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11 settembre 2025

Alastair Crooke - Dopo il vertice della OCS di Tianjin Donald Trump riuscirà a reagire? La sfida cinese è arrivata davvero in un momento qualsiasi?

 



 Traduzione da Strategic Culture, 8 settembre 2025.

Il guanto della sfida. Il vertice della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai è stato una chiara dimostrazione di uno stato di cose in cui esiste una potenza in forte ascesa e una potenza che sta visibilmente indebolendosi. La straordinaria parata militare è stata la controparte del vertice e ha parlato molto chiaro: Volete sfidarci? Noi siamo pronti.
La Cina ha lanciato la sfida con tempismo perfetto. Si potrebbe quasi pensare che ci avessero davvero pensato in anticipo. "Sono l'inchiostro cinese e l'inchiostro russo adesso a scrivere la Storia", ha osservato un commentatore russo.
I sistemi politici occidentali sono in subbuglio, assediati da un populismo che promette di tutto ma che non ha gli strumenti per risolvere nulla. Le alleanze occidentali sono lacerate dal dubbio e dall'incertezza: la stabilità politica si incrina sotto la pressione dei fallimenti delle politiche occidentali di prestito e di spesa. Anche The Economist ammette che "una nuova realtà sta prendendo piede".
La reazione di Trump allo spettacolo della OCS è stata una frecciatina sarcastica a quella che egli vede come una "cospirazione" diretta contro gli USA. Tuttavia, se in quel raduno di "amici" si sente come se avesse fatto da tappezzeria, è perché ha scelto di non andare a Tianjin. La colpa è solo sua. E se la OCS dovesse essere intesa in Occidente come antioccidentale, anche questo sarebbe in gran parte dovuto a Trump e al modo che ha scelto per inquadrare il futuro degli Stati Uniti.
Xi ha sottolineato quest'ultimo punto nel suo discorso di apertura: "L'umanità si trova ancora una volta a scegliere tra pace o guerra, dialogo o confronto, risultati vantaggiosi per tutti o giochi a somma zero".
Purtroppo, Trump è probabilmente troppo impegnato con la pretesa grandezza dell'eccezionalismo statunitense perché ci si possa aspettare da lui una risposta ponderata. Ma d'altra parte, Trump sembra spesso sfidare l'ovvio.
L'Occidente reagirà in termini psicologici con un antagonismo sulla difensiva. Gli Stati Uniti chiaramente non si sono preparati psicologicamente a considerare le potenze della OCS su un piano di parità. Secoli di superiorità colonialista hanno plasmato una cultura in cui l'unico modello ammissibile è quello di una egemonia che impone una dipendenza filooccidentale.
Riconoscere che Cina, Russia o India hanno fatto parte a sé rispetto all'"ordine basato sulle regole" e che hanno costruito una sfera separata e non occidentale implica chiaramente accettare la fine dell'egemonia globale occidentale. E significa anche accettare il fatto che sia finita l'era dell'egemonia nel suo complesso. Le classi dirigenti statunitensi ed europee non sono assolutamente dell'umore adatto a una cosa del genere. Gli strati dirigenti europei continuano convintamente a mugugnare con ostilità contro la Russia.
Gli europei si sono senz'altro accorti della scossa, ma non hanno capito cosa l'abbia causata esattamente e hanno quindi deciso di rispondere con la maleducazione. Friedrich Merz ha affermato con convinzione: "Putin è un criminale di guerra. È forse l'autore dei più gravi crimini di guerra su vasta scala della nostra epoca. Dobbiamo essere chiari su come trattare i criminali di guerra: non c'è spazio per la clemenza".
La realtà (e il poco che sappiamo) di ciò che è venuto fuori dalla parata di Piazza Tienanmen in Cina causerà senza dubbio costernazione a Washington, Bruxelles e Londra. Il presidente Xi ha dichiarato che l'ascesa della Cina è "inarrestabile", facendo vedere oltre diecimila soldati che marciano in perfetta sincronia e rivelando le nuove e impressionanti armi cinesi: un missile balistico intercontinentale nucleare con una gittata di ventimila chilometri, un sistema di intercettazione laser e giganteschi droni sottomarini.
In particolare, il presidente Xi ha messo in mostra -per la prima volta- la forza nucleare terrestre, marittima e aerea dell'Esercito Popolare di Liberazione: una triade completa e letale.
Alla parata per celebrare la vittoria Xi ha sfilato con orgoglio insieme ai suoi alleati, gli stessi che gli Stati Uniti hanno messo sotto sanzioni. Ha preso posto sul palco con Kim Jong Un alla sua sinistra e Putin alla sua destra: una formazione simbolica che in pochi avrebbero potuto prevedere. Allo stesso modo, il clima di aperta cordialità fra Putin, Xi e il primo ministro Modi era chiaramente reale e non una posa.
Anche i risultati pratici del vertice lasceranno perplessi gli occidentali. L'annuncio del gasdotto Siberia 2, osserva Bloomberg, pone effettivamente fine alle mire degli Stati Uniti in materia di predominio energetico.
Come riporta l'editoriale di Bloomberg, "la Cina potrebbe ora smettere di importare più della metà del gas naturale dall'estero; entro l'inizio degli anni '30 la quota di gas russo rispondente al fabbisogno cinese potrebbe raggiungere il 20%. Gli analisti hanno rapidamente calcolato che l'entrata in servizio del Siberia 2 equivale a un calo della domanda di circa quaranta milioni di tonnellate di gas all'anno".
"Questo significa che molti progetti di produzione di gas su cui gli Stati Uniti avevano scommesso non hanno più senso".
Quali saranno le altre conseguenze? Gli Stati Uniti e l'Europa non prenderanno alla leggera questi avvenimenti. Nella loro ostilità, la loro rabbia si concentrerà probabilmente prima di tutto sulla Russia (tramite l'Ucraina) e al tempo stesso sull'Iran, alleato strategico della Russia e della Cina.
Durante il vertice, Xi ha proposto la creazione di un nuovo ordine internazionale in materia di sicurezza ed economia, sfidando esplicitamente l'attuale sistema istituzionale guidato dagli Stati Uniti. Ha descritto l'iniziativa come un passo verso la costruzione di un mondo multipolare. E agli annunci ha immediatamente fatto seguito la prima iniziativa concreta della OCS.
Cina e Russia hanno fatto causa comune con l'Iran nel respingere l'iniziativa europea di ripristinare automaticamente le sanzioni dell'ONU contro Tehran. Una lettera firmata congiuntamente dai ministri degli Esteri di Cina, Russia e Iran e indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite ha riportato in termini inequivocabili che l'attivazione della clausola di snapback da parte dei tre negoziatori europei "contravviene chiaramente alla risoluzione e pertanto è ipso facto viziata dal punto di vista giuridico e procedurale". La linea adottata dagli europei "costituisce un abuso dell'autorità e delle funzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU, oltre a distogliere i suoi membri e la comunità internazionale dalle cause profonde del fallimento dell'attuazione del JCPOA e della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU".
Si tratta di termini duri, che tuttavia potrebbero non essere sufficienti a impedire l'automatica entrata in vigore delle sanzioni entro trenta giorni dalla trasmissione della lettera dei negoziatori europei al Consiglio di Sicurezza, avvenuta il 28 agosto.
I negoziatori europei sostengono che la loro iniziativa in realtà conferisce agibilità all'Iran per negoziare un ritorno alla piena conformità al JCPOA, ma ciò è smentito dal fatto che essi subordinano il periodo di negoziazione di trenta giorni a nuove richieste relative all'inventario missilistico dell'Iran e alla sua posizione in politica estera, che vengono postulati come parte integrante di qualsiasi accordo. Essi sono perfettamente consapevoli del fatto che questi ulteriori elementi non saranno mai accettati dall'Iran.
Francia, Germania e Regno Unito stanno quindi mettendo l'Iran davanti alla prospettiva di un'azione militare, attraverso l'introduzione di condizioni irrealizzabili.
È chiaro che la dichiarazione di Cina e Russia implica che esse non rispetteranno il ripristino di alcuna sanzione che venisse imposta all'Iran.
Trump afferma periodicamente di non volere la guerra con l'Iran, ma ciononostante il 22 giugno ha già colpito gli impianti nucleari iraniani.
Il quadro del ripristino delle sanzioni, con le sue condizioni punitive, è secondo ogni apparenza inteso a provocare un fallimento diplomatico e non è nato dal nulla.
Ricordiamo che è stato Trump, nel febbraio 2025, a firmare un memorandum presidenziale nazionale -che è una ingiunzione legalmente vincolante- in cui si afferma che gli obiettivi degli Stati Uniti sono quelli di "negare all'Iran l'arma nucleare e i missili balistici intercontinentali" e che "la rete e la campagna di aggressione regionale dell'Iran vengano neutralizzate", che il Segretario al Tesoro dovrebbe esercitare la massima pressione possibile con le sanzioni e che il rappresentante degli Stati Uniti presso l'ONU dovrebbe collaborare con i principali alleati per completare il ripristino delle sanzioni e delle restrizioni a livello internazionale nei confronti dell'Iran, ritenendo l'Iran "responsabile della violazione del Trattato di non proliferazione nucleare". Queste sono alcune tra le molte disposizioni incluse nel memorandum.
Il memorandum presidenziale del febbraio 2025 ha posto le basi per un'eventuale azione militare contro l'Iran o per la sua capitolazione totale. L'idea di privare l'Iran dei suoi missili e dei suoi legami con gli alleati regionali è sempre stata destinata al fallimento. Eppure, queste richieste stanno riemergendo con le ultime richieste dei negoziatori europei. E chi c'è dietro tutto questo? Trump. E, dietro di lui, Netanyahu.
Il primo round è già stato giocato e ora le forze dietro le quinte stanno spingendo perché si passi al secondo. Esse vedono l'Iran rafforzarsi, lo stato sionista indebolirsi e il periodo adatto a cogliere l'occasione avvicinarsi alla fine. Hanno fretta.
L'altra parte della ripicca dell'Occidente a fronte dell'"insolenza" con cui la OCS si sta tenendo alla larga dalla sua supremazia, probabilmente prenderà forma in Ucraina. Gli europei e Zelensky chiederanno che si faccia più pressione sulla Russia, sia dal punto di vista militare che finanziario.
La Russia ha senza dubbio informato gli altri Paesi presenti a Tianjin che intende comunicare a Trump che continuerà con l'operazione militare speciale fino al completo raggiungimento di tutti gli obiettivi prefissati, dal momento che Washington sembra incapace di controllare gli ucraini e gli europei. Se la situazione dovesse prendere una piega diversa, la Russia è disponibile a intraprendere un percorso diplomatico per porre fine al conflitto, ma alle sue condizioni. Lo sforzo principale tuttavia sarà quello di assicurarsi la vittoria sul campo di battaglia. Se Trump dovesse reagire con una escalation, la Russia risponderà in modo adeguato.
Trump vive sotto enormi pressioni ed è soggetto a (sconosciuti) vincoli. Ma quello che abbiamo constatato più volte con Trump è che egli sfida l'ovvio. Riesce a sopravvivere alle difficoltà, a superarle e, in un certo senso, a prosperare proprio grazie ad esse. Le avversità sono la sua linfa vitale. Ha una qualche inspiegabile e indomabile caratteristica che coloro che lo conoscono bene affermano di percepire.
Trump riuscirà a reagire al dopo Tianjin? Il suo insistito pretendere che gli Stati Uniti hanno il diritto all'egemonia finanziaria porterà ora -vista la riottosità dei Paesi dell'OCS- a un indebolimento dell'AmeriKKKa? Il momento in cui la Cina ha lanciato il guanto di sfida è stato del tutto casuale o la situazione finanziaria dell'Occidente è più fragile di quanto si pensi generalmente?
Trump sarebbe in grado di arrivare a quella distensione sul nucleare che gli varrebbe la candidatura al Nobel, a dispetto delle pastoie che lo trattengono?

28 agosto 2025

Alastair Crooke - A Mosca il "mito" di Trump lo capiscono. E lo ricambiano

Traduzione da Strategic Culture, 26 agosto 2025.


Trump sta ascendendo a una valenza mitologica, la cosa è diventata fin troppo evidente. Come ha osservato John Greer,
Sta diventando difficile anche per i razionalisti più convinti continuare a credere che la carriera politica di Trump possa essere definita nei termini prosaici del 'fare politica come sempre'.
Trump, ovviamente, non è affatto un personaggio mitico. È un anziano oligarca immobiliare statunitense con qualche piccolo problema di salute, dai gusti volgari e con un ego insolitamente robusto.
In greco antico il vocabolo mythos originariamente significava ‘storia’. Come scrisse il filosofo Sallustio, i miti sono cose che non accadono mai, ma che esistono sempre.
In seguito, il vocabolo è passato a indicare storie che fanno riferimento a un significato profondo. Questo non implica che debbano per forza avere un valore fattuale; tuttavia è proprio quest'ultima dimensione che conferisce a Trump "la sua straordinaria presa sull'immaginario collettivo del nostro tempo", suggerisce Greer. Trump riesce a riemergere, letteralmente, da tutto ciò che viene scagliato contro di lui per distruggerlo. Trump diventa quello che Carl Jung chiamava "l'Ombra". Come scrive Greer:
I razionalisti ai tempi di Hitler erano costantemente sconcertati dal modo in cui egli spazzava via gli ostacoli e seguiva la sua traiettoria fino alla fine. Jung sottolineò in Wotan, suo lungimirante saggio del 1936, che gran parte del potere di Hitler sulla mentalità collettiva dell'Europa proveniva dal regno del mito e dell'archetipo.
Nel mito, Wotan è un vagabondo che non ha pace, che crea disordini e suscita conflitti ora qui ora là, e che compie magie. Jung trovava piuttosto intrigante il fatto che un antico dio delle tempeste e delle burrasche –il Wotan tanto a lungo quiescente– potesse prendere vita nel movimento giovanile tedesco.
Cosa c'entra questo con il vertice in Alaska con il presidente Putin?
Beh, Putin sembra aver prestato la dovuta attenzione ai meccanismi psicologici alla base dell'improvvisa richiesta di un incontro da parte di Trump. I russi hanno trattato Trump in modo molto rispettoso, cortese e amichevole. Hanno implicitamente preso atto della convinzione di Trump di possedere una sorta di aura mitica interiore, una condizione che Steve Witkoff -suo amico di lunga data- ha descritto come la profonda convinzione di Trump che la sua autorevole presenza, da sola, riesca a piegare le persone al suo volere (e agli interessi degli Stati Uniti). Witkoff ha aggiunto di essere d'accordo con questa valutazione.
Solo per citare un esempio, l'incontro alla Casa Bianca con Zelensky e i suoi sostenitori europei ha prodotto alcune delle immagini a tema politico forse più straordinarie della storia. Come osserva Simplicius,
Si è mai vista una cosa simile? L'intero pantheon della classe dirigente europea ridotto a un gruppetto di bambini piagnucolosi nell'ufficio del preside. Nessuno può negare che Trump sia riuscito a "spezzare le ginocchia all'Europa". Questa è una svolta da cui non si torna indietro, non c'è possibilità di redenzione per immagini come queste. La pretesa della Unione Europea di essere una potenza geopolitica è stata smascherata come una farsa.
Meno evidente, ma psicologicamente cruciale, è il fatto che Trump sembra riconoscere in Putin un interlocutore all'altezza del suo mito. Nonostante i due siano agli antipodi dal punto di vista caratteriale, Trump sembra comunque riconoscere in lui un compagno nel pantheon dei presunti "esseri mitologici". Guardate di nuovo le scene di Anchorage: Trump tratta Putin con enorme deferenza e rispetto. Un atteggiamento molto diverso da quello sprezzante che ha riservato agli europei.
Ad Anchorage comunque è stato Putin a mostrare un comportamento calmo, composto e dominante.
Resta tuttavia evidente che il comportamento rispettoso di Trump nei confronti di Putin ha fatto saltare la radicale demonizzazione della Russia da parte dell'Occidente e il cordone sanitario eretto contro tutto ciò che è russo. Un altro momento di svolta da cui non si può tornare indietro: "non c'è possibilità di redenzione per immagini come queste". La Russia è stata trattata come una potenza globale alla pari.
Di cosa si è trattato? Si è trattato di una svolta: il paradigma di Kellogg per il congelamento del conflitto non è più sul tavolo; adesso c'è il piano di pace a lungo termine di Putin. E di dazi non si parla da nessuna parte.
Ciò che è chiaro è che Trump ha deciso, dopo qualche esitazione, che deve occuparsi dell'Ucraina.
La dura realtà è che Trump deve affrontare enormi pressioni: il caso Epstein si rifiuta ostinatamente di sparire. È destinato a riproporsi dopo il Labor Day negli Stati Uniti.
La narrativa securitaria occidentale per cui "stiamo vicendo noi", o almeno "stanno perdendo loro", è stata così forte –e così universalmente accettata per così tanto tempo– che, di per sé, è sufficiente a creare una dinamica potente che avrebbe spinto Trump a ostinarsi con la guerra in Ucraina. La realtà dei fatti viene regolarmente distorta perché si adatti a questa narrativa, e questa dinamica non è stata ancora interrotta.
E Trump è intrappolato anche nel sostegno al macello messo in piedi dallo stato sionista, con le immagini di donne e bambini massacrati e affamati che negli Stati Uniti fanno rivolgare lo stomaco all'elettorato più giovane, quello sotto i trentacinque anni.
Queste dinamiche, insieme al contraccolpo economico dei dazi d'assalto in stile "Shock and Awe" destinato a frammentare i BRICS, nel loro insieme sono la minaccia più diretta alla base MAGA di Trump. Sta diventando una minaccia alla sua stessa esistenza. Epstein, il massacro di Gaza, la minaccia di "un'altra guerra" e la preoccupazione per il lavoro stanno sconvolgendo non solo la base MAGA, ma più in generale i giovani elettori ameriKKKani. Si chiedono se Trump sia ancora "uno di loro" o se sia sempre stato con "quegli altri".
Senza la base alle sue spalle, Trump rischia di perdere le elezioni di medio termine per il Congresso. I donatori straricchi possono anche pagare, ma non possono sostituire quella base.
Ciò che è emerso da Anchorage è quindi uno stato di cose che dal punto di vista intellettuale è piuttosto scarso. Trump ha deciso come minimo di non ostacolare più la Russia e il suo imporre una soluzione in Ucraina. Soluzione che è, in ogni caso, l'unica possibile.
Questo stato di cose non segna l'inizio di un percorso verso una sistemazione definitiva del problema. Sarebbe stato quindi un pio desiderio, come sottolinea Aurelien, aspettarsi che Trump e Putin avrebbero "negoziato" la fine della guerra in Ucraina, "come se Putin avesse tirato fuori un appunto dalla tasca e i due ne avessero poi discusso". Trump comunque non si muove bene quando si tratta di dettagli ed è solito divagare in modo discorsivo e inconcludente.
Man mano che ci avviciniamo alla fase finale, le iniziative importanti si svolgono altrove e gran parte di esse saranno nascoste alla vista del pubblico. Le linee generali dell'esito militare della crisi ucraina sono visibili da tempo, anche se i dettagli potrebbero ancora cambiare. Al contrario, la fase finale sotto il profilo politico, estremamente complessa, è appena iniziata. I giocatori non sono sicuri delle regole, nessuno sa con certezza quanti giocatori ci siano e il risultato è al momento poco chiaro,
sostiene Aurelien.
Allora perché Trump ha improvvisamente cambiato rotta? Beh, non è stato perché è incappato in una specie di fulminazione sulla via di Damasco. Trump rimane un convinto sostenitore di una politica che mette in tutto e per tutto al primo posto lo stato sionista; in secondo luogo, non può rinunciare alla sua ricerca dell'egemonia del dollaro perché anche questo obiettivo sta diventando problematico, dato che la bolla economica statunitense sta cominciando a sgonfiarsi, e i giovani sotto i trent'anni cominciano ad agitarsi, laggiù nelle cantine dei loro genitori.
È vantaggioso per Trump (per ora) lasciare che la Russia "porti" con la forza la UE e Zelensky verso una "pace negoziata". Negli Stati Uniti i fautori dell'intransigenza contro la Repubblica Popolare Cinese stanno mettendo su l'opinione pubblica in modo sempre più determinato, sostenendo che la Cina sia vicina a un decollo esponenziale -sia dal punto di vista economico che tecnologico- dopo il quale gli Stati Uniti perderanno la loro capacità di contenerne la supremazia globale. Probabilmente, va detto, è già troppo tardi per fermare questo processo.
Anche Putin sta correndo un grosso rischio nell'offrire a Trump una via d'uscita, accettando di lavorare per un rapporto stabile a lungo termine con gli Stati Uniti. Non si tratta della Finlandia del 1944, dove fu l'esercito sovietico a imporre un armistizio.
In Europa, le élite ritengono che la mano tesa di Trump verso Putin non porterà ad alcun risultato. Il loro piano è quello di assicurarsi che Trump fallisca assecondandolo e garantendo al contempo, tramite le loro condizioni, che tale accordo non si concretizzi. In questo modo dimostreranno a Trump che "Putin non è seriamente intenzionato a porre fine alla guerra". Spingendo così gli Stati Uniti a un'escalation.
La parte dell'accordo con Putin che Trump è chiamato a svolgere è chiaramente quella di farsi carico della gestione delle classi dirigenti europee (soprattutto inondando il mondo dell'informazione con dicerie contraddittorie) e di mettere la sordina ai falchi statunitensi (fingendo di corteggiare la Russia per allontanarla dalla Cina). Davvero? Sì, davvero.
Anche Putin deve affrontare pressioni interne, da parte di russi convinti che alla fine sarà costretto ad accettare una sorta di accordo provvisorio tipo Minsk 3 -una serie di cessate il fuoco limitati che non farebbero altro che esacerbare il conflitto- piuttosto che arrivare a una vittoria totale. Alcuni russi temono che il sangue versato finora possa rivelarsi solo l'anticipo di quanto ne dovranno versare nei prossimi anni, quando l'Occidente si sarà riarmato.
Putin deve anche affrontare l'ostacolo rappresentato dallo stesso Trump, che vede il suo rapporto con lui attraverso la ottusa ottica del mercato immobiliare newyorkese. Trump sembra ancora non capire che la questione chiave non è tanto quella dei territori ucraini, quanto quella della sicurezza geostrategica. Trump è entusiasta davanti alla prospettiva di un vertice trilaterale, e il suo entusiasmo sembra che si fondi sull'immagine di due magnati dell'immobiliare che giocano a Monopoli e si scambiano proprietà. Ma le cose non stanno così.
Sembra tuttavia che Putin sia effettivamente riuscito a trovare una via d'uscita dal cordone sanitario impostogli dall'Occidente. La Russia è nuovamente riconosciuta una grande potenza e la questione dell'Ucraina sarà risolta sul campo di battaglia. Le due grandi potenze nucleari stanno dialogando. Questo è importante di per sé. Trump riuscirà a offrire alla sua base elettorale le garanzie che essa richiede? La fine della partita in Ucraina, se mai ci si dovesse arrivare, sarà sufficiente per i MAGA? La furia genocida di Netanyahu a Gaza farà saltare la copertura che i MAGA forniscono a Trump? Molto probabilmente sì.

17 agosto 2025

Alastair Crooke - La Russia intende avere piena comprensione dei vincoli cui Trump è soggetto




Traduzione da Strategic Culture, 15 agosto 2025.

Un altro giro di negoziati tra l'inviato di Trump Steve Witkoff e la leadership russa? Un incontro tra Witkoff e il presidente Putin è ormai imminente. Intanto il generale Keith Kellogg si è recato a Kiev. Questo avviene mentre il cosiddetto ultimatum di Trump sta per scadere, anche se lo stesso Trump mette in dubbio che le sanzioni che potrebbero seguire possano davvero recare qualche fastidio a Putin.
È cambiato qualcosa, al di là del fatto che la Russia sta avanzando sempre più rapidamente lungo tutta la linea del fronte?
Da un certo punto di vista in effetti non è cambiato nulla. La posizione russa rimane quella espressa dal presidente Putin il 14 giugno 2024. È la posizione degli Stati Uniti è cambiata? Neppure.
All'inizio di questo mese il generale Kellogg -suggeritore di Trump- ha per l'appunto suggerito che gli Stati Uniti schierassero tutti i loro sottomarini dotati di missili balistici per vedere se Putin stesse bluffando. Il punto è proprio questo: Kellogg continua a credere che Putin stia bluffando. Sembra che il generale e coloro che nella squadra di governo stanno dalla sua parte non riescano a capire o a interiorizzare quello che Putin va dicendo loro dal giugno 2024: "sono le cause profonde che contano".
Per Kellogg e compagni, a un cessate il fuoco secondo i criteri fissati dallo stesso Kellogg si potrà arrivare solo facendo pressione su Putin.
Il presidente della Commissione per gli affari internazionali della Federazione Russa Grigory Karasin è anch'egli impegnato nei negoziati. E ha esposto molto chiaramente la situazione: "Tutti i contenuti emotivi che dominano attualmente lo spazio mediatico, con tutte queste dichiarazioni e tutti questi riferimenti a grandi nomi come quello di Trump, dovrebbero essere presi con calma", ha detto Karasin alla Izvestia:
Ci saranno contatti con lui [Witkoff] che riveleranno ciò che gli Stati Uniti pensano realmente -non la versione buona per l'opinione pubblica- sul ruolo assolutamente distruttivo attualmente svolto dai paesi dell'Unione Europea che controllano strettamente il regime di Zelensky. Si discuterà di tutto questo. Credo che almeno, dopo questi contatti, saremo a conoscenza di tutti gli aspetti sostanziali. Pertanto dobbiamo rimanere pazienti, composti e resistere alla tentazione di reagire in modo emotivo.
Sembra che, dal punto di vista russo, lo scopo sia quello di conoscere bene quali siano i limiti entro cui Trump può muoversi.
Ed è nel contesto di questi limiti che vanno interpretate le dichiarazioni di Trump sull'invio di due sottomarini nucleari della classe Ohio a “pattugliare le coste” della Russia. Le dichiarazioni di Trump e del suo stretto consigliere Kellogg sui sottomarini riflettono un'errata interpretazione del ruolo dei sottomarini di seconda linea, che devono rimanere silenti e invisibili sul fondo dell'oceano e non devono assolutamente essere messi in mostra.
Trump dunque ha fatto una considerazione sciocca, forse pensata più che altro a pro del fronte interno. Trump è sottoposto a molteplici pressioni. Si trova all'angholo a causa delle sempre più gravi accuse mosse contro Epstein, sul cui conto sarebbero in arrivo altre rivelazioni. E come molti altri presidenti degli Stati Uniti deve guardarsi sia dallo stato sionista -a causa della rete di donatori e di grandi interessi economici- sia, come Clinton, da minacce di livello ben più basso e ben più pericolose.
La vecchia guardia repubblicana guidata da Mitch McConnell e dal senatore Graham ha capito che è in un momento di debolezza e ha intravisto un'occasione per indebolire la fazione MAGA e per togliere il GOP dalla sua sbandata populista e reincanalarlo verso una leadership unipartitica tradizionale in stile country club.
Una potente commissione del Senato ha votato, con un forte sostegno sia dei democratici che dei repubblicani alleati di Trump, perché venga sottoposta al voto dell'intero Senato una proposta di spesa che include un miliardo di dollari di aiuti all'Ucraina, nonostante l'amministrazione avesse chiesto al Congresso di eliminare questi fondi dalla richieste di bilancio per la difesa.
Il senatore repubblicano Murkowski e la democratica Shaheen, entrambi membri della Commissione Bilancio, hanno presentato ciascuno per proprio conto un disegno di legge che prevede 54,6 miliardi di dollari in aiuti all'Ucraina nei prossimi due anni. Per diventare legge, la proposta Murkowski-Shaheen dovrà affrontare una dura battaglia.
Trump ovviamente aveva basato la campagna elettorale sulla promessa, fatta all'elettorato MAGA, di non stanziare ulteriori fondi per la guerra in Ucraina. Se il provvedimento da un miliardo di dollari dovesse essere approvato i suoi sostenitori MAGA, già infuriati per quello che ritengono essere un insabbiamento del caso Epstein, si sentirebbero traditi una volta di più.
Farsi vedere col Congresso che gli mette i piedi in testa è una cosa che nessun Presidente può permettersi, tanto meno su una promessa elettorale fondamentale. Un presidente deve cercare di dominare il Congresso e di non diventare il suo burattino, soprattutto perché la perentorietà del Senato sulla questione delle sanzioni mira a bloccare la strada di Trump verso una normalizzazione strategica con la Russia.
È possibile quindi che la dichiarazione di Trump sul dispiegamento dei sommergibili sia stata fatta più che altro per mandarla a dire al Congresso, per mettere in primo piano un approccio intransigente nei confronti della Russia e per far capire che ha altri strumenti a disposizione, oltre alle sanzioni su cui è scettico.
I grattacapi per Trump tuttavia non finiscono con l'impasse per l'Ucraina. Nello stato sionista lo establishment della "Giudea" (i coloni messianici) ha respinto i tentativi di Witkoff di fermare il genocidio e la messa alla fame degli abitanti di Gaza. Le immagini della carestia stanno danneggiando Trump; secondo il quotidiano ebraico Yedioth Ahronoth -che cita fonti vicine a Netanyahu- egli avrebbe dato il via libera a una massiccia operazione militare a condizione che i negoziati giungano a un punto morto. "La situazione sta andando verso la completa occupazione della Striscia. Se al capo dello Stato Maggiore la cosa non piace, che si dimetta", è il consiglio senza mezzi termini che viene dall'entourage di Netanyahu.
La guerra di Gaza sta influenzando il sentire politico statunitense, soprattutto tra i giovani. E ne ha anche sui giovani europei. Trump recentemente ha avvertito un donatore ebreo che la sua base sta arrivando "a odiare lo stato sionista". La base di Trump si sta disperdendo.
Dopo una reazione negativa di vaste proporzioni alla decisione dell'amministrazione Trump di tagliare i fondi federali di emergenza alle città e agli Stati che boicottano lo stato sionista, agli Interni sono stati costretti a mettere in programma la rimozione del divieto di boicottaggio. La disposizione adesso si applica solo alle violazioni delle disposizioni su diversità, equità e inclusione e su quelle per l'immigrazione. La base MAGA vede sempre più le politiche all'insegna del "prima lo stato sionista" come un tradimento del "prima l'AmeriKKKa" delle promesse elettorali.
Quindi, secondo l'analisi di Grigory Karasin, "i contatti con Steve Witkoff dovrebbero rivelare la vera posizione degli Stati Uniti [i suoi vincoli e limiti], in contrasto con le dichiarazioni ad alta voce che arrivano dalla Casa Bianca alla vigilia della scadenza dei termini dell'ultimatum sul conflitto in Ucraina e l'introduzione di nuove sanzioni anti-russe".
Witkoff, d'altra parte, sta probabilmente cercando di sondare l'esistenza di un qualsiasi margine di agibilità nella posizione dichiarata dalla Russia, e di esplorare la possibilità di imporre una qualche scadenza per il raggiungimento di accordi con Kiev. Mosca si è detta disponibile a un quarto incontro per dei colloqui a Istanbul. Il clamore mediatico e la vicenda dei sottomarini missilistici fanno parte delle tipiche tattiche che Trump mette in atto in vista di qualche negoziato.
La realtà che il clamore nasconde, tuttavia, è che Trump ha poche carte da giocare per aumentare la pressione sulla Russia. Gli arsenali sono vuoti e ricorrere a missili a più lungo raggio susciterebbe le ire dei sostenitori di MAGA, che accuserebbero Trump di portare l'AmeriKKKa verso la terza guerra mondiale.
A servire davvero a Trump sarebbe un qualche cosa che lo metta al sicuro dalle pressioni del Senato che minacciano di legarlo mani e piedi a sanzioni infinite e all'escalation dei finanziamenti all'Ucraina. Qualcosa che faccia almenoi presagire la fine del conflitto entro un lasso di tempo ragionevole. È possibile? C'è da dubitarne. Kiev sembra aver imboccato una strada che porta lentamente all'autodistruzione. È troppo presto per capire chi potrebbe emergere dal caos.
Paradossalmente, la provocazione di Trump con quel "navigare lungo le coste russe" con sottomarini della classe Ohio, per quanto assurda, ha fornito a Mosca il pretesto per proporre qualcosa che era da tempo nel cassetto del presidente Putin. La Russia ha annunciato ufficialmente il ritiro dalle restrizioni che si era autoimposta nell'ambito della moratoria sul dispiegamento di missili a medio e corto raggio (Trattato INF) e ha giustificato questa decisione con le iniziative degli Stati Uniti, che da tempo hanno dispiegato sistemi simili in Europa e nella regione dell'Asia-Pacifico, violando così lo status quo. Per la prima volta la Russia sottolinea ufficialmente che la minaccia dei missili a medio e corto raggio statunitensi non proviene solo dall'Europa, ma anche dalla regione dell'Asia-Pacifico.
A livello di logica formale la revoca della moratoria sul dispiegamento di questi missili da parte di Mosca non è altro che una risposta simmetrica alla precedente escalation di Washington. Ma a un livello più profondo, la Russia non sta solo rispondendo: sta creando una nuova architettura strategica senza che in questo intervengano limiti imposti a livello internazionale. E tra le altre cose la Russia dispone della produzione in serie del missile Oreshnik, oltre ad avere nella regione dell'Asia-Pacifico uno stretto alleato come la Corea del Nord.
Questo cambiamento di paradigma intende avere effetti strategici. Se in passato Mosca si affidava ai trattati e al gioco pulito, oggi punta sull'imprevedibilità, sui fronti interconnessi e sul reagire alle minacce.

07 agosto 2025

Alastair Crooke - Un altro attacco statunitense contro l'Iran sarebbe un inutile gesto teatrale

 


Traduzione da Strategic Culture, 4 agosto 2025.

Il presidente degli Stati Uniti, angustiato da una vicenda Epstein che non vuole saperne di passare in secondo piano e messo sotto pressione dai falchi a causa del sensibile collasso dell'Ucraina, sta sparando una raffica di minacce geopolitiche su tutti i fronti. Innanzitutto e soprattutto contro la Russia, ma in secondo luogo contro l'Iran.
"L'Iran è proprio malvagio. Le dichiarazioni degli iraniani sono intrise di malvagità. Sono stati colpiti. Non possiamo permettere loro di avere armi nucleari. Stanno ancora parlando di arricchimento dell'uranio. Chi è che parla così? È proprio stupido. Non lo permetteremo".
Una escalation di qualche genere con la Russia è chiaramente all'ordine del giorno, ma Trump ha minacciato anche di attaccare nuovamente i siti nucleari iraniani. Se lo facesse si tratterebbe di un gesto dimostrativo completamente scollegato dalla realtà delle cose sulla situazione in Iran.
Un altrio attacco, direbbero, significherebbe un'ulteriore regressione -o proprio la parola fine- per la capacità dell'Iran di mettere insieme un'arma nucleare.
E questa sarebbe una bugia.
Theodore Postol, professore emerito di scienza, tecnologia e sicurezza internazionale al MIT, viene considerato il massimo esperto statunitense in materia di armi nucleari e loro sistemi di lancio. Postol esprime alcune osservazioni tecniche controintuitive che questo articolo ha l'intenzione di tradurre in termini politici e che indicano con chiarezza come un ulteriore attacco ai tre siti nucleari colpiti dagli Stati Uniti il 22 giugno sarebbe inutile.
Sarebbe inutile per quanto riguarda l'obiettivo ostentato da Trump, ma un attacco potrebbe comunque esserci, sia pure solo come messinscena volta a facilitare altri e differenti obiettivi come il tentativo di rovesciare la Repubblica Islamica e favorire le ambizioni egemoniche dello stato sionista nella regione.
In parole povere la convincente argomentazione del professor Postol è che l'Iran non ha bisogno di ricostruire il suo precedente programma nucleare per costruire una bomba. Quell'epoca è finita. Sia gli Stati Uniti che lo stato sionista credono -e con ragione, afferma Postol- che la maggior parte delle scorte di uranio altamente arricchito dell'Iran siano sopravvissute all'attacco e siano disponibili.
"I tunnel di Esfahan sono profondi. Sono tanto profondi che gli Stati Uniti non hanno nemmeno provato a farli crollare con le bombe bunker buster. Supponendo che il materiale non sia stato spostato, ora si trova intatto nei tunnel. Dopo una settimana dall'attacco l'Iran aveva già sbloccato l'ingresso di un tunnel".
Insomma, l'attacco statunitense non ha ritardato di anni il programma iraniano. È altamente probabile che la maggior parte dell'uranio altamente arricchito iraniano sia sopravvissuto agli attacchi, pensa Postol.
L'AIEA afferma che al momento dell'attacco l'Iran possedeva 408 kg di uranio arricchito al 60%. Probabilmente gli iraniani lo hanno spostato prima dell'attacco di Trump; secondo Postol lo si sarebbe potuto portare facilmente altrove usando il cassone di un pick up ("o anche un carro trainato da un asino!"). Ma il punto è che nessuno sa dove si trovi quell'uranio arricchito. E quasi certamente è disponibile.
L'argomento essenziale del professor Postol -che evita di accennare a implicazioni politiche- è il paradosso per cui più l'uranio è arricchito, più facile diventa arricchirlo ulteriormente. Di conseguenza l'Iran potrebbe accontentarsi di un impianto di centrifugazione molto più piccolo. Esattamente: molto, molto più piccolo degli impianti su scala industriale di Fordow o di Natanz, progettati per ospitare rispettivamente migliaia e decine di migliaia di centrifughe.
Postol ha elaborato lo schema tecnico di una cascata di 174 centrifughe con cui l'Iran potrebbe arrivare in solo quattro o cinque settimane ad avere l'uranio arricchito -sotto forma di gas esafluoruro- sufficiente a realizzare un ordigno. Nel 2023 l'AIEA aveva trovato particelle di uranio arricchito all'83,7%: un livello militare. Probabilmente si è trattato di un esperimento con cui gli iraniani avrebbero dimostrato a se stessi che erano in grado di farlo quando e come volevano, suggerisce il professor Postol.
Lo schema della cascata di centrifughe di Postol aveva lo scopo di sottolineare il fatto che avendo a disposizione dell'uranio arricchito al 60% occorrono pochi o punti sforzi per proseguire l'arricchimento fino all'83,7%. Eccola qui, la storia dell'arricchimento in segreto.
La cosa che potrebbe risultare ancora più scioccante ad occhi inesperti è che Postol ha ulteriormente dimostrato che una cascata di 174 centrifughe potrebbe essere installata in uno spazio di soli sessanta metri quadrati -la superficie di un modesto appartamento cittadino- e consumerebbe solo poche decine di kilowatt.
Insomma, qualche impianto di arricchimento di dimensioni del genere si potrebbe nascondere ovunque in un paese vasto come l'Iran; aghi in un pagliaio. Anche la conversione dell'uranio in uranio metallico 235 comporterebbe il ricorso a impianti di piccole dimensioni; la si potrebbe eseguire in una struttura di centoventi, massimo centocinquanta metri quadrati.
Sempre a proposito di alcuni dei luoghi comuni che circondano la realtà iraniana, la costruzione di una bomba atomica sferica richiede non più di quattordici chilogrammi di uranio metallico 235 circondato da un riflettore. "Non si tratta di alta tecnologia, è roba da capanno degli attrezzi". Basta assemblare i pezzi e non servono test. Postol afferma che "Little Boy è stato sganciato su Hiroshima senza molti test; è sbagliato pensare che servano test". Ecco sfatato l'altro luogo comune per cui "sapremmo se l'Iran fosse arrivato ad avere capacità nucleari militari perché potremmo rilevare sismicamente il test di una qualsiasi arma".
Una piccola bomba atomica di questo tipo peserebbe solo centocinquanta chili. Le testate di alcuni missili iraniani lanciati contro lo stato sionista durante la guerra dei dodici giorni, sia detto per confronto, ne pesavano tra i quattrocentosessanta e i cinquecento.
Ted Postol è attento a non azzardare valutazioni sulle implicazioni politiche. Eppure sono assolutamente chiare: non ha senso un altro bombardamento su Fordow, Natanz e Isfahan. La stalla è aperta e i buoi sono scappati.
Il professor Postol, come massimo esperto tecnico in materia nucleare, fornisce informazioni al Pentagono e al Congresso. Conosce il direttore dell'intelligence nazionale Tulsi Gabbard, e secondo quanto riferito l'ha messa al corrente della situazione prima dell'attacco di Trump contro Fordow il 22 giugno sostenendo che gli Stati Uniti probabilmente non sarebbero stati in grado di distruggere la sala delle centrifughe, che a Fordow è molto profonda. Altri funzionari del Pentagono, pare, non sarebbero stati della stessa opinione.
Sappiamo che gli Stati Uniti non hanno nemmeno provato a far crollare i tunnel sotto Isfahan con le bombe bunker buster e che si sono accontentati di cercare di bloccare i vari ingressi dei tunnel verso il sito di Isfahan ricorrendo ad armi convenzionali, come i vecchi missili Tomahawk lanciati da sottomarini.
Ripetere l'esercitazione del 22 giugno sarebbe un mero gesto teatrale completamente privo di obiettivi concreti e realistici. Allora perché mai Trump ci starebbe ancora pensando? Durante la sua recente visita in Scozia, ha dichiarato ai giornalisti che l'Iran sta inviando "segnali negativi" e che qualsiasi tentativo di riavviare il suo programma nucleare verrebbe immediatamente represso:
"Abbiamo spazzato via il loro potenziale nucleare. Possono ricominciare. Se lo faranno, lo spazzeremo via più velocemente di quanto vi ci voglia per muovere un dito".
Ci sono diverse possibilità: Trump potrebbe sperare che un ulteriore attacco possa finalmente –secondo lui e altri– provocare la caduta del governo iraniano. Potrebbe anche provare l'istinto di rifuggire da un'escalation contro la Russia, per il pericolo di arrivare a un punto in cui il conflitto potrebbe diventare incontrollabile. E alla fine potrebbe concludere che sarebbe più facile presentare un attacco all'Iran come una dimostrazione della "forza" degli Stati Uniti da presentare poi con un'ulteriore dichiarazione del tipo "colpito e affondato", indipendentemente dai risultati concreti.
Infine, potrebbe pensare di attaccare nella convinzione che lo stato sionista voglia questo attacco, e che anzi ne abbia un disperato bisogno.
La motivazione più probabile potrebbe essere proprio questa. Solo che nell'attuale epoca della geostrategia gli impressionanti miglioramenti nell'accuratezza degli armamenti balistici e ipersonici russi e iraniani -che possono distruggere con precisione un obiettivo con danni collaterali trascurabili e che l'Occidente non è praticamente in grado di intercettare- hanno cambiato le regole del gioco.
E hanno fatto cambiare anche tutto il calcolo geostrategico, specialmente per lo stato sionista. Un ulteriore attacco all'Iran, lungi dal rivelarsi vantaggioso, potrebbe scatenare contro lo stato sionista una risposta devastante a mezzo missili.
Del resto tutte le narrazioni di Trump sono un po' un teatrino. Un teatrino in cui si ostenta sostegno allo stato sionista mentre il vero obiettivo è quello di far crollare e di balcanizzare l'Iran e di indebolire la Russia.
Postol riferisce che un colonnello dell'esercito sionista avrebbe detto a Netanyahu che attaccando l'Iran "probabilmente ce la prenderemmo con uno Stato dotato di armi nucleari". È probabile che Tulsi Gabbard abbia detto lo stesso a Trump.
Il professor Postol è d'accordo. L'Iran deve essere considerato una potenza nucleare non dichiarata, anche se la sua situazione effettiva viene accuratamente celata.

01 agosto 2025

Alastair Crooke - Il movimento MAGA si sente tradito: è la fine per il mito di Trump?




Traduzione da Strategic Culture, 29 luglio 2025.

Il polverone del caso Epstein cresce. E diventa un catalizzatore per il profondo senso di alienazione che le masse provano nei confronti di alcuni strati della classe dirigente. Il pubblico, sia pure a malincuore, è rassegnato a interiorizzare il fatto che i suoi "governanti" siano dei mentitori e dei ladri abituali. Nonostante questo -in particolare all'interno della fazione del MAGA- ha comunque avuto sentore che all'interno del ceto governativo potrebbero covare vizi che considera troppo esecrabili anche solo per immaginarli. La gente ha capito che Trump era in un modo o nell'altro -sia pure solo come spettatore- legato ad ambienti in preda alla depravazione più totale.
È improbabile che la cosa gli verrà facilmente perdonata, o che gli sia perdonata proprio. Trump è stato eletto per smantellare tutte queste intricate reti di oligarchie, strutture di potere e servizi segreti che agiscono per interessi poco chiari. È quello che aveva promesso, il suo America First.
Cercare di distogliere l'attenzione del pubblico dalla vicenda Epstein probabilmente non avrà successo. Sfruttare, abusare e distruggere la vita di non si sa quante bambine secondo una condotta diabolicamente dissoluta in cui si mescolano potere e ricchezza è una cosa che va a toccare corde morali profonde: è impossibile cercare di sviare l'attenzione puntando il dito contro le mene finanziarie e altri giochetti da privilegiati. L'abuso -e peggio- inflitto a dei bambini appartiene a una categoria a sé stante, a una categoria infernale.
Trump può anche sostenere di non aver fatto nulla di giuridicamente sanzionabile. Sta di fatto che ormai è compromesso, e compromesso molto seriamente. Di conseguenza, come presidente potrebbe ritrovarsi a essere un'anatra zoppa, a meno che non si venga fuori un deus ex machina abbastanza potente da distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica.
Tanto per essere chiari, Trump resisterà con tutte le sue forze alla prospettiva di diventare un'anatra zoppa. Ed è qui che diventa pericoloso sul piano geopolitico. Trump ha bisogno di qualcosa che diventi una notizia distraente, ha bisogno di “vittorie”.
Ora come ora però si trova in una posizione di debolezza, in cui gli organismi per la sicurezza dello Stato e i loro alleati al Congresso stanno prendendo sempre di più il controllo della situazione. Allo stesso modo, molti esponenti della rete che collega politici e funzionari statunitensi, britannici e dello stato sionista a profondi legami commerciali e di intelligence saranno estremamente contrari a che venga fatta piena luce sul loro mondo. Singoli individui, tra cui la detenuta Ghislaine Maxwell, potrebbero rivelarsi pericolosi proprio come qualcuno che sta annegando e che in preda al panico si aggrappa alla persona più vicina facendola annegare con lui.
Il pedestre entourage che si occupa di politica estera per Trump ha limitato le iniziative presidenziali in materia erigendo una gabbia le cui sbarre hanno nomi come "arroganza" e "superbia".
Per l'Ucraina, Trump ha dato a Mosca cinquanta giorni di tempo per capitolare all'ultimatum di cessate il fuoco di Kellogg, se non vuole che la parola passi al cannone.
Le sanzioni del 100% sulle triangolazioni, che colpiscono principalmente le importazioni energetiche della Cina e dell'India dalla Russia, sono state categoricamente respinte dalla Cina e probabilmente lo saranno anche dall'India. Trump subirà le pressioni dei falchi del Congresso affinché faccia qualcosa per infliggere un duro colpo alla Russia.
Il problema è che l'arsenale è vuoto. Né gli Stati Uniti né l'Europa dispongono di scorte di armi significative in vista di una guerra. Anche se ordinassero missili o altre armi adesso, ci vorrebbero mesi prima della loro consegna.
Invece Trump di qualche diversivo o di qualche vittoria ne ha bisogno alla svelta.
Dal momento che negli arsenali non c'è gran che, Trump può solo far salire efficacemente la tensione usando missili a lungo raggio contro Mosca o contro San Pietroburgo. I missili Tomahawk con una gittata di duemila chilometri nell'arsenale degli Stati Uniti ci sono (e ne è stato discusso con la squadra di governo di Trump, secondo quanto riferito da David Ignatius).
E se questi missili Tomahawk, che sono vecchi, fossero abbattuti facilmente dalle forze russe? Beh, allora rimarrebbe un vuoto. Un vuoto grave. Perché non c'è nulla di intermedio tra qualche partita di armamenti dal valore simbolico (una manciata di missili Patriot) e le armi nucleari tattiche presenti nelle basi statunitensi, che potrebbero essere lanciate dai caccia schierati in Gran Bretagna.
A questo punto Trump piomberebbe verso un conflitto di vaste proporzioni con la Russia.
Un piano B esiste? Beh... sì. In alternativa all'escalation contro la Russia, si potrebbe bombardare di nuovo l'Iran.
Gli iraniani ritengono probabile un altro attacco contro la Repubblica Islamica, e Trump ha detto che potrebbe farlo. Quindi l'Iran si sta preparando al meglio per tale eventualità.
È possibile che Trump sia stato informato che la conseguenza di un attacco su larga scala contro l'Iran sarebbe l'effettiva smilitarizzazione dello stato sionista a mezzo missili balistici, con profonde ripercussioni sulla politica statunitense e sulla regione.
È anche possibile che Trump faccia finta di nulla e che preferisca a considerare lo stato sionista "tanto bravo", come disse durante l'attacco a sorpresa del 13 giugno.
E in Medio Oriente cosa sta succedendo? Sembra che Netanyahu stia brigando per aiutare Trump. Gaza è già una cosa scandalosa, sono scandalosi i crimini di guerra che vi vengono commessi, in una situazione che ha ottime prospettive di peggioramento.
Max Blumenthal riferisce che "quando Tucker Calson ha affermato che Epstein aveva legami con i servizi segreti dello stato sionista [e che questo spiegava] perché Trump sta insabbiando [il caso Epstein], nello stato sionista devono essersi spaventati. Neftali Bennett, ex primo ministro israeliano, è stato convocato per dichiarare che aveva avuto a che fare ogni giorno con il Mossad e che Jeffrey Epstein non lavorava per il Mossad e non era un agente per lo stato sionista. Ha poi minacciato Carson, dicendo "non lo tollereremo". Anche il ministro per gli Affari della diaspora ha denunciato Tucker Carson. È come se il rapporto tra il movimento conservatore statunitense e lo stato sionista si stesse incrinando a causa di Epstein", suggerisce Blumenthal.
Netanyahu forse intuisce che negli USA lo stato sionista rischia di passare qualche guaio, dato che i giovani statunitensi e i sostenitori del MAGA si stanno rivoltando contro un Trump che avrebbe tradito lo America First, sarebbe "corresponsabile" del massacro di Gaza, della guerra civile settaria in Siria guidata dagli USA e dallo stato sionista, dell'attacco contro l'Iran e del sacco del Libano.
Secondo i sondaggi, l'81% degli statunitensi vuole che vengano resi pubblici tutti i documenti relativi a Epstein. Due terzi –tra cui l'84% dei democratici e il 53% dei repubblicani– pensano che il governo stia nascondendo le prove relative alla lista dei suoi clienti e alla sua morte. Attualmente, il 53% disapprova l'operato di Trump.
Netanyahu è (forse di conseguenza) impegnato in una corsa frenetica per imporre la "Grande Israele". Imporre, perché la versione originale degli accordi di Abramo secondo ogni apparenza riguardavano la normalizzazione dei rapporti con lo stato sionista. Oggi, sotto la minaccia militare, gli Stati arabi sono costretti ad accettare le condizioni dello stato sionista e la sottomissione ad esso.
Si tratta di una parodia del vecchio concetto di un'alleanza di minoranze. Oggi le "minoranze" (che a volte sono maggioranze frammentate) vengono deliberatamente messe l'una contro l'altra. Gli Stati Uniti e lo stato sionista hanno nuovamente introdotto l'ISIS 2.0 in Medio Oriente. Le esecuzioni di alawiti, cristiani e sciiti in Siria ne sono la diretta conseguenza.
La prospettiva è quella di un Medio Oriente devastato, in cui solo le monarchie del Golfo fungono da isole obbedienti in mezzo a un panorama di guerre intestine, massacri su base etnica e balcanizzazione della politica.
Il nuovo Medio Oriente...?

08 maggio 2025

Alastair Crooke - Donald Trump, il campione degli accordi che non conclude accordi



Traduzione da Strategic Culture, 5 maggio 2025.

La versione corrente, sia in Ucraina che in Iran, è che il presidente Trump vuole arrivare a un accordo. In tutti e due i casi la cosa è fattibile, ma sembra che Trump sia comunque riuscito a mettersi con le spalle al muro. Trump tiene a presentare la sua amministrazione come un qualcosa di più spiccio, di più cattivo e di molto meno incline ai sentimentalismi. Essa aspira ad affermarsi, a quanto sembra, anche come qualcosa di più centralizzato, coercitivo e radicale.
In politica interna definire l'ethos trumpiano in questi termini può anche essere fondato. In politica estera tuttavia Trump tergiversa. Il motivo non è chiaro, ma è una cosa che offusca le sue prospettive nei tre settori fondamentali per le sue aspirazioni di "pacificatore": l'Ucraina, l'Iran e Gaza.
Certamente Trump deve la sostanza del suo mandato al dilagante malcontento economico e sociale piuttosto che alla sua pretesa di essere un pacificatore; tuttavia gli obiettivi chiave della politica estera rimangono importanti per mantenere un buon livello di consenso e di inziativa.
Si potrebbe rispondere che nei negoziati internazionali un presidente ha bisogno di circondarsi di personalità determinate ed esperte in grado di sostenerlo. E Trump di queste personalità non ne dispone.
Prima mandare il suo inviato Witkoff a parlare con il presidente Putin, pare che il generale Kellogg abbia presentato a Trump una proposta di armistizio in stile Versailles, basata sull'idea che la Russia fosse alle corde: il piano era formulato in termini che sarebbero stati più appropriati a una capitolazione. La proposta di Kellogg sottintendeva anche l'idea che Trump avrebbe fatto a Putin un "grande favore", a toglierlo dal pantano ucraino in cui era andato a cacciarsi. Ed è proprio questa la linea che Trump ha adottato a gennaio. Dopo aver affermato che la Russia aveva perso in guerra un milione di uomini, Trump aveva aggiunto che "con il suo rifiutare ogni accordo, Putin sta distruggendo la Russia". Disse anche che l'economia russa era "alla rovina" e, cosa ancora più significativa, che avrebbe preso in considerazione l'ipotesi di imporre sanzioni o dazi alla Russia. In un successivo post su Truth Social, Trump ha scritto: "Farò alla Russia, la cui economia sta crollando, e al presidente Putin, un FAVORE davvero grosso".
Debitamente imbeccato dai suoi, il presidente potrebbe aver pensato di offrire a Putin un cessate il fuoco unilaterale e, in men che non si dica, di arrivare rapidamente ad un accordo che avrebbe ascritto a proprio merito. Tutte le premesse su cui si basava il piano Kellogg -il fatto che la Russia soffrisse per le sanzioni e che la guerra ormai in stallo fosse costata enormi perdite- erano false. Nessuno nell'entourage di Trump ha quindi svolto le dovute verifiche sulla strategia di Kellogg? Sembra che -per pigrizia- abbiano preso come modello la guerra di Corea, senza stare neanche a chiedersi se si trattasse di un paragone appropriato o meno.
Nel caso della guerra di Corea il cessate il fuoco lungo la linea del fronte precedette le considerazioni politiche, che arrivarono solo in un secondo momento. E che a tutt'oggi permangono irrisolte.
Con questo insistere anzitempo per un cessate il fuoco immediato durante i colloqui con i funzionari russi a Riyadh, Trump li ha invitati a rifiutare. Soprattutto perché gli uomini di Trump non avevano un piano concreto su come attuare un cessate il fuoco, e si sono limitati a dare per scontato che tutti i dettagli potessero essere affrontati a posteriori. Insomma, la questione è stata presentata a Trump come una facile vittoria.
Cosa che non era.
Il risultato era ovvio: il cessate il fuoco è stato rifiutato. Se al lavoro ci fosse stata gente davvero competente non si sarebbe arrivati a tanto. Nessuno dei funzionari di Trump ha sentito cosa aveva detto Putin il 14 giugno dell'anno scorso, quando aveva esposto con molta chiarezza al Ministero per gli Affari Esteri la posizione russa su un cessate il fuoco, posizione da allora regolarmente ribadita? A quanto pare no.
Eppure, quando l'inviato di Trump Witkoff è tornato dal lungo incontro con il presidente Putin per riferire sulla spiegazione dettagliata fornitagli di persona da quest'ultimo sul perché un qualsiasi cessate il fuoco avrebbe dovuto essere preceduto da un inquadramento politico -a differenza di quanto accaduto in Corea- il generale Kellogg gli avrebbe seccamente ribadito che "gli ucraini non accetteranno mai".
Fine della discussione, a quanto pare. Nulla di fatto.
La situazione è rimasta la stessa, nonostante diversi altri voli diretti a Mosca. A Mosca si attendono conferme sul fatto che Trump è in grado di consolidare la sua posizione e di prendere la situazione in pugno. Fino a quel momento, Mosca è pronta ad agevolare un "ravvicinamento delle posizioni", ma non approverà un cessate il fuoco unilaterale. E nemmeno Zelensky.
A rimanere incomprensibile è come mai Trump non interrompa i flussi di armi e di intelligence statunitensi verso Kiev e non dica agli europei di togliersi dai piedi. Kiev dispone forse di una qualche forma di potere di veto? Gli uomini di Trump non hanno capito che gli europei sperano semplicemente di ostacolare l'obiettivo di Trump, che è quello di normalizzare le relazioni con la Russia? Sarà il caso che comincino a capirlo.
Sembra che il "dibattito" -se così si può chiamarlo- all'interno dell'amministrazione Trump abbia in gran parte escluso i dati reali. Si è svolto ad un livello normativo elevato, dove certi fatti e certe verità sono semplicemente dati per scontati.
Forse ha pesato molto una dinamica analoga al fenomeno dei costi irrecuperabili: più si continua con una linea di condotta -non importa quanto stupida- meno si è disposti a cambiarla. Cambiarla sarebbe interpretato come riconoscere l'errore, e riconoscere l'errore è il primo passo verso la perdita del potere.
E c'è un parallelo nei colloqui con l'Iran.
Trump ha in mente di arrivare a un accordo negoziato con l'Iran che raggiungerebbe il suo obiettivo di un Iran senza armi nucleari. Obiettivo che sarebbe esso stesso tautologico, dato che la comunità dei servizi statunitensi ha già stabilito che l'Iran non possiede armi nucleari.
Come si fa a fermare una cosa che non esiste? Beh, l'intenzione è un concetto estremamente difficile da definire. Quindi, l'entourage di Trump riparte dall'inizio, dal punto fermo originario stabilito dalla Rand Organisation per cui non esiste alcuna differenza qualitativa tra l'arricchimento dell'uranio a fini pacifici e quello a fini militari. Quindi, non dovrebbe essere consentito alcun arricchimento.
Solo che l'Iran l'uranio lo arricchisce, grazie alla concessione di Obama nell'ambito del JCPOA, che lo ha permesso sia pure con alcune limitazioni.
Circolano molte idee su come quadrare il cerchio, ovvero il rifiuto dell'Iran di rinunciare all'arricchimento e l'impossibilità di Trump di usare le parole come armi. Nessuna di queste idee è nuova: importare in Iran materie prime arricchite; esportare l'uranio altamente arricchito dall'Iran in Russia (cosa già fatta nell'ambito del JCPOA) e chiedere alla Russia di costruire l'impianto nucleare iraniano per alimentare l'industria locale. Il problema è che la Russia lo sta già facendo. Un impianto è già in funzione e un altro è in costruzione.
Anche lo stato sionista naturalmente ha avanzato le sue proposte: eliminare alla radice tutte le infrastrutture di arricchimento e le capacità missilistiche dell'Iran.
Solo che l'Iran non accetterà mai.
Quindi, la scelta è tra un sistema di ispezioni e sorveglianza tecnica, implementato in un accordo simile al JCPOA -che non farà la felicità né dello stato sionista né la leadership istituzionale ad esso vicina- o un'azione militare.
Il che ci riporta all'entourage di Trump e ai disaccordi all'interno del Pentagono.
Pete Hegseth ha fatto avere all'Iran questo messaggio, pubblicato su un suo account sui social:
Vediamo il vostro sostegno LETALE agli Houthi. Sappiamo esattamente cosa state facendo. Sapete molto bene di cosa è capace l'esercito statunitense e siete stati avvertiti. Ne pagherete le CONSEGUENZE nel momento e nel luogo da noi scelti.
Chiaramente, Hegseth è un frustrato. Come ha osservato Larry Johnson:
Gli uomini di Trump si sono mossi sulla base di [un'altra] falsa supposizione, ovvero che i collaboratori di Biden non abbiano compiuto seri sforzi per distruggere l'arsenale di missili e di droni degli Houthi. I sostenitori di Trump credevano di poter bombardare gli Houthi fino a sottometterli. Invece, gli Stati Uniti stanno dimostrando a tutti i paesi della regione i limiti della loro potenza navale e aerea... Nonostante più di seicento sortite di bombardamento, gli Houthi continuano a lanciare missili e droni contro le navi statunitensi nel Mar Rosso e contro obiettivi all'interno dello stato sionista.
Pare che gli uomini di Trump si siano prima cacciati in un conflitto con lo Yemen e poi in un negoziato complicati con l'Iran, ancora una volta senza aver controllato di essere tutti d'accordo sullo Yemen. Si tratta davvero di un ragionamento di gruppo?
In una situazione di incertezza come quella attuale, la solidarietà viene vista come un fine in sé e nessuno vuole essere accusato di "indebolire l'Occidente" o di "rafforzare l'Iran". Se devi sbagliare, meglio sbagliare in compagnia del maggior numero possibile di persone.
Lo stato sionista lascerà correre? Sta lavorando alacremente con il generale Kurilla (il generale statunitense al comando del CENTCOM) nel bunker sotto il Dipartimento della Difesa, preparando piani per un attacco congiunto contro l'Iran. Lo stato sionista sembra molto impegnato in questa occupazione.
Tuttavia, l'ostacolo fondamentale al raggiungimento di un accordo con l'Iran è ancora più cruciale, in quanto -così come è attualmente concepito- l'approccio degli Stati Uniti ai negoziati viola tutte le regole su come avviare un trattato di limitazione degli armamenti.
Da un lato c'è lo stato sionista, che ha armi nucleari e la capacità per lanciarle con sottomarini, aerei e missili. Lo stato sionista il ricorso alle armi nucleari lo ha anche minacciato, sia recentemente a Gaza sia durante la prima guerra in Iraq, in risposta ai missili Scud di Saddam Hussein.
A mancare, qui, è un minimo di principio di reciprocità. Si dice che l'Iran minaccia lo stato sionista, quando è lo stato sionista a minacciare regolarmente l'Iran. E lo stato sionista ovviamente vuole che l'Iran sia neutralizzato e disarmato, mentre insiste per non dover rendere conto di niente: niente trattato di non proliferazione, niente ispezioni dell'AIEA, nessuna ammissione.
I trattati di limitazione agli armamenti avviati da JF Kennedy e da Krusciov derivavano dal successo dei negoziati con cui gli Stati Uniti ritirarono i propri missili dalla Turchia prima che la Russia ritirasse i propri da Cuba.
Deve essere chiaro a Trump e Witkoff che proposte sbilanciate come quella che rivolgono all'Iran non hanno alcuna relazione con le realtà geopolitiche e sono quindi prima o poi destinate al fallimento. La squadra di Trump si sta mettendo con le spalle al muro da sola, costringendosi ad un'azione militare contro l'Iran di cui poi dovrà assumersi la responsabilità.
Trump questo non lo vuole, l'Iran non lo vuole. Quindi, si è approfondita la questione? L'esperienza dello Yemen è stata presa in considerazione nella sua interezza? Quelli di Trump hanno pensato a qualche via d'uscita? Un modo innovativo per uscire da questo dilemma e di ripristinare almeno in parte una parvenza di trattato di limitazione degli armamenti come lo si intende in modo classico potrebbe essere l'avanzare l'idea, da pare di Trump, che è giunto il momento che lo stato sionista aderisca al trattato di non proliferazione e che sottoponga le sue armi all'ispezione dell'AIEA.
Trump lo farà? No.
Il motivo è ovvio.
La trasformazione degli USA voluta da Trump passa dal ricostruire gli USA innanzitutto.

29 aprile 2025

Alastair Crooke - Trump e il disastroso piano Kellogg per l'Ucraina




Traduzione da Strategic Culture, 28 aprile 2025.

A Washington la politica intesa come guerra è un endemismo. Ma il numero delle vittime al Pentagono ha iniziato a salire vertiginosamente. Tre dei principali consiglieri del segretario alla Difesa Hegseth sono stati sospesi e poi licenziati. La guerra continua, e adesso nel mirino c'è lo stesso segretario. La cosa è importante perché l'attacco a Hegseth arriva nel mezzo di un feroce dibattito interno all'amministrazione Trump sulla politica nei confronti dell'Iran. I falchi vogliono l'eliminazione definitiva di tutte le capacità nucleari e militari dell'Iran, mentre molti "moderati" mettono in guardia contro un'escalation militare; secondo quanto riferito, Hegseth era tra coloro che mettevano in guardia contro un intervento in Iran.
I recenti licenziamenti al Pentagono sono stati tutti identificati come appartenenti all'ala dei dubbiosi. Uno di questi, Dan Caldwell, ex consigliere capo di Hegseth e veterano dell'esercito, ha scritto un post in cui criticava aspramente i falchi, e successivamente è stato licenziato. In seguito è stato intervistato da Tucker Carlson. In particolare, Caldwell descrive in termini durissimi le guerre statunitensi in Iraq e in Siria ("criminali"). Questo atteggiamento negativo nei confronti delle guerre precedenti sembra essere un tema ricorrente tra i veterani statunitensi di oggi.
A quanto pare i tre membri dello staff del Pentagono sono stati licenziati non per aver divulgato informazioni riservate, ma sostanzialmente per aver dissuaso Hegseth dal sostenere la guerra contro l'Iran; i sostenitori dello stato sionista invece a quella guerra non hanno affatto rinunciato.
Le arroventate linee di frattura che dividono falchi e “repubblicani” tradizionalisti si ritrovano anche per la questione dell'Ucraina, anche se l'appartenenza alle fazioni può cambiare leggermente. I sostenitori dello stato sionista e i falchi statunitensi in generale si ritrovano sia a sostenere la guerra contro la Russia sia ad avanzare posizioni perentorie nei confronti dell'Iran.
Il commentatore conservatore Fred Bauer osserva che quanto a impulsi bellicisti, in Trump se ne trovano di contrastanti:
Influenzato dalla guerra del Vietnam della sua giovinezza... Trump sembra profondamente contrario ai conflitti militari a lungo termine, ma allo stesso tempo ammira una politica fatta di forza e di spavalderia. Una cosa che vuol dire eliminare i generali iraniani, lanciare attacchi aerei contro gli Houthi e aumentare il budget della difesa a mille miliardi di dollari.
Se le pressioni per la sua rimozione dovessero avere successo e Hegseth dovesse uscire di scena, la contesa potrebbe diventare ancora più feroce. E c'è già una prima vittima: la speranza di Trump di porre rapidamente fine al conflitto in Ucraina non esiste più.
Questa settimana il team di Trump (comprese entrambe le fazioni in lotta, Rubio, Witkoff e il generale Kellogg) si è riunito a Parigi con vari rappresentanti europei e ucraini. Durante l'incontro la delegazione statunitense ha avanzato una proposta di cessate il fuoco unilaterale russo-ucraino.
In aeroporto a riunioni terminate Rubio ha detto con chiarezza che il piano per un cessate il fuoco era un'iniziativa statunitense "da prendere o lasciare". Le varie parti -la Russia, Kiev e i membri europei della "coalizione dei volenterosi"- avevano solo pochi giorni per accettarlo, altrimenti gli Stati Uniti si sarebbero "chiamati fuori" e della guerra se ne sarebbero lavati le mani.
Il quadro presentato, secondo quanto riferito, è quasi -forse al 95%- identico a quello proposto a suo tempo dal generale Kellogg: si tratta, cioè, sempre del suo piano, reso noto per la prima volta nell'aprile 2024. Sembra che Trump abbia fatto propria questa "formula Kellogg", anche se all'epoca era nel pieno della campagna elettorale e difficilmente poteva seguire da vicino i complicati dettagli della guerra in Ucraina.
Al generale Kellogg è verosimile che si debba anche l'ottimismo con cui Trump considera possibile mettere termine alle ostilità in Ucraina con uno schiocco di dita, ovvero attraverso l'applicazione di limitate pressioni asimmetriche e minacce su entrambi i belligeranti, e secondo i tempi decisi a Washington.
In sostanza il piano era frutto del consenso vigente negli ambienti governativi sul fatto che gli USA avrebbero potuto arrivare a imporre una soluzione negoziata, con condizioni in linea con gli interessi statunitensi e ucraini.
Le ipotesi implicite nel piano di Kellogg erano che la Russia fosse altamente vulnerabile alla minaccia di sanzioni (la sua economia era percepita come fragile), che avesse subito perdite insostenibili e che la guerra fosse in una fase di stallo. Kellogg ha quindi convinto Trump che la Russia avrebbe accettato prontamente i termini proposti per il cessate il fuoco, sebbene questi si fondassero su ipotesi palesemente errate circa la Russia e le sue presunte debolezze.
L'influenza di Kellogg, con i suoi fallaci presupposti, si è resa fin troppo evidente in gennaio quando Trump, dopo aver affermato che la Russia aveva perso un milione di uomini (in guerra), ha proseguito dicendo che "Putin sta distruggendo la Russia, col suo rifiutare un accordo", aggiungendo -apparentemente come se fosse un'osservazione a margine- che Putin potrebbe aver già deciso di "non accettare un accordo". Trump disse anche che l'economia russa è "alla rovina" e -cosa ancora più significativa- che avrebbe preso in considerazione l'ipotesi di imporre sanzioni o dazi alla Russia. In un successivo post su Truth Social, Trump ha scritto: "Farò un grande FAVORE alla Russia, la cui economia è in crisi, e al presidente Putin".
Tutte le ipotesi di Kellogg erano prive di qualsiasi fondamento nella realtà. Eppure Trump sembra averle accettate senza riserve. E nonostante i tre lunghi incontri personali successivi di Steve Witkoff con il presidente Putin, in cui Putin ha ripetutamente affermato che non avrebbe accettato alcun cessate il fuoco fino a quando non fosse stato concordato un inquadramento politico, i sostenitori di Kellogg hanno continuato a dare per scontato che la Russia sarebbe stata costretta ad accettare la mano che Kellogg le tendeva, viste le (presunte) gravi "battute d'arresto" subite in Ucraina.
Se le cose stanno così, non sorprende che i termini del quadro per un cessate il fuoco delineati da Rubio questa settimana a Parigi sembrassero più quelli che si rivolgerebbero a una controparte sul punto di capitolare, piuttosto che a uno Stato che prevede di raggiungere i propri obiettivi con mezzi militari.
In sostanza, il piano Kellogg mirava a ottenere una "vittoria" degli Stati Uniti a condizioni in linea con la volontà di mantenere aperta l'opzione di continuare contro la Russia una guerra di logoramento.
Ma cosa prevede il piano Kellogg? In sostanza, mira a congelare la situazione lungo la linea del fronte. All'Ucraina non sarebbe impedito in via definitiva un ingresso nella NATO, ma piuttosto di rinviare l'adesione a un lontano futuro. Non sono previsti limiti alle dimensioni di un futuro esercito ucraino né restrizioni al tipo o alla quantità di armamenti a disposizione delle forze ucraine. Anzi, dopo il cessate il fuoco gli Stati Uniti potrebbero al contrario riarmare, addestrare e sostenere militarmente delle future forze armate. Insomma, si tratterebbe di tornare ai tempi del dopo Maidan del 2014. Inoltre l'Ucraina non cederebbe alcun territorio alla Russia ad eccezione della Crimea, che sarebbe riconosciuta dagli Stati Uniti come russa (l'unica concessione a Witkoff?); la Russia eserciterebbe un mero "controllo" sulle quattro regioni che attualmente rivendica, ma solo fino alla linea del fronte; i territori al di là del fronte rimarrebbero sotto il controllo ucraino (si veda qui per la "mappa di Kellogg"). La centrale nucleare di Zaporizhya sarebbe territorio neutrale, controllato e gestito dagli Stati Uniti. Non viene fatto alcun riferimento alle città di Zaporizhya e di Kherson, che la Russia considera costituzionalmente proprio territorio ma che si trovano oltre la linea del fronte.
A quanto pare il piano non delineava alcuna soluzione politica e lasciava all'Ucraina la libertà di rivendicare tutti i suoi ex territori ad eccezione della Crimea.
Il territorio ucraino a ovest del fiume Dnieper sarebbe però diviso in tre zone, rispettivamente di responsabilità britannica, francese e tedesca. Cioè gestite dalle forze della NATO. In ultimo, non sono previste garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti.
Rubio ha successivamente fatto avere i dettagli del piano al ministro degli Esteri russo Lavrov, il quale ha risposto con calma che qualsiasi piano per un cessate il fuoco dovrebbe avere come primo obiettivo la risoluzione delle cause alla base del conflitto.
Witkoff si reca a Mosca questa settimana per presentare a Putin un piano chiaramente votato al fallimento e per cercare di ottenere il suo consenso. Gli europei e gli ucraini si riuniranno mercoledì prossimo a Londra per formulare una loro risposta a Trump.
Cosa succederà adesso? È ovvio che il piano Kellogg non scioglierà certo le ali al vento. La Russia non lo accetterà e probabilmente nemmeno Zelensky, anche se gli europei cercheranno di convincerlo sperando di "mettere Mosca in difficoltà" facendo fare alla Russia la figura del guastafeste principale. Secondo quanto riferito, Zelensky ha già respinto la clausola sulla Crimea.
Gli europei potrebbero scoprire che il fatto che non siano previste garanzie di sicurezza o di sostegno da parte degli Stati Uniti rappresenta una pietra tombale per la loro aspirazione di dispiegare truppe in Ucraina nel contesto del cessate il fuoco. Trump si laverà davvero le mani dell'Ucraina? Probabilmente no, dato che la leadership istituzionale neoconservatrice degli Stati Uniti dirà a Trump che farlo indebolirebbe la narrativa ameriKKKana della "pace attraverso la forza". Trump potrebbe adottare una posizione di sostegno "a bassa intensità", dichiarando che quella "non è mai stata la sua guerra" intanto che cerca una "vittoria" contro la Russia sul fronte commerciale.
In buona sostanza che Kellogg non ha servito bene il suo padrone. Gli Stati Uniti hanno bisogno di intrattenere con la Russia delle relazioni che funzionano. I sostenitori di Kellogg hanno contribuito nel presentare a Trump una raffigurazione della Russia gravemente errata. Putin è un attore serio, che dice ciò che pensa e pensa ciò che dice.
Il colonnello Macgregor riassume così:
Trump tende a vedere il mondo attraverso la lente degli accordi. [Porre fine alla guerra in Ucraina] non è una questione di accordi. Si tratta della vita e della morte di nazioni e popoli. Non c'è alcun interesse per una sorta di accordo a breve termine che conferisca a Trump o alla sua amministrazione l'aura della grandezza. Non ci sarà alcuna vittoria personale per Donald Trump in tutto questo. Non succederà mai.

18 aprile 2025

Alastair Crooke - Trump smantella un ordine mondiale in crisi: nuove opportunità sorgono dal caos



Traduzione da Strategic Culture, 16 aprile 2025.

Lo shock inflitto da Trump –il suo sottrarre l'AmeriKKKa al ruolo di perno dell'ordine postbellico basato sul dollaro– ha aperto una profonda spaccatura tra coloro che hanno tratto enormi benefici dallo status quo da un lato, e la fazione del Make AmeriKKKa Great Again che era arrivata a considerare lo status quo come un nemico -se non come una minaccia esistenziale- per gli interessi degli Stati Uniti dall'altro. Le due parti sono contrapposte da un'aspra polarizzazione irta di accuse reciproche.
Uno dei dati ironici della situazione è il fatto che il Presidente Trump e i repubblicani di destra abbiano insistito nel denunciare come una dannazione la vantaggiosa posizione del dollaro come valuta di riserva, che ha deviato proprio verso gli Stati Uniti il flusso dei risparmi del mondo che ha permesso loro di godere del privilegio unico di stampare moneta senza conseguenze negative. Almeno fino ad ora. Perché a quanto pare le dimensioni dell'indebitamento iniziano a farsi sentire anche per il Leviatano.
Il vicepresidente Vance adesso paragona la valuta di riserva a un "parassita" che ha corroso la sostanza del suo "ospite" –l'economia statunitense– con l'imposizione della sopravvalutazione del dollaro.
Per essere chiari, il presidente Trump riteneva che non ci fosse scelta: o si rovesciava il paradigma esistente al prezzo di notevoli sacrifici per molti di coloro che dipendono dal sistema finanziario, oppure si lasciava che gli eventi seguissero il loro corso verso l'inevitabile collasso economico degli Stati Uniti. Anche coloro che comprendevano il dilemma degli Stati Uniti sono rimasti comunque piuttosto scioccati dallo sfacciato egoismo con cui Trump ha deciso di "imporre dazi al mondo".
Al contrario di quello che molti affermano, le iniziative di Trump non sono dei capricci o dei gesti impulsivi. Sulle tariffe doganali il suo entourage ha lavorato per anni, e la loro imposizione costituiva parte integrante di un quadro più complesso che integrava gli effetti dei dazi sulla riduzione del debito e sulle entrate con un programma volto a costringere un'industria manifatturiera ormai scomparsa a tornare negli Stati Uniti.
Quella di Trump è una scommessa; potrebbe riuscire oppure no. Rischia una crisi finanziaria ancora più grave, dato che i mercati finanziari sono sovraindebitati e fragili. Ma ciò che è chiaro è che alle sue rozze minacce e al suo umiliare i leader mondiali seguirà una perdita di centralità degli USA che finirà per provocare una reazione nociva sia nelle relazioni con gli altri Paesi sia nella loro disponibilità a continuare ad avere a che fare con attività statunitensi, come i titoli del Tesoro. La sfida della Cina a Trump conferirà all'atmosfera un tono cui si adeguerà anche chi non ha il peso della Cina.
Perché allora Trump dovrebbe correre un rischio del genere? Perché, dietro le azioni audaci di Trump, osserva Simplicius, si nasconde una dura realtà che molti sostenitori del MAGA devono affrontare:
Rimane indiscutibile che la forza lavoro statunitense è stata devastata dalla tripla minaccia dell'immigrazione di massa, dall'anomia generale dei lavoratori come conseguenza del decadimento culturale e, in particolare, dall'alienazione di massa e dalla privazione dei diritti civili degli uomini di orientamento conservatore. Questi sono stati fattori che hanno fortemente contribuito all'attuale crisi di fiducia nella capacità dell'industria manifatturiera statunitense di tornare ai fasti del passato, indipendentemente dall'entità dei tagli che Trump deciderà di infliggere a un "ordine mondiale" ormai in crisi.
Trump sta scatenando una rivoluzione per ribaltare questa realtà. La sua speranza è che ponendo fine all'anomia riporterà l'industria negli Stati Uniti.
Esiste una corrente nell'opinione pubblica occidentale –"non limitata affatto agli intellettuali", né ai soli statunitensi– che dispera della "mancanza di volontà" del proprio Paese, o della sua incapacità di fare ciò che è necessario, della sua inettitudine e della sua "crisi di competenza". Questa gente desidera ardentemente una leadership a suo giudizio più dura e più determinata, bramosa di potere illimitato e spietato.
Un sostenitore di Trump di alto rango esprime il concetto in modo piuttosto brutale: "Siamo ora a un punto di svolta molto importante. Se vogliamo affrontare di brutto la Cina non possiamo tollerare incrinature sul fronte interno... È ora di diventare cattivi, brutalmente, duramente cattivi. Le delicatezze sensibili devono essere spazzate via come piume in un uragano".
Non sorprende che in un Occidente dominato da un generico nichilismo possa prendere piede una mentalità che ammira il potere e soluzioni tecnocratiche animate da una quasi compiaciuta spietatezza.
Prendete nota: ci aspetta un futuro turbolento.
A complicare ancora di più il quadro del disfacimento economico dell'Occidente arriva la contraddittorietà delle dichiarazioni di Trump. Potrebbero anche essere parte del suo repertorio, ma la loro casualità fa pensare che nulla sia affidabile e nulla sia costante.
Secondo alcune fonti interne alla Casa Bianca, Trump avrebbe perso ogni inibizione quando si tratta di agire con audacia: "È all'apice del non fregarsene più di niente", ha dichiarato al Washington Post un funzionario della Casa Bianca che conosce bene il modo di pensare di Trump:
Cattive notizie? Non gliene frega un cazzo. Farà quello che deve fare. Farà quello che ha promesso durante la campagna elettorale.
Quando una parte della popolazione di un Paese deplora la "mancanza di volontà" o l'incapacità del proprio Paese di "fare quello che va fatto", sostiene lo Aurelien, essa inizia di tanto in tanto a identificarsi emotivamente con "un altro Paese", ritenuto più forte e più deciso. In questo particolare momento, "il manto" che toccherebbe a "una sorta di supereroe nietzscheano al di là di considerazioni sul bene e sul male"... "è caduto sullo stato sionista" - almeno per una rilevante quota di politici statunitensi ed europei. Aurelien continua:
Nello stato sionista troviamo una società apparentemente occidentale insieme a una linea comportamentale spregiudicata, spietata e improntata a un totale disprezzo per il diritto internazionale e per la vita umana; molti lo trovavano esaltante ed è diventato un modello da emulare. Il sostegno occidentale allo stato sionista su Gaza acquista molto più senso quando ci si rende conto che i politici occidentali e parte della classe intellettuale provano una segreta ammirazione per la spietatezza e la brutalità dello stato sionista in guerra.
La "svolta" imposta dagli Stati Uniti, nonostante i costosi sconvolgimenti che impone, rappresenta anche un'enorme opportunità: quella di passare a un paradigma sociale alternativo che vada oltre il dominio della sfera finanziaria imposta dal neoliberismo. Questa prospettiva, fino ad oggi, è stata negata dall'insistenza con cui le élite hanno ripetuto che "non ci sono alternative". Adesso si è aperto uno spiraglio.
Karl Polanyi nel suo La grande trasformazione pubblicato circa ottant'anni fa sosteneva che le enormi trasformazioni economiche e sociali a cui aveva assistito durante la sua vita –la fine del secolo di "pace relativa" in Europa dal 1815 al 1914 e la successiva caduta nel caos economico, nel fascismo e nella guerra, ancora in corso al momento della pubblicazione del libro– avevano un'unica causa generale.
Prima del XIX secolo, sosteneva Polanyi, nel "modo di essere" dell'uomo l'economia era una componente organica della società e di essa era sempre stata "parte integrante", subordinata alla politica locale, ai costumi, alla religione e alle relazioni sociali, ovvero subordinata a una cultura civilizzatrice. La vita non era considerata una cosa separata, non era ridotta a particolari distinti, ma era vista come parte di un tutto organico che era la Vita stessa.
Il nichilismo postmoderno è sfociato nel neoliberismo sfrenato degli anni '80 e ha capovolto questa logica. In quanto tale, ha costituito una rottura ontologica con gran parte della storia. Non solo ha separato artificialmente l'"economico" dal "modo di essere" politico ed etico, ma l'economia aperta e liberista (nella sua formulazione di Adam Smith) ha richiesto la subordinazione della società alla logica astratta di un mercato in grado di autoregolarsi. Per Polanyi, questo "significava nientemeno che il funzionamento della comunità come appendice del mercato" e come nient'altro.
La sua proposta –chiaramente– era quella di riportare la società al ruolo dominante in una comunità squisitamente umana, ovvero darle un senso attraverso una cultura viva. In questo senso, Polanyi sottolineava anche il carattere territoriale della sovranità: lo Stato-nazione come condizione sovrana per l'esercizio della politica democratica.
Polanyi avrebbe sostenuto che, in assenza di un ritorno alla Vita stessa come perno centrale della politica, una reazione violenta sarebbe stata inevitabile. È forse questa la reazione cui stiamo assistendo oggi?
In una conferenza davanti a un pubblico di industriali e di imprenditori russi il 18 marzo 2025, Putin ha fatto riferimento proprio a una soluzione alternativa per la Russia, quella della "economia nazionale". Putin ha sottolineato sia l'assedio che è stato imposto allo Stato russo sia la risposta russa, un modello che probabilmente sarà adottato da gran parte del mondo.
Si tratta di un modo di concepire l'economia già praticato dalla Cina, che aveva giocato d'anticipo sull'offensiva tariffaria di Trump.
Il discorso di Putin –in senso metaforico– costituisce la controparte finanziaria del discorso che tenne al Forum sulla sicurezza di Monaco del 2007, in cui aveva accettato la sfida militare lanciata dalla "NATO collettiva". Il mese scorso tuttavia Putin è andato oltre, affermando chiaramente che la Russia aveva accettato la sfida lanciata dall'ordine finanziario anglosassone dell'"economia aperta".
Il discorso di Putin non conteneva elementi nuovi in senso stretto: sanciva il passaggio dal modello della "economia aperta" a quello della "economia nazionale". La "scuola dell'economia nazionale" (del XIX secolo) sosteneva che l'analisi di Adam Smith, fortemente incentrata sull'individualismo e il cosmopolitismo, trascurava il ruolo cruciale dell'economia nazionale.
Il risultato di un libero scambio generale non sarebbe stato l'approdo a una repubblica universale, ma al contrario la sottomissione universale delle nazioni meno avanzate alle potenze manifatturiere e commerciali predominanti. I sostenitori di un'economia nazionale contrastarono l'idea dell'economia aperta di Smith sostenendo invece un'economia chiusa che consentisse alle industrie nascenti di crescere e di diventare competitive sulla scena globale.
"Non fatevi illusioni: non esiste nulla al di fuori di questa realtà". Questo l'ammonimento di Putin agli industriali russi riuniti nel marzo 2025. "Mettete da parte le illusioni", ha detto ai delegati:
Le sanzioni e le restrizioni sono la realtà di oggi, insieme alla una nuova spirale di rivalità economiche già scatenatasi.
Le sanzioni non sono misure temporanee né mirate, ma costituiscono un meccanismo di pressione sistematica e strategica contro la nostra nazione. Indipendentemente dagli sviluppi globali o dai cambiamenti nell'ordine internazionale, i nostri concorrenti cercheranno in permanenza di impastoiare la Russia e di ridurne le capacità economiche e tecnologiche.
Non dovete sperare in una completa libertà di commercio, di transazioni e di trasferimenti di capitali. Non dovete contare sui meccanismi occidentali per proteggere i diritti degli investitori e degli imprenditori... Non sto parlando di sistemi giuridici: semplicemente, essi non esistono! Esistono solo per se stessi! Questo è il trucco. Capite?!
Noi [russi] dobbiamo affrontare le nostre sfide, certamente -ha detto Putin- ma anche gli occidentali devono affrontarne numerose. Il dominio occidentale sta svanendo. Nuovi centri di crescita globale stanno prendendo il centro della scena.
Queste sfide non sono il problema; sono l'opportunità, ha sostenuto Putin:
daremo priorità alla produzione interna e allo sviluppo delle industrie tecnologiche. Il vecchio modello è finito. La produzione di petrolio e gas sarà semplicemente il complemento di un'economia reale in gran parte interna e autosufficiente, in cui l'energia non sarà più il motore. Siamo aperti agli investimenti occidentali, ma solo alle nostre condizioni, e il piccolo settore "aperto" della nostra economia reale, altrimenti chiusa e autosufficiente, continuerà naturalmente a commerciare con i nostri partner dei BRICS.
La Russia sta tornando al modello dell'economia nazionale, ha lasciato intendere Putin. "In questo modo potremo resistere alle sanzioni e ai dazi". "La Russia è anche in grado di reggere gli incentivi, essendo autosufficiente in termini di energia e materie prime", ha affermato Putin. Un chiaro paradigma economico alternativo, davanti a un ordine mondiale in disgregazione.