venerdì 7 marzo 2014

Alastair Crooke - La dottrina Obama ed il nuovo equilibrio


Il Presidente degli Stati Uniti Obama con il Presidente François Hollande durante una cerimonia di saluto nel prato a sud della Casa Bianca a Washington. 11 febbraio 2014 (foto AFP - Alain Jocard)

Traduzione da Al Akhbar, versione inglese.

Nella recente intervista di David Remnick con il Presidente Obama pubblicata sul New Yorker Remnick fa riferimento a quanto detto da Ben Rhodes, consigliere di Obama per la comunicazione strategica in materia di sicurezza nazionale, sostenendo che nel lungo periodo la politica estera di Obama imporrà una revisione delle categorie d'uso abituale nell'àmbito del potere e dell'ideologia ameriKKKani. In altre parole, Washington è rimasta "intrappolata in narrative molto sclerotizzate".

Rhodes non specifica di quali narrative si tratti, ma aggiunge questo: "negli ambienti in cui ci si occupa di politica estera, passi da idealista se sei favorevole ad un intervento militare". E poi: "Nel Partito Democratico queste posizioni sono state definite nel corso degli anni Novanta, e gli idealisti si sono schierati tutti a favore dell'intervento militare. Per il Presidente l'Iraq è stata la questione chiave; adesso è in quell'ottica che si guarda alla Siria e che si è guardato alla Libia. Essere idealisti significa essere interventisti. Abbiamo speso un miliardo di miliardi di dollari in Iraq, ci abbiamo tenuto soldati per dieci anni, e non si può davvero dire che sia servito a qualcosa di buono; anzi. Sembra che non ci sia verso di uscire da quest'angolo".
In breve, Rhodes pensa che essere idealisti oggi sia la stessa cosa di sostenere gli interventi militari "umanitari". Questa commistione di significati, a suo giudizio, è alla base del dilemma in cui si trova Obama. Obama non crede che l'intervento militare sia una specie di joystick che un presidente possa manovrare in un modo o in un altro fino a quando non raggiunge proprio il risultato cui gli Stati Uniti vogliono arrivare. Remnick cita anche altre fonti secondo le quali Obama considera il cambiamento come qualcosa di più organico, come il risultato di dinamiche a lungo termine che funzionano a modo loro e secondo tempi propri e che sono interne alla società -la definizione che Obama ne dà è quella di "correnti"- e non come qualcosa che si possa scolpire nella forma voluta con il martello e l'incudine di un intervento militare. La miglior cosa che un presidente (contemporaneo) possa fare è cercare ogni corrente gli possa essere favorevole e tentare di lavorare con essa sperando che porti nella direzione giusta, senza mai avere la certezza di quale sarà l'arrivo. Secondo Rhodes il "fare impacciato" di Obama deriva proprio dall'aveer interiorizzato il fatto che la potenza ha di questi limiti, mentre gli tocca vivere in un mondo in cui si hanno idee molto precise circa gli interessi nazionali, ed in cui l'irrinunciabilità dell'intervento umanitario è arrivata ad essere la definizione stessa dell'idealismo in politica estera.
C'è un'altra cosa, fondamentale, che Obama ha capito. Pur bardandosi con cura in un linguaggio molto misurato, Obama suggerisce che i problemi del Medio Oriente derivino innanzitutto dai conflitti settari: "Sarebbe sicuramente interesse dei cittadini di tutta la regione che sunniti e sciiti smettessero di uccidersi a vicenda", ha detto a Remnick. "Questo non risolverebbe tutti i problemi... (se si risolvesse la questione iraniana) si arriverebbe ad una condizione di equilibrio crescente tra paesi sunniti o a predominanza sunnita, che sono gli stati del Golfo, e l'Iran; ci sarebbe competizione, forse ci sarebbe sospetto reciproco, ma non certo una guerra aperta o per interposti contendenti. Ecco il nocciolo della questione: se il problema deriva dal recrudersi di storici rancori islamici, in esso non c'è posto alcuno per un intervento militare dell'Occidente cristiano che non farebbe altro che esasperarli ulteriormente. La risposta (a molta parte delle tensioni mediorientali) dice Obama è "cercare di gettare almeno un po' d'acqua sul fuoco dell'ostilità tra sciiti e sunniti, creando così un nuovo equilibrio. Io penso che ogni pezzo del mosaico serva a definire un immagine complessiva in cui il conflitto e la competizione hanno ancora un loro posto in Medio Oriente, ma un posto limitato, in cui si esprimono in maniere che non costano prezzi così smisurati ai paesi coinvolti, e che ci permetterebbe di lavorare con gli stati che ancora controllano le loro istituzioni per impedire agli estremisti di prendervi il sopravvento".
L'angolo di cui Rhodes parla senza definirlo, e dal quale Obama sta cercando di uscire, viene indicato con chiarezza in un ulteriore frase di Obama: "Per quanto riguarda lo stato sionista, in questo momento... i suoi interessi sono strettamente allineati agli interessi dei paesi sunniti". Ad essi noialtri potremmo aggiungere che anche i paesi europei ed americani, nonché la maggioranza delle élites dei think tank si sono in gran misura allineati agli interessi dei paesi sunniti e dello stato sionista, finendo per assorbire inconsciamente e per adottare senza alcuna critica la narrativa che vede i sunniti nel ruolo di vittime di un risorgimento sciita. Come conseguenza di questo esiste un considerevole risentimento nei confronti della politica iraniana, cosa che Obama riconosce implicitamente.
In molti si affanneranno di sicuro a negare l'osservazione fondamentale fatta da Obama, soprattutto i fautori dell'intervento umanitario. Verranno a dire che il settarismo è una scusa di comodo che copre e che maschera le vere ragioni del conflitto mediorientale, che vanno invece identificate nel fallimento politico, nel fallimento sociale, nel fallimento economico. In queste contestazioni c'è qualcosa di vero. Il risveglio sunnita è stato essenzialmente un'eruzione antisistema. E' vero anche che il "sistema arabo" e tutti i modelli nazionali alternativi (quello dei paesi del Golfo, quello turco, quello dei Fratelli Musulmani...) vengono considerati nelle società mediorientali con ampia e profonda deprecazione. E' vero anche che sia l'ascesa al potere dei Fratelli Musulmani sia gli interventi reazionari e controrivoluzionari finalizzati a spodestarli e a distruggerli hanno usato il settarismo per i loro scopi politici.
La fiamma del settarismo è stata comunque accesa, e in questo l'Occidente ha fatto la sua parte -in Iraq, dove dapprima ha sostenuto le milizie sciite contro i sunniti e poi ha invece lanciato i "consigli del Risveglio", milizie sunnite che in molti casi hanno attaccato gli sciiti- proprio come l'hanno fatta gli attori regionali responsabili della recrudescenza settaria.
I risentimenti innescati dal settarismo sono molto concreti dal punto di vista psicologico; alla base di essi ci sono vulnerabilità profonde, timori e pregiudizi. Nel corso dei secoli l'equilibrio tra sciiti e sunniti è variato molte volte. Un tempo la maggior parte della Siria (che all'epoca comprendeva anche il Libano) l'Iraq, la Palestina (e anche l'Egitto) erano sciiti, e questo la gente lo ricorda.
Più di recente è stato tutto il mondo compreso fra il Pakistan e il Libano ad essere colpito da mutamente profondi, autentici terremoti verificatisi nel corso degli ultimi trent'anni. Come notato da Giandomenico Picco, tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta nel triangolo costituito da Pakistan, Afghanistan e Iran, quando l'Arabia Saudita è entrata in guerra in Afghanistan. E' cominciato allora un aspro confronto tra sunniti e sciiti cui in Occidente si è fatto poco caso: l'Iran sosteneva l'Alleanza del Nord contro i talebani sostenuti dai sauditi.
Fu la rivoluzione di Khomeini in Iran nel febbraio 1979 a convincere il mondo sunnita del fatto che si stavano verificando dei mutamenti epocali. Poi ci fu la guerra tra Iran ed Iraq, conflitto scatenato in parte per fermare il risorgimento sciita; e infine c'è stata l'invasione dell'Iraq nel 2003. Come nota Picco, "in Iran la guerra degli Stati Uniti fu accolta con approvazione; la si considerava una specie di rivalsa per gli avvenimenti del 1534, importante e triste data per la narrativa sciita. Quell'anno il sultano ottomano Solimano I conquistò la Mesopotamia, l'Iraq di oggi; la "terra dei due fiumi" cadde nelle mani della minoranza sunnita. Si pensò in Iran che l'Occidente stesse inavvertitamente offrendo la possibilità di riconquistare Baghdad agli sciiti, in un Iraq contemporaneo in cui i sunniti sono la maggioranza. "Di nuovo, l'antico conflitto tra sunniti e sciiti ha definito gli eventi, ma in Occidente gli si è prestata poca attenzione". Nel corso della guerra del 2006 in cui Hezbollah ha contrastato con successo i tentativi sionisti di distruggere il movimento, nel Golfo Persico si sono vissute giornate di apprensione; nelle strade dei paesi arabi si inneggiava a Hezbollah e all'Iran. In mezzo a queste apprensioni crebbe anche la retorica settaria ed antisciita dei paesi del Golgo, che rafforzò in questo modo gli estremisti sunniti ed ha conferito ad essi legittimità a suo modo. Il Presidente Obama è sicuramente nel giusto quando pensa che abbassare le tensioni settarie, anche se non sarebbe di per sé sufficiente a risolvere tutti i molti problemi del Medio Oriente, può essere lo strumento essenziale per arrivare ad un nuovo equilibrio geopolitico. Solo che le conseguenze di questo "riequilibrio" tra sunniti e sciiti saranno profonde, se davvero Obama intende arrivare in fondo alla cosa. Le conseguenze si ripercuoteranno molto al di là della regione mediorientale; per l'Arabia Saudita e per lo stato sionista implicherebbe un sostanziale azzeramento delle politiche fin qui adottate perché la loro influenza su chi in AmeriKKKa detta la linea politica da tenere si sta indebolendo.
Per la maggior parte del ventesimo secolo i vari presidenti degli Stati Uniti hanno cercato di impedire che un solo paese dominasse i centri del potere strategico in Europa e in Asia. La dottrina Carter si è limitata a centrare questo principio fondamentale della politica estera in modo specifico sul Medio Oriente, una regione in cui nessuna potenza che non fosse amica degli Stati Uniti o dello stato sionista sarebbe stata invitata o ammessa.
Gli avvenimenti in Siria, in particolare l'accordo sulle armi chimiche, hanno cambiato questo paradigma. La Russia, in parte come conseguenza del proprio impegno diplomatico in Siria ed in Iran, si è ripresentata come potenza euroasiatica. Un accordo con l'Iran contribuirà all'ascesa di un'altra potenza euroasiatica in campo economico e politico. Non è solo la dottrina Carter ad uscirne malconcia, ma lo stesso assunto alla base di tutto il programma "per un nuovo secolo ameriKKKano", che a causa delle implicazioni di quanto sopra si ritrova relegato al ruolo di "narrativa sclerotizzata". L'Eurasia è in ascesa, e lo è grazie ad una combinazione di risorse naturali ed energetiche.
Si ricordi quanto ebbe a scrivere Zbig Brzezinsky in The Grand Chessboard: "Fin da quando i continenti hanno iniziato ad interagire politicamente, qualcosa come cinquecento anni fa, l'Eurasia è stata al centro del potere mondiale". Con Eurasia qui si intendono il Medio Oriente e l'Asia Centrale, ed è fondamentale che non emerga alcuno sfidante eurasiatico in grado di dominare l'Eurasia e di qui lanciare sfide all'AmeriKKKa: "in questo contesto è di importanza fondamentale come l'AmeriKKKa intende comportarsi con l'Eurasia. Una potenza che dominasse l'Eurasia si ritroverebbe a controllare due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del pianeta. Basta uno sguardo alla cartina per vedere che controllare l'Eurasia significa quasi automaticamente incassare la sottomissione dell'Africa e ridurre l'emisfero occidentale e l'Oceania ad una periferia geopolitica del continente che è al centro del mondo. Il settantacinque per cento circa della popolazione mondiale vive in Eurasia, e vi si trova anche la maggior parte delle ricchezze fisiche del mondo sia in termini di strutture produttive che in termini di risorse del sottosuolo. In Eurasia si trovano più o meno i tre quarti delle risorse energetiche conosciute".
Oggi sta succedendo proprio questo. Le strutture che contenevano l'Eurasia stanno perdendo pezzi. Anche gli europei dovrebbero accorgersene e farne tesoro: devono riconsiderare la loro politica estera. Intendono mantenere la loro rete di relazioni marcatamente orientata verso gli USA e diventare periferici rispetto al continente che è al centro del mondo -per usare le espressioni di Brzezinsky- o intendono cambiarne l'orientamento verso il nuovo centro di potere?
Ovviamente già si accusa Obama di star perdendo il Medio Oriente in favore di Tehran e di Mosca. Ma il ritiro della Gran Bretagna dall'india e dal Pakistan fu anch'esso accolto da chi gridava alla svendita e da cupi avvertimenti su quanto gli indiani avrebbero rimpianto i britannici. Ma come apparve ovvia allora la mancanza di volontà dei britannici e la loro necessità di gettare la spugna, così sembra oggi. Oggi è l'intero Occidente, non soltanto la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, a dover attraversare un nuovo periodo di ripensamento; le categorie del pensiero funzionano sempre peggio, e l'ordine mondiale cambia forma e prende altre strade. La cruda verità è quella che Obama ha riferito a Netanyahu ed in senato: è lo stesso ideale,"la perfezione assoluta", a non esistere. "Essa non è raggiungibile".
La cosa dfifficile qui è il fatto che la narrativa secondo la quale si sta combattendo per l'ideale di cui sopra è profondamente radicata nella psiche ameriKKKana, dalla quale è passata anche a quella europea e ai think tank occidentali. Oltre due anni prima dell'attaco giapponese a Pearl Harbour alcuni appartenenti allo statunitense consiglio per le relazioni estere lanciarono un progetto segreto noto in seguito come War and Peace Studies che godeva di fondi del Dipartimento di Stato. Riuscirono già allora a prevedere che il risultato dell'imminente guerra in Europa avrebbe lasciato l'AmeriKKKa in una posizione dominante, dal punto di vista economico e dal punto di vista politico. Avvertirono anche di non ripetere l'errore dei britannici proclamando un "impero" ameriKKKano, anche se in effetti era la stessa cosa che essi stavano invocando. Al posto dell'imperialismo, l'AmeriKKKa avrebbe dovuto far propria una narrativa di "ideali". Il suo "impero" non si doveva fondare solo sulla potenza militare, ma anche in una "narrativa" fatta di progresso, democrazia e libertà. Secondo questi formulatori di linee politiche, si doveva trovare il modo di utilizzare il potenziale militare, economico e politico ameriKKKano, che non aveva rivali, per imporsi in un ambiente internazionale confacente ai suoi interessi e avvolto in questa narrativa di progresso, democrazia e libertà. In altre parole, l'utopia doveva essere al centro della politica estera.
Solo che, come notò un filosofo più di duemila anni fa, l'eroe virtuoso imbarcatosi in una missione civilizzatrice finisce per pagare dazio alle proprie ambiguità. Per quale motivo? Perché, proprio come volevano i ricercatori del consiglio per le relazioni estere, l'AmeriKKKa ha stabilito per se stessa l'arrivare a "fare il bene" come se si trattasse di un oggetto. Una volta che l'AmeriKKKa è arrivata a considerare "il bene" come se fosse una cosa cui attenersi, essa si è trovata tra due fuochi che non ammettono scappatoie. Da una parte c'è il presente, in cui l'AmeriKKKa non è ancora in possesso di ciò che cerca; dall'altra c'è il futuro, nel quale gli ameriKKKani pensano di ottenere quello che desiderano. Un futuro che diventa presente grazie ai loro sforzi per sradicare il Male.
Dal momento stesso in cui gli "idealisti" considerano i loro valori come oggetti cui attenersi, questi valori diventano la strada per la delusione e per l'alienazione. Più ci si concentra sui mezzi per arrivare a "progresso, democrazia e libertà", più questi diventano un'astrazione trattata come un qualcosa cui arrivare per mezzo di tecniche militari specifiche (forze speciali, droni... Ricordiamo Samantha Power, che si autodefinì "la tipa del genocidio": "occorre promuovere la democrazia sempre e comunque... anche con i missili Cruise, se necessario") meno reali essi diventano. E meno reali diventano, più sfumano nel campo dell'astratto, del futuribile, dell'impossibile da raggiungere. In altri termini, più ci si concentra sui mezzi per la missione da compiere, più questi mezzi diventano elaborati e complessi fino al punto che la pura e semplice concentrazione sul modellare il mondo diventa tanto esigente che ad essa deve essere dedicato ogni sforzo, più i fini perdono il loro significato autentico. La conclusione di quell'antico pensatore era che "il bene" predicato e messo in pratica dal moralista e dall'idealista finisce, paradossalmente, per diventare un male.
Da quanto dice David Remnick, pare che il Presidente Obama abbia un'intuitiva consapevolezza di questo fatto, e stia cercando di dirigere l'AmeriKKKa lontano da questa missione civilizzatrice imponendole traguardi più limitati, come la creazione di spazi in cui correnti sociali positive possano farsi strada a proprio modo. Gli idealisti, gli interventisti umanitari -e sicuramente i neo-con- non gliela perdoneranno mai: diranno che sta cedendo al Male, che secondo loro si trova nei mezzi per ottenere qualcosa che non si possiede e che si deve cercare costantemente di possedere.
Fino a giungere al punto che diventa impossibile arrivarci.

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