Traduzione da Strategic Culture, 17 ottobre 2022.
I mutamenti storici nella politica mondiale sono molto lenti a verificarsi. Non fu così, però, quando gli Stati Uniti entrarono per la prima volta sulla scena mondiale. Successe all'improvviso, nel 1898, con l'invasione di Cuba: L'ansia con cui la vecchia Europa assisté agli eventi era palpabile. Il Manchester Guardian, all'epoca, riferiva che quasi tutti gli ameriKKKani avevano abbracciato questo nuovo spirito espansionistico. I pochi critici venivano "semplicemente derisi per la loro titubanza". Il Frankfurter Zeitung li mise in guardia contro "le conseguenze disastrose della loro esuberanza", ma si rese conto che gli ameriKKKani non avrebbero ascoltato.
Nel 1845 un articolo non firmato aveva già dato vita allo slogan "Destino manifesto" - un'affermazione per cui il destino dell'AmeriKKKa era quello di espandersi e di occupare terre altrui. Sheldon Richman, in America's Counter-Revolution, ha scritto che questa concezione era frutto di una mentalità imperiale. Questa etica del "destino" segnò un punto di svolta rispetto alla precedente dinamica di decentramento e l'inizio della tendenza ameriKKKana verso quell'approccio imperiale totalizzante che subentrò ad essa. Non tutti, ovviamente, erano d'accordo; l'etica conservatrice ameriKKKana ai suoi inizi era di stampo burkeano, tendente cioè a considerare con sospetto i rapporti con l'estero.
Oggi il quadro non potrebbe essere più diverso. I dubbi e le perplessità serpeggiano ovunque; la spinta e la fiducia dell'"Impero" si sono affievolite. Gli Stati Uniti scimmiottano più che altro l'esausto impero austro-ungarico dell'epoca precedente alla Prima Guerra Mondiale, che trascinò varie nazioni alleate in un conflitto che, all'epoca, si trasformò nella Prima Guerra Mondiale. Oggi è l'Europa occidentale a essersi trovata trascinata in un'altra guerra, europea per forza di cose, a causa della sua alleanza con Washington. Allora come oggi, tutti gli stati sottovalutarono disastrosamente la durata e la gravità del conflitto e interpretarono male la natura e il significato degli eventi.
La guerra di oggi (contro la Russia) è inquadrata in Occidente in un'infantile cornice morale che agli occhi di un pubblico anestetizzato sembra comunque reggere: quella della seconda guerra mondiale. Ogni rivale è un nuovo Hitler, ogni considerazione ponderata un nuovo esempio di pacificazione stile Neville Chamberlain. Un tiranno brama il dominio delle terre d'Europa; l'unica cosa in questione è se i buoni e i giusti possono trovare la determinazione necessaria a sconfiggerne la malvagia ambizione.
Questa semplicistica tiritera, chiaramente, tende a nascondere all'elettorato l'importanza delle dinamiche sottostanti. Non solo è in atto un mutamento profondo in un ciclo politico importante, ma questo si verifica proprio in un momento in cui il "modello di business" iperfinanziario occidentale si sta incrinando. In parole povere, l'offuscamento narrativo ("stiamo vincendo") nasconde rischi sia politici che economici la cui gravità sfugge ai leader occidentali, incapaci o non disposti a coglierla.
Gli Stati Uniti -come l'Austria-Ungheria prima della guerra- stanno lentamente crollando. E non è più possibile ignorarlo. Washington sta perdendo il controllo sugli eventi e sta commettendo errori strategici; sembra che qualcosa impedisca tuttavia a una certa classe dirigente occidentale di andare avanti con la lettura della storia. Vige una chiave di lettura che considera la guerra come il ripristino delle condizioni di saldezza dello Stato: ogni conflitto - ogni noi contro loro, reale o astratto (come la guerra alla povertà, alla droga, al virus, ecc.) - alimenta la centralizzazione e rafforza il Leviatano totalizzante. Anche il "noi contro il nemico interno" che concettualizza una guerra intestina viene considerato un consolidamento del Leviatano. Questa è la lezione che l'élite sostiene di aver imparato dallo Stato moderno. In un certo senso però questa concezione politica è diventata per la stessa élite una bolla di narrative astratte, una bolla centralizzante e totalizzante. Una bolla che sta scoppiando. Le classi dirigenti occidentali non capiscono -ovvero non vogliono capire- le pagliuzze portate dal vento che soffia in un'altra direzione, ad esempio il recente vertice SCO di Samarcanda. In parole povere, la corrente del Leviatano ha fatto il suo corso e si è esaurita. La storia si muove in un'altra direzione e i leader occidentali fingono di non accorgersene. Questo cambiamento chiave è stato riassunto stringatamente dal Ministro degli Esteri indiano in una recente occasione; avvicinato da un europeo che chiedeva se sostenesse o meno l'Ucraina -cioè che lo metteva di fronte al consueto aut aut occidentale del "con noi o contro di noi" - il diplomatico indiano ha risposto semplicemente che era ora che gli europei smettessero di pensare che le guerre loro fossero guerre di tutto il mondo: "Noi non abbiamo una parte: noi siamo la nostra parte", ha risposto. In altre parole, gli interessi occidentali non si traducono necessariamente in interessi obbligatori per il mondo non occidentale. Il mondo non occidentale fa parte per conto proprio. Sono paesi che intendono vivere nel contesto che gli deriva dall'esperienza storica passata, che intendono creare strutture politiche modellate sulla propria civiltà e sui propri interessi, e in economie adattate alla conformazione della propria struttura sociale.
Ecco cosa significano cose come Samarcanda: significano un mondo multipolare. Esso contesta la presunzione occidentale di avere il diritto di considerarsi eccezionali e di attendersi che gli altri mettano i loro interessi dietro a quelli dell'Occidente. Questo multipolarismo è una corrente che enfatizza la sovranità e l'autodeterminazione. È evidente che questi sentimenti non possono essere considerati anti-occidentali. Tuttavia in Occidente la predisposizione all'interpretazione binaria è così profondamente radicata che pochi arrivano a capirlo. E quelli che lo capiscono non lo apprezzano.
Questo è il principale fraintendimento a livello politico in Europa della crisi in atto. Un lungo ciclo storico si sta invertendo, passando dalla centralizzazione al decentramento. I singoli stati fanno parte a sé.
Inoltre ci sono gli Stati Uniti, in crisi e divisi al loro interno, consapevoli del fatto che la loro debolezza è evidente e che di conseguenza si scagliano contro tutti per aggrapparsi al proprio retaggio espansionista.
In secondo luogo, la natura della guerra è mal concepita in Occidente perché viene intesa esclusivamente attraverso la lente del conflitto ucraino. Il conflitto in Ucraina non è che un piccolo episodio della guerra di lungo corso condotta da europei e anglosassoni contro la Russia. Di per sé, esso ha fatto risvegliare vecchi fantasmi revanscisti in Europa; un fatto che aggrava le tensioni e complica ogni eventuale risoluzione della crisi.
Un equivoco e una negligenza evidenti, tuttavia, riguardano la natura della politica e il ruolo svolto dai combustibili fossili. L'energia è infatti al centro della questione. Come può l'attuale classe dirigente di Washington "dimenticare" che l'economia reale occidentale è un sistema a rete basato sulla fisica e alimentato dall'energia? La modernità dipende dai combustibili fossili. Una transizione graduale verso l'energia verde dipende quindi in larga misura dalla disponibilità di combustibili fossili abbondanti e a basso costo. Senza un adeguato apporto energetico i posti di lavoro scompaiono e la quantità totale di beni e servizi prodotti diminuisce drasticamente.
Eppure, i leader occidentali hanno gettato al vento questa consapevolezza elementare. A cosa pensavano quando hanno sostenuto che l'Europa dovrebbe sanzionare l'energia russa a basso costo e affidarsi invece al costoso gas naturale liquefatto ameriKKKano? A riaffermare il loro diritto all'egemonia? Ai "valori europei"? Ma ci hanno pensato bene?
In un ulteriore atto di follia in campo energetico, l'amministrazione Biden si è ora alienata l'Arabia Saudita e i produttori dell'OPEC. L'OPEC è un cartello che cerca di gestire la produzione e la domanda fissando il prezzo del petrolio. L'amministrazione Biden ha forse dimenticato che il petrolio e il gas in un certo senso rappresentano l'essenza stessa della geopolitica? Il prezzo, il flusso e il percorso dell'energia sono in fondo la principale "moneta" della politica globale.
Eppure il G7 ha deciso di privare l'Arabia Saudita del suo ruolo. Ha proposto invece un "cartello di acquirenti degli Stati occidentali" che avrebbe fissato il prezzo del petrolio e, su suggerimento di Mario Draghi, avrebbe stabilito un tetto anche al prezzo del gas. In parole povere le basi dell'economia saudita sono state prese a picconate e si è minata la principale funzione dell'OPEC, adesso rafforzato come OPEC+.
Non contenta, l'amministrazione Biden ha iniziato a vendere un milione di barili al giorno dalle riserve strategiche -minando ulteriormente l'economia saudita- e ha anche cercato di far scendere il prezzo del greggio manipolando i mercati. Ci si aspettava che l'Arabia Saudita avrebbe ceduto al G7 la facoltà di decidere i prezzi, che l'OPEC si è conquistata a caro prezzo? Perché avrebbe dovuto faro? Tutto questo è giustificato dal fatto che il partito di Biden deve affrontare le difficili elezioni di midterm a novembre?
Gli stati del vertice di Samarcanda hanno inveito proprio contro tutto questo: contro la presunzione occidentale. Contro il fatto che Mohammed bin Salman dovrebbe inchinarsi alle imminenti esigenze elettorali di Biden, e accogliere sorridendo la distruzione delle rendite assicurategli dalla geopolitica.
Invece, tutto questo ha fatto nascere una vera e propria contesa. Un ex ambasciatore indiano, MK Bhadrakumar, scrive:
"... l'OPEC sta reagendo in modo proattivo. La sua decisione di ridurre la produzione di petrolio di due milioni di barili al giorno e di mantenere il prezzo al di sopra dei 90 dollari al barile si fa beffe della decisione del G7 [di imporre un tetto ai prezzi]. L'OPEC ritiene che le opzioni di Washington per contrastare l'OPEC+ siano limitate. A differenza di quanto successo nella storia recente del mercato dell'energia, oggi gli Stati Uniti non hanno neppure un alleato all'interno del gruppo OPEC+. A causa dell'aumento della domanda interna di petrolio e gas è del tutto plausibile che le esportazioni statunitensi in entrambi i settori vengano a ridursi. Se questo dovesse accadere, a farne le spese sarebbe innanzitutto l'Europa. In un'intervista concessa al Financial Times la scorsa settimana il primo ministro belga Alexander De Croo ha considerato che con l'avvicinarsi dell'inverno, se i prezzi dell'energia non verranno abbassati, "rischiamo una massiccia deindustrializzazione del continente europeo, cosa le cui conseguenze a lungo termine potrebbero essere molto profonde". Ha aggiunto queste parole da brivido: "Alla gente stanno arrivando bollette completamente folli. A un certo punto la situazione precipiterà. Capisco che la gente sia arrabbiata... la gente non ha i mezzi per pagare". De Croo metteva in guardia sul fatto che è probabile che nei paesi europei si verifichino disordini sociali e turbolenze politiche".
Un difetto tradizionale delle velleità imperiali, quello di aspettarsi deferenza e insistere su di essa, facendo però "passare" il fatto che si è intrinsecamente deboli. Washington e i suoi alleati stanno cercando di imporre ovunque un atteggiamento servile nei loro confronti. Tuttavia la retorica bellicosa gli si sta ritorcendo contro: nei confronti di Washington, gli altri stati hanno progressivamente perso soggezione.
Così, le minacce statunitensi ispirano sempre più spesso non deferenza, ma sfida. Il problema è che la rete di narrative belliche binarie fatte di aut aut è diventata sempre più artificiosa e implausibile. Di conseguenza è quasi impossibile per l'Occidente tenere insieme i pezzi.
In ultima analisi, questa tendenza globale a sfidare le minacce statunitensi potrebbe rivelarsi il punto di non ritorno -ben più di qualsiasi esito della guerra in Ucraina- verso il cambiamento dell'ordine globale. Questo, soprattutto perché Biden ha scelto un momento delicato per muovere guerra ai produttori di petrolio. Quindi abbiamo tre bolle distinte che sembrano destinate a scoppiare in sincronia, in una tempesta molto "imperfetta" che potrebbe travolgere quello che resta della potenza occidentale.
Il punto è questo. Non solo è in atto una transizione in un superciclo politico, ma ci sono bolle che stanno scoppiando su ogni fronte.
La "bolla" della guerra in Ucraina si sta sgonfiando; per le armi, gli Stati Uniti e l'Europa stanno raschiando il fondo del barile. Le finanze di Kiev si stanno indebolendo e le forze armate si trovano ad affrontare pesanti perdite. Kiev e la NATO si trovano davanti alla scoraggiante prospettiva di una grande offensiva russa, forse a breve, forse all'inizio di novembre.
La seconda bolla che sta scoppiando è quella del fondamento dell'economia europea. Gran parte dell'industria europea non è più competitiva, dal momento che non ha più accesso al gas e al petrolio russo a basso costo. In poche parole il costo dell'energia sta mandando in bancarotta l'industria europea.
La terza è la più grande di tutte: è la bolla "inflazione zero - tassi di interesse zero / Quantitative Easing". È enorme. E strategicamente, il Golfo rappresenta l'ultimo bacino di liquidità vera, che storicamente è stato un acquirente e un detentore affidabile di buoni del Tesoro statunitensi.
Cosa ancora più significativa, questa iperfinanziarizzazione pluridecennale ha iniziato a evaporare di concerto con l'impennata dei tassi di interesse. Quello che stiamo vedendo nel Regno Unito non è altro che l'equivalente del canarino del minatore: Molti fondi hanno di nuovo un'elevata leva finanziaria (come prima del 2008) e sono esposti a derivati che utilizzano una cortina fumogena di natura matematica per dare a intendere che i rendimenti superiori al benchmark possano essere creati senza rischio dal nulla... come prima del 2008.
Cose del genere finiscono sempre male. Tutta questa leva finanziaria ad alto rischio e senza copertura finirà prima o poi in niente.
E proprio in questo momento Biden sceglie di entrare in guerra con gli Stati produttori di energia del Golfo, quelli che hanno in mano, quasi da soli, la credibilità dei titoli del Tesoro americano. Washington non sembra essere consapevole della gravità che questa combinazione di eventi comporta, né della necessità di procedere con cautela.