attenzioni non gradite da parte di detrattori che ne stigmatizzano l'antisemitismo; il 15 ottobre il sito dell'organizzazione ha pubblicato quanto segue. Avvertiamo che nel testo citato compare il nome dello stato che occupa la penisola italiana; ce ne scusiamo come d'uso con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

La Fraternità San Pio X ha ricevuto in queste ore la richiesta da parte dei familiari del signor Erich Priebke di poter celebrare le esequie del controverso ex ufficiale tedesco già condannato dalla giustizia italiana per l’atroce eccidio delle Fosse Ardeatine.
Un cristiano che è stato battezzato e che ha ricevuto i sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, qualunque siano stati le sue colpe ed i suoi peccati, nella misura in cui muore riconciliato con Dio e con la Chiesa ha diritto alla celebrazione della S. Messa e alle esequie.
Con la presente ribadiamo il nostro rifiuto di ogni forma di antisemitismo e di odio razziale ma anche dell’odio sotto tutte le sue forme.  La religione cattolica è quella della misericordia e del perdono.
Questo funerale si sarebbe dovuto svolgere in forma privata, senza alcuna enfasi o strumentalizzazione mediatica.
Nell’augurare un buon lavoro a tutti i signori giornalisti restiamo convinti della necessità di non scambiare un atto di pietà cristiana con un gesto ideologico, la pietà e la misericordia non possono essere intermittenti, ma devono guidare sempre la Chiesa di Cristo.
Con la presente smentiamo risolutamente qualunque altra presunta dichiarazione di membri della Fraternità raccolte in queste ore dai giornali.

Il Distretto d’Italia della Fraternità San Pio X

La Fraternità San Pio X mette le mani avanti ed ha ottimi motivi per farlo perché a reperire gente e materiali in grado di "strumentalizzare mediaticamente" la situazione -ovvero di evidenziare la lodevole coerenza della Fraternità con i propri riferimenti culturali- i gazzettieri ci hanno messo sì e no un quarto d'ora.
Purtroppo internet ha un'ottima memoria e non sempre mettere le mani avanti rappresenta una garanzia sufficiente.
Archive.org riporta diverse pagine del sito della Fraternità Sacerdotale come appariva prima del recente rifacimento. Una di queste pagine presenta l'elenco dei libri disponibili presso la Fraternità nel marzo 2003. I giorni erano quelli dell'aggressione yankee all'Iraq e dell'islamofobia obbligatoria, ma la Fraternità preferiva dedicarsi alla diffusione di propaganda antimassonica.
In mezzo ai vari testi figurava anche
Protocolli dei Savi di Sion, dell’Internazionale ebraica, pagg. 272, € 15,40.
I Protocolli sono troppo noti perché ci si debba dilungare sul loro contenuto e sulla loro perdurante importanza presso i settori più ebefrenici dell'antisemitismo da spaghetteria; quello che conta, qui, è sottolineare che la Fratellanza diffondeva -ed ha diffuso per anni- testi come questo.
Difficile rispedire al mittente eventuali illazioni, con un retroterra culturale di questo genere. E difficile anche evitare che qualche fogliettista -nello specifico Giuseppe Cruciani- si ricordi di Florian Abrahamowicz, allontanato dalla Fraternità quando il suo antisemitismo ha smesso di essere parte delle soluzioni per cominciare a diventare parte dei problemi.
Il pressappochismo babbeo e la cattiveria piccina che animano certe conventicole non costituirebbero un problema se non avessero una costante e ampiamente sostenuta visibilità mediatica.
La loro insistenza è dunque fonte di problemi perché è sulla loro visibilità che trova fondamento il bias mediatico che indica in chiunque critichi la condotta dello stato sionista (specialmente se a ragion veduta) un nostalgico delle camere a gas.

mercoledì 9 ottobre 2013

Ann Jones - L'Afghanistan finito nel buco nero della memoria


Traduzione da Asia Times.

Gli Stati Uniti saranno ancora ad impicciarsi dell'Afghanistan, di qui a trent'anni? Se la storia insegna qualche cosa, la risposta è sì. E se la storia insegna davveroqualche cosa, fra trent'anni la maggioranza degli statunitensi non avrà che un'idea molto nebulosa del perché.
E' dagli anni Cinquanta del passato secolo che gli Stati Uniti cercano di plasmare quella terra secondo i loro desideri. Dapprima l'hanno fatto ai tempi della guerra fredda con l'Unione Sovietica, con una specie di guerra degli aiuti; poi, dalla fine degli anni Settanta, combattendo indirettamente i sovietici in modo sempre più aspro e brutale; l'intenzione era quella di ripagarli per aver sostenuto i nemici dell'AmeriKKKa durante la guerra in Vietnam. Da una brutta guerra a un'altra.
Fino all'inizio degli anni Novanta Washington ha messo armi in mano ad ogni sorta di fondamentalista islamico estremista, tutti visti come alleati naturali e devotamente religiosi nella guerra contro il "comunismo senza dio". Hanno gongolato per la sconfitta dell'Armata Rossa e per l'inaspettata implosione dell'impero sovietico, poi hanno sperimentato sulla loro stessa pelle le sue conseguenze, direttamente dall'Afghanistan, con l'undici settembre del 2001. Dopo cinquant'anni di schermaglie dietro le quinte, gli Stati Uniti sono impegnati direttamente sul campo dal 2001 e adesso, dopo dodici anni, stanno ancora combattendo contro certi afghani per conto di altri afghani, intanto che addestrano truppe afghane affinché siano in grado di combattere in proprio contro i loro stessi compatrioti e contro chiunque altro.
In tutto questo tempo gli Stati Uniti hanno sempre affermato di avere a cuore ciò che era il meglio per il popolo afghano, e a seconda dell'occasione hanno sbandierato la modernizzazione, la democrazia, l'istruzione, o i diritti delle donne. Eppure, quanti afghani tornerebbero ora indietro agli anni Cinquanta, all'epoca in cui ancora gli ameriKKKani non avevano messo gli occhi addosso al loro paese? Dodici anni di coinvolgimento diretto, trentacinque anni in cui si sono armate e finanziate questa o quell'altra fazione, dopo sessant'anni passati a cercare di far sì che l'Afghanistan corrispondesse agli obiettivi ameriKKKani, a che punto siamo oggi? Non lo sappiamo neanche più, ammesso che lo abbiamo mai saputo. L'ameriKKKano della strada si è stancato da tempo dei bollettini ufficiali di come andavano le cose, e ha staccato la spina da un bel po'.
Nel 1991, come ricorda Steve Coll in Ghost Wars, un agente della CIA rimasto senza nome chiese al Presidente George H W Bush qualcosa sulla guerra in Afghanistan. Non molto tempo prima il Presidente aveva dato il benestare affinché armamenti iracheni catturati durante la prima guerra del Golfo e valutati una trentina di milioni di dollari venissero consegnati ad una congerie di fazioni di estremisti islamici che avevano finito per combattersi l'un l'altra e per adoperare quelle armi irachene di seconda mano per distruggere la capitale afghana Kabul. Bush si mostrò sorpreso per la domanda del tizio della CIA su come andasse la guerra. Pare abbia risposto: "Ma quella faccenda sta andando ancora avanti?" 
Pare che questo modo sbadato di affrontare le guerre sia diventato una caratteristica tutta ameriKKKana. Certo, c'è voluto poco perché ci si dimenticasse della guerra in Iraq; perché l'Afghanistan dovrebbe costituire un'eccezione?
Certo, ci vorranno molto più tempo e molti più sforzi per abbandonare l'Afghanistan. Niente sbocchi al mare, niente navi, stradacce, alti pedaggi e IED, gli ordigni improvvisati. Portar via tutto con i camion è un problema; usare gli aerei è costosissimo anche perché parecchie delle cose da trasportare sono veramente grandi. I veicoli MRAP, quelli resistenti alle mine e alle imboscate, sono undicimila e ciascuno pesa quattordici o più tonnellate. Anche quell'autentico barroccio dei cieli che è il C17 riesce a portarne non più di quattro per ogni carico.
L'inventario degli equipaggiamenti cambia di continuo, ma sono da stimarsi centomila container e cinquantamila veicoli da togliere di lì prima della fine del 2013, cui vanno aggiunti equipaggiamenti ora considerati "obsoleti" per un valore di più di trentasei miliardi di dollari. La stima delle spese per le spedizioni è già salita a sei miliardi di dollari e sicuramente continuerà a salire, come è salito il costo totale della guerra.
Materiali per sette miliardi di dollari -circa il venti per cento di tutto quello che gli Stati Uniti hanno inviato in quel lontano paese- stanno adesso venendo dismessi, demoliti, divisi, frantumati, pressati e, quando possibile, venduti come rottami per due palanche. I più difficili da demolire sono i pesanti MRAP. Introdotti nel 2007 al prezzo di un milione ciascuno per affrontare le micidiali bombe a bordo strada, si è più tardi scoperto che non erano poi meglio dei più economici veicoli che avevano sostituito, quanto a protezione per i soldati ameriKKKani. Degli undicimila MRAP spediti in Afghanistan, duemila sono in via di demolizione. Ne rimangono novemila soltanto da rimandare in Kuwait quattro per volta, e da rispedire da lì verso casa o da "riposizionare" da qualche altra parte, in attesa di qualche futuro nemico.
I militari non esagerano quando definiscono epocale questo colossale lavoro di distruzione del surplus. Nella storia del Pentagono non ci sono precedenti per dismissioni di questa portata. Il pezzo principale di questo gran lavoro di demolizioni potrebbe essere il centro di comando per la provincia di Helmand: sessantaquattromila piedi quadrati pari a cinquemilanovecentoquarantasei metri quadri, modernissimo e costato trentaquattro milioni di dollari. E' stato completato appena prima che la maggior parte delle truppe statunitensi lasciasse la zona, e adesso è probabile che venga demolito. Altrimenti c'è la struttura, costata quarantacinque milioni, costruita a Kandahar perché servisse da centro riparazioni per i blindati. Adesso serve per demolirli, i blindati, e probabilmente verrà poi demolito esso stesso.
I contribuenti, prima o poi si porranno qualche domanda sul conto di questo scialo epico; di sicuro saranno contenti i fabbricanti di armi, che riprenderanno a rifornire l'esercito fin quando non potremo acciarci in un'altra guerra vera e propria.
Uscire dall'Afghanistan è un lavorone; a questo ci si arriva senza nemmeno dare una guardata alle scartoffie. Tutti i piani d'uscita, tutti i documenti col governo Afghano che vanno compilati per avere il permesso di portar fuori dal paese i nostri stessi mezzi, tutte le multe che ci hanno fatto per via dei documenti doganali che mancavano (solo queste assommano a settanta milioni), tutte le tasse sull'export da pagare e tutte le ruote che si devono ungere, tutti i quattrini da passare ai talebani perché non sparino contro le cose che portiamo via coi camion. Tutte cose che richiedono tempo.
Quando si arriva al punto, gli Stati Uniti hanno un modo sicuro per finire una guerra, non importa se finisce davvero oppure no: quando diciamo noi che la guerra è finita, la guerra è finita.

Succede, poi, che la guerra magari non è poi così finita per tutti quanti. Guardate l'Iraq, per esempio. Gli ultimi soldati ameriKKKani hanno lasciato il paese nel dicembre 2011, lasciando sedicimila uomini. Cinquemila di questi sono contractors privati, che fanno la guardia a quella fortezza da settecentocinquanta milioni di dollari che è l'ambasciata statunitense a Baghdad.
Sono due anni che quella guerra è finita; si stanno facendo tagli al personale d'ambasciata, eppure la gragnuola di notizie che parlano di autobombe, di attacchi suicidi, di tornate di pulizia etnica non è diminuita. Soltanto quest'anno sono morti, fino ad oggi, circa seimila iracheni. Mille nel solo mese di luglio, che è stato il mese in cui ci sono state più vittime dal 2008 ad oggi. Anche gli iracheni che hanno passato nelle loro case tutto il tempo che è durata la guerra adesso stanno facendo fagotto, cosa che milioni di iracheni hanno già fatto prima di loro: per la maggior parte sono stati vittime della pulizia etnica messa in opera durante la "insurrezione" del 2007 fomentata dagli ameriKKKani, i cui risultati adesso hanno raggiunto la finezza di un'opera d'arte. I diplomatici stranieri a Baghdad inviano messaggi informali che comprendono l'espressione "peggio che mai".
Anche in Afghanistan, intanto che si ritiene che si avvicini la fine per un conflitto durato anche più a lungo, il numero di civili uccisi si è impennato, così come è cresciuto drammaticamente il numero delle donne e dei bambini che si trovano fra quei morti. Il numero speciale di The Nation di questa settimana presenta un esauriente studio sul tasso di vittime civili redatto a Bob Dreyfuss e Nick Turse: pare che le vittime civili non facciano che aumentare sempre più velocemente, come se si fosse in una odiosa corsa alla morte.
Sia gli iracheni che gli afghani sono in mezzo al guado, e temono l'incerta fine della partita. Dal 2010 il numero di afghani che ha formalizzato richiesta di asilo in qualche altro paese è aumentato sensibilmente e nel 2012 ha raggiunto quota trentamila. Altre migliaia di persone, che sfuggono ai conteggi, abbandonano il paese con metodi illegali ed in ogni pericolosa maniera. Le loro odissee disperate per mare e per terra sollevano discussioni nei paesi che essi tentano di raggiungere: è stata proprio una carretta che trasportava afghani a tirare la volata alla retorica antiimmigrazione dei candidati alle ultime elezioni in Australia, rivelando un aspetto oscuro del carattere degli australiani. Lo stesso che avrebbe rivelato la morte tra i flutti dei profughi, afghani e non. Le conseguenze della guerra si fanno sentire anche nei luohghi più insospettabili.
Gli afghani che restano nel loro paese sono preoccupati. Nell'orizzonte immediato ci sono le elezioni presidenziali, fissate per il cinque aprile del 2014. Tutti sanno già che il numero delle tessere elettorali supera di parecchio quello degli elettori, e che milioni di altre tessere saranno rilasciate a persone che si iscrivono alle liste; è verosimile che le presidenziali saranno truccate almeno quanto quelle del 2009, circostanza in cui le tessere elettorali si vendevano a manciate.
La costituzione impedisce a Hamid Karzai di candidarsi per la terza volta e la corsa per la presidenza è aperta. O già decisa, come pensano in molti. Ad  agosto le agenzie di stampa afghane hanno riferito che Karzai ha presieduto un incontro con alcuni dei più potenti signori della guerra del paese per perorare la candidatura di Abdul Rab Rasoul Sayyaf: uno che intimidisce le parlamentari donne e che è stato a lungo compagno di Bin Laden, nonché sostenitore di Khalid Sheikh Mohammed di AlQaeda e che si ritiene probabile abbia collaborato all'uccisione, avvenuta due giorni prima dell'undici settembre 2001, di Ahmad Shah Massoud, il più strenuo oppositore dei talebani. In poche parole, la quintessenza dello jihadista intoccabile.
E' tremendo e allo stesso tempo grottescamente ironico pensare che mentre gli Stati Uniti hanno creduto di combattere questa interminabile guerra per assicurarsi che AlQaeda non avrebbe mai più trovato rifugio in Afghanistan, il prossimo presidente afghano potrebbe essere davvero lo stesso individuo che prima ha invitato Bin Laden in Afghanistan, e poi ne è diventato compagno nella realizzazione dei campi di addestramento di AlQAeda. 
Persino Karzai, cui pure piace mettere le dita negli occhi degli ameriKKKani, ha preso velocemente le distanze da questa oscenità. Dopo qualche ora dall'uscita della notizia ha affermato che sarebbe rimasto "neutrale". Gli ameriKKKani hanno dato poco peso alla cosa; gli afghani invece hanno considerato con molta attenzione quello che Karzai aveva fatto. Intanto che Sayyaf e gli altri potenziali candidati si mettono d'accordo sottobanco giocandosi le migliori posizioni, gli afghani attendono con impazienza di sapere chi entrerà davvero a far parte dell'elettorato passivo prima della scadenza, fissata per il sei ottobre.
I nomi che girano sono quelli dei soliti sospetti: ex capi di milizie familiari dei tempi che furono, ex jihadisti e maneggioni della politica. Mentre stiamo scrivendo pare che si stia formando un gruppo coeso che raccoglie alcuni dei più potenti tra tutti costoro e che sosterrebbe l'ex ministro degli esteri Abdullah Abdullah, che già arrivò secondo alle elezioni truccate del 2009; rifiutò il ballottaggio, anch'esso verosimilmente già deciso dai brogli.
Un politico afghano, riassumendo una recente rassegna di candidati dello stesso genere, ha riferito allo Washington Post un'impressione ampiamente condivisa dagli afghani: "Queste sono le persone che hanno distrutto il nostro paese: bisognerebbe buttarle tutte giù nel pozzo".
Gli afghani assediati le hanno già viste tutte. A volte va a finire con dei risultati manipolati. A volte con un colpo di stato. Una volta, negli ultimi tempi, con una guerra civile che potrebbe anche riaccendersi.
Intanto Karzai ha avuto da discutere anche con la commissione indipendente afghana per i diritti umani (AIHRC), un istituto governativo capeggiato dal candidato al Nobel per la pace Sima Samar che è l'istituzione più rispettata in tutto il paese proprio perché si è mantenuta indipendente dall'influenza politica del governo.
Nel dicembre 2011 Karzai fermò il lavoro imparziale della AIHRC lasciando che scadesse il mandato di tre dei suoi più influenti membri. Un'altra influente attivista della AIHRC era stata uccisa nel corso dello stesso anno, assieme al marito e a quattro figli, da un attacco suicida talebano in un supermercato di Kabul; pare che l'obiettivo fossero alcuni appartenenti alla Blackwater -ora chiamata Academi.
La mossa di Karzai ha tolto di mezzo Ahmad Nader Nadery, un instancabile investigatore di crimini di guerra cui si deve gran parte di una mappatura mai pubblicata ufficialmente, in cui pare figurino i nomi di importanti signori della guerra e membri del governo Karzai.
Dopo un anno e mezzo di stop, lo scorso luglio Karzai ha infilato nella AIHRC cinque suoi manutengoli privi di qualunque competenza in fatto di diritti umani. Tra di loro ci sono un generale dell'esercito, un iscritto ad un partito islamico fondamentalista ed un mullah già membro del governo talebano che ha passato tre anni in un cercere militare statunitense a Bagram (senza che nei suoi confronti venisse formalizzata alcuna accusa) considera la legge sacra come la miglior legislazione possibile in materia di diritti umani e si oppone alle leggi oggi in vigore il cui scopo è proteggere le donne dalla violenza.
A settembre Navi Pillay, commissario dell'ONU per i diritti umani, ha compiuto una straordinaria visita personale a Kabul per esortare Karzai a ritornare sulla questione, prima che l'AIHRC perdesse l'altissimo prestigio di cui gode a livello internazionale e che i paesi sostenitori fossero costretti a ripensare al modo in cui stavano aiutando un governo repressivo. E' dovuta ripartire senza alcuna assicurazione, affermando preoccupata che qualsiasi "miglioramento nel campo dei diritti uimani" non stava conoscendo soltanto un momento di regressione in Afghanistan, ma piuttosto perdendo ogni concretezza.

Adesso che la fine dell'occupazione internazionale si approssima, è in corso d'opera anche una profonda riconsiderazione del suo successo. I grandi successi che Washington ha rivendicato in Afghanistan sembrano in qualche modo fortemente ridimensionati e molto meno impressionanti. Istruzione, salute e diritti umani, proprio come i famosi MRAP, non sono sopravvissiuti alla campagna pubblicitaria che li sosteneva.
I capi dei governi occidentali, per esempio, si sono mostrati molto orgogliosi per gli asseriti progressi del sistema dell'istruzione in Afghanistan dopo la sconfitta dei talebani nel 2001: si costruivano scuole e si iscrivevano studenti a milioni. Soltanto l'agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha speso 934 milioni di dollari in dodici anni per l'istruzione in Afghanistan. Poi è arrivato l'UNICEF a spiegare che quasi la metà delle "scuole" date per costruite o per aperte non disponeva di veri e propri edifici e che in quelle che una sede ce l'hanno gli studenti stanno in due per ogni banco e condividono testi antiquati.
Ci sono pochi insegnanti e meno di un quarto di essi può essere considerato qualificato, anche secondo gli standard minimi per il paese. I numeri impressionanti del personale definiscono la quiantità di denaro che il governo elargisce a ciascun istituto scolastico, ma nascondono la consistenza, assai ridotta, di quelli che ci lavorano davvero. Alla fine delle scuole secondarie arriva non più del dieci per cento degli iscritti, e si tratta per lo più di maschi. Secondo l'UNICEF nel 2012 solo la metà dei bambini in età di obbligo scolastico è davvero andata a scuola.
I finanziatori occidentali hanno menato vanto anche per i progressi nel settore della salute. La roboante affermazione che l'85% degli afghani ha ora accesso alle cure di base significa in realtà che un qualche cosa che si chiama "presidio sanitario" esiste nell'85% dei distretti, molti dei quali hanno un'estensione enorme.
Decine di migliaia di afghani adesso hanno accesso ai presidi sanitari solo perché hanno abbandonato le provincie sconvolte dalla guerra e sono andati a vivere in campi profughi che sorgono ai margini delle grandi città. Gli alti tassi di mortalità infantile e puerperale dell'Afghanistan sono lievemente migliorati, ma restano a livelli tra i peggiori del mondo. C'è da chiedersi se Washington non avrebbe potuto trovare un impiego migliore per tutti i soldi che ha speso per i blindati.
I progressi dei diritti delle donne sono un campo in cui i politici ameriKKKani e di altri paesi le hanno sparate grosse. Esiste una relazione dell'organizzazione indipendente Afghan Rights Monitor pubblicata a dicembre 2012 che racconta qualcosa di un po' più realistico. Descrive soltanto dieci tra i casi verificatisi negli ultimi anni, di donne assassinate a causa del loro lavoro e delle loro idee. Si tratta di attiviste per lo sviluppo, di un medico, di due giornaliste, di un governatore provinciale, di un insegnante e di un ufficiale di polizia.
Nigara era una coraggiosa veterana tenente di polizia, che una volta ha fermato un attentatore suicida tenendolo abbracciato stretto; è stata uccisa due settimane fa. Due uomini su una moto le hanno sparato alle spalle, colpendola al collo, mentre aspettava che un autobus governativo la portasse sul luogo di lavoro. Era la poliziotta più esperta di tutta la provincia di Helmand e aveva rilevato le consegne di Islam Bibi, il suo predecessore ucciso soltanto tre mesi prima nella stessa maniera abituale.
Per omicidi come questo nessun afghano è mai stato processato, né il presidente Karzai si è mai espresso sull'argomento. Non esistono registri governativi in cui figurino le donne cadute nell'adempimento dei loro doveri.
I bravi vicini pakistani hanno scelto proprio questi giorni per rimettere in libertà in una "località segreta" il mullah Abdul Ghani Baradar, compagno da lunga data del leader dei talebani mullah Omar e formalmente suo secondo. Karzai ha fatto propaganda a favore di questa liberazione asserendo che essa faciliterebbe il "processo di pace" in Afghanistan, ma ora che Baradar è libero, ufficialmente nessuno sa dove si trovi. Come pensate che una notizia del genere verrà accolta dalle donne afghane, o dalle ragazze nella valle pakistana dello Swat?
Ecco come sta finendo la guerra: distruzione, sprechi, timori, cospirazioni, e l'evaporare di tante illusorie conquiste.
Il crollo di mille indici segna la rovina dell'Afghanistan, punteggiata dalla morte violenta e repentina delle donne.
Eppure, anche mentre la guerra "finisce" e gli ameriKKKani neanche la ricordano più, in Afghanistan essa è tutt'altro che finita. Obama e Karzai continuano a negoziare per un accordo di sicurezza bilaterale che permetta alle truppe statunitensi di mantenere almeno nove delle loro basi più importanti e varie migliaia di "addestratori" (oltre che a forze speciali, senza dubbio), verosimilmente senza alcun limite di tempo.
E la guerra non è finita neanche negli Stati Uniti. Per i soldati ameriKKKani che vi hanno partecipato e che ne sono tornati con terribili ferite fisiche e mentali, per le loro famiglie, le battaglie sono appena cominciate.
Per i contribuenti ameriKKKani, la guerra andrà avanti almeno fino alla metà del secolo presente. Pensate a tutte le famiglie dei caduti, che vanno indennizzate per la loro perdita; a tutti i feriti con le loro spese sanitarie, a tutti i veterani invalidi per problemi mentali, ai quali pensa il Department for Veteran Affairs. Pensate ai costi dei farmaci, delle protesi, delle indennità. I soli costi per le cure e le invalidità si stanno avvicinando ai 754 miliardi di dollari. Per tacere delle ragguardevoli pensioni che spettano a tutti quei generali che hanno stilato i bollettini, che con tanta ambizione hanno combattuto più di una guerra destinata a non portare da nessuna parte.
E poi c'è la necessità urgente di sostituire tutti gli equipaggiamenti obsoleti rottamati con tanta efficienza, e di reclutare un esercito tutto nuovo, così che la prossima guerra la possiamo incominciare tra un mese. Non dimentichiamocelo, questo.


Ann Jones ha scritto dall'Afghanistan sin dal 2002 ed è autrice tra l'altro di Kabul in winter (2006) e di War is not over when it's over (2010). In pubblicazione per Haymarket Books è una sua trilogia sulla guerra: They were soldiers. How the wounded return from America's wars - The untold story. Andrew Bacevich ha recensito il libro in questo modo: "Un racconto che non risparmia niente, ferocemente diretto, che fa accapponare la pelle. La guerra come Washington non vuole che la si veda. A lettura ultimata, guardate un po' se è vero che gli ameriKKKani "sostengono le truppe".


martedì 1 ottobre 2013

Alastair Crooke - Repubblica Araba di Siria: i risultati controproducenti di una strategia



Traduzione da Conflicts Forum.
Lo scritto è comparso sul
Guardian del 29 settembre 2013.

Gli avvenimenti hanno preso una direzione strana; da essere sull'orlo di un intervento militare in Siria capace di far esplodere un conflitto regionale, adesso ci troviamo in uno di quei rari momenti di svolta nella questione Iran che sembra denso di potenzialità, compresa una soluzione per la Siria. Certo, da condizioni come quelle attuali si diramano strade che possono portare tanto a nuove soluzioni quanto a nuove fasi del conflitto.
Perché i possibili colloqui statunitensi con l'Iran sarebbero tanto ricchi di potenziali implicazioni? Dieci anni fa, da un punto di svolta analogo nacque un conflitto tra il cosiddetto "asse del male" e i "moderati" sostenuti dall'Occidente. La feroce resistenza di Iran, Siria, Hezbollah e (all'epoca) Hamas contro il tentativo di imporre in Medio Oriente una "egemonia della moderazione" ha fatto sì che rovesciare il governo siriano sia diventata una questione di fondamentale importanza per le monarchie sunnite del Golfo.
Dopo la guerra in Libano nel 2006 l'Arabia Saudita ha assistito con apprensione alla crescente popolarità dell'Iran e di Hezbollah anche nelle sue piazze sunnite; sembrava che l'Islam rivoluzionario avesse il vento in poppa. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, per i paesi del Golfo, è stata l'ondata di insurrezioni arabe del 2011, animata da un'evidente insofferenza per l'autorità costituita. Gli stati del Golfo hanno allora deciso di fare qualunque cosa pur di fermare l'Iran e le nuove correnti di pensiero, come quella dei Fratelli Musulmani allora in piena ascesa. Sembrava si trattasse di una questione di vita o di morte e rovesciare il presidente Bashar al Assad è diventato il punto cardine della strategia per contrastare l'Iran.
La strategia di contenimento messa in atto dai paesi del Golfo, basata sullo scatenamento di una "intifada" sunnita contro l'influenza sciita, sembra aver fallito. I sovrani del Golfo si trovano ora a dover ingoiare il rospo della marcia indietro di Barack Obama sull'aggressione alla Repubblica Araba di Siria e della sua apertura verso la Repubblica Islamica dell'Iran, con tutte le loro implicazioni. A rendere così traumatica la situazione c'è il fatto che non è stato solamente Obama, ma l'intero sistema statunitense, elettori e Congresso, a tirarsi indietro. Un vero sbandamento strategico. Assad resta al suo posto, e l'Iran non solo non viene tolto di mezzo, ma ne esce rafforzato.
Come conseguenza, i leader del Golfo si sono esibiti in un convinto tintinnare di sciabole e minacciano di andare dritti per la loro strada a dispetto della "debolezza degli Stati Uniti", decisi come sono a plasmare il Medio Oriente a immagine e somiglianza del loro autoritarismo. Tutto questo, tuttavia, è più che altro un pio desiderio, nonostante la vittoria di Pirro che potrebbero aver avuto in Egitto. Da tutto il loro soffiare sul fuoco dell'Islam sunnita stanno nascendo sia qualcosa di estremista anziché di moderato, proprio come nell'Afghanistan di trenta anni fa, sia un conflitto tra sunniti.
Anche la strategia dei paesi del Golfo nei contronti della Siria è andata in pezzi; non sta avendo successo sul campo e, paradossalmente, pare che l'imminente prospettiva di un intervento statunitense in Siria abbia dato origine ad uno scisma in seno all'opposizione siriana. I gruppi jihadisti temevano di essere il primo obiettivo degli attacchi statunitensi, prima tappa verso la messa in opera di un Libero Esercito Siriano che fosse la copia dei consigli per il risveglio sunnita in Iraq, al punto che per diversi giorni ci sono stati sanguinosi combattimenti tra fazioni diverse dell'opposizione. Il perverso risultato di tutto questo è stato l'ulteriore inasprirsi del radicalismo dei gruppi jihadisti in tutto il paese, sì che tredici delle fazioni combattenti più forti, primo tra tutti il Fronte di al  Nusra, adesso rifiutano di riconoscere l'autorità del gruppo di opposizione sostenuto dall'Occidente e si sono invece rivolti alla legge sacra.
Chi è che adesso può essere ritenuto il rappresentante dell'opposizione?
Davanti alla piega presa dagli eventi è probabile che nel Golfo rabbia e risentimento non facciano altro che crescere, ma fino a che punto le monarchie possono allontanarsi dall'orbita occidentale, alla quale sono legate in tanti modi? In fin dei conti, il punto di svolta cui ci troviamo presenta la possibilità di rivedere i passi fin qui compiuti in direzione di un conflitto; l'Iran sta già segnalando la propria disponibilità ad aiutare l'Arabia Saudita a fare le mosse necessarie, come indica chiaramente la recentissima nomina dell'ammiraglio ALi Shamkhani, ben noto a Re Abdullah per il ruolo di mediatore ricoperto in altre occasioni, a consigliere per la sicurezza nazionale.
Facendo a meno della contrapposizione tra Asse del Male e "moderati", è possibile anche arrivare ad una soluzione politica per la Siria. Come ha fatto notare un ex diplomatico, "I persiani e gli sceicchi sunniti litigano tutto il tempo, ma sono anche in grado di fare la pace senza che ci sia qualche outsider ad aiutarli". Se ricomporre le divergenze porterà frutti, è verosimile che la Siria ne sarà parte rilevante.