Armi e bagagli, un diario dalle Brigate Rosse
di Enrico Fenzi è un libro che esula dagli argomenti abitualmente trattati in questa sede.
Ne abbiamo preparato la recensione con le stesse intenzioni con cui recensimmo il Dossier foibe
di Giacomo Scotti, vale a dire per mostrare un minimo di attivismo nel contrastare, confutare e ridicolizzare qualche "occidentalista" da gazzetta.
La politica "occidentalista" nel giugno 2013 è, a Firenze come altrove, in condizioni che ci auguriamo preagoniche; un'occasione come un'altra per prendere a sprangate il cane che affoga e profondere un minimo di impegno per rendere controproducenti le iniziative dell'occidentalame, fidando anche sulla buona memoria dei motori di ricerca.
Del Dossier foibe
e del suo autore nulla sapevamo fin quando Achille Totaro (che è grasso e di Scandicci) ebbe a dirne male nel corso di un'operazione propagandistica. Solo per questo fu per noi un vero piacere procurarci immediatamente una copia del libro e lo stesso, sappiamo da fonte certa, è stato fatto da altri lettori di questo blog.
Di Armi e bagagli
abbiamo cominciato ad interessarci un paio di mesi fa;
un ben vestito di nome Valerio Vagnoli era dell'opinione che Enrico Fenzi, in quanto ex combattente in una formazione armata irregolare, non avesse diritto di parola in materia di letteratura medievale. L'intera vicenda è riassunta dallo scritto in link; qui basterà ricordare che i capricci di Valerio Vagnoli sono serviti soltanto a spostare di un giorno la data della conferenza fiorentina cui Fenzi ha preso parte ed in cui ha presentato una trattazione su quelli che sono i suoi campi di studio da una vita, per nulla interessando l'uditorio con dissertazioni sulla gittata utile dei fucili d'assalto contemporanei o consigli su come si redige un volantino di rivendicazione.
Detto altrimenti, Vagnoli non è riuscito ad impedire a Fenzi di parlare, ma è piccinamente riuscito ad intralciare e complicare il lavoro altrui.
La recensione, naturalmente, è dedicata agli studenti di Valerio Vagnoli; quanti tra essi volessero approfondire possono fare quello che abbiamo fatto noi, e andare a cercare il libro presso la biblioteca comunale di Bagno a Ripoli.
La memorialistica dei combattenti, irregolari o meno, è un filone letterario che ha riempito e continua a riempire biblioteche intere con opere aneddotiche ed autobiografiche per loro natura poco utili ad una ricostruzione imparziale della storia; la storia scritta dai vincitori e la pratica politica che ne consegue si interessano comunque moltissimo a questo tipo di produzioni, con intenti sistematicamente denigratori: anche a distanza di decenni dai fatti l'obiettivo è più che mai quello di negare l'esistenza stessa dell'avversario e di pretenderne letteralmente la cancellazione.
I combattenti irregolari che hanno operato nella penisola italiana nel corso della seconda metà del XX secolo hanno dato al genere un contributo molto vario, cui è dovere preciso interessarsi per chiunque tenga la "libera informazione", le gazzette e i "valori" che esse propagandano nella considerazione che meritano.
Armi e bagagli non ha alcuna pretesa di testo specialistico ed è fitto di aneddoti, di considerazioni personali, di debolezze uimanissime, risultando così accessibile anche a chi non possiede alcuna nozione dell'argomento trattato; nella prefazione, Emanuele Trevi lo paragona alle memorie del cardinal de Retz, in cui uno dei protagonisti della fronda nel Regno di Francia del XVII secolo non rivela alcunché di inedito o di ignoto, ma compie una specie di trattazione completa sull'antropologia dell'intrigo e del tradimento politico.
Dopo le prime pagine che descrivono il viaggio in treno di un Enrico Fenzi armato e circospetto -la vita quotidiana del combattente irregolare viene descritta in tutto il volume con i suoi usi, le sue cautele, le sue precauzioni più o meno efficaci- il testo si immerge prima in un primo flashback nella Genova degli anni Settanta descrivendo i primi contatti dell'A. con le Brigate Rosse, avvenuti tramite l'amico Gianfranco Faina, definito da Fenzi un rivoluzionario genovese , e poi in un altro nella Milano del 1981, l'epoca degli arresti, delle dissociazioni e delle eliminazioni di delatori e traditori veri o presunti.
La descrizione accurata di questo scenario è occasione per alcune riflessioni sul perché dell'adesione alle Brigate Rosse: di tutti i motivi che possono portare qualcuno ad unirsi ad una formazione combattente irregolare -nessuno di questi perché gli è mai stato posto da un amico, nota Fenzi- l'A. indica il principale nell'attrazione che un'esperienza di vita concreta può esercitare su un altro percorso esistenziale; se poi è certa l'esistenza di cause ed effetti, assai meno certa è l'esistenza di rapporti lineari tra di essi soprattutto in considerazione del fatto che in determinate circostanze il proprio passato può essere ricostruito a posteriori in base alle esperienze compiute, fornendo in questo modo un significato a queste ultime e compiendo attribuzioni causali che si ritenevano impensabili.
Il racconto torna al 1976: l'A. narra dell'uccisione di Francesco Coco avvenuta l'otto giugno di quell'anno a poche decine di metri dalla facoltà universitaria in cui lavorava e del genere di considerazioni che essa suscitò presso il pubblico in generale e presso gli attivisti politici genovesi. Secondo Fenzi l'azione delle Brigate Rosse non suscitò universale sdegno in un contesto sociale già segnato dalle molte vittime, soprattutto tra quanti iniziavano a prendere le distanze da un'estrema sinistra percepita come fatua. La descrizione della prima azione vera e propria -una distribuzione di volantini- cui l'A. è stato destinato dopo una serie di prese di contatto occupa le pagine successive.
Fenzi descrive poi i sostanziali mutamenti della sua militanza avvenuti con l'autunno del 1977, in mezzo ad un periodo in cui l'industria pesante genovese stava attraversando cambiamenti tanto epocali quanto temuti nella produzione e nell'organizzazione del lavoro. I rapporti dell'A. con i brigatisti Luca Nicolotti e Rocco Micaletto sono occasione per una digressione sul tema della clandestinità, la condizione di interruzione di ogni rapporto con le istituzioni e di molta parte dei rapporti sociali esterni all'organizzazione di appartenenza che caratterizzava all'epoca un numero crescente di combattenti; sono anche occasione per tornare sul perché di una scelta radicale. Agli occhi di Enrico Fenzi persone come queste, in clandestinità note come Valentino e Lucio "non erano simboli, non erano modelli, ma persone reali [...] e segnate dal destino che si erano scelto: un destino orribile, pieno di colpe –questo l'ho avvertito, sempre – ma un destino scritto con lettere di fuoco nella storia della loro classe. Chi ero io, per distinguere l'idealista dal criminale, l'innocente dal violento, il bene dal male, e per scegliere il meglio, e dunque per non scegliere, per ritirarmi, per lasciarli soli?".
Nel novembre del 1977 Enrico Fenzi prese parte all'azione con cui fu ferito alle gambe un dirigente della Ansaldo; in Armi e bagagli la vicenda è narrata a partire dai suoi esiti, dalla sua natura di passo definitivo e corruttore seguito da una diluizione di ogni contatto con gli altri combattenti che in capo a qualche mese, nonostante la colonna genovese delle Brigate Rosse fosse più che mai attiva, riportò l'A ad una vita sociale e lavorativa pressoché normale. Soltanto nel giugno dell'anno seguente Enrico Fenzi sarebbe stato contattato nuovamente: non da combattenti, ma dall'avvocato Edoardo Arnaldi. Francesco Berardi, un caposquadra della Italsider messo ai margini del processo produttivo per una serie di problemi di salute, intendeva entrare nell'organizzazione. Nelle pagine che seguono, ricche di excursus sul tessuto sociale e il retroterra della classe operaia genovese, Enrico Fenzi illustra alcuni aspetti del rapporto di Berardi con lui e con l'organizzazione armata; in pochi mesi sarà proprio l'attivismo ingenuo di Berardi a portare al suo arresto. Al processo di Francesco Berardi, alla fine di ottobre 1978, si presenta a testimoniare "un operaio dell'Italsider da solo. Guido Rossa".
Guido Rossa venne ucciso il 24 gennaio 1979. Un Enrico Fenzi sotto sorveglianza da mesi -verrà arrestato quattro mesi dopo- descrive così le manifestazioni di solidarietà con Rossa: "...la rabbia era tutta contro le Brigate Rosse, ed era doppia, era per quello che avevano fatto e per quello che non avevano fatto. Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per molti di quegli operai, un sogno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell'idea rivoluzionaria, si era spenta". Nell'ottobre dello stesso anno Fenzi incontra nuovamente Berardi nel carcere di Cuneo, in un contesto in cui le vendette e le lotte intestine hanno già un ruolo importante, e di Berardi descrive la prostrazione ed il suicidio.
Nei capitoli successivi Fenzi tratta, con molti particolari aneddotici, del suo trasferimento nel carcere di Palmi e delle vicende che vi si svolsero. Il carcere appena costruito raccolse per qualche tempo molti combattenti irregolari appartenenti a diverse formazioni. Particolare attenzione in Armi e bagagli viene dedicata alle vicende di Toni Negri, violentemente impopolare tra i prigionieri soprattutto per la sua condotta difensiva, destinata a diventare operazione politica. "Una difesa che tagliava di netto tra movimento e lotta armata [...] e condannava dunque quest'ultima, almeno nelle intenzioni, al limbo di un'esistenza marginale ch'era meglio dimenticare al più presto, o tutt'al più regalarla al settore “dietrologia e complotti”. L'innocenza degli uni doveva essere pagata sottobanco con i secoli di galera tacitamente inflitti agli altri. La storia vera degli anni passati, insomma, sarebbe stata quella scritta da chi si proclamava estraneo a tutto quello che era successo. Il che spiega sin troppo bene perché quelle forze della sinistra che si facevano portatrici di questa bizzarra operazione chirurgica che risecava in due la realtà e la rovesciava, non abbiano mai né voluto né potuto contribuire seriamente alla ricostruzione e all'analisi degli “anni di piombo”: e infatti come avrebbero potuto farlo, se a protagonisti degli anni di piombo venivano promossi solo quelli che con il piombo garantivano di non aver avuto niente a che fare?". Nelle stesse pagine, Fenzi compie anche digressioni sulla vita carceraria e sui rapporti interni alle Brigate Rosse, segnati dal discrimine ineludibile della detenzione e dalle sue ripercussioni sull'organizzazione nel suo insieme.
Il volume prosegue con il resoconto del ritorno a Genova e delle vicende della primavera del 1980. Tra tutte, le vicende del primo processo e la morte di Edoardo Arnaldi, suicida al momento dell'arresto dovuto alla delazione di Patrizio Peci. Il corteo funebre, affollatissimo, passò sotto il carcere in cui Fenzi era detenuto. "Quella era una sinistra che non tolleravo, alla quale avrei persino voluto far del male, comprometterla, inguaiarla... La sinistra funeraria, che sta ben riparata [...] e sbuca fuori quand'è ben certa che chi le creava imbarazzi è morto, e riesce a fare le sue battaglie solo quando si tratta di dimostrare che non ha fatto qualcosa. Per anni, dopo, ho ancora visto spuntare le sue testoline furbe, che si guardavano attorno, che non ci fosse nulla in vista, e gonfiavano la voce e borbottavano...".
L'inizio del capitolo Clandestinità riporta agli avvenimenti dell'estate del 1980, successivi all'assoluzione con formula piena del 2 giugno con cui l'A. era tornato libero trovandosi pressoché isolato nell'ambiente genovese segnato dalla strage di via Fracchia: il 28 marzo quattro combattenti erano stati uccisi dalla gendarmeria che aveva fatto irruzione in un appartamento, anch'esso identificato grazie a Patrizio Peci. Proseguire la lotta armata fu per Fenzi l'unico comportamento coerente che fosse dignitoso tenere davanti alla marea montante dei lutti, e dopo le esperienze fatte in carcere. "Se mi fossi ritirato allora, a quel punto della parabola, impastato com'ero di tutto quello che ero stato per me e per gli altri, mi sarei sentito un pagliaccio. Un buffone. [...] Mi vedevo condannato a fare l'eterno tifoso della lotta armata, il simpatizzante perenne, il rivoluzionario da salotto e d'accademia segretamente frustrato... una fine grottesca. [...] “Ma perché ti sei rovinato? [...] Brigatista lo eri già stato, in carcere con i capi anche, e se stavi tranquillo non ci saresti più tornato. [...]”. Questo, qualcuno oggi continua a ripetermelo. Bene, quello che ho fatto era già
un'anticipata risposta a un simile programma, data con la violenza e la crudeltà che erano, allora, nelle cose stesse. Sapevo, infatti, che da quel momento avrei vissuto nel rischio continuo di essere ammazzato [...]. Nessuno poteva darmi garanzie diverse: chi poteva più dire, per esempio, che i carabinieri e i poliziotti arrestavano solo? E chi si porta questo chiodo in testa, e se ne fa una ragione contro tutto e contro tutti, può diventare facilmente egoista e crudele". Clandestinità tratta della vita organizzativa delle Brigate Rosse, con particolare riferimento ai loro (difficili) rapporti con la formazione combattente milanese della Colonna Walter Alasia, nei quali Fenzi ebbe un ruolo rilevante fino alla loro rottura. Tutto questo fino all'arresto, il 4 aprile 1981.
In carcere è il capitolo in cui si tratta dell'inizio della nuova detenzione. Fenzi illustra come il clima nelle carceri della penisola italiana, in cui erano migliaia i combattenti prigionieri, fosse più che mai dominato dal sospetto reciproco e dalla dissimulazione. Le vendette, i linciaggi e le esecuzioni sommarie di delatori o di presunti tali -sono citati per esteso i casi di Giorgio Soldati e di Roberto Peci- erano divenuti frequenti, distruggendo la solidarietà tra prigionieri. "Il gruppo esisteva solo come minaccia, attraverso chi emergeva in esso per la sua capacità di uccidere e di far uccidere". Il 21 luglio 1981 anche Fenzi, assieme a Mario Moretti, fu vittima di un tentativo di omicidio da parte di un detenuto comune. Il capitolo descrive infine le circostanze in cui l'A. decise di dissociarsi e le precauzioni messe in atto per ridurre al minimo i rischi che questa scelta comportava.
L'ultimo capitolo del libro è intitolato Vent'anni dopo; Fenzi chiude citando alcune surreali vicende capitategli durante la detenzione e prendendone spunto per tornare sul tema -ricorrente in molte pagine- della storia dell'estrema sinistra nella penisola italiana e dei continui tentativi di scriverla espellendone delle formazioni combattenti, delineando in essa l'esistenza di una componente buona e quella di una componente cattiva colpevole di tutto.
L'opinione dell'A. è che questa operazione serva essenzialmente a "trovare una soluzione di comodo intorno alla quale ci possa essere un largo accordo, in nome di una rilettura parziale e consolatoria del passato". L'importanza delle formazioni armate sarebbe attestata anche dal fatto che il loro rifluire, a metà degli anni Ottanta del XX secolo, non fece riprendere vigore ad alcuna componente "buona" dell'estrema sinistra, che nei dieci anni a seguire sarebbe al contrario pressoché scomparsa. Fuori dall'estrema sinistra, il Partito Comunista avrebbe avuto occasione di ravvisare nelle formazioni armate "quel se stesso che non era, e che non voleva più essere": schierata ogni sua forza contro di esse, il PCI poté pochi anni dopo diventare "altra cosa" rispetto a ciò che era stato al prezzo modestissimo di una mozione congressuale e di qualche lacrima versata da qualche militante. Alla fine della parabola del comunismo europeo, a pagare il prezzo di tutto sarebbe stato chi, convinto di rappresentare un inizio e non un finale catartico, aveva da tempo scelto un'altra strada.