lunedì 16 ottobre 2017

Alastair Crooke - La preoccupante dottrina nucleare di Donald Trump



Traduzione da Consortium News, 2 ottobre 2017.

Esistono carrettate di pubblicazioni che riguardo all'iniziativa militare del Presidente Trump contro la Corea del Nord discettano del "lo farà, non lo farà". Ed esistono carrettate di pubblicazioni anche su quello che Trump potrebbe voler fare con l'Iran; si è impegnato in un teatrino della retorica per compiacere la propria base e ottenere il plauso della stampa, o sta cercando di arrivare ad un confronto, caldo o freddo che sia?
L'interrogativo che rimane senza risposta è: il Presidente Trump considera la Corea del Nord e l'Iran, anche se l'Iran non ha armamenti nucleari e neppure un programma nucleare militare, come realtà in relazione tra loro? Sicuramente esiste almeno un individuo, uno che presso la famiglia Trump trova molto ascolto, che pensa che lo siano.
Jeffrey Sachs, che ha ascoltato il discorso che Trump ha pronunciato alle Nazioni Unite in cui il Presidente ha detto che era pronto a "distruggere completamente" la Corea del Nord, così descrive la reazione dei presenti: "Beh, c'era chi strascicava i piedi, chi sghignazzava, chi si mostrava sorpreso, chi stupito, pochi che applaudivano. C'era Netanyahu, che applaudiva entusiasta; una scena davvero strana. A ripensarci sono ancora un po' stranito."
Sicuramente per il Primo Ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu e per qualche neoconservatore un attacco statunitense contro il programma nucleare nordcoreano costituirebbe un meraviglioso precedente rispetto all'Iran, per l'immediato o per il futuro.
Solo che non lo sappiamo. La passata carriera di Trump come ospite di reality televisivi gli ha lasciato la passione per il battage pubblicitario seducente ("ne saprete di più la prossima settimana"). Quello che è sempre più chiaro è che gli addetti ai lavori come il presidente del comitato per gli affari esteri del senato non sanno dire se Trump stia per scatenare la terza guerra mondiale oppure no.
Sappiamo comunque che Trump si considera un esperto di confronti nucleari: in un'intervista del 1984 concessa allo Washington Post Trump disse che sperava di diventare un giorno il capo della commissione incaricata di negoziare con l'Unione Sovietica sugli armamenti nucleari. Trump affermò che avrebbe potuto negoziare con Mosca un bell'accordo sul nucleare. Trump paragonava la negoziazione di un accordo sugli armamenti alla preparazione di un accordo immobiliare e ribadiva di possedere un talento innato per questo compito.
In un'intervista a Playboy del 1990, Trump disse: "Penso al futuro, ma mi rifiuto di tracciarne un quadro. Può succedere di tutto. Ma penso spesso alla guerra nucleare." Spiegò: "Ho sempre pensato al tema della guerra nucleare; è un elemento molto importante dei miei pensieri. Si tratta di una cosa definitiva, della catastrofe definitiva, del più grande problema mondiale, e nessuno sta pensando all'essenza e alla portata di questo problema."
Cinque anni dopo, a Trump fu chiesto cosa avrebbe fatto di lì a cinque anni. "Chi lo sa?" rispose. "Magari vengono giù le bombe dal cielo, chi lo sa? Si vive in un mondo impazzito, dobbiamo vedercela con un sacco di pazzi. E tu hai la bomba e tu hai questo e tu hai quello."


La previsione di un olocausto nucleare

Trump ha continuato a dirsi convinto che all'orizzonte ci potrebbe essere un olocausto nucleae: "Oh, certamente. Voglio dire, è la natura umana che è malsana. Se Hitler avesse avuto la bomba, non siete convinti che l'avrebbe usata? L'avrebbe messa nel mezzo della Fifth Avenue. Avrebbe usato la Trump Tower, tra la Cinquantasettesima e la Fifth! Bum!"
In un'altra intervista a Playboy, stavolta nel 2004, Trump ha ancora una volta fatto presente quanto il nucleare lo preoccupasse. Alla domanda "Pensa che la Trump Tower e gli altri suoi edifici porteranno ancora il suo nome, di qui a cent'anni?" Trump rispose: "Non penso che ci sarà alcun edificio di qui a cent'anni: a meno che non troviamo persone davvero intelligenti a mandarlo avanti, di qui a cent'anni il mondo non sarà certo come oggi. Esistono armi troppo potenti, troppo forti."
Durante un dibattito presidenziale repubblicano nel dicembre 2015, il candidato Trump ha detto: "Il problema più grande che il mondo ha oggi non è il Presidente Obama con il suo riscaldamento globale... Il problema più grande che abbiamo è il nucleare, la proliferzione nucleare, e c'è qualche pazzo, qualche incosciente che va e mette su un'arma nucleare. Io la penso così, è questo l'unico enorme problema che oggi come oggi il nostro paese si trova davanti... Io credo, credo, per quanto mi riguarda, che il nucleare sia solo potenza, la distruzione è molto importante ai miei occhi."
"INsomma, pare che per decenni" scrive David Corn su Mother Jones "Trump sia stato ossessionato dall'idea che una guerra nucleare sia potenzialmente inevitabile. Adesso si trova in una posizione in cui può fare qualcosa di concreto in proposito."
Come ha notato l'ex direttore dei servizi nazionali James Clapper, "[Se] in un colpo di testa [Trump] decide di agire in qualche modo contro Kim Jong Un, si può fare pochissimo di concreto per fermarlo... Tutto il sistema [degli armamenti nucleari] è congegnato in modo da assicurare una rapida reazione se necessario. Quindi l'esercizio dell'opzione nucleare è di fatto molto poco controllabile, e questo è dannatamente preoccupante."
In breve, nel caso un Presidente statunitense in vena di fatalismi ordinasse un attacco con armi nucleari tattiche, magari perché convinto che uno scontro nucleare è in qualche modo inevitabile, non esiste praticamente nulla che glielo impedisca.
Cosa implica tutto questo per la Repubblica Islamica dell'Iran? I vertici della Repubblica non sanno certo meglio del senatore Bob Corker se Trump intende aggredire la Corea del Nord oppure no, ma devono prepararsi al peggio; se la Corea del Nord viene attaccata, questo precedente permetterà allo stato sionista e ai falchi statunitensi di sostenere che l'Iran sarà in grado di costruire armi nucleari quando il Piano d'Azione Congiunto Globale (JCPOA) sarà giunto a scadenza, e che occorre prevenire questa minaccia. Questa argomentazione è una fandonia, perché l'Iran si è impegnato a firmare il protocollo aggiuntivo sul trattato di non proliferazione, che stabilisce ispezioni accurate da parte della IAEA anche dopo la scadenza del JCPOA.
In una riunione con i vertici militari all'inizio di ottobre Trump ha esplicitamente collegato la Corea del Nord e l'Iran, affermando che la sua amministrazione si stava concentrando su "sfide che avremmo in realtà dovuto affrontare molto tempo fa, come la Corea del Nord, l'Iran, l'Afghanistan, lo Stato Islamico e le potenze revisioniste che minacciano i nostri interessi in tutto il mondo... Non possiamo permettere a questo regime dittatoriale [la Corea del Nord] di minacciare il nostro paese o i nostri alleati di stragi al di là di ogni immaginazione... Faremo quello che dobbiamo fare per impedire che questo succeda. E se sarà necessario lo faremo, credetemi."


L'Iran in allarme

L'Iran deve tenersi pronto anche ad un'altra possibilità. L'Iran non sta minacciando gli USA con armi nucleari, e il riferimento di Trump all'Iran inteso come stato canaglia della regione mediorientale può essergli servito a compiacere la base e a giocare in genere sul piano dell'iranofobia ameriKKKana oltre che per gratificare lo stato sionista -che si sente vulnerabile- e l'Arabia Saudita.
In questo caso Trump può aspettarsi di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Può "decertificare" l'Iran, affermando che non sta rispettando il JCPOA; questa decertificazione vale solo per la politica interna degli Stati Uniti ed è un modo per passare al Congresso la grana sul da farsi. Tocca al Congresso decidere, dopo sessanta giorni di dibattito, se imporre nuovamente all'Iran le sanzioni dovute alla questione del nucleare. Se il Congresso dovesse decidere di ripristinare le sanzioni, gli USA si troverebbero nelle condizioni di non aver rispettato il JCPOA perché quegli accordi sarebbero ancora legalmente validi, a meno che -e solo se- il Consiglio di Sicurezza dell'ONU non decida di comune accordo di scioglierli altrimenti.
Esistono alcune prove circostanziate che fanno pensare che Trump stia pensando proprio a questo; ad avere la botte piena e la moglie ubriaca. La maggioranza repubblicana in Senato è molto risicata. La cocente umiliazione che Trump ha imposto al senatore Bon Corker, capo del comitato per gli affari esteri e voce molto ascoltata dai senatori democratici non ha molto senso se Trump vuole che il Congresso minacci di ripristinare le sanzioni contro l'Iran ser esso non ottempererà a un JCPOA inasprito, o distinte restrizioni al programma missilistico rianiano.
Il Congresso conosce bene le difficoltà che deve affrontare per ottenere il sostegno degli alleati degli USA, per convincere il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e per mantenere la reputazione degli USA a livello mondiale a fronte di questa continua incostanza. Persino a Washington ci si rende conto che il triumvirato di generali della Casa Bianca è contrario a scatenare una crisi con l'Iran, e che anche l'Iran non acconsentirà mai ad una rinegoziazione del JCPOA.
L'Iran, insomma, non si farà coinvolgere in dialoghi con la Casa Bianca. Trump può sempre rigirare la questione come fa Trump inteso come l'uomo forte, e fare allo stesso tempo apparire il Congresso come la componente debole, quella che vacilla sotto il peso dei vari (e concreti) impedimenta. Sarà comunque difficile che il Congresso, data la diffusa antipatia che esiste in AmeriKKKa nei confronti dell'Iran, non approvi ulteriori sanzioni, quale che ne sia il pretesto.
Considerazioni del genere potrebbero anche rassicurare l'Iran, ma non poi tanto. L'Iran non può far conto sui paesi europei, le cui banche e le cui istituzioni finanziarie sono già in preda del terrore per le sanzioni. L'Europa dice di non approvare qualunque eventuale sanzione gli USA intenedano imporre all'Iran, ma ha la forza necessaria a farsi valere?
Soprattutto, i vertici della Repubblica Islamica dell'Iran sanno bene che lo stato sionista sta cercando di forzare la mano degli USA affinché impongano delle "linee rosse" alla Siria circa la presenza di milizie iraniane, irachene e di Hezbollah dopo la sconfitta dello Stato Islamico. Lo stato sionista cercherà di fare in modo che queste "linee rosse" abbiano a presidio l'apparato militare statunitense.
Il fatto è che lo stato sionista, come alcuni editorialisti sionisti hanno affermato, può sopportare soltanto un numero limitato di perdite civili in un eventuale futuro conflitto cui prenda parte Hezbollah in Libano, per non parlare di uno che abbia per teatro un fronte esteso fra il Mediterraneo e l'Eufrate. La sensazione è che lo stato sionista stia facendo le moine al proprio protettore affinché intervenga prima in Siria e poi, in un secondo tempo, in Iran.
L'Iran non può contare sul fatto che il Segretario alla Difesa -e generale in pensione- Jim Mattis si mantenga coerentemente contrario ad un nuovo massiccio intervento in Medio Oriente, nonostante la sua contrarietà sia nota. L'Iran non ha altra scelta che comportarsi in modo intransigente: ecco perché è occupato a costruire un nuovo fronte di resistenza con la Turchia e l'Iraq -la Siria ne fa già parte- e a costruire strutture militari di deterrenza contro lo stato sionista. Anche l'Iran ha fissato la propria "linea rossa": "bollate come terrorista il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, e l'Iran farà lo stesso con le forze armate statunitensi." Una "linea rossa" che permette all'Iran di reagire in maniera flessibile, a seconda di come giudica gli eventi. Ma è bene essere chiari; se nessuno mette un freno, in Medio Oriente gli eventi stanno andando verso l'irrompere di nuove tensioni.
Tutto questo chiude il cerchio, e ci riporta al "noto ignoto" alla Rumsfeld con cui abbiamo cominciato: il fino a che punto Bibi Netanyahu, per mezzo del suo Jared Kushner, è riuscito a convincere il Presidente Trump che agire contro la Corea del Nord e contro l'Iran è inevitabile, e che inevitabile è il ricorso alle armi nucleari. Durante la campagna del 2016 Joe Scarborough di MSNBC ha riferito che Trump aveva chiesto per tre volte a un consigliere per la sicurezza nazionale perché un presidente non potesse usare armi nucleari.
Non sappiamo quello che Trump potrebbe ordinare, e a quanto pare non c'è nessuno che lo sappia; men che meno a Washington.

lunedì 9 ottobre 2017

Alastair Crooke - Sul Medio Oriente il torbido del referendum curdo



Traduzione da Consortium News, 7 ottobre 2017.

A una settimana dal referendum sull'indipendenza del Kurdistan iracheno voluto da Massud Barzani -sono contrari alla costituzione irachena sia il referendum che l'indipendenza- le reazioni si sono rivelate nella quasi totalità dei casi aspre ed irritate.
Quella che poteva essere intesa come una astuta mossa di Masrur, figlio maggiore di Massud, per rafforzare la traballante popolarità della famiglia Barzani facendone la guida del nazionalismo si sta rivelando sempre di più un passo falso. Michel Rubin della AEI ha notato che "il personale del Congresso [statunitense] e i capi con cui [Masrur] si è incontrato si sono allontanati al termine dell'incontro convinti del fatto che Masrour abbia cercato un'indipendenza intesa come apparentemente legata alla propria linea dinastica in quella che diventerà una leadership ereditaria [in Kurdistan] più che per una preoccupazione sinceramente nazionalista."
Adesso le elezioni presidenziali e parlamentari -invocate con forza all'indomani della morte dell'ex presidente iracheno e leader politico curdo Jalal Talabani avvenuta il 3 ottobre- sono diventate un pasticcio. Invece di convalidare la "successione" del proprio figlio maggiore, Massud Barzani può ritrovarsi ad aver dato il via ad una più ampia contesa per la guida del popolo curdo.
In effetti il Governo Regionale del Kurdistan viene ritratto come una democrazia, ma come afferma Michael Rubin di fatto funziona come una (corrotta) ditta a conduzione familiare "in cui i Barzani e i Talabani fanno confusione fra fondi personali, fondi pubblici e fondi di partito." Dice Rubin: "Massud Barzani fa il presidente, e vive in un palazzo che si trova in una tenuta che ha ereditato da Saddam Hussein. Suo nipote Nechirvan Barzani fa il primo ministro. Suo zio Hoshyar Zebari è stato ministro degli esteri per l'Iraq, e adesso fa il ministro delle finanze. Il figlio maggiore di Massud, Masrur, è a capo dei servizi segreti; il suo secondogenito Mansur fa il generale, e generale è anche Wajy, fratello di Massud. Il nipote di Barzani, Sirwan, possiede la locale compagnia di telefonia cellulare che, pur acquistata con denaro pubblico, è una proprietà privata. I figli di Barzani si recano spesso a Washington... [dove] Masrur Barzani ha comprtato a McLean, in Virginia, una villa da undici milioni di dollari
Il referendum ha mostrato che il nazionalismo fa facilmente presa fra i curdi, e di questo nessuno dubitava. Solo che ignorando il consiglio che gli veniva da ogni parte di cancellare o di rinviare questo provocatorio referendum, Massud Barzani ha forse concesso senza accorgersene ai suoi contendenti proprio il pretesto di cui avevano bisogno per deprecare il "progetto curdo" statunitense e sionista.
In Occidente qualcuno potrà anche pensare che la questione curda riguardi un giustificato diritto all'autodeterminazione nazionale, ma gli stati vicini non la vedono in questo modo. Essi la considerano una bomba politica, deliberatamente cacciata nel più sensibile punto del Medio Oriente per far esplodere l'assetto statale di quattro paesi importanti: l'Iraq, l'Iran, la Siria e la Turchia.


Una regione infiammabile

Questa zona è infiammabile, infiammabile fino all'esplosione, proprio perché esistono tante appartenenze etniche diverse e perché le rivendicazioni territoriali su zone che sono passate più volte di mano per il susseguirsi di ondate di pulizia etnica sono quasi impossibili da comporre; eppure, la riconquista dei territori perduti resta un obiettivo molto sentito da quanti ne sono stati spossessati.
Dal punto di vista della pulizia etnica non è che i curdi abbiano subìto più di quanto abbiano essi stessi commesso, come spiega una relazione economica della Seeking Alpha:
Questa zona [il nord dell'Iraq] era sul percorso di un'importante antica via commerciale... e nel corso dei secoli è stata colonizzata da diverse popolazioni. Gli ultimi a stabilirvisi sono stati i turchi, ai tempi dell'Impero Ottomano... Kirkuk in particolare è una località problematica perché è rivendicata da arabi, curdi e turkmeni, e sono soprattutto le pretese di questi ultimi a sembrare maggiormente fondate.
La scoperta del petrolio a Kirkuk nel 1927 e il conseguente boom ha comportato la diluizione della popolazione turkmena, per l'arrivo di migranti curdi da nord e di migranti arabi da sud. Il censimento del 1957 [l'ultimo]... mostrava che a livello di governatorato c'era un 48,2% di curdi, un 28,2% di arabi e un 21,4% di turkmeni; nella città di Kirkuk i turkmeni erano il 37,6%, i curdi il 33,5% e gli arabi il 22,5%. Queste percentuali sono cambiate significativamente sotto il governo [di Saddam Hussein], che ha incentivato l'arabizzazione a spese dei curdi e delle altre minoranze, ma la tendenza si è invertita dopo il 2003 con il ritorno di molti curdi ma non di un pari numero di turkmeni.
A chi giova rimestare nel torbido delle contrastanti rivendicazioni etniche su questo territorio (e sul 40% delle risorse petrolifere irachene), che comporta anche la potenziale frammentazione dei quattro stati sovrani su ricordati? La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran Alì Khamenei ha detto chiaramente mercoledi 4 ottobre al presidente turco Recep Tayyip Erdogan che a suo modo di vedere gli Stati Uniti stanno cercando di creare un nuovo "stato sionista" in Medio Oriente, incentivando la secessione curda. Lo stato sionista ha fatto chiaramente intendere da parte sua, tramite considerazioni provenienti da ambienti ministeriali, che è favorevole ad uno stato curdo, lo sostiene e considera che esso corrisponda ai propri interessi.
Siria, Turchia, Iran e Iraq hanno seguito con attenzione gli eventi fin da quando gli USA -e con loro alcuni alleati europei- hanno iniziato a realizzare le undici basi semipermanenti dell'esercito statunitense nella Siria settentrionale, in zone in cui i curdi sono una presenza consistente ma non per forza maggioritaria. In ogni caso, con la guerra in Siria che si avvicina alla conclusione e con la Siria che si oppone all'instaurazione di una zona cuscinetto a ridosso della linea di armistizio sul Golan e di zone demilitarizzate lungo la frontiera con l'Iraq, è ovvio che i quattro paesi non sarebbero per nulla soddisfatti se proprio in mezzo a loro venisse imposto un altro "cuscinetto" filooccidentale anche più grande.
Barzani in ogni caso non è l'unico a cercare di ribadire le proprie credenziali di leader giocando la carta del nazionalismo. Il Primo Ministro iracheno Haider al Abadi il prossimo anno dovrà affrontare una consultazione elettorale di cruciale importanza; l'ex Primo Ministro Nouri al Maliki gli è poco distante e sta recuperando. La ferma risposta di Abadi al referendum in Kurdistan si è rivelata popolare presso la sua base elettorale, ed è riuscita a mettere una qualche distanza fra lui ed al Maliki. La fermezza nel difendere la sovranità statale per Abadi sarà fondamentale per restare al potere.


La rappresaglia irachena

Secondo la Reuters alcune contromisure sono già state prese: "Baghdad ha reagito al referendum bandendo i voli internazionali dagli aeroporti curdi; l'Iran e la Turchia hanno iniziato esercitazioni militari congiunte assieme alle truppe irachene alle frontiere del Kurdistan iracheno. Il governo iracheno ha respinto la proposta del Governo Regionale del Kurdistan di aprire un confronto sull'indipendenza; anzi, ha preteso che i leader curdi annullassero il referendum, pena l'imposizione di continue sanzioni, l'isolamento internazionale ed un possibile intervento militare.
Martedi [3 ottobre] la banca centrale dell'Iraq ha comunicato al Governo Regionale del Kurdistan che non avrebbe più venduto dollari a quattro importanti banche curde, e che avrebbe bloccato tutti i trasferimenti di valuta estera nella regione, hanno riferito alla Reuters fonti dell'ambiente bancario e governativo... In precedenza, il parlamento federale di Baghdad aveva ventilato la minaccia di espellere i parlamentari curdi che avevano preso parte al referendum, dal momento che si trattava di un'iniziativa contraria alla costituzione. Il Presidente del Parlamento iracheno Salim al Jabouri ha detto in conferenza stampa al termine di una seduta che il Parlamento ha deliberato di prendere nota dei nomi di quanti hanno votato al referendum come premessa per un loro impeachment da parte dell'Alta Corte federale.
Probabilmente i quattro paesi, che stanno agendo in stretta coordinazione, faranno pressione con mezzi costituzionali contro il Governo Regionale del Kurdistan. Baghdad, che già controlla lo spazio aereo, cercherà di riprendere il controllo degli aeroporti internazionali in mano al Governo Regionale del Kurdistan, quello delle frontiere regionali, quello della produzione petrolifera e quello della città di Kirkuk, in mano ai curdi da quando lo Stato Islamico ha catturato Mossul. Turchia, Siria, Iran e Iraq strangoleranno economicamente il Governo Regionale del Kurdistan fino all'estremo limite, nel caso Barzani cercasse di usare i suoi peshmerga per mantenere il controllo di Kirkuk e dei suoi campi petroliferi.
Il mutamento degli equilibri strategici rispetto al passato ha in questo caso tre aspetti. Tutti i paesi che confinano col territorio del Governo Regionale del Kurdistan sono per la prima volta uniti nell'ostilità verso l'iniziativa di Barzani: il Governo Regionale del Kurdistan non ha sbocchi sul mare, per cui la cosa è significativa. In secondo luogo, mentre i peshmerga curdi hanno potuto godere di libertà d'azione nel nord dell'Iraq fin dal dopo la guerra del 2003 e della successiva occupazione statunitense, adesso esiste una mobilitazione di ampia portata di una forza armata come le Hashd al Sha'abi, le Forze di Mobilitazione Popolari. Si tratta di formazioni pronte, decise e capaci di  impegnare militarmente le milizie curde dei peshmerga nell'Iraq settentrionale; in terzo luogo, la Russia -pur mantenendo un profilo basso nella questione del Kurdistan iracheno- ha preso con decisione le parti della sovranità siriana.
Fin dall'arrivo in Siria, i russi hanno mantenuto stretti rapporti con le forze curde siriane. Questo significa che le relazioni con l'estero delle forze curde siriane non sono mai state un monopolio statunitense. I russi hanno dunque usato proprie truppe per proteggere i curdi dall'esercito turco, con particolare riferimento alla località di Manbij. Nonostante i russi non rilascino dichiarazioni pubbliche sui rapporti che intercorrono fra le loro forze armate e i curdi, è facile ipotizzare che essi stiano dicendo ai curdi di venire a patti con Damasco perché l'alternativa è quella di venire distrutti militarmente se solo cercheranno di interferire con la riconquista del territorio siriano (e delle sue risorse petrolifere) da parte dell'Esercito Arabo Siriano.


Le pressioni dello stato sionista

La questione fondamentale è dunque fino a che punto gli USA, messi sotto pressione dallo stato sionista, andranno avanti con questo piano. Sembra che in merito all'indipendenza del Kurdistan il governo statunitense sia diviso. Come suggerisce Michael Rubin nel suo articolo, chissà se "Masrur Barzani sarà il prossimo motivo di imbarazzo per la CIA". Il governo statunitense si è anche mostrato ambivalente sul sostegno da dare ad una dittatura ereditaria ad opera dei Barzani.
Rubin scrive: "Cosa significa questo per gli Stati Uniti? In privato, sia i circoli della diplomazia che quelli dei servizi sembrano capire il perché del dissidio tra Masrur e Nerchivan e anche, se l'espressione non è troppo forte, il perché delle tendenze psicopatologiche nel comportamento di Masrur."
Si fa riferimento qui a resoconti stilati da un'organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani sulle torture perpetrate dalle forze di sicurezza di Masrur, e sulla carcerazione e sulle torture inflitte a prigionieri che avevano rifiutato di offrire a Masrur una percentuale sulle imprese di cui erano titolari, tra le altre cose.
Da una parte, insomma, la "dittatura" dei Barzani è un problema per la reputazione degli Stati Uniti, e l'indipendenza del Kurdistan potrebbe comportare il rischio di un crollo dell'Iraq che invece gli USA sperano di utilizzare per arginare l'Iran. Dall'altra parte il Centcom, che è il comando militare statunitense nella regione, sta avendo un idillio con le reclute curde che sta addestrando in Siria, intanto che il Dipartimento di Stato si preoccupa innanzitutto del macroscopico cambiamento di fronte operato dalla Turchia, che è un membro della NATO. Insomma, non è chiaro quale possa essere l'interesse degli Stati Uniti, al di là di quello che è l'interesse dello stato sionista.
Eppure sembra che gli eventi siano come concatenati, a formare un piano preciso. Lo stato sionista teme di trovarsi isolato in Medio Oriente, perché oggi come oggi l'unico suo alleato saldo è l'Arabia Saudita. In Siria, lo stato sionista ha avuto la peggio e teme la conseguente presenza di Hezbollah e dell'Iran nel paese oltre a dubitare che gli USA o la Russia faranno -o potranno fare- gran che per mitigare certi timori. Di conseguenza la leadership sionista sta reagendo mostrando i denti, minacciando attacchi alle fabbriche che in Siria e in Libano starebbero fabbricando missili sofisticati, attacchi alle basi militari iraniane permanenti, o ad entrambi gli obiettivi.
La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran ha equiparato un ipotetico stato curdo ad "un altro stato sionista"; Hezbollah ha esortato gli ebrei a prendere in considerazione l'idea di abbandonare lo stato sionista; il Presidente Bashar al Assad ha espresso l'intenzione di riprendere il controllo di tutta la Siria; l'ayatollah al Sistani è una personalità influente contraria all'indipendenza curda. Tutti elementi che fanno parte di uno stesso piano: un piano in cui gli ammonimenti si fanno sempre più gravi, ed in cui sono nuove le regole della deterrenza.
In sostanza allora l'"iniziativa" di Barzani è diventata il perno attorno a cui ruota un nuovo paradigma di deterrenza. Il piano di cui il suo referendum faceva parte è già stato silenziosamente sommerso dal nuovo assetto della regione.