mercoledì 22 maggio 2024

Alastair Crooke - Occidente e stato sionista: una contemporanea decadenza


Traduzione da Strategic Culture, 20 maggio 2024.

Alon Pinkas, ex diplomatico sionista di alto livello e ben introdotto alla Casa Bianca, parla senza mezzi termini di uno stato di cose reale a proposito dello stato sionista, e insiste sul fatto che non è più possibile far passare la cosa sotto silenzio.
Esistono adesso due Stati [ebraici] che hanno visioni contrastanti su ciò che la nazione dovrebbe essere. Lo stato sionista ha un problema che tutti conoscono ma che nessuno intende affrontare. No, non è l'occupazione, anche se proprio l'occupazione è la sua causa principale.
Il problema che tutti conoscono ma che nessuno intende affrontare è che lo stato sionista che si sta gradualmente ma inesorabilmente dividendo [in uno Stato laico, liberale e ad alta tecnologia]... e in una teocrazia ultranazionalista e suprematista ebraica con tendenze messianiche e antidemocratiche, che incoraggia l'isolamento.
Il sionismo... si è trasformato e ha cambiato volto attraverso il movimento dei coloni e gli zeloti di estrema destra; è diventato una cultura politica nel filone di Masada e ha al centro l'idea della redenzione dell'antico regno nella terra degli avi. (Masada fu la piazzaforte dei Sicarii nel 73 d.C.).
Pinkas prosegue:
In sostanza nello stato sionista è in corso una guerra civile. Non si può parlare di una Gettysburg, ma la spaccatura è ampia e profonda e sta diventando evidente. I due sistemi di valori politici non sono conciliabili. "La lotta contro gli arabi (o l'Iran) è una lotta per l'esistenza"; l'unico filo conduttore resta questo, ma si sta indebolendo. È una definizione al negativo di una identità nazionale: indica un nemico e una minaccia comuni, ma dice ben poco di ciò che ci unisce, dal punto di vista del tipo di società e di paese che vogliamo essere.
Persino la narrativa comune più fondamentale, la Dichiarazione d'Indipendenza, viene oggi messa in discussione e alcuni dei suoi principi essenziali sono motivo di contesa sul piano politico.
Ovviamente si capisce in quale campo Pinkas collochi il proprio mondo; tuttavia
al di là della riflessione sul 7 ottobre, c'è una crescente consapevolezza che parole come unità, un unico destino e non abbiamo scelta e nessun altro paese sono diventati cliché vuoti e privi di significato. Al contrario, sempre più cittadini dello stato sionista, in entrambi gli schieramenti, considerano il loro Paese sostanzialmente diviso in due entità distinte e non conciliabili.
Vi suona familiare, anche se il contesto è un altro?
Dovrebbe esserlo. Perché è la metafora di una ineluttabile spaccatura che interessa anche l'Occidente. La guerra a Gaza ha fatto precipitare in Occidente l'apertura di fenditure già latenti. Anche questo, non è più possibile nasconderlo. Da un lato esiste un progetto di ingegneria sociale illiberale che si spaccia per liberalismo. Dall'altro, un progetto di recupero dei valori "eterni" (per quanto imperfetti) che un tempo erano alla base della civiltà europea.
Il conflitto in Medio Oriente ha messo in luce in Occidente i parallelismi tra due sfere.
Anche in questo caso, i parallelismi e le somiglianze sono sconfortanti. Come dice Pinkas:
Il divario è reale, si sta allargando e sta diventando incolmabile. Divisioni e fratture politiche, culturali ed economiche si stanno ampliando, accompagnate da un vetriolo tossico che si presenta come discorso politico. Persino la più fondamentale delle narrative comuni, la Dichiarazione di Indipendenza, è ora messa in discussione e alcuni dei suoi principi fondamentali sono motivo di contesa sul piano politico.
Pinkas si riferisce allo stato sionista; lo stesso però vale anche per gli Stati Uniti, dove i principi fondamentali della Costituzione -ad esempio la libertà di parola- sono motivo di contesa sul piano politico. Pinkas cita anche l'affermazione della destra secondo cui Tel Aviv "è una bolla", ma aggiunge: "Per quanto riguarda il definire Tel Aviv una bolla, hanno ragione; ma anche New York è una bolla, anche Parigi e Londra sono bolle". Bolle geografiche, oltre che ideologiche. Eppure Pinkas non riesce ad afferrare l'essenza del paradosso che egli stesso crea: non è forse questo il nocciolo del problema? Non sono le élite metropolitane statunitensi ossessionate dalla tecnologia contrapposte a tutto il resto del paese, derubricato a lande sorvolabili? Queste bolle sono esse stesse il problema, non un qualche cosa su cui si possa transigere.
Oggi decine di migliaia di studenti in Occidente protestano contro il massacro di palestinesi in corso, mentre i detentori del potere istituzionale sostengono senza remore l'annientamento di Hamas e di tutti i civili complici. Una definizione che qualcuno estende a tutti coloro che vivono a Gaza.
Le due visioni del mondo non condividono una percezione comune. Esse costituiscono visioni contrastanti del futuro e dell'essenza stessa dei rispettivi paesi. Il 7 ottobre ha fatto esplodere il simulacro status quo dello stato sionista e, allo stesso tempo, ha scardinato l'ordine politico tanto in Occidente quanto nello stato sionista.
Ciò che è importante capire è che entrambe le visioni così polarizzate -quella della pur contestata storia nazionale e quella di un futuro comune- sono per ciascuna comunità quella autentica. Le due visioni hanno una loro legittimazione separata. Ciò significa che correre ai ripari sul piano meramente politico non servirà a liquidare zeitgeist ormai consolidati. Ciascuna delle partie deve prima accettare la legittimità dell'altro, pur rimanendo in disaccordo, perché sia possibile lasciare il passo alla politica.
La metafora di Pinkas ha un'applicazione più ampia: dopo aver affermato che "lo stato sionista ha un problema che tutti conoscono ma che nessuno intende affrontare. No, non è l'occupazione, anche se proprio l'occupazione è la sua causa principale", Pinkas aggiunge più avanti nel suo scritto che "lo stato sionista non occupa solo territorio; circa cinque milioni di palestinesi vivono sotto occupazione. In effetti, da 57 anni lo stato sionista vive in un continuo ripetersi del settimo giorno della Guerra dei Sei Giorni. Questa realtà, che negli anni '70 veniva definita temporaneità prolungata, è diventata una caratteristica permanente dell'ecosistema politico e geopolitico dello stato sionista".
Questa situazione è diventata una trappola, per lo stato sionista.
Perché lo stato sionista e l'Occidente starebbero decadendo entrambi? Innanzitutto perché sono diventati così interconnessi a livello di strutture di potere (sia negli Stati Uniti che in Europa) che è difficile capire chi abbia più peso all'interno di queste strutture di potere e mediatiche, se Tel Aviv o la Casa Bianca. Questo significa che sono due realtà che dipendono l'una dall'altra per quanto riguarda la rispettiva posizione sul piano internazionale e che entrambi sono vulnerabili a un qualsiasi scossa colpisca l'ordine mondiale.
Oggi l'Occidente sembra rifuggire dalle pratiche del colonialismo propriamente detto, oltre che da quelle praticate dallo stato sionista; tuttavia ha perseguito fin dai tempi della seconda guerra mondiale politiche all'insegna del lucro e del colonialismo finanziario. Questo processo è diventato una struttura permanente dell'ecosistema politico e geopolitico occidentale.
La conseguenza è che con l'emergere netto e cupo della prassi colonialista a Gaza la maggioranza della popolazione mondiale ha iniziato a considerare esplicitamente colonialisti sia lo stato sionista che l'Occidente. Non viene fatta alcuna distinzione: l'ordine basato sulla supremazia statunitense viene considerato nient'altro che un ripetersi dell'ecosistema coloniale. Per questo gli eventi di Gaza, tra le altre cose, hanno scatenato una nuova ondata di sentimento anticolonialista in tutto il mondo.
Si tratta di una dinamica che, trovando una forte risonanza tra gli studenti occidentali in protesta -e tra molti dei più anziani- sta incrinando le strutture di leadership occidentali, minacciando la preparazione puntigliosamente curata delle elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
Infine, la stretta integrazione delle due strutture collegate si è riversata nello spirito che impronta la politica estera occidentale: proprio come la risposta dello stato sionista al 7 ottobre è stata quella di scagliarsi contro "Hamas" e Gaza, così l'Occidente, vedendo il proprio "ecosistema egemonico" sfidato da Russia e Cina emula lo stato sionista nel suo considerare la forza militare come fondamento della propria deterrenza e del proprio primato globale.
Il Presidente Putin -prefigurando le attuali tensioni con l'Occidente- in un discorso di fondamentale importanza pronunciato a Monaco di Baviera nel 2007 espresse forti critiche verso quello che definì il dominio monopolistico degli Stati Uniti nelle relazioni globali e verso il loro "smodato e quasi incontrollato ricorso alla forza nelle relazioni internazionali".
Avrebbe potuto dire lo stesso dello stato sionista, nel suo contesto regionale.

martedì 14 maggio 2024

Alastair Crooke - Chi ha tentato di togliere la terra da sotto i piedi a Netanyahu, e perché?

 


Traduzione da Strategic Culture, 13 maggio 2024.

Le condizioni fondamentali di Hamas per il rilascio degli ostaggi detenuti a Gaza erano due: la completa cessazione delle ostilità e il ritiro completo di tutte le forze sioniste.
La posizione di Netanyahu era che, a prescindere dalla sorte degli ostaggi, le forze sioniste sarebbero tornate a Gaza e che la guerra sarebbe potuta continuare per dieci anni.
Le parole di Netanyahu sono state le più delicate nella politica sionista, che si è polarizzata intorno ad esse. La permanenza in carica o la caduta del governo sionista potrebbero dipendere da quelle parole: la destra aveva detto che avrebbe lasciato il governo se non fosse stata autorizzata l'invasione di Rafah; la posizione di Biden tuttavia è stata comunicata a Netanyahu per telefono non come un "andateci piano a Rafah", ma proprio come "a Rafah no assolutamente".
Poi queste espressioni esplosive -cessazione delle operazioni militari e ritiro completo dello stato sionista- hanno fatto capolino nel testo finale concordato dai mediatori al Cairo e successivamente a Doha lunedì 6 maggio, cogliendo lo stato sionista di sorpresa. Il capo della CIA Bill Burns aveva rappresentato gli Stati Uniti in entrambe le sessioni, mentre lo stato sionista aveva scelto di non inviare una squadra di negoziatori.
Varie fonti sioniste confermano che gli statunitensi non hanno fornito alcuna anticipazione su ciò che stava per accadere: Hamas ha annunciato l'accordo bomba, Gaza è esplosa in festeggiamenti per la vittoria mentre grandi manifestazioni di massa hanno preso d'assedio il governo di Gerusalemme, chiedendo l'accettazione delle condizioni di Hamas. C'era tensione. Le manifestazioni di massa facevano quasi pensare che incombesse una guerra civile.
Il governo sionista sostiene di essere stato fregato dagli statunitensi, cioè da Bill Burns. E le cose sono davvero andate così. Ma a quale scopo? Biden era stato categorico sul fatto che un'incursione a Rafah non avrebbe dovuto esserci. È stato questo il punto di appoggio di cui Burns si è servito per raggiungere tale obiettivo? Ha forse fatto ricorso a un qualche stratagemma nelle trattative inserendo nel testo le espressioni che costituivano il limite non negoziabile senza informarne Tel Aviv, per ottenere il sì di Hamas? O forse era sua intenzione provocare una crisi di governo nello stato sionista? Sulla questione di Gaza ha seguito una linea che ha imposto una pesantissima ipoteca elettorale al Partito Democratico.
In ogni caso -dopo l'annuncio bomba di Hamas- le forze armate sioniste ci sono davvero andate leggere a Rafah, occupando il corridoio disabitato di Philadelphia (in violazione degli accordi di Camp David), subendo poche perdite ma mantenendo intatto il governo di Netanyahu.
Forse il piccolo inganno per strappare l'assenso di Hamas è stato considerato come uno stratagemma intelligente a Washington, ma le sue conseguenze sono incerte: Netanyahu e la destra nutriranno entrambi oscuri sospetti sul ruolo degli Stati Uniti. Washington si è comportata, a loro avviso, come un avversario. Forse questo episodio renderà la destra più determinata e meno pronta al compromesso?
In questo contesto diventa importante la spaccatura fondamentale che esiste nella politica sionista di oggi. Poco più della metà dei cittadini sionisti (il 54%) ritiene legittimi i paragoni tra l'olocausto e gli eventi del 7 ottobre. E possiamo constatare che la confusione tra Hamas e il partito nazista è sempre più comune tra i leader dello stato sionista come tra quelli statunitensi: Netanyahu che descrive Hamas come "i nuovi nazisti".
Che si sia d'accordo o meno, quello che emerge da una simile categorizzazione è che la maggioranza dei cittadini dello stato sionista è preoccupato per la propria esistenza e teme che la tempesta che si sta addensando intorno a loro sia l'inizio di un "nuovo olocausto". Il che a sua volta implica che un di per sé amorfo "Mai più" si precisi nell'imperativo binario di uccidere o di essere uccisi. Imperativo che può rifarsi ai testi biblici, a pro di una convalida talmudica. Comprendere questo significa capire perché quelle poche parole inserite nella proposta negoziale hanno avuto un esito tanto dirompente. Esse implicavano -secondo la metà dei cittadini sionisti- che non avrebbero avuto altra scelta che "vivere" o "morire" sotto la minaccia di un nuovo olocausto, con Hamas predominante a Gaza e Hezbollah nel nord.
La restante parte della pubblica opinione è meno apocalittica: crede che un ritorno all'occupazione e allo status quo ante potrebbe essere possibile, soprattutto se gli Stati Uniti e lo stato sionista riuscissero a persuadere i paesi arabi a eliminare Hamas da Gaza e ad accettare di fare da polizia in una Striscia demilitarizzata e deradicalizzata.
Da un punto di vista cinico, forse la pratica di "falciare il prato" (così vengono eufemisticamente chiamate le periodiche incursioni delle forze armate sioniste per uccidere i militanti) agli occhi dei cittadini sionisti potrebbe essere meno spaventosa della prospettiva di dover combattere una guerra per la propria esistenza. In questo contesto, il 7 ottobre verrebbe visto come un lavoro di falciatura fuori dall'ordinario, ma non come qualcosa che impone mutamenti più radicali al proprio stile di vita.
Il fatto che i rappresentanti di questa corrente nel governo di guerra non si siano dimessi quando hanno appreso del successivo rifiuto di Netanyahu alla proposta di Hamas potrebbe essere collegato al fatto che la normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita e stato sionista non è ora in prospettiva. E questa normalizzazione sarebbe il punto di partenza per un ritorno allo status quo ante.
Tutto questo mette in discussione le motivazioni dei membri del governo che chiedono l'accettazione delle condizioni di Hamas. L'empatia per le famiglie degli ostaggi è certamente comprensibile, ma essa non affronta le crisi di fondo, al di là del un pio desiderio di unire il mondo arabo in un fronte contro l'Iran e di togliere lo stato sionista dalle incertezze dell'occupazione.
Questo potrebbe consolare una Casa Bianca alle prese con i problemi elettorali, ma non è certo una strategia sostenibile.
La notizia bomba dell'accordo con Hamas ha probabilmente alimentato altri due fattori che stanno determinando il clima dell'opinione pubblica nello stato sionista. Netanyahu è noto per le previsioni politiche; ha sentito il vento e si rende conto, dice, che l'elettorato sionista sta scivolando verso destra. È sempre più sicuro di poter vincere le prossime elezioni politiche.
Il primo fattore è rappresentato dalle proteste studentesche che si stanno svolgendo in tutto l'Occidente. Il secondo è il pericolo che la Corte penale internazionale possa emettere mandati di arresto contro il premier e altri leader di spicco.
David Horovitz, direttore del Times of Israel, scrive che
l'obiettivo di fondo degli accampamenti e dei cortei alla Columbia, a Yale, all'Università di New York e negli altri campus è quello di rendere lo stato sionista indifendibile -in entrambi i sensi della parola- e quindi di privare lo stato sionista dei mezzi diplomatici e militari necessari a sopravvivere agli sforzi che l'Iran, i suoi alleati e i suoi combattenti di prossimità stanno facendo per distruggerlo. Alla base di questa strategia c'è, naturalmente, un odio dei più antichi.
In altre parole, Horovitz considera la maggioranza degli studenti che hanno protestato non tanto animati da umano senso di empatia per le condizioni degli abitanti di Gaza, ma come gli autori di una forma morbida di olocausto. Horovitz conclude che "se i paesi nemici, gli eserciti terroristi e i loro fiancheggiatori avranno ragione dello stato sionista, andranno a caccia di ebrei ovunque".
L'ultimo elemento riguarda il presunto mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale. Netanyahu ha un ego enorme, forse più della maggior parte dei politici; eppure non c'è dubbio che, nonostante la rabbia nei suoi confronti per gli errori del 7 ottobre, egli sia indiscutibilmente il portabandiera di quella parte dell'elettorato che crede, come Horovitz, che lo stato sionista stia vedendosela con uno sforzo concertato e diretto alla sua distruzione.
Il mandato d'arresto, quindi, viene percepito non solo come un attacco a un singolo individuo, ma piuttosto come parte di quello che Horovitz considera un più ampio sforzo di delegittimare lo stato sionista e di privarlo degli strumenti diplomatici che gli sono necessari per difendersi.
Inutile aggiungere che l'opinione del resto del mondo non è questa. Tutto questo serve a sottolineare quanto l'opinione pubblica nello stato sionista si stia ripiegando su se stessa e stia diventando preda del proprio isolamento e dei propri timori. Sono segnali di allarme, questi. Le persone disperate commettono gesti disperati.
La realtà è che lo stato sionista ha tentato di fondare un'impresa coloniale fuori tempo massimo su terre dove si trovava una popolazione indigena. La prima fase della rivolta contro il colonialismo è scoppiata nel secondo dopoguerra. Ora stiamo vivendo la seconda fase, quella del sentimento anticoloniale radicale globale, di cui i BRICS sono la manifestazione strategica, e che oggi prende di mira il colonialismo finanziarizzato che si presenta come "Ordine basato sulla supremazia statunitense".
I cittadini dello stato sionista appendono abitualmente due bandiere in occasioni speciali: La bandiera dello stato sionista e, accanto ad essa, la bandiera statunitense. "Anche noi siamo statunitensi: siamo il 51° Stato", direbbero. "No", dicono le giovani generazioni statunitensi di oggi: "Noi non abbiamo nulla da spartire con chi si rende sospetto di genocidio contro un popolo nativo".
Non c'è da stupirsi se alcune élite al potere cercano disperatamente di mettere al bando le narrazioni critiche. Se oggi il bersaglio è lo stato sionista, domani le narrative critiche potrebbero colpire l'avallo di Washington al suo massacro coloniale. Forse la squadra di Biden ha pensato di togliere la terra da sotto i piedi a Netanyahu, per preservare lo status quo nello stato sionista ancora per un po', almeno fino a dopo le elezioni negli USA?

mercoledì 8 maggio 2024

Alastair Crooke - La bestia dell'ideologia solleva il coperchio della trasformazione

 

Traduzione da Strategic Culture, 6 maggio 2024.


Il mondo sta cambiando, sempre più velocemente. La dura e spesso violenta repressione poliziesca delle proteste studentesche verificatesi negli Stati Uniti e in Europa sulla scia dei continui massacri in Palestina evidenzia la manifesta intolleranza nei confronti di chi condanna la violenza a Gaza.
La fattispecie dello hate speech prevista dalla legge, è diventata così onnipresente e suscettibile di interpretazioni che le critiche al comportamento dello stato sionista a Gaza e in Cisgiordania sono ora trattate come estremismo e come minaccia per le istituzioni dello stato. Davanti alle critiche nei confronti dello stato sionista la risposta delle élite al potere è rabbiosa.
Esiste (ancora) un confine tra critica e antisemitismo? In Occidente le due cose vengono fatte coincidere sempre più di frequente.
La brusca messa a tacere di qualsiasi critica alla condotta dello stato sionista è in palese contraddizione con qualsiasi pretesa di superiorità etica occidentale e indica piuttosto uno stato di disperazione che presenta anche un pizzico di panico. Coloro che ancora occupano i posti di comando nelle istituzioni statunitensi ed europee sono costretti dalla logica delle stesse istituzioni a perseguire condotte che stanno portando alla rottura del sistema sul piano interno, provocando al tempo stesso anche un drammatico intensificarsi delle tensioni internazionali.
Queste condotte errate derivano dalle rigidità ideologiche di fondo in cui sono intrappolate le classi dirigenti: l'aver abbracciato la causa di un Israele biblico fattosi realtà, cosa da tempo estranea all'odierno Zeitgeist del Partito Democratico statunitense; l'incapacità di accettare la realtà in Ucraina; e l'idea che il solo piglio intransigente degli USA in politica possa far rivivere paradigmi ormai superati nello stato sionista e in Medio Oriente.
L'idea che sia possibile imporre all'opnione pubblica occidentale e mondiale una nuova Nakba è delirante, e puzza di vecchio orientalismo laico.
Quali altre considerazioni si possono fare quando il senatore Tom Cotton scrive che "Queste piccole Gaza sono disgustosi pozzi neri di odio antisemita pieni di simpatizzanti di Hamas, di fanatici e di pazzi"?
Quando uno stato di cose va in malora lo fa in modo rapido e completo. Dall'oggi al domani il Congresso, controllato dal Partito Repubblicano, si è visto rinfacciare il non aver approvato lo stanziamento di sessantuno miliardi per l'ucraina voluto da Biden; vi si è deciso di ignorare sdegnosamente le preoccupazioni dell'opinione pubblica statunitense per le frontiere aperte all'immigrazione, mentre le manifestazioni di vicinanza della generazione Z verso Gaza vengono dichiarate un "nemico" interno da reprimere rudemente.
Tutti punti per una inflessione e trasformazione strategica? Probabilmente no.
Anche il resto del mondo viene ora considerato un nemico; viene percepito come restio ad accogliere la catechistica pantomima sulla supremazia etica dell'Occidente e per non essersi esplicitamente allineato al sostegno verso lo stato sionista e nella guerra per procura contro la Russia.
Si tratta dell'esplicito tentativo di ambire a un potere assoluto; un tentativo che però sta causando contraccolpi globali. Sta spingendo la Cina ad avvicinarsi alla Russia e sta portando più paesi ad accelerare la loro confluenza verso i BRICS. In parole povere il mondo -di fronte ai massacri a Gaza e in Cisgiordania- non si atterrà né alle regole dettate dall'Occidente né a una sua qualsiasi ipocrita antologia del diritto internazionale. Entrambi i sistemi stanno crollando sotto il peso plumbeo dell'ipocrisia occidentale.
Non esiste nulla di più scontato del piglio contrariato con cui il Segretario di Stato Blinken si è rivolto al Presidente Xi per il trattamento riservato dalla Cina agli Uiguri, e del suo minacciare sanzioni perché, afferma Blinken, il commercio cinese con la Russia alimenta "l'aggressione russa contro l'Ucraina". Blinken si è inimicato l'unica potenza che può con ogni evidenza surclassare gli Stati Uniti e che ha una produzione e una competitività superiore a quelle statunitensi.
Il fatto è che questi attriti possono rapidamente trasformarsi in una guerra del tipo "noi contro di loro" non solo nei confronti del cosiddetto "Asse del Male" formato da Cina, Russia e Iran, ma anche contro la Turchia, l'India, il Brasile e tutti coloro che osano criticare la correttezza morale dei piani occidentali riguardo allo stato sionista e all'Ucraina. Ci sono le premesse perché la questione contrapponga l'Occidente a tutto il resto del mondo.
Di nuovo, un altro autogol.
In particolare i due conflitti su ricordati hanno cambiato il ruolo dell'Occidente da quello di autonominato "mediatore" animato dalla pretesa di portare i contendenti alla calma a quello di parte in conflitto, in entrambi i casi. In quanto parte attiva l'Occidente non può tollerare che le sue azioni siano oggetto di critica né sul piano interno né su quello'esterno, perché ciò significherebbe mostrarsi condiscententi a una composizione della contesa.
In parole povere, questo passaggio al ruolo di parte attiva in uno scontro bellico è alla base dell'attuale ossessione militarista dell'Europa. Bruno Maçães racconta che "un importante ministro europeo gli ha fatto notare che se gli Stati Uniti avessero ritirato il loro sostegno all'Ucraina, il suo paese, membro della NATO, non avrebbe avuto altra scelta che combattere a fianco dell'Ucraina schierandosi direttamente a suo fianco. Perché mai il suo paese dovrebbe aspettare che l'Ucraina venga sconfitta e che l'esercito russo aumenti i suoi effettivi con l'intento di compiere ulteriori incursioni?".
Una simile proposta è stupida e probabilmente porterebbe a una guerra su scala continentale; una prospettiva con cui il ministro senza nome sembrava sorprendentemente a proprio agio. Questa follia è la conseguenza dell'acquiescenza degli europei al tentativo di Biden di rovesciare il governo di Mosca. Volevano diventare protagonisti al tavolo del Grande Gioco, ma si sono resi conto di non avere i mezzi per farlo. La classe dirigente di Bruxelles teme che la conseguenza di questa arroganza sia lo sgretolarsi dell'Unione Europea.
Come scrive il professor John Gray:
In buona sostanza l'intolleranza liberale per la libertà di parola [su Gaza e sull'Ucraina] rappresenta un tentativo di rimuovere ogni ostacolo al potere. Spostando il luogo delle decisioni dalla deliberazione democratica alle procedure legali, le élite mirano a salvaguardare i [loro] idolatrati programmi [neoliberisti] da ogni contestazione e da ogni assunzione di responsabilità. La politicizzazione del diritto e lo svuotamento della politica vanno di pari passo.
Nonostante ogni sforzo di mettere a tacere le voci dissenzienti, stanno comunque prendendo il sopravvento altre prospettive e altre concezioni della storia: i palestinesi hanno una qualche ragione? Esiste un fondamento storico della loro situazione? "No, i palestinesi sono strumentalizzati dall'Iran, da Putin e da Xi Jinping", dicono a Washington e a Bruxelles.
Si dicono di queste falsità perché lo sforzo intellettuale di considerare i palestinesi come esseri umani, come cittadini dotati di diritti, costringerebbe molti Stati occidentali a rivedere gran parte del loro rigido sistema di pensiero. È più semplice e facile lasciare i palestinesi nell'ambiguità o fare come se non ci fossero.
Un simile modo di intendere le cose lascia presagire un futuro che non potrebbe essere più lontano da quell'ordine internazionale democratico e cooperativo che la Casa Bianca afferma di sostenere. Piuttosto, porta al baratro dello scontro civile negli Stati Uniti e all'allargamento del conflitto in Ucraina.
Molti degli odierni liberali woke tuttavia respingerebbero l'accusa di essere contrari alla libertà di parola, credendo erroneamente che il loro liberalismo non stia limitando la libertà di parola e la stia invece proteggendo dalle "falsità" messe in giro dai nemici della "nostra democrazia", ovvero il drappello del Make AmeriKKKa Great Again. In questo modo, essi intenderebbero a torto collocarsi fra quanti sostengono ancora un liberalismo classico come lo intendeva, ad esempio, John Stuart Mill.
Se è vero che nel suo Saggio sulla libertà (1859) Mill sosteneva che la libertà di parola deve includere la libertà di offendere, nello stesso saggio insisteva anche sul fatto che il valore della libertà risiede nella sua utilità collettiva. Specificava che "deve trattarsi dell'utilità nel suo senso più ampio, fondata sugli interessi permanenti dell'uomo in quanto essere progressivo".
Se agevola le cose ai "deplorevoli" o alla cosiddetta destra, la libertà di parola ha poco valore.
Il professor Gray sostiene insommma che "come molti altri liberali del XIX secolo Mill temeva l'ascesa del governo democratico perché riteneva che significasse dare potere a una maggioranza ignorante e tirannica. Più volte ha vilipeso le masse torpide che si accontentavano di vivere secondo gli usi tradizionali". Si può avvertire in questo caso un antesignano di quel totale disprezzo che la signora Clinton ha manifestato nei confronti dei "deplorevoli" che vivono nei flyover states degli USA.
Anche Rousseau è spesso considerato un'icona della "libertà" e dell'"individualismo" ed è oggetto di ampia ammirazione. Tuttavia, anche in questo caso, abbiamo un linguaggio che nasconde il suo carattere fondamentalmente antipolitico. Rousseau vedeva piuttosto i consessi umani come gruppi su cui agire in modo da includere ogni pensiero e ogni comportamento quotidiano entro organizzazioni affini all'interno di uno Stato unitario.
L'individualismo del pensiero di Rousseau, quindi, non è l'affermazione libertaria di diritti assoluti di libertà di parola contro lo Stato onnipresente. Non si traduce neppure in un innalzare il "tricolore" contro l'oppressione.
Al contrario. L'appassionata “difesa dell'individuo” di Rousseau nasce dalla sua opposizione alla “tirannia” delle convenzioni sociali; le forme, i rituali e gli antichi miti che legano la società: religione, famiglia, storia e istituzioni sociali. Il suo ideale può essere proclamato come quello della libertà individuale, ma si tratta comunque di una libertà intesa non nel senso di immunità dal controllo dello Stato, ma nel senso del sottrarsi alla presunta oppressione e alla presunta corruttela della società collettiva.
In questo modo i rapporti familiari vengono sottilmente trasformati in rapporti politici; la molecola della famiglia viene spezzata negli atomi dei suoi individui. Questi atomi, oggi ulteriormente preparati a liberarsi del loro genere biologico, della loro identità culturale e della loro etnia, vengono nuovamente riuniti nell'unità onnicomprensiva dello Stato.
Questo è l'inganno che si cela nel linguaggio del liberalismo classico sulla libertà e sull'individualismo. La "libertà" viene sempre considerata come il principale contributo della Rivoluzione francese alla civiltà occidentale. Eppure, perversamente, dietro il linguaggio della libertà si cela la decivilizzazione.
L'eredità ideologica della Rivoluzione francese è stata proprio quella di una decivilizzazione radicale. L'antico senso di permanenza, di appartenenza a un luogo nello spazio e nel tempo, è stato cancellato per lasciare il posto al suo esatto contrario: la transitorietà, la temporaneità e l'effimero.
Frank Furedi ha scritto:
La discontinuità della cultura coesiste con la perdita del senso del passato... La perdita di questa sensibilità ha avuto un effetto inquietante sulla cultura stessa e l'ha privata di spessore morale. Oggi l'anticultura esercita un ruolo potente nella società occidentale. La cultura è spesso inquadrata in termini strumentali e pragmatici e raramente è percepita come un sistema di norme che conferiscono un significato alla vita umana. La cultura è diventata un costrutto superficiale di cui sbarazzarsi, o da cambiare.
La élite culturale occidentale si sente a disagio con la narrazione della civiltà e ha perso l'entusiasmo di celebrarla. Il panorama culturale contemporaneo è saturo di una letteratura che mette in discussione l'autorità morale della civiltà e anzi la associa a caratteristiche negative.
Decivilizzazione significa che anche le identità più fondanti -come quella di uomo e di donna- sono messe in discussione. In un momento in cui la risposta alla domanda 'cosa significa essere umani' diventa complicata, e in cui i presupposti della civiltà occidentale perdono la loro salienza, i sentimenti associati alla cultura woke possono prosperare.
Karl Polyani, nel suo La grande trasformazione (pubblicato circa ottant'anni fa), sosteneva che le massicce trasformazioni economiche e sociali a cui aveva assistito nel corso della sua vita -la fine del secolo di "pace relativa" in Europa dal 1815 al 1914 e la successiva discesa nelle turbolenze economiche, nel fascismo e in una guerra che era ancora in corso al momento della pubblicazione del libro- non avevano che un'unica causa generale. Prima del XIX secolo, sottolineava, il modo di essere dell'essere umano era sempre stato "incorporato" nella società e subordinato alla politica locale, ai costumi, alla religione e alle relazioni sociali, cioè alla cultura della civiltà. La vita non era trattata come separata in dettagli distinti, ma come parti di quel tutto articolato che era la vita stessa.
Il liberalismo ha capovolto questa logica. Ha costituito una rottura ontologica con gran parte della storia umana. Non solo separava artificialmente l'"economico" dal "politico", ma l'economia liberale (la sua nozione fondante) richiedeva la subordinazione della società, della vita stessa, alla logica astratta del mercato autoregolato. Per Polanyi, questo "comporta nientemeno che una gestione della società come appendice del mercato".
La risposta, chiaramente, consisteva nel rendere nuovamente la società una relazione comunitaria distintamente umana, a cui dare significato attraverso una cultura viva. In questo senso, Polanyi ha anche sottolineato il carattere territoriale della sovranità: lo stato-nazione viene inteso come pre-condizione per l'esercizio della politica democratica.
Polanyi avrebbe sostenuto che, in mancanza di un ritorno alla vita in sé come elemento centrale della politica, un contraccolpo violento sarebbe stato inevitabile.
Si spera, non terribile come la trasformazione che si trovò a vivere egli stesso.