Traduzione da Strategic Culture, 4 agosto 2025.
Il presidente degli Stati Uniti, angustiato da una vicenda Epstein che non vuole saperne di passare in secondo piano e messo sotto pressione dai falchi a causa del sensibile collasso dell'Ucraina, sta sparando una raffica di minacce geopolitiche su tutti i fronti. Innanzitutto e soprattutto contro la Russia, ma in secondo luogo contro l'Iran.
"L'Iran è proprio malvagio. Le dichiarazioni degli iraniani sono intrise di malvagità. Sono stati colpiti. Non possiamo permettere loro di avere armi nucleari. Stanno ancora parlando di arricchimento dell'uranio. Chi è che parla così? È proprio stupido. Non lo permetteremo".
Una escalation di qualche genere con la Russia è chiaramente all'ordine del giorno, ma Trump ha minacciato anche di attaccare nuovamente i siti nucleari iraniani. Se lo facesse si tratterebbe di un gesto dimostrativo completamente scollegato dalla realtà delle cose sulla situazione in Iran.
Un altrio attacco, direbbero, significherebbe un'ulteriore regressione -o proprio la parola fine- per la capacità dell'Iran di mettere insieme un'arma nucleare.
E questa sarebbe una bugia.
E questa sarebbe una bugia.
Theodore Postol, professore emerito di scienza, tecnologia e sicurezza internazionale al MIT, viene considerato il massimo esperto statunitense in materia di armi nucleari e loro sistemi di lancio. Postol esprime alcune osservazioni tecniche controintuitive che questo articolo ha l'intenzione di tradurre in termini politici e che indicano con chiarezza come un ulteriore attacco ai tre siti nucleari colpiti dagli Stati Uniti il 22 giugno sarebbe inutile.
Sarebbe inutile per quanto riguarda l'obiettivo ostentato da Trump, ma un attacco potrebbe comunque esserci, sia pure solo come messinscena volta a facilitare altri e differenti obiettivi come il tentativo di rovesciare la Repubblica Islamica e favorire le ambizioni egemoniche dello stato sionista nella regione.
In parole povere la convincente argomentazione del professor Postol è che l'Iran non ha bisogno di ricostruire il suo precedente programma nucleare per costruire una bomba. Quell'epoca è finita. Sia gli Stati Uniti che lo stato sionista credono -e con ragione, afferma Postol- che la maggior parte delle scorte di uranio altamente arricchito dell'Iran siano sopravvissute all'attacco e siano disponibili.
"I tunnel di Esfahan sono profondi. Sono tanto profondi che gli Stati Uniti non hanno nemmeno provato a farli crollare con le bombe bunker buster. Supponendo che il materiale non sia stato spostato, ora si trova intatto nei tunnel. Dopo una settimana dall'attacco l'Iran aveva già sbloccato l'ingresso di un tunnel".
Insomma, l'attacco statunitense non ha ritardato di anni il programma iraniano. È altamente probabile che la maggior parte dell'uranio altamente arricchito iraniano sia sopravvissuto agli attacchi, pensa Postol.
L'AIEA afferma che al momento dell'attacco l'Iran possedeva 408 kg di uranio arricchito al 60%. Probabilmente gli iraniani lo hanno spostato prima dell'attacco di Trump; secondo Postol lo si sarebbe potuto portare facilmente altrove usando il cassone di un pick up ("o anche un carro trainato da un asino!"). Ma il punto è che nessuno sa dove si trovi quell'uranio arricchito. E quasi certamente è disponibile.
L'argomento essenziale del professor Postol -che evita di accennare a implicazioni politiche- è il paradosso per cui più l'uranio è arricchito, più facile diventa arricchirlo ulteriormente. Di conseguenza l'Iran potrebbe accontentarsi di un impianto di centrifugazione molto più piccolo. Esattamente: molto, molto più piccolo degli impianti su scala industriale di Fordow o di Natanz, progettati per ospitare rispettivamente migliaia e decine di migliaia di centrifughe.
Postol ha elaborato lo schema tecnico di una cascata di 174 centrifughe con cui l'Iran potrebbe arrivare in solo quattro o cinque settimane ad avere l'uranio arricchito -sotto forma di gas esafluoruro- sufficiente a realizzare un ordigno. Nel 2023 l'AIEA aveva trovato particelle di uranio arricchito all'83,7%: un livello militare. Probabilmente si è trattato di un esperimento con cui gli iraniani avrebbero dimostrato a se stessi che erano in grado di farlo quando e come volevano, suggerisce il professor Postol.
Lo schema della cascata di centrifughe di Postol aveva lo scopo di sottolineare il fatto che avendo a disposizione dell'uranio arricchito al 60% occorrono pochi o punti sforzi per proseguire l'arricchimento fino all'83,7%. Eccola qui, la storia dell'arricchimento in segreto.
La cosa che potrebbe risultare ancora più scioccante ad occhi inesperti è che Postol ha ulteriormente dimostrato che una cascata di 174 centrifughe potrebbe essere installata in uno spazio di soli sessanta metri quadrati -la superficie di un modesto appartamento cittadino- e consumerebbe solo poche decine di kilowatt.
Insomma, qualche impianto di arricchimento di dimensioni del genere si potrebbe nascondere ovunque in un paese vasto come l'Iran; aghi in un pagliaio. Anche la conversione dell'uranio in uranio metallico 235 comporterebbe il ricorso a impianti di piccole dimensioni; la si potrebbe eseguire in una struttura di centoventi, massimo centocinquanta metri quadrati.
Sempre a proposito di alcuni dei luoghi comuni che circondano la realtà iraniana, la costruzione di una bomba atomica sferica richiede non più di quattordici chilogrammi di uranio metallico 235 circondato da un riflettore. "Non si tratta di alta tecnologia, è roba da capanno degli attrezzi". Basta assemblare i pezzi e non servono test. Postol afferma che "Little Boy è stato sganciato su Hiroshima senza molti test; è sbagliato pensare che servano test".
Ecco sfatato l'altro luogo comune per cui "sapremmo se l'Iran fosse arrivato ad avere capacità nucleari militari perché potremmo rilevare sismicamente il test di una qualsiasi arma".
Una piccola bomba atomica di questo tipo peserebbe solo centocinquanta chili. Le testate di alcuni missili iraniani lanciati contro lo stato sionista durante la guerra dei dodici giorni, sia detto per confronto, ne pesavano tra i quattrocentosessanta e i cinquecento.
Ted Postol è attento a non azzardare valutazioni sulle implicazioni politiche. Eppure sono assolutamente chiare: non ha senso un altro bombardamento su Fordow, Natanz e Isfahan. La stalla è aperta e i buoi sono scappati.
Il professor Postol, come massimo esperto tecnico in materia nucleare, fornisce informazioni al Pentagono e al Congresso. Conosce il direttore dell'intelligence nazionale Tulsi Gabbard, e secondo quanto riferito l'ha messa al corrente della situazione prima dell'attacco di Trump contro Fordow il 22 giugno sostenendo che gli Stati Uniti probabilmente non sarebbero stati in grado di distruggere la sala delle centrifughe, che a Fordow è molto profonda. Altri funzionari del Pentagono, pare, non sarebbero stati della stessa opinione.
Sappiamo che gli Stati Uniti non hanno nemmeno provato a far crollare i tunnel sotto Isfahan con le bombe bunker buster e che si sono accontentati di cercare di bloccare i vari ingressi dei tunnel verso il sito di Isfahan ricorrendo ad armi convenzionali, come i vecchi missili Tomahawk lanciati da sottomarini.
Ripetere l'esercitazione del 22 giugno sarebbe un mero gesto teatrale completamente privo di obiettivi concreti e realistici. Allora perché mai Trump ci starebbe ancora pensando? Durante la sua recente visita in Scozia, ha dichiarato ai giornalisti che l'Iran sta inviando "segnali negativi" e che qualsiasi tentativo di riavviare il suo programma nucleare verrebbe immediatamente represso:
"Abbiamo spazzato via il loro potenziale nucleare. Possono ricominciare. Se lo faranno, lo spazzeremo via più velocemente di quanto vi ci voglia per muovere un dito".
Ci sono diverse possibilità: Trump potrebbe sperare che un ulteriore attacco possa finalmente –secondo lui e altri– provocare la caduta del governo iraniano. Potrebbe anche provare l'istinto di rifuggire da un'escalation contro la Russia, per il pericolo di arrivare a un punto in cui il conflitto potrebbe diventare incontrollabile. E alla fine potrebbe concludere che sarebbe più facile presentare un attacco all'Iran come una dimostrazione della "forza" degli Stati Uniti da presentare poi con un'ulteriore dichiarazione del tipo "colpito e affondato", indipendentemente dai risultati concreti.
Infine, potrebbe pensare di attaccare nella convinzione che lo stato sionista voglia questo attacco, e che anzi ne abbia un disperato bisogno.
La motivazione più probabile potrebbe essere proprio questa. Solo che nell'attuale epoca della geostrategia gli impressionanti miglioramenti nell'accuratezza degli armamenti balistici e ipersonici russi e iraniani -che possono distruggere con precisione un obiettivo con danni collaterali trascurabili e che l'Occidente non è praticamente in grado di intercettare- hanno cambiato le regole del gioco.
E hanno fatto cambiare anche tutto il calcolo geostrategico, specialmente per lo stato sionista. Un ulteriore attacco all'Iran, lungi dal rivelarsi vantaggioso, potrebbe scatenare contro lo stato sionista una risposta devastante a mezzo missili.
Del resto tutte le narrazioni di Trump sono un po' un teatrino. Un teatrino in cui si ostenta sostegno allo stato sionista mentre il vero obiettivo è quello di far crollare e di balcanizzare l'Iran e di indebolire la Russia.
Postol riferisce che un colonnello dell'esercito sionista avrebbe detto a Netanyahu che attaccando l'Iran "probabilmente ce la prenderemmo con uno Stato dotato di armi nucleari". È probabile che Tulsi Gabbard abbia detto lo stesso a Trump.
Il professor Postol è d'accordo. L'Iran deve essere considerato una potenza nucleare non dichiarata, anche se la sua situazione effettiva viene accuratamente celata.
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