domenica 30 giugno 2013

Emanuele Filiberto Umberto Reza Ciro René Maria di Savoia. Le radici cristiane della civiltà "occidentale" si difendono svapando.


Lo stato che occupa la penisola italiana ha avuto per una settantina d'anni un ordinamento monarchico.
Nel 1943 la casa regnante e lo stato maggiore cercarono di sfilarsi dalla seconda guerra mondiale senza pagare dazio a nessuno, ma riuscirono soltanto ad ingannare, sorprendere e abbandonare i soldati sparsi per tutta Europa. Un'impresa talmente meritoria che persino la realtà politica peninsulare arrivò a vietare per il futuro "agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi" l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello stato.
Uno dei primi atti del governo "occidentalista" insediatosi nel 2001 fu la revoca di questa disposizione: i discendenti maschi della vecchia casa regnante poterono così rientrare ufficialmente, ed utilizzare per il pubblico bene le competenze nel frattempo acquisite in materia di scienza della politica e di discipline inerenti la pubblica amministrazione
Emanuele Filiberto Umberto Reza Ciro[*] René Maria di Savoia -uno dei potenziali pretendenti al trono- prese la questione tanto sul serio che nel 2006 lanciò un impegnativo e determinante forum telefonico "per discutere coi giovani dei valori, dei problemi e del futuro" del "paese" dove mangiano maccheroni.

 L'idea è nata nell'ambito del progetto legato al movimento di opinione da lui fondato Valori e Futuro che vede Emanuele Filiberto di Savoia impegnato nel rilancio dei valori della famiglia, della patria e delle tradizioni verso le giovani generazioni.
 
Valori e Futuro è il movimento socio culturale fondato circa un anno fa da Emanuele Filiberto. E' un'associazione che si propone di rilanciare in un'ottica giovane e di crescita i valori su cui si fonda la società italiana: la famiglia, il valore della cultura come risorsa, le radici cristiane, l'ambiente. Durante un lungo viaggio attraverso l'Italia, Emanuele Filiberto ha raccolto le richieste degli italiani, e soprattutto dei giovani che gli hanno chiesto spesso aiuto, e ha così cercato delle soluzioni da proporre alla classe politica che guida il Paese.

Il nome dello stato che occupa la penisola italiana compare nei testi citati; ci scusiamo come d'uso con i nostri lettori, in modo particolare con quanti avessero appena finito di pranzare.
L'immagine in alto è stata scattata nel paese di San Casciano val di Pesa nella tarda primavera del 2013, e mostra i risultati cui è giunto in pochi anni l'impegno di Emanuele Filiberto, che difende le radici cristiane del "paese" pubblicizzando un ordigno indecifrabile "in edicola con il giornale degli svapatori" col quale si ritroverebbero alito fresco, più fiato e più sesso.


A Firenze, nella zona di Gavinana, c'è una scritta a vernice spray sicurissima del fatto che il fumo provoca il terrorismo.
Sicché si possono difendere le radici cristiane dell'"Occidente" anche diffondendo arnesi per svapare


[*] Un omaggio -diffuso all'inizio degli anni Settanta tra gli sfaticati della penisola- al monarca che di lì a qualche tempo sarebbe stato sin troppo benevolmente trattato dai rivoluzionari.

venerdì 28 giugno 2013

Pepe Escobar - Un amore infelice, quello del Qatar per la Siria?


Traduzione da Asia Times.

Un "amico della Siria" che  è più amico della Siria di tutti. Ma che cosa sta facendo il Qatar? Secondo certe voci a Doha, il Qatar può aver speso qualcosa come l'incredibile cifra di tre miliardi di dollari per essere sicuro del fatto che "Assad se ne vada".
Assad non se n'è andato da nessuna parte. Anche se l'emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani ha deposto se stesso questa settimana per lasciare il trono a quello che era il suo erede apparente, il figlio Tamim Bin Hamad al Thani (cfr. We are all Qataris now, Asia Times online, 26 giugno 2013), Bashar al Assad resta al suo posto.
E dunque?
Il Qatar ha speso una fortuna per armare fino ai denti una miriade di fazioni "ribelli" siriane: ha comprato roba saltata fuori dai nascondigli in Libia e altra roba nuovissima in Croazia, tutta fatta arrivare come cargo e distribuita dai servizi turchi; esiste anche un altro canale di approvvigionamento di armi fatto dai sunniti libanesi, che fanno capo ai sauditi.Il capo armaiolo è un generale del Qatar.
Doha ha dislocato forze speciali qatariane sul terreno, proprio come in Libia, perché facessero da consiglieri alla fazione ribelle di riferimento. Fondamentale è il fatto che queste forze speciali sono costituite da istruttori di comprovata esperienza. E non sono qatariani, sono pakistani, come spiega un dossier che costituisce una lettura obbligatoria.
Non occorre dire che questi pachistani sono venuti su con la stessa pedagogia dei mujahiddin degli anni Ottanta del passato secolo, e dei talebani nel decennio successivo. E sappiamo tutti che cosa è venuto fuori da lì. Asia Times on line ha riferito con molti particolari di come la Siria sia il nuovo Afghanistan, con in più adesso una quantità di efferatezze jihadiste sviluppate durante la guerra in Iraq, come gli attacchi suicidi, le decapitazioni e l'addentare le interiora degli avversari uccisi.
Non è un segreto il fatto che la maggior parte dei ribelli sia costituita da mercenari, di solito pagati direttamente dai qatariani 1300 dollari al mese. Gli tocca anche un extra di 1000 dollari nel caso portino a compimento un'operazione speciale. Qualcuno tra essi ha anche messo in piedi una seconda carriera come postatore di video su Youtube, che è l'arma che i canali televisivi arabi -per non parlare di quelli occidentali- hanno scelto per mostrare a tutti quanto sia cattivo il governo Assad.
Insieme a Washington, Doha foraggia anche la baggianata secondo cui ci sono agenti della CIA a dare una mano per distinguere i ribelli buoni da quelli cattivi, con il Supremo Consiglio Militare ad occuparsi della raccolta e della distribuzione delle armi. Chiunque creda a questo, crede anche di poter trovare in vendita su Ebay le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
L'ambasciata siriana a Doha è unica al mondo perché per intero infarcita di "ribelli". La dura azione lobbystica del Qatar ha costretto i ventidue paesi della Lega Araba, che adesso potrebbe anche chiamarsi Lega del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, ad assegnare ai ribelli il seggio siriano. La nascita della Coalizione Nazionale Siriana, ultima e confusa incarnazione politica dei ribelli, è stata annunciata a Doha -e dove altro...- nel novembre 2012. A seconda delle circostanze e delle convenienze, il Qatar unisce o divide questa Coalizione Nazionale.
L'unica cosa fissa è l'orientamento del Qatar in politica estera che consiste nel non dire mai di no ai Fratelli Musulmani, come ad esempio nel caso del sostegno per le brigate al Farouq, che teoricamente controllano qualche sobborgo di Aleppo.

In trappola
Con l'ascesa di Tamim, il nuovo emiro, la questione fondamentale è se quest'orgia di armi, di soldi a camionate, di azioni lobbystiche martellanti e di coperture diplomatiche si sia trasformata, o si trasformerà mai, in qualche beneficio tangibile per l'emirato.
Doha fornisce una versione dei fatti ufficiale e semplicistica: l'emiro e suo figlio hanno ammonito Assad perché non reprimesse le prime proteste dei siriani all'inizio del 2011.
 Solo che Assad aveva deciso di "uccidere la gente", così.
L'ex primo ministro Hamad bin Jassim altrimenti noto come HBJ  si è calcolatamente espresso in questo modo durante dei colloqui lalla Brookings Institution. Ha solo omesso di raccontare che Doha ha agguantato al volo l'occasione che si presentava di fare della Siria un'altra Libia: in Libia il Qatar ha letteralmente aperto i cieli ai bombardamenti della NATO.
Secondo i principali mass media occidentali ed arabi, si potrebbe addirittura pensare a Tamim come al nuovo messia. E' stato incessantemente salutato come "il monarca della primavera araba", così "giovane" e "moderno", uno che fa jogging e che stravede per le macchine e lo sport, già orgoglioso detentore di due mogli.
In realtà è più l'emiro della primavera dei Fratelli Musulmani, visti i legami strettissimi che intrarriene col telereligioso superstar di Al Jazeera, l'estremista settario sceicco Yusuf al Qaradawi che ha a tutti gli effetti pratici emesso una esortazione allo jihad contro gli alawiti e gli sciiti in Siria. Questo sceicco è uno dei più importanti consiglieri di Tamim.
Non è un segreto che la politica estera del Qatar prenda per lo più ordini da Washington. Questione di sfumature, comunque: il Qatar può aver convinto l'amministrazione Obama ad allineare la propria politica estera a quella dei Fratelli Musulmani, o magari è stata la stessa amministrazione a prendere per conto proprio una decisione così scriteriata. Magari è stato Tamim a convincere i talebani ad aprire una rappresentanza a Doha, o magari ha seguito un "suggerimento" dell'amministrazione Obama. Fatto sta che Tamim viene sempre incontro ai guardioni del Dipartimento di Stato e del Pentagono. E poi ha firmato quei corposi contratti di armi con gli Stati Uniti, e anche con la Francia.
Poi ci sono le relazioni con la Casa dei Saud, che hanno alti e bassi. A Doha si dice che nel 2010 è stato Tamim ad iniziare un dialogo strategico coi sauditi. Formalmente, è presidente del Consiglio Superiore del Qatar e dell'Arabia Saudita, il che significa che è sempre in contatto con il capo dei servizi sauditi principe Muqrin bin Abdul Aziz, il quale si è mostrato a prima vista un entusiasta sostenitore del passaggio di consegne in Qatar. Non è un segreto neppure il fatto che il potere vero, quello che ha sovrinteso al passaggio, è quello della previdente Sheikha Mozah, la madre di Tamim.
I rapporti con Muqrin hanno un senso perché la Casa dei Saud ha sempre detestato lo spumeggiante HBJ, per tacere della diffidenza che ha sempre ostentato nei rapporti col precedente emiro. Adesso la cricca di HBJ a Doha è stata più o meno messa da parte perché Tamim ha assegnato l'incarico di primo ministro allo sceicco Abdullah bin Khalifa bin Nasser al Thani. HBJ adesso è atteso dalla frenetica vita londinese, come manager della multimiliardaria Qatar Investment Authority. Mica male.
Non è chiaro se l'influenza del Qatar in Siria continuerà ad essere tanto rilevante. Tutti sanno adesso che la CIA sta ammassando una incredibile quantità di armi in Giordania, affinche, tramite il suo "elaborato" sistema di controllo, vengano consegnate a centinaia di ribelli siriani "buoni" addestrati dagli Stati Uniti, e soltanto a loro. La Giordania e gli Emirati sono così in prima linea su quel fronte, con i sauditi che forniscono carichi di armi anticarro portatili. C'è il caso che il Qatar si ritrovi ad armare solo poche ed ininfluenti formazioni di miliziani. Le conclusioni si tireranno ad agosto, quando si verificherà un attacco dei ribelli contro Damasco cui è già stata fatta molta pubblicità.
La guerra diventerà ancora peggio. E non c'è nulla che garantisca che Assad se ne andrà. il "giovane e moderno" emiro della primavera della Fratellanza Musulmana potrebbe arrivare preso alla conclusione di esser rimasto prigioniero di una trappola approntata dalle azioni di suo padre prima, e dalle sue stesse azioni poi.

Pepe Escobar ha scrittoGlobalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007), Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge (Nimble Books, 2007), e Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009).




martedì 25 giugno 2013

Sette anni di detenzione ed interdizione perpetua dai pubblici uffici


Il 24 giugno 2013 un uomo d'affari e politico tra i più influenti della penisola italiana è stato condannato a sette anni di reclusione ed alla "interdizione perpetua dai pubblici uffici".
Nell'ordinamento dello stato che occupa la penisola italiana, questa interdizione è prevista per le condanne superiori ai cinque anni e comporta la perdita del diritto all'elettorato attivo e passivo, dell'ufficio di curatore o di tutore, dei gradi e delle dignità accademiche e di ogni retribuzione statale.
In questo caso, a differenza della stragrande maggioranza dei mustad'afin detenuti che hanno subito lo stesso destino e di cui nessuno si interessa, il condannato può contare su una ricchezza talmente insultante da permettergli di derubricare tutto quanto a seccatura.
La cosa di inaudita e irrimediabile gravità, invece, è data dalla violenta disconferma e dalla stroncatura senza appello rappresentati da tutto questo per i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana, che nel condannato, nei suoi "valori" e nella sua condotta avevano trovato il miglior rappresentante che potessero mai sperare di avere.

domenica 23 giugno 2013

Conflicts Forum sull'elezione di Hassan Rohani e la situazione in Medio Oriente nel giugno 2013.


Traduzione da Conflicts Forum.


Siria. Il G8 in Irlanda del Nord alla fine dei conti non ha cambiato niente. E' finito con poco più che il pio desiderio di arrivare ad un incontro come Ginevra II all'inizio dell'autunno. La Francia e il Regno Unito sono sempre in prima fila tra quelli che vogliono a tutti i costi "fare qualcosa", ma Cameron è sempre più isolato anche in patria. Ha fatto una rapida marcia indietro sul suo proposito di armare l'opposizione siriana; si trova davanti a spaccature persino all'interno della coalizione che regge il suo governo, e non riesce a mettere insieme una maggioranza alla Camera dei Comuni che gli permetta di armare l'opposizione. In Francia, il Ministro degli Esteri continua con la sua rabbiosa e in qualche modo contorta difesa del passare a vie di fatto contro il governo siriano. Qui è presente un resoconto su un episodio simile e che riguarda la pretesa di Kerry che si bombardino immediatamente gli aeroporti siriani, con quelli della CIA e i realisti che lo azzittiscono. Le bombe sulla Serbia volute da Holbrook ispirano ancora oggi l'idea occidentale di come si dovrebbe trattare il Presidente Assad in maniera da costringerlo ad una "soluzione politica". La stessa idea domina ampiamente negli ambienti in cui ci si occupa della soluzione dei conflitti.
Per quanto riguarda l'uscita dalla crisi siriana, la metodologia politica adottata ha legato mani e piedi l'Occidente al modello yemenita. Nel caso siriano questo significa che le potenze esterne -ovvero gli Stati Uniti e la Russia- si accordano tra loro su una "fatwa" per la transizione, che viene poi imposta alle parti in lotta in una conferenza a Ginevra, poco o per nulla interessandosi al loro parere. Gli europei e l'ONU ritengono che questo modo di procedere costituisca l'unico vero "punto di inizio" per la fine dello stallo. In realtà, nel caso dello Yemen, le parti in conflitto hanno ritenuto talmente disgustoso questo approccio da arrivare ad accordarsi segretamente tra loro facendo completamente a meno dei paesi esteri e della loro "fatwa". Difficile che in Siria si arrivi allo stesso risultato, perché non esiste di fatto alcuna parte dell'opposizione sponsorizzata dall'Occidente che possa rifiutare o usurpare una "fatwa" emessa dalle grandi potenze: semplicemente, esse in Siria non godono in modo credibile di alcun sostegno popolare degno di nota. La debolezza dell'opposizione e la mancanza di concordia al suo interno non sono propriamente un problema, perché il vero problema sta nel fatto che non esiste alcun effettivo gruppo di oppositori, fatta eccezione per gli jihadisti radicali islamici armati, che in ogni caso non fanno parte dei calcoli occidentali.
Se le cose stanno in questo modo gli sforzi dell'Occidente, a meno che non si decida d'improvviso di propendere per un'ulteriore militarizzazione -e qui si legge qualcosa che fa pensare che Obama sia sempre più isolato nel rifiutare di percorrere questa strada- sono connessi all'opzione irrinunciabile di costringere l'opposizione ad arrivare ad una parvenza di unità, che le permetterebbe di figurare a Ginevra come il braccio esecutivo di una "fatwa" emessa dal tavolino di quelli che contano sul serio. Possiamo dunque attenderci di assistere ad un moltiplicarsi degli appelli all'unità dell'opposizione, affinché si possa arrivare ad una Ginevra II. E sicuramente la "fatwa" dei paesi occidentali e dei loro alleati nel Golfo sarà fatta in modo da spodestare il Presidente Assad e da rimpiazzarlo con un esecutivo di transizione. Esattamente il tipo di cosa cui Putin si è opposto con fermezza e con successo in occasione del G8. Il difetto in tutto questo -ed è un difetto sempre più riconosciuto in Occidente- è semplicemente l'estrosità dell'idea che un gruppo di esiliati siriani possa essere paracadutato nel paese per instaurare un governo di transizione controllato dall'opposizione e per prendere il controllo dell'esercito e delle forze di sicurezza. Altrettanto estrosa è stata, nel 2003, l'idea che Ahmad Chalabi e i due aerei carichi di suoi seguaci potessero fare lo stesso in Iraq. Pensare che le forze di sicurezza farebbero atto d'obbedienza ad un simile "comando" significa non aver capito nulla di come stanno le cose. Ed è questo che i russi stanno cercando di far capire, ad un auditorio fatto di sordi.

Nel Golfo continua l'eco della caduta di Quseyr. Un importante giornalista saudita vicino al principe Turki ha curato una enfatica chiamata alle armi diretta a tutto il Medio Oriente perché si spodesti il Presidente Assad, e "lo si faccia in fretta". Al Cairo il governo ha interrotto le relazioni con Damasco, ed una conferenza di studiosi sunniti ha statuito essere un dovere per i musulmani partecipare al jihad in tutte le sue forme a sostegno della causa sunnita nella sua interezza, che è la causa "della maggioranza dei paesi musulmani" per il suo impatto sulla Siria; la sua voce va ad aggiungersi a quella dello sceicco Qaradawi, che opera in Qatar, e a quella del mufti saudita che hanno già emesso appelli ad uno jihad sunnita contro il Presidente Assad ed i suoi alleati. Al di là del coro settario dei sunniti, in realtà, l'unità mostrata dai paesi del Golfo sta venendo meno: Arabia Saudita e Qatar sono impegnati in un aspro e quasi violento confronto a chi alza di più la voce. Gli Emirati Arabi sono in profondo disaccordo con i Fratelli Musulmani (si veda qui). L'Arabia Saudita e l'Egitto sono sempre più spesso in contrasto. Come se non bastasse, i due paesi più ricchi stanno cercando di attraversare un cambio di leadership che implica la rottura delle regole che nelle rispettive famiglie regnanti disciplinano il diritto di successione ed è verosimile che la questione finisca per essere motivo di attriti tra i due. Gli arresti per motivi politici in Arabia Saudita ed in altri paesi del Golfo stanno salendo a picco; oltre ventimila persone, donne comprese, sono state arrestate per reati politici in Arabia Saudita nel corso dell'ultimo anno.

In Iran, le elezioni presidenziali hanno conferito al candidato di centro un mandato sorprendentemente chiaro; Rohani è un autentico centrista, che si è mosso in modo da ottenre il sostegno dei riformisti -nonostante non sia egli stesso un riformista- degli ambienti attorno a Rafsanjani -nonostante non sia più l'uomo di Rafsanjani- e di una considerevole componente dei conservatori radicali e dei conservatori, nonostante non sia un conservatore radicale. Si tratta di un caso in cui attorno ad un singolo personaggio si coagula un considerevole consenso politico. Il neopresidente Rohani può contare sia su un ampio mandato popolare che su rapporti stretti con la Guida Suprema: è stato nominato personalmente dalla Guida Suprema al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, come proprio rappresentante. Per il resto del mondo non ci sono stati dubbi sul fatto che Rohani è stato effettivamente eletto, e che il sistema politico iraniano ha con ogni evidenza funzionato bene ed ha portato ad un orientamento politico diverso da quello precedente.
Anche prima che le elezioni si svolgessero era chiaro che chiunque avrebbe vinto la politica estera iraniana era destinata a cambiare e a diventare più aperta verso un miglioramento delle relazioni internazionali a livello mondiale, anche se questo non implica affatto che il cambiamento sia centrato su un miglioramento delle relazioni con l'Occidente. Allo stato attuale delle cose è più probabile che a rafforzarsi sarà l'orientamento iraniano verso l'Oriente e l'Asia. Mentre la realtà di queste consultazioni come autentica espressione dell'orientamento poitico iraniano viene accettata come tale dalla maggior parte del mondo, in AmeriKKKa essa è già portata ad esempio del fatto che le sanzioni hanno compiuto il loro effetto su un popolo iraniano al limite della sopportazione, e che gli Stati Uniti possono adesso attendersi di strappare qualche concessione dal nuovo presidente senza che dall'Occidente ci sia alcuna contropartita. Arrivare a queste conclusioni significa interpretare in modo errato il panorama iraniano e se questo concetto entrerà a far parte della visione occidentale delle cose è possibile che gli Stati Uniti finiscano per perdere l'opportunità strategica che giunge loro dall'elezione di Rohani, quella di intavolare con l'Iran relazioni di tipo nuovo. La prospettiva di un simile riavvicinamento sarebbe accolta con la massima freddezza dalla leadership dello stato sionista (si leggano qui le reazioni di Netanyahu alla notizia dell'elezione di Rohani). Alcune dichiarazioni del neopresidente sono state selezionate con cura perché figurassero come prova della narrativa occidentale su un Iran che si indebolisce perché sotto pressione, ma non sono certo delle frasi estrapolate dal contesto che possono riflettere l'interezza di quanto Rohani ha detto nel corso di tutta la campagna elettorale. All'inizio del millennio Rohani ha subito un grosso danno dal fatto che l'Occidente sia riuscito a strappare agli iraniani la concessione di due anni di moratoria sull'arricchimento dell'uranio, senza che ad essa corrispondesse alcuna contropartita. All'epoca Rohani guidava i negoziati per contro dell'Iran, e non farà un'altra volta lo stesso errore. Gli resta però il difficile problema di gestire le aspettative occidentali; nel caso le concessioni iraniane prive di contropartita non figurassero come il risultato della "stanchezza" del popolo iraniano, c'è la possibilità che Rohani debba fronteggiare una recrudescenza del risentimento e dell'irritazione occidentali a fronte di questo mancato riconoscimento.

sabato 22 giugno 2013

Le preoccupazioni di Francesco Torselli


Uno preoccupato.


L'ufficio stampa del Comune di Firenze racoglie quasi quindici anni di materiali. Dal 2001 al 2011 gli "occidentalisti" lo hanno letteralmente allagato ogni giorno di comunicati: un numero crescente di gazzette li riportava fedelmente e tutti erano contenti: gli "occidentalisti" perché l'insihurézza, i'ddegràdo e i'tterrorismo, e i gazzettieri perché l'insihurézza, i'ddegràdo e i'tterrorismo. Gli uni mantenevano un clima sociale elettoralmente profittevole, fatto di sospetto reciproco, diffidenza ed aperta criminalizzazione di qualsiasi forma di vita associata; gli altri accedevano ad ottimi redditi senza muoversi dalla climatizzazione degli uffici.
Questa strategia di comunicazione, già presente in nuce nel patrimonio politico dell'"occidentalismo", ha conosciuto un successo senza precedenti dopo le spregiudicate ed innovative operazioni urbanistiche portate con successo a termine a New York l'11 settembre del 2001: Firenze diventò per qualche decina di persone un laboratorio mediatico le cui produzioni hanno svelato nel corso degli anni retroscena, protagonisti e soprattutto risultati abietti, repellenti, sanguinariamente ridicoli e profondamente sporchi in ogni senso. In estrema sintesi, per circa dieci anni non c'è stato comportamento umano che gli "occidentalisti" e le loro gazzettine non abbiano considerato terrorismo, con le sole eccezioni del mangiare spaghetti, del consultare rotocalchi pornografici e del frequentare prostitute.
L'aggressione mediatica dell'occidentalame in realtà ha cominciato immediatamente a dar segni di cedimento e di usura: in occasione del Social Forum del 2002 le gazzette ospitarono per settimane gli strepiti premestruali di scansafatiche, delinquentelli, degustatori di maccheroni, indossatori di canottiere, incoscienti pericolosi, bulli di quartiere ed altre nullità ben retribuite di cui la barzellettistica produzione "letteraria" di Oriana Fallaci rappresentava (nelle intenzioni) la punta di diamante. La realtà esplose loro sul grugno con una tale violenza che l'"occidentalismo" politico non è più uscito, a Firenze, dal ridicolo e dal disprezzo in cui si era cacciato con tanto impegno.
Impossibilitati ad aggiustamenti di rotta anche minimi dalla propria autoreferenzialità, gli "occidentalisti" fiorentini sono finiti all'angolo soltanto per il venir meno del giornalame che ne ospitava la propaganda, non certo per aver preso coscienza di una realtà con la quale non hanno mai avuto il minimo rapporto. Se così non fosse stato, l'occidentalame avrebbe almeno abbozzato uno straccio di difesa in una città in cui gli è materialmente impossibile agire iniziative senza rischiare forte dal punto di vista dell'incolumità personale ed in cui le sedi (sempre deserte e puramente vessillari) devono stare almeno ai primi piani degli stabili per ridurre la possibilità di essere prese d'assalto.
Chiuse le gazzette, franato il consenso immane su cui hanno contato per anni -le ricette politiche (più mercato e più galera) scippate da tempo dai loro sedicenti avversari- agli "occidentalisti" sono rimasti il Libro dei Ceffi, il Cinguettatore, qualche mescita costosa e qualche locanda dalla sicura fama, pendant adeguati ai tempi di quell'Albergo della Palla che nella Firenze ottocentesca era "frequentato dai soldati e dai giovinastri, ed abitato da certe donne che facevano appunto a palla d'ogni virtù e d'ogni decoro"[*].
Da questo poderoso riflusso il lavoro degli addetti stampa è uscito molto ridimensionato. La situazione è arrivata al punto che il 21 giugno 2013 Francesco Torselli ha lasciato perdere Codreanu e per primo ha alzato le braccia davanti alla pioggia di sprangate inflittagli dal principio di realtà. Lo scritto di Torselli è interessante, tra le altre cose, perché evidenzia come la politica "occidentalista" e quella dei sedicenti avversari dell'"occidentalismo" come il boiscàut Matteo Renzi non presentino alcuna differenza di sostanza.
Citiamo per intero il comunicato stampa, avvertendo che in esso compare più volte il nome dello stato che occupa la penisola italiana. Come sempre ce ne scusiamo con i nostri lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

21/06/2013
Torselli (FdI): “Preoccupato dal silenzio del centrodestra sul futuro di Firenze"
“A meno di 12 mesi dal voto amministrativo si parla di rifondare An o FI, ma non una parola su programma e scelta del sindaco. Così non va”

“In questi giorni si fa un gran parlare di rifondazioni: Alleanza Nazionale, Forza Italia, Cose Nere, Balene Bianche e Cose Tricolori, ma ancora non ho sentito mezza parola sul programma e le alleanze che il centrodestra vorrà mettere in campo in vista delle prossime amministrative di Firenze e della stragrande maggioranza dei comuni della Toscana; né tantomeno di criteri per la scelta dei nostri futuri candidati a sindaco. Mi pare che in troppi stiano razzolando in cantina alla ricerca di vecchi calendari, ma non guardino invece quello appeso al muro, dove sta scritto che mancano meno di 12 mesi al voto e di questo passo il centrodestra è destinato a percentuali da riserva indiana”. Così Francesco Torselli, consigliere comunale a Firenze per Fratelli d’Italia e tra i promotori regionali del movimento di Giorgia Meloni e Guido Crosetto.
“Da mesi ormai – prosegue Torselli – vado ripetendo sempre la stessa cosa: o entro l’estate il centrodestra si sarà chiarito le idee su quali alleanze e su quali tasti far insistere principalmente il proprio programma, per poi partire ad ottobre con un serio percorso partecipato e finalizzato alla scelta dei candidati a sindaco (leggi: primarie), oppure il nostro destino sarà quello di sparire o di essere ridotti a mere presenze ‘di bandiera’ nei consigli comunali, Firenze in testa”.
“Su Firenze – spiega l’esponente di Fratelli d’Italia – io ho una mia ricetta: costruire un’alleanza, più ampia possibile, tra tutte le forze civiche e politiche che in questi anni hanno dimostrato di avere un’idea di città differente da quella del Sindaco Renzi. Uno come Renzi, infatti, si batte con le idee, i programmi ed il coinvolgimento dei cittadini nella composizione degli stessi, non certo con un mese di campagna elettorale dove a parlare sono soprattutto gli slogan”.
“Renzi – continua ancora il consigliere comunale – ha realizzato sì e no un decimo di quanto aveva promesso, ma ha dimostrato di avere un’idea di città, giusta o sbagliata che sia. Mi chiedo se il centrodestra sia in grado o meno di presentarsi alle elezioni con un’idea alternativa, ma soprattutto mi chiedo se ci sia o meno la volontà della nostra parte politica di costruire questa idea insieme alla gente, coinvolgendo i cittadini nella creazione del programma e soprattutto nella scelta dei candidati. Se dovessimo arrivare ad una sfida con Matteo Renzi con il solito programma ‘fritto e rifritto’ e con un candidato a sindaco imposto dall’alto dalle solite segreterie di partito, credo proprio che faremmo più bella figura a non presentarci nemmeno”.
“Certo – conclude Torselli – se vogliamo costruire un’alleanza credibile e non un ‘sultanato’ servono regole chiare e valide per tutti, a cominciare dai tempi e dal metodo con cui si pensa di scegliere il candidato sindaco. Se qualcuno pensa invece di dettare tempi ed agenda per tutti, rispolverando i vecchi metodi usati in tutte le scorse elezioni, vorrà dire che arriveremo ad un ‘bomba libera tutti’ ed ognuno sarà legittimato a fare le proprie valutazioni. La gente non chiede ritorni al passato o a vecchi contenitori, e su questo sposo a pieno le considerazioni fatte in questi giorni sulla stampa dall’On. Giorgia Meloni, quando dice che le idee ed il valori della destra italiana non sono assolutamente né morti, né superati, semmai sono superati certi personaggi che li hanno rappresentati per oltre vent’anni e che ormai hanno fatto il loro tempo. E questo vale anche e soprattutto in sede locale: chi guarda al passato è perché non ha idee per il futuro”.
[*] Giuseppe Conti, Firenze Vecchia, 1899.

giovedì 20 giugno 2013

Firenze: Massimo Mattei non è più assessore al decoro.


Nel giugno 2013 una malattia infiammatoria costringe alle dimissioni Massimo Mattei, “Assessore Infrastrutture e Grandi opere, trasporto pubblico locale, Manutenzioni e decoro[*]” a Firenze e sodale del boiscàut Matteo Renzi.
Miguel Martinez ha trovato la cosa di un certo interesse, dato che Mattei era uno dei più solerti fautori di una certa opera "pubblica", e ne ha parlato in un lungo post in cui si tratta diffusamente anche dello Hotel Mediterraneo, degli "occidentalisti" che vi facevano tappa fissa, e di certe ancor più stimolanti coincidenze.
La politica "occidentale" usa da qualche tempo uno strumento apparentemente democratista, quello dei "percorsi partecipati". La funzione dei "percorsi partecipati" è quella di assicurare che la partecipazione dei sudditi alla gestione degli interessi pubblici sia appunto limitata al partecipare a qualche riunione, e soprattutto che non intralci in alcun modo gli interessi di volta in volta in campo.
Il brano seguente, tratto dal blog di Miguel Martinez, riporta al "percorso partecipato" sul parcheggio interrato di piazza del Carmine e a come mille e più firme contrarie non siano ovviamente bastate a far capire al boiscàut e all'assessore oggi infiammato che un no non è un .
...Sapete che qui ci siamo occupati del tentativo della Firenze Parcheggi (“partecipata” comunale, diretta da Marco Carrai, uno dei principali promotori di Matteo Renzi) di scavare un parcheggio interrato, cioè una buca profonda tre piani davanti alla Chiesa del Carmine [..].
Questa proposta ha suscitato una vasta opposizione nel rione, costringendo il comune a indire un “processo partecipativo”, in cui i cittadini potevano esprimere il loro punto di vista. Il “percorso” è culminato in un incontro al Comune.
All’incontro, siamo andati in massa, e abbiamo prima sentito un funzionario esporre molto correttamente il risultato del processo partecipativo: per almeno mezz’ora, ha letto un’interminabile lista di dichiarazioni motivate contrarie al parcheggio.

Matteo Renzi (in una delle sue ormai rare apparizioni a Firenze) e Massimo Mattei,
nel ruolo degli Uomini che Fanno Sul Serio
Poi abbiamo sentito Massimo Mattei, con la sua aria piuttosto grintosa, dire che il parcheggio era una gran buona cosa e bisognava farlo a tutti i costi. Contraddicendo la finzione secondo cui il suo ufficio stava semplicemente valutando la proposta di una ditta privata, la Firenze Parcheggi appunto.
Ma qui sorge un problema serio per gli amministratori, che non sono certo le obiezioni dei cittadini.
Chi garantirebbe i prestiti che la Firenze Parcheggi dovrebbe contrarre per portare a termine un’opera così costosa?
Il patto di stabilità vieta che il Comune se ne faccia carico; ma [...] le Grandi Opere Inutili funzionano così, che il pubblico ci mette i soldi e il privato passa per raccogliere i profitti. Altrimenti, i privati non sarebbero così fessi da impegnarcisi.
Una nostra amica, esperta di finanza, si alzò durante l’incontro per porre proprio questa domanda, ma fu azzittita da Mattei; però il problema resta, e infatti il parcheggio per ora non si fa, anche perché il bilancio della Firenze Parcheggi è andato decisamente in rosso (e poi la magistratura ha anche sequestrato per un periodo i suoi conti bancari, ma quella è un’altra storia).
La cosa più significativa di questa vicenda è il fatto che un anno di proteste di tutto un quartiere contro un progetto demenziale non ha fatto deviare di un centimetro l’assessore; poi è bastato che fosse sfiorato dal sospetto di un contatto, abbastanza indiretto e senza alcun coinvolgimento penale, con una meretrice, e in poche ore è finita la sua carriera.
[*] Sic.


martedì 18 giugno 2013

Firenze, il santuario della Madonna del Sasso e la pratica devozionale del pellegrinaggio


Il santuario della Madonna del Sasso si trova nel territorio comunale di Pontassieve, a qualche decina di chilometri da Firenze e a seicento metri di altezza.
La foto è stata scattata il 16 giugno 2013 e ritrae il "libro degli ospiti" esposto all'interno. Vi si legge un'attestazione sincera della pratica devozionale del pellegrinaggio, nell'unico modo in cui essa può essere intesa dagli "occidentali" contemporanei.
Non si ha ancora notizia di pallonate nel transetto fra rossocerchiati e verdepallido a pallini, né di coltellate in sagrestia fra pallonieri biancoturchesi e nerofucsia intenti a contendersi l'onore di fare da ministranti, ma le premesse ci sembrano abbastanza buone.

lunedì 17 giugno 2013

Enrico Fenzi - Armi e bagagli, un diario dalle Brigate Rosse. Dedicato a Valerio Vagnoli e soprattutto ai suoi studenti.



Armi e bagagli, un diario dalle Brigate Rosse di Enrico Fenzi è un libro che esula dagli argomenti abitualmente trattati in questa sede. Ne abbiamo preparato la recensione con le stesse intenzioni con cui recensimmo il Dossier foibe di Giacomo Scotti, vale a dire per mostrare un minimo di attivismo nel contrastare, confutare e ridicolizzare qualche "occidentalista" da gazzetta.
La politica "occidentalista" nel giugno 2013 è, a Firenze come altrove, in condizioni che ci auguriamo preagoniche; un'occasione come un'altra per prendere a sprangate il cane che affoga e profondere un minimo di impegno per rendere controproducenti le iniziative dell'occidentalame, fidando anche sulla buona memoria dei motori di ricerca.
Del
Dossier foibe e del suo autore nulla sapevamo fin quando Achille Totaro (che è grasso e di Scandicci) ebbe a dirne male nel corso di un'operazione propagandistica. Solo per questo fu per noi un vero piacere procurarci immediatamente una copia del libro e lo stesso, sappiamo da fonte certa, è stato fatto da altri lettori di questo blog.
Di
Armi e bagagli abbiamo cominciato ad interessarci un paio di mesi fa; un ben vestito di nome Valerio Vagnoli era dell'opinione che Enrico Fenzi, in quanto ex combattente in una formazione armata irregolare, non avesse diritto di parola in materia di letteratura medievale. L'intera vicenda è riassunta dallo scritto in link; qui basterà ricordare che i capricci di Valerio Vagnoli sono serviti soltanto a spostare di un giorno la data della conferenza fiorentina cui Fenzi ha preso parte ed in cui ha presentato una trattazione su quelli che sono i suoi campi di studio da una vita, per nulla interessando l'uditorio con dissertazioni sulla gittata utile dei fucili d'assalto contemporanei o consigli su come si redige un volantino di rivendicazione.
Detto altrimenti,
Vagnoli non è riuscito ad impedire a Fenzi di parlare, ma è piccinamente riuscito ad intralciare e complicare il lavoro altrui.
La recensione, naturalmente,
è dedicata agli studenti di Valerio Vagnoli; quanti tra essi volessero approfondire possono fare quello che abbiamo fatto noi, e andare a cercare il libro presso la biblioteca comunale di Bagno a Ripoli.

La memorialistica dei combattenti, irregolari o meno, è un filone letterario che ha riempito e continua a riempire biblioteche intere con opere aneddotiche ed autobiografiche per loro natura poco utili ad una ricostruzione imparziale della storia; la storia scritta dai vincitori e la pratica politica che ne consegue si interessano comunque moltissimo a questo tipo di produzioni, con intenti sistematicamente denigratori: anche a distanza di decenni dai fatti l'obiettivo è più che mai quello di negare l'esistenza stessa dell'avversario e di pretenderne letteralmente la cancellazione.
I combattenti irregolari che hanno operato nella penisola italiana nel corso della seconda metà del XX secolo hanno dato al genere un contributo molto vario, cui è dovere preciso interessarsi per chiunque tenga la "libera informazione", le gazzette e i "valori" che esse propagandano nella considerazione che meritano.
Armi e bagagli non ha alcuna pretesa di testo specialistico ed è fitto di aneddoti, di considerazioni personali, di debolezze uimanissime, risultando così accessibile anche a chi non possiede alcuna nozione dell'argomento trattato; nella prefazione, Emanuele Trevi lo paragona alle memorie del cardinal de Retz, in cui uno dei protagonisti della fronda nel Regno di Francia del XVII secolo non rivela alcunché di inedito o di ignoto, ma compie una specie di trattazione completa sull'antropologia dell'intrigo e del tradimento politico.
Dopo le prime pagine che descrivono il viaggio in treno di un Enrico Fenzi armato e circospetto -la vita quotidiana del combattente irregolare viene descritta in tutto il volume con i suoi usi, le sue cautele, le sue precauzioni più o meno efficaci- il testo si immerge prima in un primo flashback nella Genova degli anni Settanta descrivendo i primi contatti dell'A. con le Brigate Rosse, avvenuti tramite l'amico Gianfranco Faina, definito da Fenzi un rivoluzionario genovese , e poi in un altro nella Milano del 1981, l'epoca degli arresti, delle dissociazioni e delle eliminazioni di delatori e traditori veri o presunti.
La descrizione accurata di questo scenario è occasione per alcune riflessioni sul perché dell'adesione alle Brigate Rosse: di tutti i motivi che possono portare qualcuno ad unirsi ad una formazione combattente irregolare -nessuno di questi perché gli è mai stato posto da un amico, nota Fenzi- l'A. indica il principale nell'attrazione che un'esperienza di vita concreta può esercitare su un altro percorso esistenziale; se poi è certa l'esistenza di cause ed effetti, assai meno certa è l'esistenza di rapporti lineari tra di essi soprattutto in considerazione del fatto che in determinate circostanze il proprio passato può essere ricostruito a posteriori in base alle esperienze compiute, fornendo in questo modo un significato a queste ultime e compiendo attribuzioni causali che si ritenevano impensabili.
Il racconto torna al 1976: l'A. narra dell'uccisione di Francesco Coco avvenuta l'otto giugno di quell'anno a poche decine di metri dalla facoltà universitaria in cui lavorava e del genere di considerazioni che essa suscitò presso il pubblico in generale e presso gli attivisti politici genovesi. Secondo Fenzi l'azione delle Brigate Rosse non suscitò universale sdegno in un contesto sociale già segnato dalle molte vittime, soprattutto tra quanti iniziavano a prendere le distanze da un'estrema sinistra percepita come fatua. La descrizione della prima azione vera e propria -una distribuzione di volantini- cui l'A. è stato destinato dopo una serie di prese di contatto occupa le pagine successive.
Fenzi descrive poi i sostanziali mutamenti della sua militanza avvenuti con l'autunno del 1977, in mezzo ad un periodo in cui l'industria pesante genovese stava attraversando cambiamenti tanto epocali quanto temuti nella produzione e nell'organizzazione del lavoro. I rapporti dell'A. con i brigatisti Luca Nicolotti e Rocco Micaletto sono occasione per una digressione sul tema della clandestinità, la condizione di interruzione di ogni rapporto con le istituzioni e di molta parte dei rapporti sociali esterni all'organizzazione di appartenenza che caratterizzava all'epoca un numero crescente di combattenti; sono anche occasione per tornare sul perché di una scelta radicale. Agli occhi di Enrico Fenzi persone come queste, in clandestinità note come Valentino e Lucio "non erano simboli, non erano modelli, ma persone reali [...] e segnate dal destino che si erano scelto: un destino orribile, pieno di colpe –questo l'ho avvertito, sempre – ma un destino scritto con lettere di fuoco nella storia della loro classe. Chi ero io, per distinguere l'idealista dal criminale, l'innocente dal violento, il bene dal male, e per scegliere il meglio, e dunque per non scegliere, per ritirarmi, per lasciarli soli?".
Nel novembre del 1977 Enrico Fenzi prese parte all'azione con cui fu ferito alle gambe un dirigente della Ansaldo; in Armi e bagagli la vicenda è narrata a partire dai suoi esiti, dalla sua natura di passo definitivo e corruttore seguito da una diluizione di ogni contatto con gli altri combattenti che in capo a qualche mese, nonostante la colonna genovese delle Brigate Rosse fosse più che mai attiva, riportò l'A ad una vita sociale e lavorativa pressoché normale. Soltanto nel giugno dell'anno seguente Enrico Fenzi sarebbe stato contattato nuovamente: non da combattenti, ma dall'avvocato Edoardo Arnaldi. Francesco Berardi, un caposquadra della Italsider messo ai margini del processo produttivo per una serie di problemi di salute, intendeva entrare nell'organizzazione. Nelle pagine che seguono, ricche di excursus sul tessuto sociale e il retroterra della classe operaia genovese, Enrico Fenzi illustra alcuni aspetti del rapporto di Berardi con lui e con l'organizzazione armata; in pochi mesi sarà proprio l'attivismo ingenuo di Berardi a portare al suo arresto. Al processo di Francesco Berardi, alla fine di ottobre 1978, si presenta a testimoniare "un operaio dell'Italsider da solo. Guido Rossa".
Guido Rossa venne ucciso il 24 gennaio 1979. Un Enrico Fenzi sotto sorveglianza da mesi -verrà arrestato quattro mesi dopo- descrive così le manifestazioni di solidarietà con Rossa: "...la rabbia era tutta contro le Brigate Rosse, ed era doppia, era per quello che avevano fatto e per quello che non avevano fatto. Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per molti di quegli operai, un sogno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell'idea rivoluzionaria, si era spenta". Nell'ottobre dello stesso anno Fenzi incontra nuovamente Berardi nel carcere di Cuneo, in un contesto in cui le vendette e le lotte intestine hanno già un ruolo importante, e di Berardi descrive la prostrazione ed il suicidio.
Nei capitoli successivi Fenzi tratta, con molti particolari aneddotici, del suo trasferimento nel carcere di Palmi e delle vicende che vi si svolsero. Il carcere appena costruito raccolse per qualche tempo molti combattenti irregolari appartenenti a diverse formazioni. Particolare attenzione in Armi e bagagli viene dedicata alle vicende di Toni Negri, violentemente impopolare tra i prigionieri soprattutto per la sua condotta difensiva, destinata a diventare operazione politica. "Una difesa che tagliava di netto tra movimento e lotta armata [...] e condannava dunque quest'ultima, almeno nelle intenzioni, al limbo di un'esistenza marginale ch'era meglio dimenticare al più presto, o tutt'al più regalarla al settore “dietrologia e complotti”. L'innocenza degli uni doveva essere pagata sottobanco con i secoli di galera tacitamente inflitti agli altri. La storia vera degli anni passati, insomma, sarebbe stata quella scritta da chi si proclamava estraneo a tutto quello che era successo. Il che spiega sin troppo bene perché quelle forze della sinistra che si facevano portatrici di questa bizzarra operazione chirurgica che risecava in due la realtà e la rovesciava, non abbiano mai né voluto né potuto contribuire seriamente alla ricostruzione e all'analisi degli “anni di piombo”: e infatti come avrebbero potuto farlo, se a protagonisti degli anni di piombo venivano promossi solo quelli che con il piombo garantivano di non aver avuto niente a che fare?". Nelle stesse pagine, Fenzi compie anche digressioni sulla vita carceraria e sui rapporti interni alle Brigate Rosse, segnati dal discrimine ineludibile della detenzione e dalle sue ripercussioni sull'organizzazione nel suo insieme.
Il volume prosegue con il resoconto del ritorno a Genova e delle vicende della primavera del 1980. Tra tutte, le vicende del primo processo e la morte di Edoardo Arnaldi, suicida al momento dell'arresto dovuto alla delazione di Patrizio Peci. Il corteo funebre, affollatissimo, passò sotto il carcere in cui Fenzi era detenuto. "Quella era una sinistra che non tolleravo, alla quale avrei persino voluto far del male, comprometterla, inguaiarla... La sinistra funeraria, che sta ben riparata [...] e sbuca fuori quand'è ben certa che chi le creava imbarazzi è morto, e riesce a fare le sue battaglie solo quando si tratta di dimostrare che non ha fatto qualcosa. Per anni, dopo, ho ancora visto spuntare le sue testoline furbe, che si guardavano attorno, che non ci fosse nulla in vista, e gonfiavano la voce e borbottavano...".
L'inizio del capitolo Clandestinità riporta agli avvenimenti dell'estate del 1980, successivi all'assoluzione con formula piena del 2 giugno con cui l'A. era tornato libero trovandosi pressoché isolato nell'ambiente genovese segnato dalla strage di via Fracchia: il 28 marzo quattro combattenti erano stati uccisi dalla gendarmeria che aveva fatto irruzione in un appartamento, anch'esso identificato grazie a Patrizio Peci. Proseguire la lotta armata fu per Fenzi l'unico comportamento coerente che fosse dignitoso tenere davanti alla marea montante dei lutti, e dopo le esperienze fatte in carcere. "Se mi fossi ritirato allora, a quel punto della parabola, impastato com'ero di tutto quello che ero stato per me e per gli altri, mi sarei sentito un pagliaccio. Un buffone. [...] Mi vedevo condannato a fare l'eterno tifoso della lotta armata, il simpatizzante perenne, il rivoluzionario da salotto e d'accademia segretamente frustrato... una fine grottesca. [...]  “Ma perché ti sei rovinato? [...] Brigatista lo eri già stato, in carcere con i capi anche, e se stavi tranquillo non ci saresti più tornato. [...]”. Questo, qualcuno oggi continua a ripetermelo. Bene, quello che ho fatto era già
un'anticipata risposta a un simile programma, data con la violenza e la crudeltà che erano, allora, nelle cose stesse. Sapevo, infatti, che da quel momento avrei vissuto nel rischio continuo di essere ammazzato [...]. Nessuno poteva darmi garanzie diverse: chi poteva più dire, per esempio, che i carabinieri e i poliziotti arrestavano solo? E chi si porta questo chiodo in testa, e se ne fa una ragione contro tutto e contro tutti, può diventare facilmente egoista e crudele". Clandestinità tratta della vita organizzativa delle Brigate Rosse, con particolare riferimento ai loro (difficili) rapporti con la formazione combattente milanese della Colonna Walter Alasia, nei quali Fenzi ebbe un ruolo rilevante fino alla loro rottura. Tutto questo fino all'arresto, il 4 aprile 1981.
In carcere è il capitolo in cui si tratta dell'inizio della nuova detenzione. Fenzi illustra come il clima nelle carceri della penisola italiana, in cui erano migliaia i combattenti prigionieri, fosse più che mai dominato dal sospetto reciproco e dalla dissimulazione. Le vendette, i linciaggi e le esecuzioni sommarie di delatori o di presunti tali -sono citati per esteso i casi di Giorgio Soldati e di Roberto Peci- erano divenuti frequenti, distruggendo la solidarietà tra prigionieri. "Il gruppo esisteva solo come minaccia, attraverso chi emergeva in esso per la sua capacità di uccidere e di far uccidere". Il 21 luglio 1981 anche Fenzi, assieme a Mario Moretti, fu vittima di un tentativo di omicidio da parte di un detenuto comune. Il capitolo descrive infine le circostanze in cui l'A. decise di dissociarsi e le precauzioni messe in atto per ridurre al minimo i rischi che questa scelta comportava.
L'ultimo capitolo del libro è intitolato Vent'anni dopo; Fenzi chiude citando alcune surreali vicende capitategli durante la detenzione e prendendone spunto per tornare sul tema -ricorrente in molte pagine- della storia dell'estrema sinistra nella penisola italiana e dei continui tentativi di scriverla espellendone delle formazioni combattenti, delineando in essa l'esistenza di una componente buona e quella di una componente cattiva colpevole di tutto.
L'opinione dell'A. è che questa operazione serva essenzialmente a "trovare una soluzione di comodo intorno alla quale ci possa essere un largo accordo, in nome di una rilettura parziale e consolatoria del passato". L'importanza delle formazioni armate sarebbe attestata anche dal fatto che il loro rifluire, a metà degli anni Ottanta del XX secolo, non fece riprendere vigore ad alcuna componente "buona" dell'estrema sinistra, che nei dieci anni a seguire sarebbe al contrario pressoché scomparsa. Fuori dall'estrema sinistra, il Partito Comunista avrebbe avuto occasione di ravvisare nelle formazioni armate "quel se stesso che non era, e che non voleva più essere": schierata ogni sua forza contro di esse, il PCI poté pochi anni dopo diventare "altra cosa" rispetto a ciò che era stato al prezzo modestissimo di una mozione congressuale e di qualche lacrima versata da qualche militante. Alla fine della parabola del comunismo europeo, a pagare il prezzo di tutto sarebbe stato chi, convinto di rappresentare un inizio e non un finale catartico, aveva da tempo scelto un'altra strada.

sabato 15 giugno 2013

Le elezioni presidenziali nella Repubblica Islamica dell'Iran e la geopolitica mediorientale nel giugno 2013 secondo Conflicts Forum


I sondaggi in occasione delle elezioni presidenziali in Iran (14 giugno) hanno registrare alcuni sostanziali cambiamenti nel posizionamento dei candidati di punta: Rohani capeggia la vasta coalizione che comprende Rafsanjani e i suoi alleati e nel suo complesso anche la variegata compagine dei riformisti ed ha preso l'abbrivio. Rohani ha chiaramente tratto vantaggio dal fatto che l'alleanza che lo sostiene è più coesa, e sembra che stia attingendo consensi anche da una fazione del campo dei conservatori radicali che vale il 10-20% di quel particolare elettorato. Nei sondaggi è quotato il 32% ma è probabile che potrà contare anche sugli indecisi che finiscono per recarsi a votare, e arrivare al 38%. Ghalibaf capeggia i conservatori radicali ed è il sindaco di Tehran; al contrario di Rohani ha perso posizioni e adesso è accreditato del 23% negli ultimi sondaggi. Probabilmente è stato penalizzato dal fatto di esser stato il candidato principale ed il primo a proporsi, cosa che lo ha fatto diventare il bersaglio di tutti gli altri aspiranti; in maniera anche più significativa è stato penalizzato dalla mancanza di coesione che impera nel campo dei conservatori radicali ed in quello dei conservatori. I candidati riformisti hanno urbanamente "passato la mano" e fornito a Rohani il loro appoggio; nell'altra coalizione questo non è successo, con la notevole eccezione del caso di Haddad Adel, che ha attuato il suo proposito di farsi da parte in favore di un candidato conservatore radicale più forte sin dall'inizio. I cambiamenti nelle percentuali di consenso mostrate dai sondaggi vanno interpretate come derivanti dal fatto che i candidati hanno potuto contare su un ampio e regolare accesso ai media a diffusione nazionale: sono stati diffusi ampi servizi su ciascun candidato, approntati dai rispettivi uffici di campagna elettorale, e i candidati hanno preso parte a tre dibattiti televisivi diffusi a livello nazionale e seguiti da molto pubblico. Alcuni candidati sono andati bene, mentre altri sono sembrati in difficoltà davanti alle telecamere. Il primo ed il secondo candidato affronteranno un secondo turno di consultazioni elettorali il 21 giugno. Pare che la partecipazione al voto sia salita dal 71% delle stime della scorsa settimana al 75% della settimana del voto; gli indecisi sono il 9%. Non sarebbe da sorprendersi se la partecipazione al voto arrivasse alla fine a toccare l'80%.
I sondaggi di ieri [giovedi 13 giugno 2013, n.d.t.] così figuravano:

Rohani 32%
Ghalibaf 23%
Jalili 14%
Rezaee 12%
Velayati 9%
Gharazi 1%
Indecisi 9%
Partecipazione al voto 75%

Se saranno Rohani e Ghalibaf a giocarsi la presidenza al secondo turno, quali saranno i punti in comune tra i due, e cosa distinguerà l'uno dall'altro in caso di vittoria? In termini essenziali, nei fondamenti della politica estera ci sono pochissime differenze. Entrambi i candidati sono vicini alla Guida Suprema, ed entrambi sono "centristi". Non ci saranno maneggi contro la Guida Supram: Rohani non è Moussavi, l'ex guida del Movimento Verde, e Ghalibaf non è Ahmadinejad, allora candidato dei conservatori radicali. Nessuno dei due candidati va visto come incline ad aperture all'Occidente perché nessuno dei due ha parlato in termini favorevoli dell'Occidente nel corso della campagna elettorale: nondimeno ci si deve attendere un cambio di stile in politica estera. E' verosimile che, chiunque vinca, saranno fatti sforzi per instaurare nel mondo un'atmosfera maggiormente favorevole all'Iran. E' probabile che gli esiti di questo nuovo approccio saranno più evidenti in Medio Oriente, crescere delle tensioni sulla Siria nonostante, e in Asia che non in Occidente.

Il conflitto siriano sta cambiando; in questa settimana gli eventi sul terreno si sono susseguiti in un crescendo e si è approfondita anche la spaccatura (come Conflicts Forum ha già fatto notare) che divide la regione e gli alleati di ciascuna parte in conflitto. La reazione rabbiosa, emotiva e settaria -la chiamata al jihad contro gli sciiti in tutte le sue forme emessa dallo sceicco Qaradawi, che viene considerato in misura sempre maggiore come il portavoce del Qatar, prontamente ripresa dal Mufti dell'Arabia Saudita- ha approfondito la divisione in tutto il Medio Oriente. E' come se in tutta la regione ci si debba schierare secondo lo schema del "con noi o contro di noi". Il Kuwait ha iniziato ad espellere gli sciiti, gli stati del Golfo hanno deciso sanzioni economiche contro di loro che non fanno distinzioni in base al loro coinvolgimento con gli avvenimenti in corso; il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo ha bollato Hezbollah come "gruppo terrorista" e ha cominciato ad emettere sanzioni contro le attività economiche riferibili al partito.
Avanzando su Aleppo, l'esercito siriano sta preparandosi ad un eventuale attacco mettendo in atto attorno alla città le stesse tattiche usate a Qusayr: rastrellamento dei paesi vicini e dei sobborghi, taglio delle linee di rifornimento per gli insorti che si trovano in centro. Ci sono prove del fatto che l'arroventarsi dell'atmosfera sul piano internazionale ha già equipaggiato gli insorti, in vista dei combattimenti per Aleppo e Idlib, di missili anticarro filoguidati e probabilmente anche di missili spalleggiabili antiaerei; nonostante le sparate retoriche degli Stati Uniti e dei loro alleati, Washington non ha in realtà superato alcuna "linea rossa". Dalla dichiarazione del consigliere del ministro per la sicurezza nazionale Ben Rhodes emerge con chiarezza che non vi sarà alcuna escalation qualitativa nelle armi fornite agli insorti e che nessuna no-fly zone verrà istituita: entrambe cose chieste a gran voce agli Stati Uniti dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dai paesi del Golfo. Come già notato da Conflicts Forum, la debolezza militare degli insorti non è dovuta alla scarsità di armamenti anche se è chiaro che verranno loro a mancare le munizioni quando le loro linee di rifornimento verranno interrotte. Inoltre, fornire armi all'opposizione si imbatte anche contro il limite di ciò che è bene fornire, ovvero di ciò che si può ad essa consegnare senza il rischio che venga utilizzato contro aerei civili, o contro lo stato sionista e contro l'Occidente.
La Federazione Russa si sta attivando in considerazione di un potenziale coinvolgimento nel conflitto. I russi preferirebbero chiudere i conti con gli jihadisti sunniti sulla linea del fronte rappresentata dalla Siria, piuttosto che trovarsi la guerra in casa sottoforma di una miccia a lenta combustione attraverso il Caucaso e l'Asia Centrale fino alla Russia stessa. I russi stanno proponendo i propri militari per la forza di interposizione delle Nazioni Unite nel Golan, e a quanto sembra anche discutendo della possibilità di appellarsi alla Collective Security Treaty Organization affinché si metta insieme una forza antiterrorismo di peacekeeping in grado di combattere i movimenti islamici radicali nella regione. Le relazioni tra Russia e Stati Uniti sembrano destinate a peggiorare non soltanto in considerazione delle divergenze sulla Siria, ma anche -e in modo ben più fondato- a causa del rifiuto perentorio di Obama di rimettere in discussione l'architettura della difesa missilistica degli Stati Uniti e della NATO.

La separazione che va ampliandosi mette soprattutto l'Occidente davanti ad un dilemma: assecondare la rabbiosa reazione settaria del Golfo significherebbe rischiare di farsi trascinare nella linea di frattura ad alto contenuto emotivo che va approfondendosi in Medio Oriente. Una linea di frattura, per giunta, che non costituisce affatto un taglio netto. Esiste una considerevole popolazione sciita anche negli stati del Golfo, così come ci sono molti sunniti in Iraq, in Siria e in Libano. Il Golfo oltretutto si trova ad un bivio fondamentale, con l'Emiro del Qatar che sta cercando di privare il suo potente Primo Ministro dei suoi poteri, e di assegnarli nella loro interezza ad un proprio figlio che è il suo preferito ma che è anche molto giovane, alla faccia di vari altri membri della famiglia maggiormente competenti. In Qatar si va tradizionalmente avanti a forza di estromissioni forzate più che di passaggi di consegne morbidi. Anche il re dell'Arabia Saudita pare stia facendo qualcosa di abbastanza simile in favore di un proprio figlio, e anche nel suo caso ci sono altri membri della famiglia inclini a reclamare i propri diritti alla successione. Si tratta dunque di una spaccatura frastagliata in più sensi. Dal punto di vista strategico, soprattutto, se gli stati occidentali andranno avanti nel loro sostegno a questa invelenita reazione settaria messa in atto dai paesi del Golfo, rischieranno per forza di cose di trovarsi impelagati, direttamente o meno, con elementi che aderiscono allo spirito di AlQaeda. Un atteggiamento contraddittorio che non potrà fare altro che diventare sempre più evidente e sempre più al centro di discussioni, in Europa come negli Stati Uniti. Sembra improbabile che l'Iran vorrà rispondere per le rime all'espulsione degli sciiti dai paesi del Golfo. L'Iran e Hezbollah non hanno alcun interesse a far salire la tensione sul piano settario ed hanno intravisto la prospettiva di un crollo psicologico dei sunniti in quello che la sconfitta a Qusayr -e probabilmente anche ad Aleppo- rappresenterà ai loro occhi (si veda in proposito il commento di Conflicts Forum in cui facevamo presente questa eventualità).
Resta un interrogativo sul conto dello stato sionista: il Primo Ministro ha considerato questa settimana assieme alla commissione parlamentare per gli affari esteri e la difesa la minaccia esistenziale posta allo stato sionista dal prospettato arrivo dei missili antiaerei S300 in Siria. Sempre che i missili non siano già arrivati. Secondo altre voci pare che lo stato sionista possa rimanere in disparte e stare a guardare il Medio Oriente mentre va in pezzi: tra i sionisti Alex Fishman è un esperto di difesa di primo piano, e scrive:
"Ogni giorno, tra le quattrocento e le cinquecento persone vengono uccise in paesi che confinano con il nostro... per due anni il mondo arabo è andato bruciando e consumandosi senza che nessuno intervenisse dall'esterno, e le cose potrebbero andare avanti così anche per molti anni a venire.
Perché mai, solo perché qualche infaticabile generale e un bellicoso Primo Ministro ne hanno voglia, dovremmo dar loro il pretesto per riunirsi attorno all'unica cosa che li accomuna, ovvero l'odio per lo stato sionista? Lasciamo che si suicidino in pace. Le armi in Libano sono pericolose, ma esse non rappresentano una minaccia all'esistenza dello stato sionista. Non sono la bomba iraniana."

mercoledì 12 giugno 2013

Assad sta vincendo la guerra. Qusayr, le proteste in Turchia e le elezioni presidenziali in Iran secondo Conflicts Forum


La caduta di Qusayr segna un punto di svolta dal punto di vista strategico, sia per la Siria che per l'equilibrio geostrategico della regione. A città appena caduta, acquistano evidenza gli avvenimenti immediatamente precedenti; dopo che il blocco occidentale e il Consiglio di Cooperazione nel Golfo avevano alzato la posta rispetto alla Russia, in previsione delle eventuali negoziazioni chiamate Ginevra II, la Federazione Russa e i suoi alleati avevano messo sul piatto una posta doppia, mettendo in atto una serie concertata di rilanci (cfr. il precedente commento settimanale). Quello che adesso è ancora più chiaro è che in previsione della vittoria a Qusayr ed avvertendo l'importanza di questa svolta strategica sia nell'immediato che in una prospettiva più ampia, la coalizione che riunisce russi, siriani, iraniani e Hezbollah stava inviando un inequivocabile messaggio di deterrenza all'Occidente ed in particolare allo stato sionista; qualunque tentativo di intervenire direttamente per cambiare le carte in tavola in Siria sarebbe andato incontro ad una risposta concordata ed efficace e ad un ulteriore escalation nel conflitto.

L'importanza militare di Qusayr adesso è molto chiara (si veda qui). Su un certo piano la sua conquista taglia le vie di rifornimento che vanno verso il Libano con l'eccezione dello snodo di Arsal ed irrompe in quell'antico e profondo tracciato sunnita che unisce in modo organico la città di Tripoli nel Libano settentrionale con Homs, Hama, le cittadine e i paesi che le circondano. La Siria mette così in sicurezza la regione costiera tra Tartus e Lattakia, che rappresentano le principali vie di transito per i materiali militari, i combustibili e le materie prime che vengono spedite a Damasco via mare. Su un altro piano invece, dopo i successi militari dell'esercito regolare ad est e a sud, tutto è pronto (con Damasco adesso in buone condizioni di sicurezza) per una veloce e massiccia realizzazione di nuove strae, che il governo siriano aveva già iniziato a costruire, dirette verso Aleppo e verso il nord della Siria. Queste arterie "sicure", che aggirano città e villaggi, permettono all'esercito siriano di schierarsi in modo veloce e massiccio fino alla frontiera settentrionale con la Turchia. La cosa forse ricorda la celere avanzata di Hezbollah nel 2000 che giunse a ridosso della frontiera con lo stato sionista. Si trattò di una mossa di sorpresa che semplicemente ignorò e aggirò vari concentramenti di soldati sionisti che rimasero ingannati e circondati. I sionisti non subirono attacchi; alla fine vennero instradati in corridoi sicuri, lungo i quali poterono uscire dal sud del Libano senza problemi.
Lo stato sionista è stato sicuramente più veloce di alcuni leader europei nel comprendere l'importanza di Qusayr. Il successo di Hezbollah (ottenuto tramite soldati giovani, che si erano addestrati regolarmente mese dopo mese per più di un anno) ha provato la sua capacità di portare a termine operazioni offensive in ambienti urbani difficili. Lo stato sionista è anche al corrente del fatto che a Qusayr sono state utilizzate nuove tattiche operative per la guerra in ambiente urbano. Questa prospettiva sta causando profonda inquietudine nello stato sionista, e non soltanto in considerazione della stretta vicinanza di centri urbani sionisti alla frontiera libanese; Alex Fishman, il decano dei corrispondenti di guerra sionisti, ha detto chiaramente e facendo riferimento ad un quadro più ampio che "Se al-Qusayr diventa la prima tessera del domino a cadere nel contesto della ribellione contro Bashar Assad, questo sarà presagio di una catastrofe strategica in tutta la regione; e dobbiamo ringraziarne gli Stati Uniti d'America, i difensori del mondo libero". Fishman si riferisce con chiarezza alle conseguenze di più ampia portata che questo avrebbe per l'equilibrio strategico che esiste fra alcuni stati sunniti che gli Stati Uniti stanno cercando di far diventare alleati dei sionisti e degli USA stessi (in complesso chiamati i "quattro più uno", dove l'uno fa riferimento alla Turchia che non è un paese arabo) e la "coalizione della resistenza" che unisce Siria, Iran, Iraq e Hezbollah.
Il fatto che certi politici europei non siano riusciti ad interiorizzare le possibili conseguenze di quanto succedeva sul terreno, che sta influendo sulla situazione in Siria assai più di quanto possano influirvi le piroette in cui si esibiscono gli "Amici della Siria", è stato notato da Claire Spencer della londinese Clatham House. "Quello che non si capisce è come mai gli alleati occidentali abbiano impiegato tanto tempo a capire che fino ad ora il loro gioco diplomatico non ha avuto nulla a che fare con la realtà dei fatti che stanno cercando di influenzare". Allo stesso modo Peter Osborne del Telegraph ha notato che"Il Regno Unito ha sostenuto anima e cuore i sunniti -i Sauditi, i paesi del Golfo e AlQaeda- nel loro sempre più sanguinoso ed orribile conflitto contro l'Islam sciita. Per far questo ci possono anche essere ottime ragioni, ma mi piacerebbe che il Primo Ministro ricominciasse a rapportarsi con il mondo reale, si mettesse davanti a tutti e spiegasse che cos'è davvero questa gente". Mark Leonard scrive per la Reuters e fa sue queste stesse sensazioni, suggerendo che fino ad oggi i politici occidentali hanno più volentieri parlato di un intervento militare limitato piuttosto che compiere le scelte, moralmente imbarazzanti, di cui avrebbero bisogno per arrivare ad un accordo politico.
Naturalmente qualunque cosa provochi un cambiamento strategico in Medio Oriente implica dei pericoli. Da una parte, come già fatto notare in precedenti occasioni da Conflicts Forum, questo accenderà in alcune parti del mondo sunnita risentimenti misti ad un senso di sconforto ancora maggiore, ma ci sono occasioni in cui in un conflitto l'unica alternativa praticabile rispetto al far crescere l'ostilità è quella, peggiore, dell'accettare la sconfitta strategica. Da un'altra parte, già si levano voci a Washington che sostengono che oggi come oggi l'interesse degli occidentali è semplicemente quello di tenere acceso il conflitto, cosa che costituisce un'alternativa tra tornare all'iniziale invito ad andarsene che il Presidente Obama rivolse al Presidente Assad e l'accettare un ulteriore arretramento in Medio Oriente, visto come un qualcosa che l'Occidente non potrebbe permettersi senza perdere la faccia. E' molto dubbio che Mosca aiuterà l'Europa e l'America a togliersi dal ginepraio in cui si sono cacciate, anche perché la "soluzione politica" da esse proposta è perita ad Istanbul per autocombustione.

Turchia. E' inverosimile che le recenti sommose popolari in Turchia toglieranno la poltrona al Primo Ministro. Erdogan è un combattente e può ancora contare su un sostegno sostanziale anche se lievemente indebolito. Come scrive il giornalista sionista Ben Caspit, Erdogan è vissuto fino ad oggi nella convinzione di essere un dominatore onnipotente, uno cui basta desiderarlo per incoronarsi presidente o dichiarare che il sole sorge a sud per pretendere che esso tramonti secondo i suoi desideri; invece d'ora in poi per Erdogan nulla sarà più da considerare garantito. E' chiaro che prima di abbandonarsi al suo prossimo capriccio, Erdogan dovrà pensarci su almeno due volte. Tutto quello che fino ad oggi è stato facile diventerà difficile, comprese le elezioni incombenti.
Qualunque direzione prenderanno le proteste in Turchia sono destinate a ramificarsi in tutto il mondo musulmano; se si scorrono i commenti in turco pubblicati da Conflicts Forum nel corso dell'ultima settimana, ne emerge con chiarezza il ricorrere della testardaggine e dell'ostinazione di Erdogan, ma anche il fatto che latori di opinioni di ogni orientamento lamentano concordi che gli obiettivi commerciali e di mercato sono diventati un aspetto surdimensionato della sua egemonia. Detto altrimenti, i liberali e le élite hanno protestato per la scomparsa dei loro spazi culturali in nome delle esigenze del mercato, mentre la popolazione più povera ha lamentato la distruzione dei propri spazi fisici e degli alberi in nome dei centri commerciali. La repressione poliziesca si è accompagnata all'atteggiamento protervo e in stile Maria Antonietta che Erdogan ha tenuto nei confronti delle proteste, che hanno semplicemente unito questi due distinti fronti dello scontento in una generale reazione di popolo. Ad accomunare tutti c'era la sensazione di essere stati deliberatamente messi ai margini e svuotati di ogni possibilità da una leadership smaccatamente neoliberista e prevaricatrice. 
Adesso è interessante capire in che modo questa reazione popolare influirà sui Fratelli Musulmani, su Hamas e su En-Nahda, tutte formazioni che hanno adattato in modo molto stretto la propria visione politica ed economica a quella di Erdogan, secondo modalità molto caratteristiche dell'una o dell'altra. Le proteste hanno portato l'istinto autoritario ed antipluralista dell'AKP sotto gli occhi di tutti: si veda ad esempio questo perentorio scritto di un parlamentare dell'AKP di lunghissima esperienza. Le proteste hanno anche aumentato la consapevolezza a livello internazionale della visione smaccatamente neoliberista che l'AKP avanza in materia di economia. I sunniti di oggi davvero si fanno rappresentare da una bandiera che ha i simboli dell'autoritarismo e del neoliberismo? E' questo il modello di società che intendono difendere? Quello che succede in Turchia, anche se gli eventi saranno destinati a rientrare presto nella normalità- lascerà i movimenti su elencati ad affrontare imbarazzanti interrogativi sulla loro difesa di un "modello turco" per il futuro del Medio Oriente, gettando ancora più ombre su quello che essi intendono difendere oggi.

I sondaggi sulle elezioni presidenziali in Iran. Un sondaggio appena tenutosi in Iran evidenzia le seguenti percentuali per il sostegno agli otto principali candidati alla presidenza in occasione della prima tornata di consultazioni, in programma per il 14 giugno.

Percentuale degli aventi diritto intenzionata a partecipare: 71%.
Mohammad Bagher Ghalibaf 23%
Mohsen Rezaei 14%
Hassan Rowhani 13%
Saeed Jalili 10%
Ali Akbar Velayati 8%
Mohammad Reza Aref 6%
Mohammad Gharazi 2%
Gholam Ali Haddad Adel 2%

Ghalibaf è il sindaco di Tehran ed è probabile che superi il turno; Rowhani e Aref sono in campo per i riformisti; il poco riscontro di Velayati viene attribuito alla debolezza che ha mostrato durante i dibattiti televisivi e al carente lavoro nel campo delle pubbliche relazioni. Haddad Adel è stato presidente del parlamento ed ha poche probabilità di successo perché ha messo in chiaro fin da subito che intendeva ritirarsi dalla competizione -ed in un certo senso si è già ritirato-  e la sua candidatura non è stata quindi considerata di peso. Gharazi è un indipendente.
Non si pensa che la politica estera iraniana andrà incontro a mutamenti sostanziali, chiunque venga eletto alla presidenza; ci si attende invece che la prossima presidenza sarà caratterizzata da un cambiamento nello stile, e che questa tornata elettorale serva da occasione per maggiori aperture al mondo esterno, chiunque sia il vincitore.

sabato 8 giugno 2013

Kaveh L. Afrasiabi - Repubblica Islamica dell'Iran. La questione nucleare protagonista delle elezioni presidenziali.



Elettori nella Repubblica Islamica dell'Iran (fonte: Iran Project).

Traduzione da Asia Times.

Cambridge, Massachusetts. Le elezioni presidenziali in Iran della prossima settimana possono essere considerate anche una consultazione nazionale sulla linea diplomatica del paese circa il nucleare perché gli otto candidati ammessi alla consultazione, tra i quali ci sono sia il capo negoziatore attuale che il suo predecessore, presentano orientamenti differenti ed offrono delle vere alternative.
Il più conciliante è Hassan Rowhani, un religioso che ha studiato in Inghilterra e che ha guidato i negoziati dal 2003 al 2005; è noto per il suo pragmatismo in materia, che fece sì che l'Iran accondiscendesse per quel periodo ad una sostanziale interruzione delle attività nucleari sensibili.
Rowhani ha aperto la sua campagna affermando che l'Iran come paese sovrano ha "anche altri diritti oltre a quello al nucleare"; una velata critica verso l'amministrazione in carica, che avrebbe anteposto il nucleare avanti a tutti gli altri settori di interesse nazionale. La stretta adesione alla linea dell'ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, cui il Consiglio dei Guardiani ha impedito di candidarsi nuovamente, fa sì che Rowhani sia visto come un moderato che ha promesso, in caso di successo, di evitare "retoriche rumorose" in politica estera e di normalizzare le relazioni con il resto del mondo.
Saeed Jalili è l'attuale capo dei negoziatori dell'Iran in materia di nucleare ed alcuni mass media iraniani lo considerano uno dei vincitori più probabili. Nel corso dei molti ed infruttuosi incontri plurilaterali in materia si è sempre dimostrato intransigente e non ha fatto alcun mistero della sua intenzione di "rimanere in piedi davanti all'Occidente" nel caso diventi il prossimo presidente.
Nonostante la Guida Suprema abbia esortato i candidati a non indulgere in campagne negative, era inevitabile che la questione di quale possa essere la politica nucleare adeguata per la prossima amministrazione finisse, com'era da aspettarsi, per accendere un vivace dibattito politico nell'Iran di questi giorni, con i sostenitori di Jalili che accusano Rowhani di star accordando indebite concessioni  senza il benestare della Guida. Si tratta di un'accusa fermamente respinta da Rowhani, che ha scritto un libro sulla diplomazia del nucleare in Iran e ha fatto più volte riferimento a linee guida ricevute dalla Guida Suprema in persona, l'ayatollah Khamenei.
Un altro candidato, ex ministro degli esteri e attuale consigliere per la politica estera di Khamenei, si chiama Ali Akbar Velayati e sembra collocarsi a metà tra la posizione di Rowhani e quella di Jalili. Velayati si è lamentato per le sfide senza precedenti che la politica estera sta imponendo all'Iran ed ha promesso di seguire una linea moderata nel tentativo di migliorare le relazioni con la comunità internazionale. Nel corso di una recente inervista con il sito web IRDiplomacy, Velayati ha parlato del ruolo che ha avuto nella conclusione della guerra tra Iran ed Iraq, facendo pensare che sia sua intenzione rifarsi a quanto appreso in passato per uscire dal vicolo cieco della questione nucleare che tanti danni ha causato all'economia iraniana.
Gli Stati Uniti, come per ricordare all'elettorato iraniano il caro prezzo che avrà da pagare se sceglierà un candidato fautore della linea dura, hanno imposto un'altra tranche di sanzioni che colpiscono la moneta iraniana e l'industria automobilistica, oltre a rinnovare le esenzioni sul petrolio a Cina, India e sette altri paesi e a permettere alle imprese statunitensi di esportare cellulari e computer in Iran, quest'ultimo inteso come gesto di amicizia verso il popolo iraniano, che sta soffrendo sotto il peso delle sanzioni occidentali.
A tutto questo si è aggiunta mercoledi scorso all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica di Vienna una risoluzione appoggiata dalle nazioni del 5+1 -i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germania- che si occupano dei negoziati con l'Iran. I 5+1 hanno esortato l'Iran ad ampliare la cooperazione con la IAEA lasciando entrare gli ispettori negli impianti militari di Parchin e in altri modi.
L'inviato iraniano presso la IAEA Ali Ashghar Soltanieh ha biasimato l'agenzia e l'ha accusata di diffondere la disinformazione prodotta contro l'Iran dagli Stati Uniti e dallo stato sionista (si veda l'intervista a Soltanieh, l'Iran si prepara per Mosca, pubblicata da Asia Times il 9 giugno 2012). Le accuse di Soltanieh si rifanno ad un recente resoconto della Associated Press che ha confermato il ruolo della CIA Statunitense nella comunicazione di dati distorti sul programma nucleare iraniano all'agenzia atomica delle Nazioni Unite.
Secondo un professore di scienze politiche dell'Università di Tehran, che ha accettato di parlare con lo scrivente purché gli fosse garantito l'anonimato, in Iran c'è molta preoccupazione per i provvedimenti legislativi statunitensi che intendono privare l'Iran dei proventi dal petrolio; l'esortazione di alcuni politici a prepararsi per una "economia priva di dipendenza dal petrolio" ha preso forza anche se si tratta di qualcosa di più facile a dirsi che a farsi, dato che il governo dipende pesantemente dalle entrate petrolifere per il proprio bilancio.
Così, con l'incombere della crisi per il bilancio statale, le elezioni presidenziali iraniane in programma per il 14 giugno si svolgeranno in un'atmosfera piuttosto torbida, piena di interrogativi sul futuro economico di un paese tenuto in ostaggio dalle punitive sanzioni occidentali.
"Non importa chi vince; il programma di arricchimento andrà avanti, e andranno avanti anche le sanzioni; ecco dov'è l'essenza della crisi nucleare" afferma il professore di Tehran. In effetti sono pochi gli esperti di cose politiche in Iran che ripongano qualche speranza in un mutamento di linea politica da parte statunitense, vista l'adesione del Presidente Obama alle prescrizioni sioniste in materia di "sanzioni soffocanti" contro l'Iran.
"Con undicimila centrifughe funzionanti [per l'arricchimento dell'uranio] e con il reattore ad acqua pesante di Arak prossimo al completamento, il programma nucleare iraniano è in una fase molto avanzata ed irreversibile, ma sfortunatamente i leader occidentali rifiutano di riconoscere i diritti dell'Iran", ha detto il profesore.
Che cosa può dunque ottenere un presidente dall'orientamento maggiormente improntato alla moderazione, quando c'è da difendere il diritto dell'Iran al nucleare? Si tratta di un interrogativo importante, basato sul fatto che anche l'intransigente Jalili ha mostrato nel corso dei colloqui multilaterali prove tangibili di disponibilità ad atteggiamenti in materia condiscendenti fino al compromesso, ad esempio dichiarandosi d'accordo nel sospendere l'arricchimento dell'uranio al venti per cento in cambio della fine delle sanzioni più pesanti.
Fino ad oggi gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali si sono rifiutati di prendere in seria considerazione un'alleviamento delle sanzioni in cambio dell'offerta iraniana di porre un limite alle attività di arricchimento dell'uranio e di aumentare la trasparenza sul nucleare. Il risultato è che i colloqui sono "entrati in un circolo vizioso", per dirla con le parole usate dal capo della IAEA Yukiya Amano nel corso dell'incontro di questa settimana con i consiglieri dell'organizzazione. Amano non ha tuttavia ricordato che l'atteggiamento rigido ed inflessibile dell'Occidente nei confronti dell'Iran ha anch'esso le sue colpe se le trattative sono arrivate a un punto morto.
"Se Jalili diventerà presidente è possibile che riesca ad adoperarsi con maggior efficacia per arrivare ad un accordo con l'Occidente, in considerazione delle sue credenziali e della sua lealtà verso la Guida Suprema, cui spetta l'ultima parola sulla questione nucleare", ha riferito il professore. "A Jalili servirà unire la flessibilità sul nucleare ad un atteggiamento intransigente nei confronti delle questioni regionali, perché l'altra parte in causa abbia chiaro il prezzo che dovrà pagare per continuare a danneggiare l'Iran con la scusa della crisi nucleare".
Nella prospettiva di dover "affrontare una battaglia epica" con l'Occidente sul tema del nucleare, gli elettori iraniani cui vengono adesso offerti dei punti di vista alternativi potrebbero benissimo scegliere il più militante Jalili, come incarnazione della resistenza nazionale.

Il dottor Kaveh L Afrasiabi ha scritto After Khomeini: New Directions in Iran's Foreign Policy (Westview Press). Qui ulteriori dettagli biografici. Afrasiabi è anche autore di Reading In Iran Foreign Policy After September 11 (BookSurge Publishing, 23 ottobre 2008) e Looking for Rights at Harvard. Il suo ultimo lavoro è UN Management Reform: Selected Articles and Interviews on United Nations, CreateSpace (12 novembre 2011).