martedì 20 aprile 2021

Alastair Crooke - In Medio Oriente qualcosa si muove

 


Traduzione da Strategic Culture, 19 aprile 2021.

Se consideriamo il Medio Oriente come un complesso sistema di reti, è possibile identificare una serie di dinamiche che hanno adesso attivato le proprie potenzialità per imporre una nuova rotta all'intera matrice regionale.
Le basi di alcune di queste potenzialità sono state gettate ormai da qualche tempo. Nel 2007 a Monaco di Baviera il presidente Putin disse davanti a un pubblico in gran parte occidentale che l'Occidente aveva assunto un atteggiamento ostile nei confronti della Russia e che si era messo a sfidarla. "Va bene", disse Putin: "noi la sfida la accettiamo, e la vinceremo".
La sua dichiarazione venne accolta con aperta derisione dal pubblico di Monaco.
Ora, molti anni dopo e in seguito ai litigiosi scambi di Anchorage, la risposta di Putin si è rivelata in tutte le sue implicazioni: La Cina ha detto a Washington, senza mezzi termini, che rifiuta l'imposizione dei valori e dell'egemonia occidentale. La Cina ha quindi raccolto, come la Russia, il guanto della sfida occidentale; in possesso di valori propri e di una propria visione del mondo che è determinata a perseguire, ha notato che gli Stati Uniti non erano in una posizione di forza che consentisse loro di pretendere altrimenti. La Cina o la Russia non cercano la guerra con gli Stati Uniti e non vogliono la guerra fredda; però sono intransigenti sulle proprie "linee rosse". Che dovrebbero essere prese alla lettera e non intese come degli impuntamenti di circostanza, ha indicato la Cina.
Due giorni dopo il Ministro degli Esteri cinese e Lavrov hanno consigliato agli altri stati di non accarezzare nemmeno l'idea di schierarsi con gli USA contro la 'squadra' concertata Russia-Cina; sarebbe inutile. Pochi giorni dopo Wang Li era in Medio Oriente - Arabia Saudita, Emirati Arabi e poi Teheran. Il messaggio era sempre lo stesso: scuotere il giogo dell'egemonia; resistere alle "pressioni" sulla questione dei diritti umani; dare piena attuazione alla propria sovranità. L'attraversamento del Rubicone. In Iran, il ministro degli Esteri Wang Li ha firmato accordi per quattrocento miliardi di dollari in progetti di infrastrutture di trasporto e di energia. Dal punto di vista della Cina, una ragnatela eurasiatica di binari ferroviari e condutture interconnesse ha la potenzialità di abbattere i costi di trasporto e di creare nuovi mercati, mentre l'investimento nell'energia iraniana fornisce alla Cina un accesso sicuro alle fonti energetiche.
Il piano cronologico degli accordi fra Cina e Iran prevede tuttavia anche la cooperazione in materia di sicurezza (con la Cina che appoggia la piena adesione iraniana all'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), esercitazioni navali congiunte, condivisione delle informazioni di intelligence e altro ancora. Ancora più significativa sarà forse l'incorporazione dell'Iran nella Via della Seta Digitale Eurasiatica, che incorpora telecomunicazioni, cablaggio in fibra ottica dalla Cina alla Francia, 5G, sistemi di intelligenza artificiale 'Smart City', piattaforme di pagamento digitale (il gestore di hedge fund americano Kyle Bass sostiene che i sistemi di pagamento digitale della Cina saranno in grado di raggiungere il 62% circa della popolazione mondiale), analisi di cloud storage e strutture internet "sovrane".
L'Iran, anche se non fa ancora parte della Via della Seta Digitale, è già abbastanza "cinese" da questo punto di vista, al pari di gran parte dell'Asia occidentale. Alcune stime suggeriscono che un terzo dei paesi che partecipano alla Nuova Via della Seta a questo punto stiano collaborando per progetti che fanno parte della Via della Seta Digitale.
Le narrazioni occidentali generalmente sopravvalutano la misura in cui i progetti legati alla Via della Seta Digitale sono parte di una strategia cinese coordinata. I progetti raggruppati sotto la corrispondente sigla DSR, tuttavia, sono in gran parte guidati dal settore privato e permettono alle aziende cinesi di trarre vantaggio dal sostegno politico fornito sotto il marchio DSR (un tipo di franchising), mentre rispondono alla crescente domanda di infrastrutture digitali nei paesi della BRI. Fino a poco tempo fa, la Nuova Via della Seta era intesa in gran parte nel modo più tradizionale (cioè ferrovie e condotte), piuttosto che come una 'strada' digitale; ma è quest'ultima che alla fine dividerà una 'Eurasia secondo standard cinesi' dall'Occidente.
Giusto per essere chiari, in qualunque modo si tagli la matrice delle vie di connessione della Nuova Via della Seta -est-ovest o nord-sud - l'Iran si trova proprio al centro della mappa. Il punto qui è che gran parte della fascia settentrionale del Medio Oriente - dal Pakistan al Caspio fino al Mar Nero, al Mediterraneo e all'Europa - è sui tavoli da disegno sia a Mosca che a Pechino.
Mentre la rete fisica e digitale si sviluppa dalla sua crisalide, nessuno Stato del Golfo sarà in grado di ignorare completamente questa entità geopolitica che si estende da Vladivostok a Xingjian. E in effetti non lo stanno facendo; con mille cautele, tenendo presente l'ira di Washington, stanno creandosi qualche appiglio con Mosca e con Pechino. Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sono già nella Via della Seta digitale; sembra improbabile che vadano fino alla piena integrazione, come ha fatto l'Iran con la Cina. Per quanto tempo sarà possibile destreggiarsi tra i protocolli e gli standard cinesi e quelli occidentali, è una questione aperta; alla fin fine la duplicazione degli standard diventa costosa e poco pratica.
È in questo contesto di "parte giusta della storia" che i negoziati degli accordi sul nucleare iraniano dovrebbero essere considerati. Il Dipartimento di Stato indica che gli ambienti vicini a Biden insistono che gli Stati Uniti ottempereranno agli accordi; tuttavia esistono funzionari che, al contrario, affermano che alcune sanzioni rimarranno, senza tuttavia entrare nello specifico del loro numero e del loro tipo. Non c'è da stupirsene: dopo gli accordi sono state varate 1600 sanzioni che sono andate ad aggiungersi a quelle previste dall'Iran Sanctions Act del 1996, dal Comprehensive Iran Sanctions, Accountability, and Divestment Act del 2010, dal capo 1245 del National Defense Authorization Act for Fiscal Year 2012, dell'Iran Threat Reduction and Syria Human Rights Act del 2012, dell'Iran Freedom and Counter-Proliferation Act del 2012, dell'International Emergency Economic Powers Act e infine del CAATSA Act del 2017...
L'amministrazione Obama ha attuato la maggior parte delle misure di alleggerimento delle sanzioni statunitensi previste dagli accordi sul nucleare iraniano promulgando una serie di deroghe in materia di sicurezza nazionale. Ha anche lasciato in vigore una serie di sanzioni, tra cui l'embargo sulla maggior parte del commercio degli Stati Uniti con l'Iran, le sanzioni che colpiscono il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione e altre sanzioni dirette a contrastare il presunto sostegno dell'Iran al terrorismo, oltre che quelle dirette contro il programma iraniano per i missili balistici. Queste deroghe alla sicurezza nazionale tuttavia hanno una durata limitata nel tempo, generalmente per 120 o 180 giorni, a seconda della sanzione specifica; alcune sanzioni richiedono che l'amministrazione giustifichi qualsiasi deroga e fornisca in anticipo un argomento a suo sostegno, per una revisione preventiva da parte del Congresso.
Insomma, le sanzioni statunitensi sono facili da imporre ma non da annullare, sia pure temporaneamente. Questioni istituzionali rendono quasi impossibile eliminarle in maniera definitiva. Non è affatto chiaro se l'amministrazione statunitense possa ottemperare pienamente agli accordi, anche volendo; inoltre è tutt'altro che chiaro fino a dove arrivi la motivazione di Biden in questo campo. Recentemente dal Congresso sono partite due lettere bi-partisan indirizzate a Blinken, in cui si esprime contrarietà a qualsiasi riattivazione degli accordi. Una è firmata da centoquaranta membri del Congresso. Occorre attendere gli eventi. Tuttavia, un Iran teoricamente rispettoso degli accordi -anche senza gli Stati Uniti a fare la loro parte- sarà comunque un giocatore influente sul piano regionale, specialmente se a giugno verrà eletto un presidente conservatore. Le conseguenze saranno considerevoli in tutta la regione: le pressioni per estromettere le forze statunitensi dagli stati mediorientali del nord aumenteranno significativamente.
Una terza dinamica, che risale ai tempi di Obama), è data dal fatto che gli Stati Uniti, sia pure a malincuore, si stanno disimpegnando dalla regione. Questo naturalmente ha dato impulso alla normalizzazione dei rapporti con lo stato sionista da parte di alcuni stati interessati a ripararsi sotto il suo ombrello di sicurezza.
Un'altra ancora è il fatto che la fine dell'era di Netanyahu -che del tu per tu con l'Iran ha fatto un chiodo fisso- potrebbe essere vicina. In questo momento lo stato sionista è in pezzi, a livello decisionale; il gabinetto di sicurezza non si riunisce, non esiste alcuna supervisione sul processo decisionale del Primo Ministro e le istituzioni responsabili della sicurezza stanno rischiando un salto nel vuoto per avere la meglio sui loro rivali. Netanyahu probabilmente sta cercando di segnalare a Washington che è lui ad avere diritto di veto su qualsiasi "accordo" con l'Iran, ed è sospettato dai commentatori locali anche di imporre nello stato sionista un'atmosfera di crisi tale da spingere i piccoli partiti a unirsi a un governo guidato da lui. Ha meno di tre settimane per trovare sessantuno seggi alla Knesset, o si troverà ad affrontare la possibilità di finire in carcere per corruzione; il processo è già iniziato. La realtà è che la coesione non tornerà facilmente a regnare nella politica israeliana, che Netanyahu ne levi le gambe o meno. Lo stato sionista è aspramente diviso su troppi fronti.
Molti funzionari sionisti temono insomma che le varie agenzie in competizione tra di loro per dimostrare il proprio valore, e in assenza di qualsiasi reale supervisione o coordinamento politico, possano finire con l'esagerare e con imporre allo stato sionista una rischiosa escalation militare con l'Iran.
Washington ha le mani legate: Netanyahu e il Mossad hanno spacciato alla squadra di Biden il refrain per cui l'Iran si sarebbe messo a implorare segretamente gli USA di tornare agli accordi. Questo non è vero. Netanyahu insiste su questa linea per confermare l'ipotesi cui è aggrappato da lungo tempo, per cui esercitare una massima pressione metterebbe in ginocchio l'Iran. E vuole dimostrarlo continuando a imporre questa massima pressione. Magari per sempre.
La premessa di Netanyahu è sempre stata che l'Iran, in ginocchio, avrebbe implorato di poter tornare agli accordi. Aveva torto, e questo nello stato sionista è un dato assodato per molti. Ma forse è stata questa analisi, ormai marginale anche negli ambienti politici dello stato sionista, a far sì che la squadra di Biden immaginasse che l'Iran avrebbe accettato di ottemperare pienamente agli accordi anche se gli USA non avessero fatto la propria parte, acconsentendo addirittura al permanere di determinate sanzioni.