domenica 30 marzo 2014

La Russia mette limiti all'intraprendenza "occidentale". I fatti in Ucraina e le conseguenze in Medio Oriente secondo Conflicts Forum



Traduzione da Conflicts Forum.

Una fonte ben informata ci fa sapere da Washington che "per quanto riguarda la Siria, l'attenzione degli Stati Uniti è venuta meno di colpo. Gli esperti dei servizi dicono che Assad sta conseguendo vantaggi sul terreno che sarà praticamente impossibile togliergli. Uno ci ha detto che 'Assad ha praticamente vinto'".
Da questo punto di vista, l'effetto Ucraina si fa già sentire. I funzionari statunitensi avevano qualche grattacapo per l'impatto dei colloqui dei "cinque più uno" con l'Iran e stavano tirando un po' il fiato perché la Russia, almeno durante l'ultimo giro di colloqui, aveva mostrato un po' di collaborazione anche se sapevano che uno degli effetti dello stallo tra Stati Uniti ed alleati da una parte e Putin dall'altra avrebbe potuto essere un riavvicinamento tra Russia ed Iran. Cosa meno esplicita ma più importante, la crisi in Ucraina ha reso molto difficile -se non impossibile- mandare avanti il lavoro di squadra tra Obama e Putin per quanto riguarda la Siria e l'Iran. Un risultato di cui qualcuno, a Washington, può anche essere contento.
A Tehran si pensa che stabilire relazioni più strette con la Russia non sia solo probabile, ma inevitabile. C'è la diffusa convinzione che l'Ucraina, e l'ondata emotiva di biasimo contro la Russia ed il suo Presidente che gli eventi hanno causato, abbia rafforzato la posizione di Tehran nei confronti degli USA e dell'Europa perché la Russia reagirà consolidando la sua alleanza con l'Iran. L'idea predominante è questa, anche se, in qualche modo paradossalmente, accanto ad essa troviamo la molto diffusa convinzione che i colloqui siano destinati al fallimento o, nel migliore dei casi, a sfociare in un'ulteriore proroga di sei mesi dopo la conclusione della tornata in corso. Questa forte sensazione che l'Iran stia traendo vantaggio da quanto succede non pare collegata solo al desiderio di rivalsa che i russi hanno contro l'Ucraina, le cui ripercussioni sono favorevoli all'Iran, ma sembra radicata nella convinzione che gli ultimi avvenimenti possano recare conseguenze geopolitiche di più ampia portata. Di cosa si tratta?
Come abbiamo scritto nel nostro ultimo commento agli eventi della settimana, qualcuno all'interno del governo ha messo Obama con le spalle al muro. Obama pensava di poter sistemare le cose direttamente con il Presidente Putin. Quello che colpisce è il fatto che a Washington si è molto preoccupati che Putin posdsa aver mal compreso la determinazione dell'Occidente di fargliela pagare. A questa preoccupazione fa da pendant la sorpresa con cui in Russia e in gran parte della zona interessata è stato accolto il fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati possano aver così mal interpretato la possibile reazione di Putin alle mosse occidentali in Ucraina, vista la storia dell'Ucraina e della Crimea così come la si intende in Russia. I mass media hanno dato la stura alla retorica anti Putin e la cosa può aver sorpreso qualcuno, ma non avrebbe dovuto essercene motivo perché gli indizi per capire come sarebbe andata c'erano comunque tutti.
Alla conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco a febbraio i segretari statunitensi Hagel e Kerry si sono dati molto da fare per demolire la narrativa ora in voga che considera in declino la potenza statunitense; hanno negato che le cose stiano in questo modo, anche se hanno dovuto dare atto del fatto che l'alleanza con i paesi oltre l'Atlantico è un po' inflaccidita perchè manca una leadership statunitense. Hagel ha detto: "Gli stati Uniti stanno uscendo da un impegno bellico lungo tredici anni; per noi è chiaro, e lo è anche per il Presidente Obama, che il nostro futuro avrà bisogno di un'epoca di rinnovate ed estese relazioni con i nostri amici ed alleati... C'è bisogno di un rinascimento atlantico". "Il fondamento della nostra relazione di sicurezza collettiva con l'Europa è sempre stato costituito dalla cooperazione nei confronti delle comuni minacce... L'elemento centrale della difesa atlantica continuerà ad essere la NATO".
In breve, agli europei si è dovuta dare prova del fatto che nulla è cambiato nella qualità della potenza e della guida statunitensi facendo assumere alla NATO un atteggiamento più aggressivo. Nel caso qualcuno non avesse capito, ci ha pensato John Kerry a spiegare le cose senza mezzi termini: "In nessun luogo come in Ucraina è oggi in corso una lotta più importante per il futuro della democrazia in Europa". In poche parole la NATO deve riprendere vigore, e l'Europa tornare sotto l'ala della guida ameriKKKana, facendo fronte comune contro la comune "minaccia" di una Russia in nuova ascesa. In questo modo la NATO potrà essere "riorientata", via dal lungo fallimento della guerra in Afghanistan, verso una uova missione in Ucraina. In questo modo la NATO continuerà ad avere un senso, perché servirà a tenere un piede nella porta dell'Eurasia. I mass media si sono levati come un solo uomo contro Putin: si può star sicuri che la NATO e gli altri hanno preparato bene il terreno, con qualcuno di quegli incontri di cui portano per intero la responsabilità morale. 
E questa responsabilità morale esiste eccome. Come nota l'esperto giornalista investigativo statunitense Robert Parry, fin da settembre del 2013 Carl Gershman, che è presidente dell'organizzazione finanziata dagli statunitensi chiamata National Endowment for Democracy si è accaparrato pagine sullo Washington Post per scriverci che l'Ucraina ora era "la posta in gioco più grossa". Il NED aveva sessantacinque progetti in corso in Ucraina: addestramento di "attivisti", sostegno a "giornalisti" e organizzazione di gruppi di affari, almeno secondo il suo ultimo resoconto. Gershman però ha aggiunto anche che in realtà l'Ucraina era solo un primo passo verso una posta in gioco ancora più alta: il rovesciamento di Putin, che ha mostrato forte volontà e mentalità indipendente e che secondo Gerhsam "alla fine può trovarsi sconfitto non solo nel cortile di casa [l'Ucraina] ma anche nella stessa Russia". In altre parole, si sperava in un "cambiamento di governo" sia a Kiev che a Mosca.
Dunque, i russi hanno semplicemente mal interpretato la volontà della NATO di imporre a Putin un prezzo per qualsiasi reazione all'assorbimento dell'Ucraina nell'orbita occidentale, come afferma qualche funzionario statunitense? Non è che Putin ha un quadro anche troppo chiaro della situazione, ovvero che i fatti in Ucraina rappresentano non tanto una ritorsione sproporzionata per la Siria, quanto una minaccian esistenziale al suo paese e alla base navale di Sebastopoli?
Un analista russo di primo piano, Fyodor Lukyanov, contestualizza gli eventi dal punto di vista russo. Quanto successo in Ucraina non è un fuoco di paglia, ma l'anticipazione della fine di venticinque anni di politica estera russa. Quando Gorbaciov formulò il suo "nuovo pensiero" il mondo si teneva in equilibrio su due superpotenze grosso modo equivalenti. Solo che "la rapida dissoluzione dell'Unione Sovietica pose fine al sogno gorbacioviano di un riavvicinamento su pari basi e di un reciproco arricchimento ideologico, consegnando al vincitore il diritto di interpretare a proprio arbitrio i valori umani e lre rgole delle relazioni internazionali".
Lukyanov afferma che per tutto questo tempo la Russia si è attenuta pedissequamente a queste regole non scritte, anche nei momenti in cui più profonda era la sua debolezza in politica estera. La Russia ha subìto vessazioni sempre più grandi in proporzione diretta con la potenza che recuperava. Eppure, nonostante le frustrazioni e gli interventi occidentali di rovesciamento dei governi a cui la Russia si opponeva tenacemente, essa ha continuato nonostante tutto a custodire il principale retaggio dei tempi di Gorbaciov: la convinzione che avere relazioni costruttive con l'Occdeinte fosse un valore irrinunciabile.  
Solo che al tempo stesso in cui la Russia formalizzava volta per volta la decisione di ridurre al minimo i possibili danni per le proprie relazioni con l'Europa e gli Stati uniti, a Mosca ci si rendeva anche conto che così facendo non si sarebbe mai usciti dalla condizione di "potenza sconfitta", col risultato di essere trattati come il Giappone. Divenne chiaro che la Russia sarebbe stata sempre un outsider, cui si sarebbe guardato con sufficienza come ad una potenza emergente destinata a non emergere mai.
Questo senso di amarezza è diventato sempre più forte perché i russi non credono di aver perso la guerra fredda. Pensano di esserne stati tirati fuori dai loro capi politici prima che fosse finita. Secondo Lukyanov, "L'obiettivo del Cremlino, adesso, non è quello di restaurare il paese andato in pezzi nel dicembre del 1991, ma quello di rigiocare la fase finale della guerra fredda".
I russi pensano che il vecchio modello di Gorbaciov non abbia nulla da offrire. La Russia non è stata accettata, e non lo sarà mai, come partner su un piano paritario. Nessuno intende discutere con la Russia di nuove regole del gioco e i massimi responsabili politici del mondo sono convinti che il sistema del dopo guerra fredda sia sufficientemente valido e non abbia alcun bisogno di essere corretto. Questo significa che intrattenere relazioni costruttive con le potenze occidentali non soltanto non ha protetto la Russia, ma l'ha esposta alle macchinazioni di gente come il National Endowment for Democracy ed alla loro pianificata crerazione di entità filooccidentali in grado di fare da base per la disaffezione popolare e da infrastrutture per lo scopo ultimo rappresentato dal rovesciamento del governo. 
Secondo Lukyanov i massimi rappresentanti politici della Russia hanno deciso che il paese non può limitarsi ad uscire dall'angolo rappresentato dalle condizioni in cui si trova oggi. Deve diventare uno dei principali paesi del mondo, o almeno stabilire un "equilibrio di confronto" basato su alleanze con partner non occidentali che gli consenta di porre un limite preciso: non devono esserci superbasi della NATO nel cuore del continente euroasiatico. 
Probabilmente è proprio questo che in Iran si tiene presente quando si guarda all'Ucraina come ad un punto di svolta geopolitico inevitabilmente destinato a portare dei vantaggi. La stessa cosa ha spinto il Presidente Assad ad offrire ogni aiuto possibile a sostegno della posizione di Putin in Ucraina ed in Crimea. In Medio Oriente non mancheranno i sostegni -assieme alla silente condiscendenza della Cina- affinché si metta un freno all'ambizione della NATO di reinventarsi in Eurasia.
La cosa che può causare autentica sorpresa in molti è che l'Europa non ha mostrato consapevolezza alcuna delle possibili conseguenze di tutto questo quando ha cercato di "togliere il trofeo ucraino dalle grinfie di Putin". Pare proprio che gli europei si siano fidati delle analisi dei principali think tank occidentali, che davano per scontato che Putin non si sarebbe mosso. Adesso che Putin ha fatto resistenza, e che sembra che sconfiggerà gli Stati Uniti e la NATO, tutti si rendono conto che l'Europa non ha alcuna carta in mano, retorica anti Putin nonostante.
In tutto questo, c'è appena un'ombra di quello che fu la crisi di Suez. La crisi in Ucraina gioverà alla NATO e alla sua leadership statunitense, così come si sperava Suez avrebbe ripristinato il prestigio francobritannico? Oppure l'Ucraina, così come successe a Suez per le potenze coloniali di allora, non farà che sottolineare la mancanza di ogni plausibile ragion d'essere per la NATO? Non ci resta che aspettare.
Come osserva Lukyanov, "Mosca ha dato il via ad una partita impegnativa. Il rischio di perdere è considerevole, ma la posta in gioco è innegabilmente attraente. Il vecchio ordine mondiale è diventato completamente privo di efficacia e andrebbe sostituito con qualcosa di nuovo. Mikhail Gorbaciov fece il suo annuncio nel 1986 [si tratta della sua idea sul come superare il conflitto tra due sistemi politici diversi], ma non riuscì a portare a termine il compito. Putin è ritornato a quel punto di svolta, per prendere un'altra strada".

sabato 29 marzo 2014

Il governo e (soprattutto) le riforme del boiscàut secondo un lettore di Militant Blog


Anni fa eravamo convinti che a pubblicare sistematicamente immagini in cui il boiscàut Matteo Renzi figura con un'espressione non troppo acuta
fossero soltanto i suoi avversari o, più spesso ancora, i sedicenti tali.
Abbiamo dovuto ricrederci.

Alla fine di marzo 2014 Militant Blog ospita uno scritto intitolato Fra realtà e percezione dei fenomeni politici, opera di qualcuno che si presenta come lettore affezionato.
Le righe che ne riportiamo illustrano con stringata completezza le basi essenziali della popolarità di cui sta godendo in queste settimane il boiscàut cui fanno fare il Primo Ministro nell'esecutivo in carica.
Il nome dello stato che occupa la penisola italiana compare nel testo citato; ce ne scusiamo come sempre con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

L’altra sera ero a cena da una coppia di distinti amici dalle parti di San Pietro. Gente coi soldi, abituata a disinteressarsi alla politica, men che meno alle contraddizioni sociali di cui questa ne è la rappresentazione. [...]
Nella discussione, immancabile è arrivato il commento sulle vicende di palazzo e sui mille mali dell’Italia. E immancabile, l’accenno a una decisa sterzata che rimettesse in piedi il paese, lo agganciasse alle economie produttive, eliminasse i lacci e lacciuoli che frenano lo sviluppo del mercato: “ci vorrebbe un dittatore”, concludevano i padroni di casa. In questo paese “c’è troppa democrazia”, serve qualcuno che non stia più a sentire questa o quella lobby, questo o quel partito o sindacato, e agisse con forza approvando quelle riforme di cui il paese avrebbe bisogno: abbassare le tasse, smantellare la burocrazia statale, liberalizzare definitivamente il mercato del lavoro, liberarci dei sindacati, eccetera. Non ho avuto il coraggio di intavolare una discussione seria su questi punti di vista, troppo ampia la distanza fra le parti e l’incomunicabilità l’avrebbe fatta da padrona. Forse, solo il tentativo di non rovinare una serata altrimenti gradevole. Le certezze dei commensali mi hanno però stimolato una serie di riflessioni che vorrei qui spiegare.
Anzitutto, tale bisogno di “dittatura” è molto più diffuso di quanto sembri. Lo si sente ripetere spesso, il più delle volte come boutade, ma in fin dei conti valutata positivamente. E’, in fondo, lo stesso motivo per cui piace Renzi, che incarna un certo spirito decisionista di cui, si dice, ci vorrebbe un gran bisogno. Queste riflessioni cozzano però con la realtà dei fatti, ed è interessante questa discrasia evidente tra realtà e percezione della stessa. Stiamo vivendo una lunga fase storica di svuotamento di ogni forma, sostanziale e formale, di democrazia. Uno spostamento netto verso una “esecutivizzazione” della vita pubblica, un trasferimento di potere dalle assemblee di dibattito agli organi decisionali. Oggi, come mai nel corso della nostra storia, la politica si identifica col potere esecutivo, la possibilità, per un singolo, di proporre ed approvare politiche di suo pugno, senza tenere in conto alcuna mediazione. Davvero difficile capire questa esigenza, da parte della popolazione, di più decisionismo in una fase di superfetazione decisionista.
Il corollario al bisogno di dittatura sembrerebbe essere quello per cui, almeno in Italia, ci sarebbe “troppa democrazia”. Anche qui, la distanza tra realtà e immaginazione sembrerebbe abissale. E qui la colpa parrebbe essere degli agenti mediatici del consenso, che chiamano “democrazia” quella serie di scontri tra lobby economiche o élite di potere che investono permanentemente la politica di palazzo. [...]
Quello che tale massa di persone pensa è che le “improrogabili” riforme di cui necessiterebbe il paese siano frenate da passaggi troppo democratici in cui non viene mai presa una decisione. La realtà dei fatti, come riporta giustamente questo blog quotidianamente, è a dire il vero opposta: c’è una direzione politica chiara, che viene perseguita ogni giorno senza alcun intoppo sostanziale, e che nel suo prodursi cerca di tener conto di tutte quelle componenti che da tale processo cercano di trarre fuori qualche tornaconto. Nulla di questa dinamica può essere qualificato come democratico, mentre tutto è interno a logiche di potere elitario che vengono invece descritte dai media come forma democratica del processo decisionale. [...]
C’è però un altro passaggio sostanziale che salta agli occhi dalla strana discussione avuta con i simpatici anfitrioni. Le ricette che questo presunto “dittatore” dovrebbe portare avanti sarebbero in definitiva il proseguo ossequioso delle riforme che hanno caratterizzato questo ventennio abbondante. Lo smantellamento di ogni forma di welfare; l’abbattimento dei salari; la precarizzazione contrattuale di ogni rapporto lavorativo; la marginalizzazione dei sindacati; il blocco del turn over nella pubblica amministrazione; il processo costante di privatizzazione del settore pubblico; la dismissione del patrimonio pubblico. Tranne sulla politica fiscale, che però in questi anni è servita a redistribuire verso l’alto margini di guadagno non più possibili nel mercato, sono esattamente tutte le riforme che hanno contraddistinto i governi di ogni colore e composizione. Perché allora questa percezione fuori senso, questo non riconoscere una direzione lampante, evidente anche al più disinteressato agli eventi politici? Anche qui, il ruolo dei media può spiegare una parte della domanda. A forza di ripetere che in Italia c’è un sistema di sviluppo cripto-socialista, con uno Stato ipertrofico e un mercato ristretto e imbrigliato, alla fine ci si crede pure. E si crede che la soluzione sia nello smantellare un sistema che è già bello che smantellato, in ogni sua forma.

mercoledì 26 marzo 2014

Uno scorcio fiorentino dell'Occidente, nel pieno del suo risveglio spirituale


Firenze, marzo 2014.
I luoghi sono gli stessi dove un paio d'anni fa si intimava ai frequentatori di lasciar stare il Partito Democratico.
Una vetrina piena di simboli fatti a tempera e pennello, con genericissimi slogan alla pace tra i popoli.
Manca solo, sparso qua e là, il vocabolo olistico [*].
Attaccato alla vetrina c'è il proclama della foto. 

26 09 2013
Penso che la pace, per raggiungere continenti, nazioni, società e comunità debba contemporaneamente toccare i singoli individui poiché siamo la base dell'intera umanità e destino del pianeta.
Molti ricercatori, psicoanalisti, terapisti, psicologi, analisti, psichiatri, sostengono che la sanità degli individui dipende da un'equilibrata vita sessuale; come puol essere sana una società nella quale gli operatori ecclesiastici che ci modellano fino da bambini appartengono esclusivamente ad una delle seguenti categorie?
Ia Completamente impotenti
IIa Repressi sessuali /
IIIa Onanisti
IVa Eterosessuali di nascosto
Va Omosessuali di nascosto
VIa Pedofili
VIIa Pedofili con endicappati
Come possono pretendere di essere a guida di milioni di persone; cosa ne sanno della vita reale?
Viversi la sessualità alla luce del sole o della luna; perché dovrebbe essere di ostacolo alla componente spirituale che è innata in ognuno? E chiede solo di essere autocoltivata, presa in considerazione e ci fa ritrovare o trovare il nostro percorso.
Chi vuole andare a farsi ipnotizzare da litanie e mantra di chi pretende di essere rappresentante di verità soprannaturali e non ha nemmeno il coraggio di essere una persona ordinaria?
Perché chi ama apertamente una donna (per esempio) non puol essere una guida sull'altare?

Un concentrato di competenza nei campi della vita consacrata e della esegesi biblica redatto da qualcuno sicuramente in possesso di una dimestichezza non comune con il magistero pontificio. Verrebbe voglia di inoltrare all'autore dello scritto la foto di un paio di Baedeker appoggiati sulla mensa della chiesa più vicina, chiedendogli se come guide sull'altare gli paiono appropriate.
Dev'essere stato dopo un certo numero di riscontri come questo che la politica "occidentalista" ha smesso di diffondere propaganda incentrata sulla salvaguardia delle "radici cristiane dell'Occidente".
I fogliettisti hanno persino smesso di frignare sui crocifissi nelle scuole.


[*] Nella penisola italiana le "discipline olistiche" sono diventate refugium di molti appartenenti ad un paio di generazioni allevate nei più coerenti valori "occidentali", costretti alla fine di più o meno lunghi percorsi formativi ed esistenziali a cercarsi un lavoro qualunque e ad interiorizzare piuttosto velocemente il fatto che non sarebbero mai diventati astronauti alla Ferrari.
Una gran brutta sorpresa. Da piccoli ci avevano sperato tanto.

domenica 23 marzo 2014

Meraviglie di Persia - VIAGGIO ANNULLATO



Alcuni tra i nostri lettori più affezionati hanno ricevuto nei giorni scorsi una mail che li ragguagliava su Meraviglie di Persia, il viaggio nella Repubblica Islamica dell'Iran che avevamo programmato con cura scegliendone itinerario ed attrattive in modo da renderlo il più possibile confacente agli interessi, alle aspettative ed alla competenza del visitatore "occidentale".
I recenti avvenimenti ci hanno costretto ad annullare tutto: riportiamo comunque il programma così come figura sui tremilacinquecento volantini già stampati, e adesso purtroppo destinati al macero. 
1° Giorno - Partenza per Tehran
Partenza al mattino molto presto in pullman GT alla volta di Fiumicino. Durante il percorso, breve e divertente dimostrazione di articoli per la casa senza obbligo di acquisto. Volo per Tehran con Iran Air. Pasto a bordo. Arrivo a Tehran, incontro con il nostro rappresentate locale e trasferimento in hotel per cena e pernottamento.

2° Giorno - Tehran / Tabriz
Visita del Museo Nazionale dei Gioielli, del Museo Archeologico e di quello dei tappeti. Pranzo in ristorante caratteristico e trasferimento a Tabriz in pullman GT. Durante il percorso, breve e divertente dimostrazione di articoli di artigianato locale senza obbligo di acquisto. Arrivo in hotel per cena e pernottamento.

3° Giorno - Tabriz / Tehran
Intera giornata a disposizione nella capitale dell'Azebaigian Orientale. Possibilità di partecipare alla LAPIDAZIONE di Sakineh Mohammadi Ashtiani: consigliati buona preparazione fisica ed abbigliamento comodo. Pranzo in locale caratteristico e partenza per Tehran in pullman GT. Durante il percorso, breve e divertente dimostrazione di articoli di artigianato locale senza obbligo di acquisto. Arrivo in hotel per cena e pernottamento.

4° Giorno - Rientro
Partenza al mattino molto presto in pullman GT alla volta dell'aeroporto Imam Khomeini.Volo per Fiumicino con Iran Air. Pasto a bordo. Arrivo a Fiumicino e rientro in pullman GT. Durante il percorso, breve e divertente dimostrazione di articoli per la casa senza obbligo di acquisto. Arrivo a destinazione e termine dei nostri servizi.


sabato 22 marzo 2014

Sakineh Mohammadi Ashtiani. Allora, ci muoviamo o no con questa lapidazione?! (Seconda parte)


- ...Pietre, signori?
- Nàh, ce ne sono già tante per terra!
- Mica come queste, guardi qua, senta che qualità! Tutte rifinite a mano!
- ...Mi hai convinto, dammene due a punta e una grossa piatta!
- La voglio anch'io, mamma....
- Eh?!
- Ah, sì... papà!
- Sì... va bene; due a punta, due piatte e un cartoccio di ghiaia per il mio bambino!
- ...Un sacchetto di ghiaia! Grande lapidazione, oggi!
- Ah, chi è?
- Una del posto, buon divertimento!

(Monty Python, Life of Brian, 1979)

A volte tocca ripetersi.
I boiscàut dei diritti umani e le erinni della distopia ginocratica avevano finito per dimenticarsene molto in fretta. D'altronde il tempo passa e il Libro dei Ceffi di buone cause per indignarsi pigiando bottoncini cinguettanti ne sforna almeno una quarantina alla settimana, nel solito gioco di specchi con il gazzettaio che propaganda ogni giorno le aggressioni armate "occidentali", muscolare politica di marketing con cui si esporta la democrazia direttamente a casa della clientela più diffidente.
Ora, le stesse gazzette scribacchiano che Sakineh Mohammadi Ashtiani non ha subìto alcuna esecuzione capitale, tantomeno sottoforma di lapidazione. Naturalmente ci sarebbe stato da stupirsi del contrario, ma guai ad andarlo a spiegare a chi si comporta sistematicamente come se la compostezza e la competenza fossero dei nemici giurati.
Pino Cabras ha liquidato ogni cosa in un trafiletto abbastanza velenoso.
Oltre ad essere invise ad erinni e boiscàut, compostezza e competenza non hanno cittadinanza alcuna sulle gazzette, che hanno tutte affrontato la questione con lo stesso sprezzo del ridicolo con cui affrontano tutto l'agenda setting.
"E' finito il calvario di Sakineh la donna accusata di adulterio che gli ayatollah volevano lapidare", statuisce "La Repubblica" il 20 marzo 2014.
Prima menzogna. La Ashtiani era stata accusata e condannata per assassinio.
Seconda menzogna. L'esecuzione delle sentenze capitali nella Repubblica Islamica dell'Iran avviene per impiccagione.
Terza menzogna. Uno ayatollah è uno studioso di discipline giuridiche e religiose che riceve questo titolo onorifico perché gode della stima dei suoi pari, dei suoi superiori e dei discepoli che ne apprezzano la competenza e la rettitudine di vita. De minimis non curat praetor.
Quarta menzogna. Nella Repubblica Islamica dell'Iran la lapidazione era sotto moratoria da otto anni e l'iter giuridico per la sua cancellazione dall'ordinamento era in corso da almeno altri due quando sono cominciate le ciance dei gazzettieri.
Una menzogna ogni tre parole, fatte salve congiunzioni ed articoli.
L'influenza del battage gazzettiero sul caso specifico è stata in buona parte controproducente ed è ovviamente finita per diventare parte del problema invece che della soluzione. Nei seri e competenti ambienti della Repubblica Islamica dell'Iran le farneticazioni chiassose ed impiccione su cui si basa la sistematica denigrazione della Repubblica Islamica sono state molto giustamente e molto logicamente accolte con la sufficienza infastidita con cui gli ambienti seri e competenti accolgono le farneticazioni chiassose ed impiccione.
Qualcuno ne avrebbe anche approfittato per chiamare le cose con il loro nome e per ricordare con un certo understatement che roba fossero i piazzisti del democratismo.
E qualcun altro per procedere in proprio, senza stare a scomodare i tribunali.     
  



martedì 18 marzo 2014

Pepe Escobar - Ucraina: Russia uno, rovesciatori di governi zero


Traduzione da Asia Times.


Allora, sbrighiamoci e andiamo subito al punto.
1. La gabola "strategica" dell'amministrazione Obama per subappaltare al "Khaganato di Nullandia" del Dipartimento di Stato il compito di sottrarre l'Ucraina dalla sfera d'influenza russa -e in definitiva annetterla alla NATO- servendosi di quell'aggregato di volenterosi neonazisti e fascisti bardato di banchieri (il Primo Ministro Yatsenyuk) è finita in un casino completo.
2. Mosca ha reagito impedendo che in Crimea si svolgesse una riedizione pianificata del golpe di Kiev, cosa che i servizi russi avevano subodorato. Il referendum in Crimea, con un 85% di affuenza e un 93% di votanti favorevoli al ricongiungimento con la Russia, è cosa fatta. Ed è appurato anche il fatto che la tanto democratica Unione Europea continua a minacciare di punizioni il popolo della Crimea per aver esercitato i propri diritti democratici fondamentali. A proposito, quando gli Stati Uniti permisero al Kossovo di separarsi dalla Serbia, ai serbi non fu proposto alcun referendum.
3. Il piano essenziale di tutta l'avanzata strategica statunitense, ovvero fomentare i propri referenti locali (quelli che hanno rovesciato il governo a Kiev) e cancellare l'accordo per la base navale russa a Sebastopoli è finito in fumo. Mosca rimane presente nel Mar Nero, con pieno accesso al Mediterraneo orientale.
Il resto sono chiacchiere.

Il Dipartimento di Stato si è praticamente detto d'accordo per un'Ucraina federale e di fatto finlandizzata[1], soluzione che il Ministro degli Esteri russo Lavrov aveva proposto sin da principio, come attestato dalla documentazione russa. Il Segretario di Stato John Kerry, come ha fatto quando Mosca è riuscita ad evitare all'amministazione Obama e alle sue "linee rosse" di bombardare la Siria, farà di tutto per rubare ai russi tutti i loro meriti. I mass media del mainstream statunitense se la berranno senza fiatare, ma non quelli indipendenti come Moon of Alabama [2].
Questa delicata serie di accordi contempla, tra le altre cose fondamentali, l'istituzione di regioni ad ampia autonomia, il ritorno all'adozione del russo come lingua ufficiale accanto all'ucraino, e soprattutto la neutralità politica e militare, ovvero la finlandizzazione del paese. Di arrivare a tutto questo si occuperà un gruppo di sostegno, anche questo proposto da Mosca fin dal principio, di cui faranno parte Stati Uniti, Russia ed Unione Europea.
Il tutto sarà santificato con il crisma di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Vero, tutto potrebbe andare magistralmente a ramengo, e soprattutto tutta l'operazione potrebbe essere sabotata dall'"Occidente". Tutto questo, tra l'altro, senza che Mosca debba ufficialmente riconoscere  coloro che hanno rovesciato il governo di Kiev. Detto altrimenti, Washington ha bluffato, Mosca ha visto, ed ha vinto.
Insomma, dopo tutto il canaio di minacce malauguranti tirato su un po' da tutti, compresi Obama, Kerry e una manciata di bombaroli neoconservatori per arrivare fino a tirapiedi come Cameron, Hague e Fabius, l'essenza del discorso è che l'amministrazione Obama è arrivata alla conclusione che non si sarebbe addossata il rischio di una  guerra nucleare con la Russia per colpa del Khaganato di Nullandia, soprattutto dopo che Mosca ha fatto sapere con discrezione che avrebbe fatto in modo da far sì che anche le regioni dell'Ucraina orientale e meridionale dichiarassero la secessione.
La Svezia, ad esempio, ha proposto un embargo sugli armamenti contro Mosca. A Parigi hanno dato un'occhiatina agli interessi del loro complesso militare ed industriale ed hanno subito detto di no. Solamente chi si trovasse in condizioni di morte cerebrale potrebbe pensare che Parigi e Berlino abbiano intenzione di mettere in discussione le relazioni commerciali che hanno con la Russia, o avere qualche dubbio sul fatto che Pechino si dichiarerebbe d'accordo con le sanzioni contro una Russia che appartiene al Gruppo dei 20, ai BRICS e all'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai soltanto perché a Washington, un posto che i cinesi percepiscono come sempre più irrazionale e sempre più pericoloso, si è detto di fare così.
Naturalmente nulla di tutto questo avrà un qualche effetto sull'isteria "occidentale". Negli Stati Uniti, che è il posto dove certe cose contano, il piagnisteo dei prossimi giorni sarà ovviamente "chi ha perso la Siria" e "chi ha perso l'Ucraina".
Tutto qui. George Diabolus Bush ha scatenato due guerre e le ha ignominiosamente perse tutte e due.
Obama ci ha soltanto provato, con la Siria e l'Ucraina, e fortunatamente per lui le ha perse quando ancora era al tentativo. Ovvio che i neoconoservatori di vario genere e specie e tutta la brigata degli eccezionalisti [3] siano lividi di rabbia. Aspettiamoci che gli editorialisti dello Wall Street Journal ci vadano giù pesanti. E che l'ambasciatore statunitense all'ONU, Samantha Power, desideri essere come Sinead O'Connor quando canta "Nothing compares to you".

Intanto, quelli che hanno rovesciato il governo a Kiev hanno già cominciato a dire cosa vogliono fare; Dimytro Yarosh, capo di  Пра́вий се́ктор e neonazista dichiarato ha detto che "...La Russia fa soldi mandando in Occidente il suo petrolio tramite i nostri oleodotti. Distruggeremo gli oleodotti, e priveremo il nostro nemico delle sue risorse".
Una strategia davvero intelligente, diritta diritta dal copione del Khaganato di Nullandia: le case e il sistema industriale dovrebbero così fare a meno del gas russo, economico e a prezzi scontati, in tutta l'Ucraina, per non parlare di vaste aree della Germania. Tutto perché i neonazisti possano cantare vittoria. Con amici come questi...
Alla Gazprom non si sono fatti né in là né in qua. La Russia già oggi manda circa la metà del proprio gas in Europa aggirando il territorio ucraino, e dopo il completamento del South Stream nel 2015 questa percentuale sarà ancora più alta. Le "sanzioni" dell'Unione Europea contro il South Stream sono solo retorica.
Chi ha rovesciato il governo cercherà di provocare scompiglio anche altrove. Il nuovo parlamento ucraino ha dato voto favorevole affinché si metta insieme una Guardia Nazionale di sessantamila uomini infarcita di "attivisti". Il compito di organizzarla è andato al nuovo responsabile per la sicurezza Andriy Parubiy, uno dei fondatori del neonazista Partito Social Nazionale. A comandarla invece non sarà altri che Yarosh, il capo della formazione paramilitare Пра́вий се́ктор. Metteteci pure le metafore hitleriane che volete, intanto che si continua a rischiare che l'Ucraina finisca in briciole.
E questo non è necessariamente un male: che sia la "democratica" Unione Europea a pagare le bollette del gas degli ucraini.


[2] Ukraine: U.S. Takes Off-Ramp, Agrees To Russian Demands, Moon of Alabama, 16 marzo 2014.
[3] Corrente politica che statuisce la superiorità degli Stati Uniti in quanto tali [N.d.T.]

domenica 16 marzo 2014

Cinguettatore e Libro dei Ceffi. Militant Blog e le menzogne gazzettiere sulla Repubblica Bolivariana del Venezuela


Il "Corriere della Sera" racconta menzogne sulla Repubblica Bolivariana del Venezuela, secondo uno scritto di Militant Blog cui è costruttivo contribuire con la diffusione.
I nostri lettori conoscono l'intransigenza sprezzante con cui consideriamo Cinguettatore e cinguettatori, Libro dei Ceffi e ceffi autoschedati e ne conoscono molto bene anche i motivi. Militant Blog rincara la dose, in modo obiettivo e sintetico.

Ieri il Corsera è tornato a parlare di Venezuela dedicandogli ben dieci pagine del suo inserto settimanale e un titolo che da solo basterebbe a dirimere i dubbi su quanto sta (secondo i media) avvenendo laggiù: una rivoluzione borghese. In un “reportage” di taglio ovviamente antichavista e intriso di termini denigranti come regime, squadracce, ecc ecc, Rocco Cotroneo è però costretto ad ammettere a denti stretti che "il chavismo ha ancora un forte appoggio, i programmi sociali funzionano e la protesta non è ancora penetrata nelle grandi favelas delle città, nè nelle zone rurali, cioè nei bastioni rossi". Di più. Dopo aver sostenuto che la penuria di alcune merci non abbia nulla a che vedere con la speculazione e il boicottaggio da parte degli stessi soggetti sociali che oggi protestano, il giornalista, forse senza accorgersi di contraddirsi, descrive per filo e per segno come prodotti destinati ad essere venduti a prezzi calmierati vengono invece accaparrati e rivenduti in Colombia a prezzi di mercato. Scene di lotta di classe nella patria di Bolivar, diremmo, se non fosse che la presunta rivoluzione oltre a coinvolgere la classe abbiente è in realta estesa a soli 18 dei 335 municipi venezuelani, tutti già governati dalla destra.
E’ però il secondo articolo del Corriere, quello a firma di Carlo Lodolini e Marta Serafini, a suscitare particolare curiosità perchè interamente dedicato al ruolo svolto dai social network in questa operazione. Con buona pace di quanti credevano o continuano a credere nella rete come strumento di ampliamento della democrazia, i cosiddetti new media si stanno dimostrando invece un elemento chiave in operazioni come quella venezuelana che segue pedissequamente i passaggi delle rivoluzioni colorate indicati da Gene Sharp,”il Clausewitz della guerra nonviolenta” già collaboratore della Cia. In queste settimane su facebook, instagram ma sopratutto su twitter si è potuto assistere ad una manipolazione mediatica senza precedenti finalizzata a delegittimare il governo bolivariano (ricordiamolo, eletto secondo gli stessi standard democratico-borghesi non più di un anno fa) dipingendolo come brutale e intento a violare sistematicamente i diritti umani nonchè la liberta di espressione. Foto di processioni religiose sono state tramutate in manifestazioni antichaviste, brutalità poliziesche perpretate in Egitto o in Cile sono state addebitate alla polizia venezuelana, persino fotogrammi di film porno [non c'era da dubitarne. Unicuique suum. N.d.R.] sono stati adoperati per dimostrare che i chavisti toruravano gli oppositori. Il tutto in un gioco di rimando con gli old media che hanno poi provveduto ad amplificare la “realtà” creata ad arte dal “popolo della rete”. Il paradosso, almeno apparente, è che soli davanti ai monitor, individualizzati e atomizzati, investititi da una mole di informazioni che non si riesce ad elaborare o verificare, spesso privi degli strumenti analitici per interpretarle, i singoli utenti finiscono col diventare inconsapevoli ripetitori di strategie decise altrove. Magari da qualche “influencer” capace di indirizzare i flussi della comunicazione verso dove più gli aggrada. Non stiamo ovviamente facendo professione di luddismo informatico (abbiamo un blog, una pagina FB, saremmo quantomeno incoerenti) ma occorre avere sempre ben presente che nessuna tecnologia è neutra e che l’unico antidoto stà nel pensare e nell’agire in maniera collettiva. Altrimenti si finisce davvero col credere che sia possibile sostituire la rivoluzione sociale con quella social.


sabato 15 marzo 2014

L'Arabia Saudita cambia linea politica. Le conseguenze secondo Conflicts Forum.



Traduzione da Conflicts Forum.

La tensione e la confusione che colpiscono il cuore del mondo sunnita stanno trascinando nel vortice anche i membri del Consiglio degli Stati del Golfo. Il CSG è un raggruppamento politico guidato dall'Arabia Saudita: si trova diviso e letteralmente scardinato dalle tensioni che il repentino cambio di linea politica adottato dall'Arabia Saudita ha esercitato su di esso. Un decreto reale criminalizza i sauditi che combattono al di fuori del paese e indica come "terroristi" svariati gruppi jihadisti (ma, cosa fondamentale, non tutti); riserva una menzione particolare soprattutto ai Fratelli Musulmani. L'Arabia Saudita, sentendo che i Fratelli Musulmani si stanno indebolendo dopo che in Egitto sono finiti sotto il fuoco tambureggiante della repressione, sta cercando di far sì che tutti i paesi del CSG, e anche quelli che non appartengono al CSG ma in cui i Fratelli Musulmani sono comunque presenti, li definiscano per decreto come organizzazione terroristica. Come ha scritto un editorialista del Golfo, sembra che l'Arabia Saudita abbia deciso di spazzar via una volta per tutte i Fratelli Musulmani.
I sauditi non vogliono solo spazzare via i Fratelli; vogliono anche fare tabula rasa di qualunque critica indiretta alla loro linea politica, specie di quelle dirette al feldmaresciallo al Sissi che arrivano via etere dal Qatar. I sauditi pretendono che Qaradawi [teologo egiziano che conduce una trasmissione tv su Al Jazeera, N.d.T.] venga dichiarato "persona non grata" e che ad Al Jazeera venga messa la sordina, se non proprio fatta fuori del tutto. La pressione sul Qatar è forte, e lo Huffington Post scrive che i sauditi hanno anche chiesto la chiusura di due think tank ameriKKKani basati nel paese. Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi hanno ritirato i loro ambasciatori da Doha, ora che l'Egitto viene considerato come futuro membro del CSG anche gli egiziani si trovano spalla a spalla coi sauditi e gli Emirati nella "guerra" contro il Qatar e contro i Fratelli Musulmani.
Ci sono due diverse questioni alla base delle tensioni interne al CSG. Due temi su cui l'Arabia Saudita ha repentinamente e platealmente cambiato linea politica con conseguenze che vanno al di là delle schermaglie con il Qatar e che vanno a colpire in vario modo con gli interessi dei vari stati del Golfo. Questo li mette a contrasto con l'Arabia Saudita.
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta l'Arabia Saudita si è servita di intellettuali dei Fratelli Musulmani esuli dall'Egitto per conferire allo wahabismo una rispettabilità accademica. A questo si arrivò tramite una storiografia focalizzata sulla pietas degli antenati (i Salal), collocata all'interno di una concezione ideologica che fornì concretezza allo wahabismo. I Fratelli Musulmani furono schierati dai sauditi anche come efficacissimi strumenti propagandistici contro il nasserismo e il baathismo. Solo che dagli anni Novanta in poi l'Arabia Saudita si è rivolta contro di loro, pensando che i Fratelli Musulmani avessero abusato della generosità saudita attaccandosi al flusso dei petrodollari non per servire agli interessi dei sauditi, ma per interesse loro proprio. Cosa ancora più grave, i Fratelli Musulmani avevano cambiato la narrativa salafita in modo da asserire che la sovranità emana dal popolo piuttosto che dal monarca saudita. Questa "deviazione narrativa" causa tra i reali sauditi timori particolarmente forti non tanto per quello che i Fratelli Musulmani stanno facendo per minare direttamente l'assetto governativo saudita, ma perché essi rappresentano la più grossa sfida possibile alla legittimità della famiglia regnante. L'Arabia Saudita non ha mai perdonato ai Fratelli Musulmani questo tradimento.
L'esperienza del Qatar e del Kuwait con i Fratelli Musulmani è stata piuttosto diversa. In Qatar i Fratelli Musulmani hanno comunicato il proprio autoscioglimento nel 1999, facendo così venire meno ogni sensazione che l'emirato fosse minacciato dall'interno. Il Kuwait invece è stato capace di arginare il movimento islamico grazie ad un sistema di governo costituzionale in cui si permette l'espressione di concezioni politiche diverse ed in cui sono ammesse le manifestazioni di protesta. Per questo in Qatar ed in Kuwait, a differenza di quanto successo in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi, nessuno si è scomposto più di tanto perché i Fratelli Musulmani hanno preso il governo al Cairo o perché l'influenza degli islamici è andata aumentando in tutta la regione. In Oman il particolare modo con cui i gruppi settari si presentano, che li pone al di fuori dalla categoria polarizzata dei gruppi settari propriamente detti, ha mitigato il confronto tra sunniti e sciiti facendo sì che il paese si curasse assai meno dei Fratelli Musulmani di quanto abbiano fatto Emirati ed Arabia Saudita. Gli Emirati Arabi in particolare ritengono che dai Fratelli Musulmani provenga ogni minaccia al loro fronte interno: colpa delle cellule disseminate nel Golfo decenni or sono, quando i Fratelli Musulmani contavano sulla benevolenza saudita e i loro intellettuali formavano l'ossatura delle istituzioni mediatiche ed educative in tutto il Golfo.
A differenza dell'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia ai tempi delle sollevazioni del 2011 sono stati in prima fila nell'agevolare i Fratelli Musulmani in Siria ed in altri paesi del Medio Oriente; per esere chiari, il Qatar non si è concentrato solo sugli Ikhwan [i Fratelli, N.d.T.] propriamente detti, ma ha fornito sostegno anche a gruppi jihadisti radicali. Alla fine l'Arabia Saudita ha messo il Qatar all'angolo, per collocare i propri prediletti salafiti di orientamento filosaudita alla testa dell'opposizione siriana. Il fatto che il Qatar avesse stretti legami con il CentCom e con il generale Petraeus che all'epoca lo comandava può aver fatto pensare a Riyadh che nella direzione del cosiddetto "risveglio" [la "primavera araba" delle gazzette, N.d.T.] l'emiro del Qatar potesse contare sull'attenzione ameriKKKana; pare che in seguito gli Stati Uniti si siano fatti l'idea che l'emiro stesse facendo il doppio gioco, sostenendo da una parte i movimenti "democratici" del riformismo islamico e dall'altra i gruppi sunniti radicali antidemocratici. In conclusione, lo scatenarsi in siria di gruppi di jihadisti in competizione tra loro ha fatto sì che gli ameriKKKani reagissero cercando di riorganizzare e ridefinire le loro infrastrutture di sicurezza in medio Oriente affinché si impegnassero contro lo jihadismo.
Alla base di tutto questo ci sono innanzitutto l'Egitto e l'apprezzamento dei sauditi per la lotta contro i Fratelli Musulmani intrapresa da al Sissi, e poi il disconoscimento degli jihadisti per decreto legge, che ha causato l'ira delle formazioni disconosciute in Siria e dei loro corrispondenti ed aiutanti salafiti e dei Fratelli Musulmani in Libano.
Ci sono molte cose che non sappiamo, su come il CSG ha deciso di coordinare le proprie mosse contro il Qatar. Cosa conteneva il trattato saudita-qatariano sottoscritto lo scorso anno a Riyadh con i buoni uffici dell'emiro del Kuwait, e sulla base di cosa si sta accusando il governo del Qatar di non averlo rispettato? In Egitto, il Qatar si è schierato contro il colpo di stato del 3 luglio mentre i sauditi e gli EAU hanno fatto propria senza sbavature la linea secondo la quale il successo e la determinazione del nuovo governo egiziano nella repressione del Fratelli Musulmani sono essenziali e non devono essere criticati in alcun modo. Il Qatar sostiene che la sua scelta in Egitto non rappresenta un'interferenza negli affari interni degli altri due paesi (il che fa pensare che il trattato saudita-qatariano di cui sopra configurasse il sostegno per il colpo di stato in Egitto come se fosse un imperativo interno al CSG più che una questione di politica estera) e vuole che gli altri stati del Consiglio ne prendano atto senza obiezioni.
Una seconda causa scatenante è stata probabilmente la sostituzione del principe Bandar con il principe Mohammed bin Nayef seguita al cambiamento di linea politica in Siria deciso dai sauditi. A questo proposito è forse esatto pensare che la prospettiva di una imminente visita del presidente Obama a Riyadh abbia agito come un catalizzatore per la ridefinizione della linea politica saudita, ora rivolta a contrastare lo jihadismo takfir. Il principe Mohammed è ben visto dagli ameriKKKani, e queste credenziali gli vengono proprio dal campo dell'antiterrorismo, che è la nuova priorità degli occidentali. E' significativo anche il fatto che sia lui che suo padre siano ampiamente noti per l'odio che nutrono nei confronti dei Fratelli Musulmani. L'Arabia Saudita può anche aver fatto qualche concessione sottobanco in Siria, ma di fatto sta raddoppiando gli sforzi per far fuori i Fratelli. Se riesce a convincere altri paesi mediorientali a mettere al bando i Fratelli Musulmani è possible che lo stesso Mohammed bin Nayef sia nel giusto quando sostiene che potrà far conto per gli eventi a seguire anche sui paesi europei, sempre così in linea con gli interessi del Golfo.
Non è logico pensare che il Qatar, l'Oman ed anche il Kuwait, attualmente sotto pressione da parte dei sauditi che vorrebbero siglasse un trattato sulla sicurezza dagli obiettivi impegnativi e dalla vasta portata, possano restare a far parte della stessa organizzazione per la sicurezza di cui fanno parte Arabia Saudita ed Emirati Arabi quando la loro visione su dove covino i comuni pericoli è tanto diversa. La maggior parte dei paesi del CSG pensa che la "minaccia iraniana", considerata la ragion d'essere essenziale del CSG, possa essere efficacemente contrastata per mezzo degli Stati Uniti e del loro continuativo impegno per la sicurezza del Golfo. Un impegno che il Segretario alla Difesa degli USA non manca mai di sottolineare. In poche parole, l'Arabia Saudita è in disaccordo con altri paesi del Golfo circa la natura e la portata di qualsivoglia "minaccia" provenga dall'Iran, è in disaccordo con il Qatar su una lunga serie di questioni, è in disaccordo con l'Oman perché l'Oman non ha ascoltato gli appelli all'unione che arrivavano dal CSG e perché ha fatto da mediatore con l'Iran, è in disaccordo con il Kuwait che sta puntando i piedi sul trattato, ed è in disaccordo anche con gli Emirati Arabi che non hanno acccettato che l'Arabia Saudita diventasse sede della Banca Centrale del Golfo. E' chiaro che l'Arabia Saudita sta passando un momento di rabbia, e gli altri stati del CSG sono visibilmente preoccupati.
Sul piano della geopolitica, cosa significa tutto questo? Intanto è verosimile che le tensioni interne al CSG esploderanno in Siria direttamente, perché in Siria gli attriti fra paesi del Golfo si rispecchiano negli antagonismi e negli scontri che si verificano tra i diversi gruppi di insorti armati, cosa di cui si avvantaggia l'Esercito Arabo Siriano. In secondo luogo, la perdita di coerenza da parte del CSG lo indebolirà come organizzazione e influirà negativamente anche sulla politica saudita, che si basa proprio sul controllo di questa organizzazione. In terzo luogo, l'ostentata ostilità nei confronti di Oman e Qatar non li farà desistere dal loro riavvicinamento all'Iran, anzi. In quarto luogo, l'offensiva contro i Fratelli Musulmani sta aggravando l'isolamento di Erdogan e la sua vulnerabilità politica. Infine, l'Arabia Saudita si è spinta al punto da caricare la massima parte della propria credibilità sulle spalle del feldmaresciallo al Sissi e dell'imprevedibile corso degli eventi in Egitto.
Di certo il ricorso degli Stati Uniti e dell'Europa alla retorica della guerra fredda in merito alla questione dell'Ucraina e la loro determinazione a fare il possibile per staccare l'Ucraina dall'orbita russa copriranno tutte queste tensioni con un ulteriore elemento: in che modo risponderà la Russia? Un ambasciatore russo dice che la questione dell'Ucraina cambia tutte le carte in tavola. Cosa significa questo per l'Iran, per la Siria e per il più coeso blocco che raggruppa il fronte rivale? Se la Russia si mostra più intransigente, è possibile che qualcuno tra gli stati del CSG cominci a guardare ad essa e ai suoi alleati, dal momento che in Medio Oriente si considera la Russia come un paese perseverante nelle proprie linee politiche?

venerdì 14 marzo 2014

A Riccardo Venturi in merito ad una roba scritta sulle gazzette


Quelli della foto sono due ben vestiti, ripresi un una mescita per ricchi o qualcosa di simile.
Uno -quello a destra, probabilmente- dicono si chiami Mauro Floriani.
Quell'altra dicono si chiami Alessandra Mussolini.
Secondo le gazzette i due sono uniti da varie cose. Oltre ad essere ricchi e ben vestiti, non hanno mai fatto i turnisti in raffineria ed hanno condiviso per una vita la militanza politica in varie formazioni "occidentaliste".
L'appartenere a sessi opposti ha anche permesso loro di contrarre matrimonio cattolico, con successiva vacanza nello stato sionista.
Nel marzo 2014 Mauro Floriani è incappato in una roba gazzettiera: in pratica, i foglietti scrivono che avrebbe frequentato minorenni.
In tempi in cui cambiare bandiera è diventata cosa normalissima, vanno riconosciuti a Floriani una spiccata coerenza ed un lodevole attaccamento alla disciplina di partito e ai "valori" condivisi dalla sua dirigenza, dal suo bacino elettorale e più in generale dai sudditi dello stato che occupa la penisola italiana.
Solo ai maccheroni, al pallone ed alle infezioni blenorragiche si può attribuire una maggior portata fondante.
Invece -sempre secondo il giornalame- Alessandra Mussolini non avrebbe gradito gran che.
Il blogger Riccardo Venturi si è espresso su quest'inezia senza mezzi termini, tra l'altro condensando le sue considerazioni nel titolo del post per facilitare i compiti alle indicizzazioni dei motori di ricerca.
Con garbo e soavità, nonché estremo garantismo, esprimo tutta la mia solidarietà alla sen. Mussolini Alessandra per la castrazione chimica del suo consorte, il quale ora potrebbe completare la distruzione della donna della sua vita sposata a Predappio il 28 ottobre facendosi trovare assieme all'ex ministro Kyenge (magari in Congo). La mia squisita vrbanità mi impedisce di dire alla sen. Mussolini dove dovrebbe andare a seppellirsi assieme a tutti i fascisti di merda come lei, e dico questo rinnovandole la mia solidarietà e consigliandole un ottimo negozio di casalinghi dove acquistare a basso prezzo corda, sapone e sgabello.
Non è il caso di accanirsi tanto.
Se proprio si vuole curarsi de minimis, lo si può fare restando umani, a riprova dell'abisso che separa e che deve separare l'essere umano dall'"occidentalista".
Il filosofo Manlio Sgalambro è morto da qualche giorno. Dedichiamo dunque ad Alessandra Mussolini uno dei suoi testi.



Va bene, hai ragione
se ti vuoi ammazzare.
Vivere è un offesa
che desta indignazione.
Ma per ora rimanda...
E' solo un breve invito, rinvialo.

Va bene, hai ragione
se ti vuoi sparare.
Un giorno lo farai
con determinazione.
Ma per ora rimanda...
E' solo un breve invito, rinvialo.

Questa parvenza di vita
ha reso antiquato il suicidio.
Questa parvenza di vita, signore,
non lo merita...
solo una migliore.


mercoledì 12 marzo 2014

Casaggì Firenze acquista finalmente maturità e consapevolezza


La passeggiatina giovanile "occidentalista" del 2014 dovrebbe tenersi a Firenze a metà del mese di marzo. Di solito i giovani "occidentalisti" passeggiano tutti insieme con le loro controparti (che per questo potremmo a buon diritto definire passeggiatrici senza che nessuno possa sentirsi offeso) a ridosso della celebrazione della Giornata del Ricordo Imposto per Decreto Legge, una sostanziale autocelebrazione della piagnucolosa e vittimistica weltanschaaung di certo occidentalame politico che cade a febbraio e che quest'anno c'era l'idea di affidare ad uno scricchiolante lavoretto teatrale di un certo Cristicchi.
Del signor Cristicchi ci siamo già occupati e non certo per dirne bene.
La propaganda a disposizione fa concludere che la servitù non attende in quest'occasione alcun personaggio di "rilievo" che la passi in rassegna. Il significato piuttosto ovvio di tante defezioni incassate all'ultimissimo minuto deve finalmente esser stato interiorizzato anche dai più accaniti avversari del principio di realtà. Il nuovo orientamento raziocinante dell'occidentalame fiorentino arriva al punto che Casaggì Firenze dà appuntamento ai propri attivisti per un dopo corteo a base di pasta. Chissà che la prossima convocazione non venga fissata direttamente in una spaghetteria, come da noi più volte auspicato per l'indiscusso beneficio dell'erario e delle persone serie.
Denunciando la presenza di iniziative politiche opposte Casaggi Firenze scrive

 E anche quest'anno, puntuale come sempre, arriva la contromanifestazione della Firenze Antifascista, con tutto il repertorio: i cori per Tito, la bandiera della ex Yugoslavia e quella dell'ex Unione Sovietica; i caschi e i bastoni, le giratine per il centro storico con qualche fumogeno, la musica dei 99 Posse, Stalingrado in ogni città, "fascisti carogne tornate nelle fogne", "fuoco a Casaggì", "nelle foibe c'è ancora posto", a Piazzale Loreto lo stesso, volendo anche nei Gulag, forse nei Laogai, di sicuro al cimitero ("camerata, basco nero").

E noi saremo al nostro posto.

Il che fa pensare che "il posto" di costoro sia effettivamente un incubo distopico fatto di fogne, piazzali di periferia, campi di concentramento e cimiteri.
Della propensione di Casaggì per i cimiteri si è gia preso atto; di quella per certe periferie sordide e scostanti, anche.
In che misura la gioventù "occidentalista" fiorentina frequenti le fogne non sapremmo dire, anche se certe sedi abituali delle iniziative "occidentaliste" ispirerebbero conclusioni stimolanti.
E la realtà quotidiana voluta dall'"occidentalismo" politico, in cui la sorveglianza elettronica è ovunque ed in cui è prassi abituale che per nulla di più serio di un ritardo scolastico scatti l'immediata delazione telematica, fa oggi sembrare impacciata ed innocua la più occhiuta e vessatoria delle polizie politiche.
A parte, va ripetuto l'effetto che la propaganda sulle foibe ha avuto nella città di Firenze: in un contesto in cui l'argomento era pressoché sconosciuto, farne un bastione propagandistico è servito soltanto ad insegnare agli interessati un metodo spiccio, rapido e cruento di liberarsi degli avversari politici.

martedì 11 marzo 2014

Firenze occasione irripetibile bomboniera da amatori centralissimo luminoso vista piazzale Michelangelo



Sulla crisi in corso si è scritto tutto e il contrario di tutto.
Uno dei suoi effetti è rappresentato da un certo ridimensionamento delle compravendite immobiliari con la messa in sordina di certe bassezze da mezzani (quelli con la cravatta le chiamano marketing) connotate fino a qualche tempo fa da una sfrontatezza priva di veri limiti.
Insomma, quelli che si credevano di far muovere gli immobili e lo andavano anche a dire in giro non stanno passando un gran periodo.
AI tempi in cui c'era da saturare il settore, invece, i loro pubblicitari sono arrivati al punto di influire sul linguaggio comune.
La foto raffigura senza dubbio una "soluzione abitativa".
Pubblicità e mondo reale sono per una volta d'accordo, visto che in nessun modo potremmo definirla casa.
E siccome si tratta di una soluzione abitativa, non si capisce perché mai non si dovrebbe trattarla come tale; non è da escludere che qualcuno non ci provi sul serio appena il "mercato" riprenderà a "crescere", vista la diffusa mancanza di ritegno incoraggiata dalla società contemporanea.  
E fin dove si possa arrivare col linguaggio pubblicitario, lo indica il titolo di questo scritto.
Ringraziamo Andrea Beggi per le sue costruttive considerazioni.

sabato 8 marzo 2014

Sistemi politici mediorientali e gestione delle transizioni. Il caso iraniano e la politica siriana secondo Conflicts Forum


Repubblica Islamica dell'Iran. Il primo consiglio dei ministri del governo Rohani, agosto 2013.



Traduzione da Conflicts Forum.

Pareva che la cosa fosse una di quelle da cui non si torna indietro. Nel 2008 e nel 2009 una piccola ma sostanziale parte del mondo politico iraniano sembrava aver imboccato una propria strada, e scelto di schierarsi su posizioni di sostanziale dissidenza. Gli editorialisti prevedevano che questa "onda verde" si sarebbe ingrandita fino a coinvolgere tutto il paese in una polarizzazione aspra; qualcun altro invece faceva notare che questa dissidenza apparteneva sostanzialmente a Tehran nord, e non aveva alcun reale radicamento in mezzo al popolo. Secondo certi osservatori la situazione era tale da sancire per l'Iran un futuro fatto di conflitti interni sempre più gravi.
Come si è visto poi, nulla di tutto questo si è verificato. L'Iran si è riunito di nuovo. Il suo complesso sistema politico ha funzionato. C'è stata un'elezione presidenziale da cui è uscito un mandato privo di incertezze, assieme ad una spinta verso il cambiamento. Poi è nato un nuovo governo, chiamato a dare corpo a questo nuovo orientamento. Al contrario di quello che si prevedeva stando al di fuori dal paese, i dissidenti sono rientrati e si sono riuniti al resto del mondo politico anziché approfondire ulteriormente la divisione. Si è raggiunto un accordo: l'Iran avrebbe abbandonato l'atteggiamento spinosamente difensivo che aveva adottato nei confronti del mondo esterno, e avrebbe rilanciato il proprio ruolo di potenza regionale. In questo non sarebbe passato per prima cosa dalla distensione con gli Stati Uniti, come in precedenza tentato dai riformisti, ma da un'apertura nei confronti di tutti, cosa accettabile anche agli occhi dei principalisti e suscettibile di riportare l'Iran a riprendere il suo posto di potenza economica di primo piano in Medio Oriente, che gli Stati Uniti fossero d'accordo o meno. Fino ad oggi, la transizione ha avuto successo. Nonostante questo, c'era ancora qualcuno nella regione che pensava che un fallimento dei colloqui con i "cinque più uno" avrebbero portato  o potuto portare ad un ritorno allo status quo. Così non è stato.
Qualcosa di simile sta succedendo ancora una volta non tanto in Iran, ma nel Medio Oriente inteso nel suo complesso. Un'occhiata da vicino alla Siria fa pensare che anch'essa si sia imbarcata in una transizione dello stesso tipo, simile ma non identica a quella affrontata dall'Iran. A Damasco regna una certa eccitazione. I cittadini comuni non parlano del processo di Ginevra, cui si fa riferimento poche volte e che all'interno del paese è degnato di poca attenzione; invece pensano intensamente al processo di riconciliazione che sta prendendo piede nel paese; nonostante sia ancora ai primi sviluppi e sia vulnerabile rispetto all'intransigente ostilità di chi lo respinge, costituisce motivo di ottimismo.
In svariate località, paesi e cittadine, ex insorti dell'opposizione hanno iniziato a negoziare accordi circoscritti con l'Esercito Arabo Siriano. In base a quanto stabilito dai singoli accordi, gli ex insorti possono tenere il loro armamento leggero, che garantisce il loro orgoglio e il loro status di combattenti, e diventano formalmente parte dell'Esercito Arabo Siriano, inquadrati in unità locali indicate dalla designazione specifica di "Forze di Difesa Nazionale". Detto altrimenti, gli ex insorti si riuniscono in un'infrastruttura di sicurezza che ha il compito di proteggere i loro paesi e lo stato nel suo complesso dagli attacchi dei takfiri. Gli jihadisti takfiri, ovviamente, sono contrari ad ogni iniziativa di riconciliazione.
Si tratta di un processo in cui non sempre le cose vanno lisce. Sono in molti tra la popolazione locale ad aver perso qualcuno dei propri amici o dei propri familiari, ed in molti sono profondamente offesi dal fatto che questi criminali ritrovino un posto nella società senza essere sanzionati in alcun modo e senza aver dovuto fare in qualche modo ammenda nei confronti di quanti sono rimasti feriti così profondamente. Ma questa è l'ordinaria amministrazione di tutti i processi di riconciliazione come questo. E poi questa riconciliazione non avviene nel vuoto; va di pari passo con un processo parallelo, e ad essa collegato, di dialogo nazionale. Alla gente, ad ogni livello, si chiede in che modo lo stato dovrà cambiare per il tempo a venire. Anche all'interno della stessa Siria, così come per i suoi alleati Russia ed Iran, ci si accorge bene di come le cose non torneranno come stavano, né potranno farlo. E' inevitabile, dopo un conflitto sociale e politico di queste proporzioni, che si verifichino cambiamenti sostanziali.
Nel nostro ultimo commento settimanale abbiamo sottolineato come la formazione del nuovo governo libanese sia stata il risultato di una formula in cui il Movimento Futuro (sunnita) ed i suoi alleati si sono trovati ad occupare i posti chiave per la sicurezza dello stato e anche per le comunicazioni, in questo modo tappando la bocca ad ogni possibile obiezione occidentale o ad ogni titubanza circa l'avere a che fare con agenzie in cui Hezbollah è in qualche modo coinvolto. La composizione del nuovo governo libanese affida allo establishment sunnita la responsabilità di proteggere il Libano dall'estremismo sunnita. In pratica è come prendere un bracconiere e nominarlo guardiacaccia, visto che il 14 marzo ha da tempo rapporti opachi ed ambigui con certe organizzazioni. Abbiamo anche avanzato l'ipotesi che la formazione del governo rappresentasse una specie di esperimento pilota per il Medio Oriente nel suo complesso e per la Siria in particolare.
Hezbollah, ed implicitamente l'Iran, con questa iniziativa hanno riconosciuto a tutti gli efetti i timori dei sunniti (e dei sauditi) ed il loro senso di vulnerabilità; per questo hanno offerto loro questa concessione sperimentale. Tutti gli apparati di potere della regione sono adesso sottoposti ad una ridefinizione il cui scopo è quello di verificare se gli stessi che si pensa abbiano usato gli jihadisti per i propri scopi sono anche capaci di arginarli e se lo faranno davvero. In un certo senso, si tratta di vedere se un più ampio accordo regionale è fattibile. La Siria ha scelto di percorrere questa strada, affidando la responsabilità della sicurezza su base locale ad ex insorti armati; la sicurezza a livello nazionale ha sempre avuto una forte componente sunnita. Se l'esperimento riesce, potrebbe succedere che l'Iran, la Siria e i loro alleati decidano di venire incontro ai timori dei sunniti e dei sauditi, in cambio della prova del loro impegno a combattere l'estremismo sunnita da essi stessi scatenato che si è diventato un incendio che minaccia oggi di consumare anche i sunniti moderati. 
Qualcuno verrà fuori a dire che non è questa la transizione che si pretende dal governo siriano. La transizione, per l'Occidente, sta nei termini angusti di un cambio dei vertici dello stato; agli insorti l'Occidente non chiede altro che di essere più uniti. L'Occidente continua con le sue pretese senza curarsi delle conseguenze che possono avere e senza curarsi del rischio che esse finiscano per far diventare la guerra civile sempre più grave, fino all'anarchia. In ogni caso la transizione in Siria sta avendo luogo. Nel caso iraniano, si è arrivati ad una transizione non tramite la rimozione e la sostituzione dei vertici del potere; al contrario, sono stati proprio gli stessi vertici a dar luogo ad essa, facendo funzionare il sistema politico. Il montare di un generale cambiamento nel sentire popolare e nel suo orientamento hanno sottoscritto una transizione sostanziale in Iran, il cui sbocco è stato la costruzione di un consenso generale attorno all'apertura a tutto campo del paese verso l'esterno invece della ricerca di un'intesa meramente concentrata sugli Stati Uniti.
E' possibile che una transizione di questo genere finisca per consolidarsi in Siria, e forse anche in Iraq ed in Libano. Un più generoso corrispondere alle ansie dei sunniti e alla loro sensazione di avere il ruolo delle vittime porterà i sunniti a cambiare atteggiamento nei confronti degli jihadisti takfiri. Può anche non essere quello che l'Occidente desidera, ma questo è quello che esso può ottenere se i vari tentativi di assaggio in corso porteranno a qualcosa di positivo. Ora, l'establishment della politica estera statunitense e i suoi sostenitori in altri paesi possono tollerare "transizioni" in cui tutto è fatto da attori mediorientali? Forse sì. Mettere un limite agli jihadisti takfiri è interesse degli Stati Uniti, anche se questo dovesse significare l'ascesa di Iran e Siria come potenze regionali più forti di prima. 

venerdì 7 marzo 2014

Alastair Crooke - La dottrina Obama ed il nuovo equilibrio


Il Presidente degli Stati Uniti Obama con il Presidente François Hollande durante una cerimonia di saluto nel prato a sud della Casa Bianca a Washington. 11 febbraio 2014 (foto AFP - Alain Jocard)

Traduzione da Al Akhbar, versione inglese.

Nella recente intervista di David Remnick con il Presidente Obama pubblicata sul New Yorker Remnick fa riferimento a quanto detto da Ben Rhodes, consigliere di Obama per la comunicazione strategica in materia di sicurezza nazionale, sostenendo che nel lungo periodo la politica estera di Obama imporrà una revisione delle categorie d'uso abituale nell'àmbito del potere e dell'ideologia ameriKKKani. In altre parole, Washington è rimasta "intrappolata in narrative molto sclerotizzate".

Rhodes non specifica di quali narrative si tratti, ma aggiunge questo: "negli ambienti in cui ci si occupa di politica estera, passi da idealista se sei favorevole ad un intervento militare". E poi: "Nel Partito Democratico queste posizioni sono state definite nel corso degli anni Novanta, e gli idealisti si sono schierati tutti a favore dell'intervento militare. Per il Presidente l'Iraq è stata la questione chiave; adesso è in quell'ottica che si guarda alla Siria e che si è guardato alla Libia. Essere idealisti significa essere interventisti. Abbiamo speso un miliardo di miliardi di dollari in Iraq, ci abbiamo tenuto soldati per dieci anni, e non si può davvero dire che sia servito a qualcosa di buono; anzi. Sembra che non ci sia verso di uscire da quest'angolo".
In breve, Rhodes pensa che essere idealisti oggi sia la stessa cosa di sostenere gli interventi militari "umanitari". Questa commistione di significati, a suo giudizio, è alla base del dilemma in cui si trova Obama. Obama non crede che l'intervento militare sia una specie di joystick che un presidente possa manovrare in un modo o in un altro fino a quando non raggiunge proprio il risultato cui gli Stati Uniti vogliono arrivare. Remnick cita anche altre fonti secondo le quali Obama considera il cambiamento come qualcosa di più organico, come il risultato di dinamiche a lungo termine che funzionano a modo loro e secondo tempi propri e che sono interne alla società -la definizione che Obama ne dà è quella di "correnti"- e non come qualcosa che si possa scolpire nella forma voluta con il martello e l'incudine di un intervento militare. La miglior cosa che un presidente (contemporaneo) possa fare è cercare ogni corrente gli possa essere favorevole e tentare di lavorare con essa sperando che porti nella direzione giusta, senza mai avere la certezza di quale sarà l'arrivo. Secondo Rhodes il "fare impacciato" di Obama deriva proprio dall'aveer interiorizzato il fatto che la potenza ha di questi limiti, mentre gli tocca vivere in un mondo in cui si hanno idee molto precise circa gli interessi nazionali, ed in cui l'irrinunciabilità dell'intervento umanitario è arrivata ad essere la definizione stessa dell'idealismo in politica estera.
C'è un'altra cosa, fondamentale, che Obama ha capito. Pur bardandosi con cura in un linguaggio molto misurato, Obama suggerisce che i problemi del Medio Oriente derivino innanzitutto dai conflitti settari: "Sarebbe sicuramente interesse dei cittadini di tutta la regione che sunniti e sciiti smettessero di uccidersi a vicenda", ha detto a Remnick. "Questo non risolverebbe tutti i problemi... (se si risolvesse la questione iraniana) si arriverebbe ad una condizione di equilibrio crescente tra paesi sunniti o a predominanza sunnita, che sono gli stati del Golfo, e l'Iran; ci sarebbe competizione, forse ci sarebbe sospetto reciproco, ma non certo una guerra aperta o per interposti contendenti. Ecco il nocciolo della questione: se il problema deriva dal recrudersi di storici rancori islamici, in esso non c'è posto alcuno per un intervento militare dell'Occidente cristiano che non farebbe altro che esasperarli ulteriormente. La risposta (a molta parte delle tensioni mediorientali) dice Obama è "cercare di gettare almeno un po' d'acqua sul fuoco dell'ostilità tra sciiti e sunniti, creando così un nuovo equilibrio. Io penso che ogni pezzo del mosaico serva a definire un immagine complessiva in cui il conflitto e la competizione hanno ancora un loro posto in Medio Oriente, ma un posto limitato, in cui si esprimono in maniere che non costano prezzi così smisurati ai paesi coinvolti, e che ci permetterebbe di lavorare con gli stati che ancora controllano le loro istituzioni per impedire agli estremisti di prendervi il sopravvento".
L'angolo di cui Rhodes parla senza definirlo, e dal quale Obama sta cercando di uscire, viene indicato con chiarezza in un ulteriore frase di Obama: "Per quanto riguarda lo stato sionista, in questo momento... i suoi interessi sono strettamente allineati agli interessi dei paesi sunniti". Ad essi noialtri potremmo aggiungere che anche i paesi europei ed americani, nonché la maggioranza delle élites dei think tank si sono in gran misura allineati agli interessi dei paesi sunniti e dello stato sionista, finendo per assorbire inconsciamente e per adottare senza alcuna critica la narrativa che vede i sunniti nel ruolo di vittime di un risorgimento sciita. Come conseguenza di questo esiste un considerevole risentimento nei confronti della politica iraniana, cosa che Obama riconosce implicitamente.
In molti si affanneranno di sicuro a negare l'osservazione fondamentale fatta da Obama, soprattutto i fautori dell'intervento umanitario. Verranno a dire che il settarismo è una scusa di comodo che copre e che maschera le vere ragioni del conflitto mediorientale, che vanno invece identificate nel fallimento politico, nel fallimento sociale, nel fallimento economico. In queste contestazioni c'è qualcosa di vero. Il risveglio sunnita è stato essenzialmente un'eruzione antisistema. E' vero anche che il "sistema arabo" e tutti i modelli nazionali alternativi (quello dei paesi del Golfo, quello turco, quello dei Fratelli Musulmani...) vengono considerati nelle società mediorientali con ampia e profonda deprecazione. E' vero anche che sia l'ascesa al potere dei Fratelli Musulmani sia gli interventi reazionari e controrivoluzionari finalizzati a spodestarli e a distruggerli hanno usato il settarismo per i loro scopi politici.
La fiamma del settarismo è stata comunque accesa, e in questo l'Occidente ha fatto la sua parte -in Iraq, dove dapprima ha sostenuto le milizie sciite contro i sunniti e poi ha invece lanciato i "consigli del Risveglio", milizie sunnite che in molti casi hanno attaccato gli sciiti- proprio come l'hanno fatta gli attori regionali responsabili della recrudescenza settaria.
I risentimenti innescati dal settarismo sono molto concreti dal punto di vista psicologico; alla base di essi ci sono vulnerabilità profonde, timori e pregiudizi. Nel corso dei secoli l'equilibrio tra sciiti e sunniti è variato molte volte. Un tempo la maggior parte della Siria (che all'epoca comprendeva anche il Libano) l'Iraq, la Palestina (e anche l'Egitto) erano sciiti, e questo la gente lo ricorda.
Più di recente è stato tutto il mondo compreso fra il Pakistan e il Libano ad essere colpito da mutamente profondi, autentici terremoti verificatisi nel corso degli ultimi trent'anni. Come notato da Giandomenico Picco, tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta nel triangolo costituito da Pakistan, Afghanistan e Iran, quando l'Arabia Saudita è entrata in guerra in Afghanistan. E' cominciato allora un aspro confronto tra sunniti e sciiti cui in Occidente si è fatto poco caso: l'Iran sosteneva l'Alleanza del Nord contro i talebani sostenuti dai sauditi.
Fu la rivoluzione di Khomeini in Iran nel febbraio 1979 a convincere il mondo sunnita del fatto che si stavano verificando dei mutamenti epocali. Poi ci fu la guerra tra Iran ed Iraq, conflitto scatenato in parte per fermare il risorgimento sciita; e infine c'è stata l'invasione dell'Iraq nel 2003. Come nota Picco, "in Iran la guerra degli Stati Uniti fu accolta con approvazione; la si considerava una specie di rivalsa per gli avvenimenti del 1534, importante e triste data per la narrativa sciita. Quell'anno il sultano ottomano Solimano I conquistò la Mesopotamia, l'Iraq di oggi; la "terra dei due fiumi" cadde nelle mani della minoranza sunnita. Si pensò in Iran che l'Occidente stesse inavvertitamente offrendo la possibilità di riconquistare Baghdad agli sciiti, in un Iraq contemporaneo in cui i sunniti sono la maggioranza. "Di nuovo, l'antico conflitto tra sunniti e sciiti ha definito gli eventi, ma in Occidente gli si è prestata poca attenzione". Nel corso della guerra del 2006 in cui Hezbollah ha contrastato con successo i tentativi sionisti di distruggere il movimento, nel Golfo Persico si sono vissute giornate di apprensione; nelle strade dei paesi arabi si inneggiava a Hezbollah e all'Iran. In mezzo a queste apprensioni crebbe anche la retorica settaria ed antisciita dei paesi del Golgo, che rafforzò in questo modo gli estremisti sunniti ed ha conferito ad essi legittimità a suo modo. Il Presidente Obama è sicuramente nel giusto quando pensa che abbassare le tensioni settarie, anche se non sarebbe di per sé sufficiente a risolvere tutti i molti problemi del Medio Oriente, può essere lo strumento essenziale per arrivare ad un nuovo equilibrio geopolitico. Solo che le conseguenze di questo "riequilibrio" tra sunniti e sciiti saranno profonde, se davvero Obama intende arrivare in fondo alla cosa. Le conseguenze si ripercuoteranno molto al di là della regione mediorientale; per l'Arabia Saudita e per lo stato sionista implicherebbe un sostanziale azzeramento delle politiche fin qui adottate perché la loro influenza su chi in AmeriKKKa detta la linea politica da tenere si sta indebolendo.
Per la maggior parte del ventesimo secolo i vari presidenti degli Stati Uniti hanno cercato di impedire che un solo paese dominasse i centri del potere strategico in Europa e in Asia. La dottrina Carter si è limitata a centrare questo principio fondamentale della politica estera in modo specifico sul Medio Oriente, una regione in cui nessuna potenza che non fosse amica degli Stati Uniti o dello stato sionista sarebbe stata invitata o ammessa.
Gli avvenimenti in Siria, in particolare l'accordo sulle armi chimiche, hanno cambiato questo paradigma. La Russia, in parte come conseguenza del proprio impegno diplomatico in Siria ed in Iran, si è ripresentata come potenza euroasiatica. Un accordo con l'Iran contribuirà all'ascesa di un'altra potenza euroasiatica in campo economico e politico. Non è solo la dottrina Carter ad uscirne malconcia, ma lo stesso assunto alla base di tutto il programma "per un nuovo secolo ameriKKKano", che a causa delle implicazioni di quanto sopra si ritrova relegato al ruolo di "narrativa sclerotizzata". L'Eurasia è in ascesa, e lo è grazie ad una combinazione di risorse naturali ed energetiche.
Si ricordi quanto ebbe a scrivere Zbig Brzezinsky in The Grand Chessboard: "Fin da quando i continenti hanno iniziato ad interagire politicamente, qualcosa come cinquecento anni fa, l'Eurasia è stata al centro del potere mondiale". Con Eurasia qui si intendono il Medio Oriente e l'Asia Centrale, ed è fondamentale che non emerga alcuno sfidante eurasiatico in grado di dominare l'Eurasia e di qui lanciare sfide all'AmeriKKKa: "in questo contesto è di importanza fondamentale come l'AmeriKKKa intende comportarsi con l'Eurasia. Una potenza che dominasse l'Eurasia si ritroverebbe a controllare due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del pianeta. Basta uno sguardo alla cartina per vedere che controllare l'Eurasia significa quasi automaticamente incassare la sottomissione dell'Africa e ridurre l'emisfero occidentale e l'Oceania ad una periferia geopolitica del continente che è al centro del mondo. Il settantacinque per cento circa della popolazione mondiale vive in Eurasia, e vi si trova anche la maggior parte delle ricchezze fisiche del mondo sia in termini di strutture produttive che in termini di risorse del sottosuolo. In Eurasia si trovano più o meno i tre quarti delle risorse energetiche conosciute".
Oggi sta succedendo proprio questo. Le strutture che contenevano l'Eurasia stanno perdendo pezzi. Anche gli europei dovrebbero accorgersene e farne tesoro: devono riconsiderare la loro politica estera. Intendono mantenere la loro rete di relazioni marcatamente orientata verso gli USA e diventare periferici rispetto al continente che è al centro del mondo -per usare le espressioni di Brzezinsky- o intendono cambiarne l'orientamento verso il nuovo centro di potere?
Ovviamente già si accusa Obama di star perdendo il Medio Oriente in favore di Tehran e di Mosca. Ma il ritiro della Gran Bretagna dall'india e dal Pakistan fu anch'esso accolto da chi gridava alla svendita e da cupi avvertimenti su quanto gli indiani avrebbero rimpianto i britannici. Ma come apparve ovvia allora la mancanza di volontà dei britannici e la loro necessità di gettare la spugna, così sembra oggi. Oggi è l'intero Occidente, non soltanto la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, a dover attraversare un nuovo periodo di ripensamento; le categorie del pensiero funzionano sempre peggio, e l'ordine mondiale cambia forma e prende altre strade. La cruda verità è quella che Obama ha riferito a Netanyahu ed in senato: è lo stesso ideale,"la perfezione assoluta", a non esistere. "Essa non è raggiungibile".
La cosa dfifficile qui è il fatto che la narrativa secondo la quale si sta combattendo per l'ideale di cui sopra è profondamente radicata nella psiche ameriKKKana, dalla quale è passata anche a quella europea e ai think tank occidentali. Oltre due anni prima dell'attaco giapponese a Pearl Harbour alcuni appartenenti allo statunitense consiglio per le relazioni estere lanciarono un progetto segreto noto in seguito come War and Peace Studies che godeva di fondi del Dipartimento di Stato. Riuscirono già allora a prevedere che il risultato dell'imminente guerra in Europa avrebbe lasciato l'AmeriKKKa in una posizione dominante, dal punto di vista economico e dal punto di vista politico. Avvertirono anche di non ripetere l'errore dei britannici proclamando un "impero" ameriKKKano, anche se in effetti era la stessa cosa che essi stavano invocando. Al posto dell'imperialismo, l'AmeriKKKa avrebbe dovuto far propria una narrativa di "ideali". Il suo "impero" non si doveva fondare solo sulla potenza militare, ma anche in una "narrativa" fatta di progresso, democrazia e libertà. Secondo questi formulatori di linee politiche, si doveva trovare il modo di utilizzare il potenziale militare, economico e politico ameriKKKano, che non aveva rivali, per imporsi in un ambiente internazionale confacente ai suoi interessi e avvolto in questa narrativa di progresso, democrazia e libertà. In altre parole, l'utopia doveva essere al centro della politica estera.
Solo che, come notò un filosofo più di duemila anni fa, l'eroe virtuoso imbarcatosi in una missione civilizzatrice finisce per pagare dazio alle proprie ambiguità. Per quale motivo? Perché, proprio come volevano i ricercatori del consiglio per le relazioni estere, l'AmeriKKKa ha stabilito per se stessa l'arrivare a "fare il bene" come se si trattasse di un oggetto. Una volta che l'AmeriKKKa è arrivata a considerare "il bene" come se fosse una cosa cui attenersi, essa si è trovata tra due fuochi che non ammettono scappatoie. Da una parte c'è il presente, in cui l'AmeriKKKa non è ancora in possesso di ciò che cerca; dall'altra c'è il futuro, nel quale gli ameriKKKani pensano di ottenere quello che desiderano. Un futuro che diventa presente grazie ai loro sforzi per sradicare il Male.
Dal momento stesso in cui gli "idealisti" considerano i loro valori come oggetti cui attenersi, questi valori diventano la strada per la delusione e per l'alienazione. Più ci si concentra sui mezzi per arrivare a "progresso, democrazia e libertà", più questi diventano un'astrazione trattata come un qualcosa cui arrivare per mezzo di tecniche militari specifiche (forze speciali, droni... Ricordiamo Samantha Power, che si autodefinì "la tipa del genocidio": "occorre promuovere la democrazia sempre e comunque... anche con i missili Cruise, se necessario") meno reali essi diventano. E meno reali diventano, più sfumano nel campo dell'astratto, del futuribile, dell'impossibile da raggiungere. In altri termini, più ci si concentra sui mezzi per la missione da compiere, più questi mezzi diventano elaborati e complessi fino al punto che la pura e semplice concentrazione sul modellare il mondo diventa tanto esigente che ad essa deve essere dedicato ogni sforzo, più i fini perdono il loro significato autentico. La conclusione di quell'antico pensatore era che "il bene" predicato e messo in pratica dal moralista e dall'idealista finisce, paradossalmente, per diventare un male.
Da quanto dice David Remnick, pare che il Presidente Obama abbia un'intuitiva consapevolezza di questo fatto, e stia cercando di dirigere l'AmeriKKKa lontano da questa missione civilizzatrice imponendole traguardi più limitati, come la creazione di spazi in cui correnti sociali positive possano farsi strada a proprio modo. Gli idealisti, gli interventisti umanitari -e sicuramente i neo-con- non gliela perdoneranno mai: diranno che sta cedendo al Male, che secondo loro si trova nei mezzi per ottenere qualcosa che non si possiede e che si deve cercare costantemente di possedere.
Fino a giungere al punto che diventa impossibile arrivarci.