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02 gennaio 2025

Alastair Crooke - Siria: l'arroganza imperiale e le sue conseguenze



Traduzione da Strategic Culture, 1 gennaio 2025.


In Siria il presidente Assad è caduto e i tecnocrati salafiti hanno preso il potere.
Solo che la situazione non è così semplice.
A un certo livello il crollo era prevedibile. È noto che da alcuni anni Assad era sotto l'influenza egiziana e dagli Emirati Arabi Uniti, che facevano pressione perché rompesse con l'Iran e la Russia e passasse all'Occidente. Per tre o quattro anni Assad ha preso atto della situazione e si è gradatamente mosso in questo senso. L'Iran in particolare si è trovato a dover affrontare ostacoli sempre più consistenti riguardo ai contesti operativi in cui collaborava con le forze siriane. Il mutato atteggiamento di Assad per gli iraniani era un messaggio chiaro.
La situazione finanziaria della Siria era catastrofica. Dopo anni di sanzioni imposte dai Cesari degli USA, cui si è aggiunta la perdita di tutti i proventi dall'agricoltura e dalle fonti energetiche che gli USA hanno sequestrato nel nord est del Paese da loro occupato, l'economia siriana era semplicemente inesistente.
Senza dubbio, quella di avvicinarsi allo stato sionista e a Washington è stata presentata ad Assad come l'unica soluzione pratica al suo dilemma. Con tono di implorazione, gli è stato fatto capire che la "normalizzazione" avrebbe potuto portare all'abolizione delle sanzioni. Secondo gli ambienti a lui vicini Assad, fino all'ultimo minuto prima della "invasione" da parte dello HTS, era apparso convinto del fatto che gli Stati arabi vicini a Washington avrebbero preferito che fosse lui a rimanere alla guida del Paese piuttosto che vedere la Siria cadere preda dei fanatici salafiti.
Per essere chiari, Mosca e Tehran avevano avvertito Assad che il suo esercito (nel suo complesso) era troppo fragile, troppo sottopagato, troppo infiltrato e troppo corrotto dai servizi segreti stranieri, perché ci si potesse aspettare che difendesse efficacemente la Repubblica Araba di Siria. Assad è stato anche ripetutamente avvertito della minaccia rappresentata dagli jihadisti di Idlib che stavano preparandosi a conquistare Aleppo. Il Presidente non solo ha ignorato gli avvertimenti, ma li ha confutati.
Non una ma due volte gli è stato offerto l'aiuto di ragguardevoli contingenti esteri. Anche negli ultimi giorni del suo governo, intanto che le milizie di Jolani avanzavano. E Assad ha rifiutato. "Siamo forti", ha detto a un interlocutore in occasione della prima offerta. "Il mio esercito sta fuggendo", ha dovuto ammettere nella seconda.
Assad non è stato abbandonato dai suoi alleati. Solo che era ormai troppo tardi. Aveva fatto un salto mortale di troppo. Due dei principali attori (Russia e Iran) sono dovuti rimanere inerti e non potevano passare all'azione senza il suo consenso.
Un conoscente siriano della famiglia Assad che aveva parlato a lungo con il Presidente poco prima dell'invasione di Aleppo lo aveva trovato sorprendentemente saldo e sicuro di sé; si era detto sicuro del fatto che i duemilacinquecento uomini di stanza ad Alepppo fossero abbastanza per affrontare le minacce di Jolani, e aveva fatto cenno al fatto che anche il presidente egiziano al Sissi sarebbe stato pronto a intervenire con aiuti per la Siria. L'Egitto temeva ovviamente che gli islamisti dei Fratelli Musulmani prendessero il potere, in quello che era uno Stato laico baathista.
Ibrahim Al-Amine, redattore di Al-Akhbar, ha riportato sensazioni simili su Assad:
Assad sembrava essere diventato più fiducioso sul fatto che Abu Dhabi fosse in grado di risolvere i sui problemi con gli statunitensi e con alcuni Paesi europei, e aveva sentito molte volte fare cenno a miglioramenti economici se avesse adottato una strategia che avesse come obiettivo l'uscita dall'alleanza con le forze della Resistenza. Uno dei collaboratori di Assad, che è rimasto con lui fino alle ultime ore prima che lasciasse Damasco, dice che Assad sperava sempre che accadesse qualcosa di grosso che fermasse l'attacco delle fazioni armate. Credeva che "la comunità araba e la comunità internazionale" avrebbero preferito che lui rimanesse al potere, piuttosto che gli islamisti prendessero in mano il governo della Siria.
Tuttavia, anche mentre le forze di Jolani percorrevano l'autostrada M5 dirette a Damasco la famiglia Assad in generale e i vertici dell'esecutivo non stavano facendo alcuno sforzo per prepararsi a partire o per avvertire gli amici più stretti di pensare a un'eventualità del genere, ha riferito l'interlocutore. Anche mentre Assad si dirigeva a Hmeimin per dirigersi poi a Mosca non è stato inviato agli amici alcun consiglio di espatriare.
Questi ultimi hanno affermato di non sapere, dopo la silenziosa partenza di Assad verso Mosca, chi esattamente abbia ordinato -e quando- all'esercito siriano di ritirarsi e di prepararsi alla transizione.
Assad ha compiuto una breve visita a Mosca il 28 novembre, il giorno successivo agli attacchi dello HTS nella provincia di Aleppo e all'inizio della sua rapida avanzata verso sud (nonché giorno successivo al cessate il fuoco in Libano). Le autorità russe non hanno detto nulla sugli incontri avuti da Assad a Mosca e la sua famiglia ha dichiarato che il Presidente è tornato dalla Russia mantenendo il massimo riserbo.
Successivamente, Assad è partito definitivamente per Mosca (il 7 dicembre, dopo aver fatto compiere svariati voli verso Dubai a un aereo privato, oppure l'8 dicembre). Anche in questo caso non ha detto a quasi nessuno dei suoi parenti più stretti che stava andandosene definitivamente.
Cosa ha spinto Assad a comportamenti così poco in linea con la sua condotta abituale? Nessuno lo sa, ma i membri della famiglia hanno ipotizzato che Bashar Al-Assad sia rimasto emotivamente sconvolto dalla grave malattia della moglie Asma, a cui è molto legato.
In tutta franchezza, mentre i tre attori principali avevano ben chiara la piega che gli eventi stavano prendendo (la fragilità dello Stato non era una sorpresa), l'ostinazione con cui Assad ha negato l'evidenza e la conseguente rapidità dell'epilogo militare sono state una sorpresa. Una sorpresa che è diventata un disastro imprevisto.
Cosa è stato a scatenare gli eventi? Erdogan ha chiesto per diversi anni ad Assad di aprire innanzitutto trattative con la "legittima opposizione siriana", in secondo luogo di riscrivere la Costituzione e infine di incontrarsi faccia a faccia, cosa che Assad si è sempre rifiutato di fare. Tutte e tre le potenze in gioco hanno fatto pressione su Assad affinché negoziasse con la "opposizione", ma Assad non ha voluto e non ha voluto incontrare Erdogan, tantopiù che i due si detestano. Uno stato di cose che ha causato molta frustrazione.
Erdogan adesso ha senz'altro messo le mani sulla ex Siria. Il sentimento irredentista ottomano è alle stelle, e sitibondo di revanscismo turco. Altri -gli abitanti delle città più laiche della Turchia- accolgono invece con meno entusiasmo questa esibizione del nazionalismo religioso turco.
Erdogan, tuttavia, potrebbe già trovarsi -o trovarcisi di qui a non molto- a rimpiangere l'acquisto. Sì, la Turchia in Siria è il nuovo padrone di casa. Solo che questo implica il fatto che è lui Erdogan, adesso, il responsabile morale di ciò che accadrà. Che lo HTS abbia combattuto per procura al posto dei turchi non è un mistero per nessuno. Le minoranze vengono colpite a morte, sta aumentando la frequenza di certe brutali esecuzioni settarie e lo stesso settarismo sta diventando più estremo. La ripartenza dell'economia non si vede, non esistono entrate per o Stato e non esiste materia prima per le raffinerie di carburanti perché il greggio in precedenza arrivava dall'Iran.
La pensata di Erdogan, quella di una AlQaeda col nome cambiato e con una riverniciatura filooccidentale, ha sempre rischiato di rivelarsi inconsistente come le uccisioni settarie stanno crudelmente dimostrando. Riuscirà Jolani a imporre la sua AlQaeda in giacca e cravatta ai suoi seguaci eterodossi? Abu Ali al-Anbari, che verso il 2012-2013 era il principale assistente di al-Baghdadi, ha dato di Jolani questo sprezzante giudizio:
È un individuo egoriferito e di una doppiezza astuta. Non si preoccupa dei suoi soldati, è disposto a sacrificare il loro sangue per farsi un nome nei media; gli brillano gli occhi quando si sente nominare sui canali satellitari.
In ogni caso, un risultato indubbio è che la manovra di Erdogan ha riacceso il settarismo sunnita, un tempo (e per lo più) quiescente, oltre che l'imperialismo ottomano. Le conseguenze saranno molteplici e si ripercuoteranno in tutta la regione. L'Egitto è già in ansia, così come il re Abdullah in Giordania.
Nello stato sionista in molti hanno accolto la fine della Repubblica Araba di Siria come una vittoria, dal momento che la linea di rifornimento dell'Asse della Resistenza è stata troncata proprio al centro. Il capo della sicurezza dello stato sionista Ronan Bar è stato probabilmente informato da Ibrahim Kalin, capo dell'intelligence turca, in occasione di un incontro a Istanbul il 19 novembre della prevista invasione da Idlib in tempo perché lo stato sionista potesse istituire il cessate il fuoco in Libano e ostacolare il passaggio delle forze di Hezbollah in Siria. Lo stato sionista ha immediatamente bombardato tutti i valichi di frontiera tra Libano e Siria.
Tuttavia, nello stato sionista potrebbero trovarsi a constatare che il riaccendersi dello zelo salafita non è loro amico e che in ultima analisi non andrà nemmeno a loro vantaggio.
Il 17 gennaio 2025 l'Iran firmerà con la Russia il tanto atteso accordo in materia di difesa.
La Russia si concentrerà sulla guerra in Ucraina e si terrà lontana dal pantano mediorientale. Si focalizzerà sulla lenta ristrutturazione globale in atto e sul tentativo di far sì che Trump, a tempo debito, riconosca gli interessi di sicurezza dello Heartland asiatico e dei BRICS e si arrivi a concordare una qualche frontiera della sfera di sicurezza del Rimland (atlantista), in modo da accordarsi su come collaborare sulle questioni di stabilità strategica globale e di sicurezza europea.

28 dicembre 2024

Alastair Crooke - Coloro che assegnano le corone tolgono di nuovo il velo dalla Siria. E inizia una tragedia greca

Traduzione da Strategic Culture, 23 dicembre 2024.

James Jeffrey, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq e in Turchia, in una intervista del marzo 2021 col canale televisivo pubblico statunitense Frontline, ha descritto con molta chiarezza le linee di quanto è successo in Siria in questo dicembre 2024.
La Siria, date le sue dimensioni, la sua posizione strategica, la sua importanza storica, è fondamentale per capire se [può esistere] nella regione un sistema di sicurezza gestito dagli statunitensi... E quindi esiste questa ampia alleanza, legata con noi a doppio filo. Ma. .. in Siria i motivi di tensione hanno ripercussioni di vastissima portata.
Jeffrey ha spiegato -in questa intervista del 2021- perché gli Stati Uniti si sono messi a sostenere Jolani e lo Hayat Tahrir al-Sham (HTS):
Abbiamo ottenuto da Mike Pompeo una deroga che ci consentisse di fornire aiuti allo HTS; io stesso ho ricevuto e inviato messaggi allo HTS. I messaggi con cui lo HTS rispondeva erano del tipo "Noi [HTS] vogliamo essere vostri amici. Non siamo terroristi. Stiamo solo combattendo contro Assad".
L' intervistatore di Frontline chiede: Gli Stati Uniti stavano "sostenendo indirettamente l'opposizione armata"? Al che Jeffrey risponde:
Per noi era importante che lo HTS non si disgregasse... la nostra politica era... di lasciarlo in pace... E in effetti non lo abbiamo mai preso di mira e non abbiamo mai alzato la voce con i turchi riguardo alle loro brighe con lo HTS. In effetti, ho proprio citato questo esempio l'ultima volta che ho parlato con personalità turche di alto livello quando hanno iniziato a lamentarsi dei rapporti che noi [gli Stati Uniti] abbiamo con le SDF [in Siria orientale].
Ho detto loro: "Sentite, la Turchia ha sempre sostenuto che volete che restiamo nel nord-est della Siria, e ancora lo sostiene. Ma voi non capite. Non possiamo essere nel nord-est della Siria senza una base sicura, perché lì i nostri soldati sono solo poche centinaia... è come per voi a Idlib," ho detto. "Noi vogliamo che rimaniate a Idlib, ma non potete restarci senza una base sicura. E questa base sicura è in gran parte costituita dallo HTS. Ora, a differenza delle SDF, lo HTS è un'organizzazione terroristica ufficialmente definita come tale dalle Nazioni Unite. Ci siamo mai lamentati con voi, io o qualche altro funzionario statunitense, di quello che state facendo con lo HTS? Non mi pare...".
David Miller, un accademico britannico, ha notato che nel 2015 l'eminente studioso musulmano sunnita siriano Shaykh al-Yaqoubi (che è contro Assad), non si fidava degli sforzi di Jolani per ribattezzare AlQaeda come Jabhat an Nusra. Jolani, nell'intervista rilasciata ad Al Jazeera nel 2013, aveva ribadito per due volte la sua fedeltà ad AlQaeda affermando di aver ricevuto ordini dal suo capo, il dottor Ayman [al-Zawahiri]... ordini che imponevano di non prendere di mira l'Occidente. Confermò il suo atteggiamento, che era improntato a una inflessibile intolleranza nei confronti di coloro che praticano un Islam "eretico".
Miller commenta:
Mentre lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante si mette il vestito buono, permette che la Siria venga fatta a pezzi dagli Stati Uniti, predica la pace con lo stato sionista, vuole il libero mercato e fa accordi sul gas con i suoi protettori regionali, i suoi "veri credenti"... nella diaspora identitaria sunnita non si sono ancora accorti di essere stati venduti come era nei piani.
Quando non li vede nessuno, quelli che nei paesi della NATO hanno messo in piedi questa guerra si prendono gioco di questa giovane carne da cannone salafita che da tutto il mondo si va a cacciare nel tritacarne. Gli stipendi da duemila dollari sono bruscolini rispetto alle ricchezze in termini di opere edilizie e di gas che dovrebbero tornare nelle casse di Turchia, Qatar, stato sionista e Stati Uniti. Hanno ucciso la Palestina per questo, e passeranno i prossimi trent'anni a giustificarsi sulla base di qualsiasi linea di condotta che le costosissime società di pubbliche relazioni ingaggiate dalla NATO e dagli Stati del Golfo gli propineranno... L'operazione di rovesciamento del governo in Siria è stata il colpo gobbo del secolo.
Naturalmente, James Jeffrey non ha raccontato propriamente qualche cosa di inedito. Tra il 1979 e il 1992 la CIA ha speso miliardi di dollari per finanziare, armare e addestrare le milizie dei mujahiddin afghani -come Osama bin Laden- nel tentativo di dissanguare l'URSS trascinandola in un pantano. Ed è dai ranghi dei mujahiddin che è emersa AlQaeda.
"Eppure negli anni 2010 gli Stati Uniti, nonostante fossero a quanto pareva in guerra con AlQaeda in Iraq e in Afghanistan, stavano segretamente collaborando con essa in Siria per rovesciare Assad. La CIA spendeva circa un miliardo di dollari all'anno per addestrare e armare un'ampia rete di gruppi ribelli a questo scopo. Come scriveva Jake Sullivan al Segretario di Stato Hillary Clinton in una email il cui contenuto è stato rivelato nel 2012, “AQ [al-Qaeda] in Siria è dalla nostra parte", osserva Alan Macleod su Consortium News.
I resoconti della stampa turca confermano ampiamente che lo scenario ritratto da Jeffrey corrisponde al piano messo in atto oggi: Ömer Önhon, una lunga carriera come ambasciatore e vice-segretario responsabile per il Medio Oriente e l'Asia presso il Ministero degli Affari Esteri turco, scrive che
l'operazione per rovesciare il governo di Assad in Siria è stata meticolosamente pianificata per oltre un anno, con il coinvolgimento coordinato di Turchia, Stati Uniti e diversi altri Paesi. Attraverso varie dichiarazioni è emerso chiaramente che la cacciata di Assad è stata il risultato di un'intricata rete di accordi tra quasi tutte le parti interessate. Sebbene lo HTS stia lavorando attivamente per rendersi presentabile, che sia diventato presentabile sul serio è una cosa ancora tutta da dimostrare.
La vicenda dello HTS ha un precedente. Nell'estate successiva alla guerra (persa) dello stato sionista contro Hezbollah nel 2006, Dick Cheney si sedette nel suo ufficio lamentando ad alta voce il fatto che Hezbollah fosse ancora forte e, cosa ancora peggiore, che gli sembrava che l'Iran fosse stato il principale beneficiario della guerra in Iraq condotta dagli Stati Uniti del 2003.
L'ospite di Cheney -l'allora capo dei servizi sauditi principe Bandar- concordò vigorosamente (come riferito da John Hannah, che era presente all'incontro) e, nella sorpresa generale, affermò che l'Iran poteva ancora essere ridimensionato: la Siria era l'anello debole, e si poteva romperlo ricorrendo a un'insurrezione islamista. Lo scetticismo iniziale di Cheney si trasformò in euforia quando Bandar disse che il coinvolgimento degli Stati Uniti avrebbe potuto rivelarsi non necessario. Lui -Bandar- avrebbe messo in piedi e diretto l'operazione: "Lasciate fare a me", disse. Bandar disse poi a tu per tu con John Hannah: "Il Re sa che -a parte il crollo della Repubblica Islamica stessa- nulla indebolirebbe l'Iran più della perdita della Siria".
Bene... quel primo sforzo non ha avuto successo. Ha portato a una sanguinosa guerra civile, ma alla fine il governo del presidente Assad aveva retto. Insomma, Jeffrey nel 2024 non ha fatto altro che riprendere il seguito del piano: il "colpo di mano" wahabita ordito in Siria da parte dei Paesi del Golfo doveva semplicemente essere sostituito in un analogo colpo perpetrato dallo HTS, ad opera di un aggregato dotato di un nuovo nome ma formato da varie milizie, per lo più costituite da ex combattenti (molti non siriani) di AlQaeda/an Nusra e dello Stato Islamico, in questo secondo tentativo diretti dai servizi turchi e finanziati dal Qatar.
La Siria è stata così disintegrata e messa a sacco col pretesto di "liberare" i siriani dalla minaccia dello stesso Stato Islamico che Washington prima ha creato e poi ha usato per giustificare l'occupazione del nord-est della Siria da parte delle forze statunitensi. Allo stesso modo, la parte del piano che passa sotto silenzio è quella che consiste nel trasformare la Siria da laica -il suo sistema giuridico è ispirato a quello francese- a islamica ("...implementeremo la legge islamica..."), per giustificare gli attacchi dello stato sionista e l'occupazione di ulteriori territori, iniziative presentate come "misure difensive contro gli jihadisti".
Naturalmente, è fondato ritenere che da tutto questo qualcuno trarrà anche profitto. Non si sono mai raggiunte prove certe, ma le prospezioni sismiche effettuate nel 2011 prima dell'inizio della prima guerra in Siria sembravano indicare la possibile presenza di giacimenti di petrolio o di gas nel sottosuolo, al di là dei relativamente piccoli giacimenti del nord-est. E sì, la ricostruzione sarà una manna dal cielo per lo stagnante settore edilizio turco.
L'esercito siriano allo sbando non rappresentava di per sé una minaccia militare diretta per lo stato sionista. Ci si può quindi chiedere perché lo stato sionista ne stia facendo piazza pulita. "L'obiettivo dello stato sionista è sostanzialmente quello di distruggere la Siria", sostiene il professor Mearsheimer. "Lo stato sionista oltretutto c'entra fino a un certo punto. Credo che nella distruzione della Siria gli statunitensi e i turchi abbiano avuto un ruolo molto più importante dello stato sionista". "Il Paese è distrutto e non conosco nessuno che pensi che i ribelli che ora controllano Damasco saranno in grado di ristabilirvi l'ordine... Dal punto di vista dello stato sionista, meglio di così non potrebbe andare", aggiunge Mearsheimer.
I falchi antirussi negli USA speravano anche che la Russia abboccasse all'esca di una Siria in pezzi e che si facesse coinvolgere in un pantano mediorientale sempre più vasto.
Tutto ciò ci riporta direttamente alla dichiarazione di Jeffrey: "La Siria, date le sue dimensioni, la sua posizione strategica, la sua importanza storica, è fondamentale per capire se [può esistere] nella regione un sistema di sicurezza gestito dagli statunitensi".
La Siria è stata fin dall'inizio, fin dal 1949, il contrappeso regionale dello stato sionista. Adesso questo contrappeso non esiste più ed è rimasto solo l'Iran a bilanciare la pulsione dello stato sionista verso una "Grande Israele". Non sorprende quindi che lo stato sionista stia chiedendo agli USA di prendere parte insieme a un'altra orgia di distruzione, questa volta a spese dell'Iran.
La Russia era a conoscenza di ciò che stava accadendo a Idlib e del fatto che si stava mettendo in piedi il sovvertimento del potere? Certamente! I servizi russi, molto efficienti, dovevano saperlo, dato che è dalla metà degli anni Settanta che esistevano piani del genere per la Siria (tramite lo Hudson Institute e il senatore Scoop Jackson).
Negli ultimi quattro anni Assad ha disperatamente brigato con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto per passare a una posizione più filosionista e più filooccidentale, nella speranza di normalizzare i rapporti con Washington e ottenere così una riduzione delle sanzioni.
Lo stratagemma di Assad è fallito e in Siria probabilmente si avrà l'equivalente di una tragedia greca, di quelle in cui il punto di svolta è rappresentato dal momento in cui gli attori mettono in scena la propria natura. È probabile che si riaccendano tensioni etniche e settarie sopite e che la situazione deflagri. Il vaso di Pandora è stato aperto. Ma la Russia non avrebbe mai abboccato all'esca tuffandocisi dentro.
USA e stato sionista volevano la Siria da tempo. E ora l'hanno ottenuta. Il conseguente caos è colpa loro. E sì, gli Stati Uniti -in teoria- possono congratularsi con se stessi per aver costruito un "un sistema di sicurezza [e di controllo dei flussi dell'energia] gestito dagli statunitensi".
Solo che le classi dirigenti negli USA non avrebbero mai permesso all'Europa di essere indipendente dal punto di vista energetico. Gli Stati Uniti hanno bisogno delle risorse energetiche dell'Asia occidentale per se stessi, per garantire il debito di cui sono sovraccarichi. Gli Stati europei rimangono a piedi proprio mentre la crisi fiscale morde e la crescita in Europa si allontana.
Qualcun altro potrebbe considerare un effetto collaterale, quello di un Medio Oriente in conflitto e probabilmente di nuovo caratterizzato da un orientamento radicale, pronto a infliggere ulteriori grattacapi a un'Europa dove le tensioni sociali sono già accesissime.
Lo stato sionista comunque si gode la sua vittoria. E cosa ha vinto? L'ex capo di Stato maggiore delle forze armate sioniste e ministro della Difesa "Bogie" Ya'alon la mette così:
L'orientamento dell'attuale governo dello stato sionista è quello di conquistare, annettere, fare pulizia etnica... e fondare insediamenti ebraici. I sondaggi mostrano che circa il 70% dei cittadini dello stato sionista, e in qualche caso anche qualche cosa di più, sostiene tanto questa politica quanto l'idea che lo stato sionista sia una democrazia liberale. Questa [contraddittoria] linea ci porterà alla distruzione",
conclude.
Quale altro può essere l'esito definitivo di questo progetto sionista? Ci sono più di sette milioni di palestinesi "tra il fiume e il mare". Dovranno scomparire tutti dalla carta geografica?

18 dicembre 2024

Alastair Crooke - La fine della Siria (e della Palestina, per il momento) nella nuova mappa geopolitica in corso di definizione




Traduzione da Strategic Culture, 16 dicembre 2024.

La Siria è finita nell'abisso. I demoni di alQaeda, dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante e degli elementi più intransigenti dei Fratelli Musulmani si librano in cielo. Caos, saccheggi, paura, una terribile frenesia di vendetta che fa scorrere il sangue. Le esecuzioni sommarie si stanno moltiplicando.
Forse Hayat Tahrir al Sham (HTS) e il suo leader Al-Joulani, che sono agli ordini della Turchia, pensavano di tenere la situazione sotto controllo. Solo che quella di HTS è un'etichetta ombrello proprio come quelle di AlQaeda, di ISIS e di An-Nusra, e le sue fazioni hanno già iniziato a scontrarsi fra loro. Lo "Stato" siriano si è dissolto in una notte; la polizia e l'esercito hanno disertato in blocco lasciando i depositi di armi aperti al saccheggio degli Shebab. Le porte delle carceri sono state spalancate (o forzate). Alcuni detenuti erano senza dubbio prigionieri politici, ma molti non lo erano. Alcuni fra i detenuti più feroci ora sono a piede libero.
Lo stato sionista ha completamente distrutto in pochi giorni le difese dello Stato, lanciando oltre quattrocentocinquanta attacchi aerei. La contraerea, gli elicotteri e gli aerei dell'aeronautica siriana, la marina e i depositi di armi sono stati tutti distrutti nella "più grande operazione aerea nella storia dello stato sionista".
La Siria non esiste più come entità geopolitica. A est le forze curde -con il sostegno militare degli Stati Uniti- si stanno impadronendo delle risorse petrolifere e agricole dell'ex Stato. Le forze di Erdogan e i corpi armati sotto il loro controllo sono impegnati nel tentativo di schiacciare completamente l'enclave curda, sebbene gli Stati Uniti abbiano ora mediato una sorta di cessate il fuoco. Nel sud-ovest, i carri armati dello stato sionista si sono impadroniti del Golan e delle terre al di là di esso fino a 20 km da Damasco. Nel 2015 la rivista The Economist aveva scritto: "Oro nero sotto il Golan: i geologi dello stato sionista pensano di aver trovato petrolio in un territorio molto insidioso". I petrolieri dello stato sionista e quelli statunitensi sono convinti di aver trovato un tesoro, in quella landa disagevole.
E la Siria, che era un grande ostacolo per le ambizioni energetiche dell'Occidente, si è appena dissolta.
Dal 1948 la Siria era un contrappeso strategico allo stato sionista. Adesso non esiste più. E all'allentamento delle tensioni che ea in atto tra la sfera sunnita e l'Iran è stata posta brusca fine dal rude intervento dei ribelli dell'ISIS e dal revanscismo ottomano che collabora con lo stato sionista tramite intermediari statunitensi e britannici. I turchi non si sono mai veramente rassegnati agli effetti del trattato del 1923 che aveva concluso la Prima Guerra Mondiale, e con il quale avevano ceduto al nuovo Stato della Siria quelli che erano i suoi territori settentrionali.
In pochi giorni la Siria è stata smembrata, spartita e balcanizzata. Allora perché lo stato sionista e la Turchia continuano a bombardare? I bombardamenti sono iniziati nel momento in cui Bashar Al Assad ha lasciato il paese perché la Turchia e lo stato sionista temono che i conquistatori di oggi possano rivelarsi effimeri e che presto possano essere a loro volta spodestati. Non è necessario possedere qualche cosa per esercitarvi un controllo. In quanto potenze regionali, stato sionista e Turchia vorranno esercitare il controllo non solo sulle risorse, ma anche su quel vitale crocevia che era la Siria.
Probabilmente è inevitabile che prima o poi la "Grande Israele" si scontri con il revanscismo ottomano di Erdogan. Allo stesso modo, il fronte costituito da Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti non vedrà di buon occhio la rinascita dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante sia pure sotto altre spoglie, né di una versione ottomanizzata dei Fratelli Musulmani di ispirazione turca. Quest'ultima rappresenta una minaccia immediata per la Giordania, ora confinante con una nuova entità rivoluzionaria.
Tali preoccupazioni potrebbero spingere questi Stati del Golfo ad avvicinarsi all'Iran. Il Qatar, in quanto fornitore di armi e finanziamenti al cartello dello Hayat Tahrir al Sham, potrebbe subire nuovamente l'ostracismo degli altri leader del Golfo.
La nuova mappa geopolitica pone molti interrogativi diretti su Iran, Russia, Cina e BRICS. La Russia ha ordito un gioco complicato in Medio Oriente, da un lato portando avanti una escalation difensiva contro le potenze della NATO e gestendo interessi energetici chiave, e dall'altro cercando di moderare le operazioni di resistenza verso lo stato sionista per evitare che le relazioni con gli Stati Uniti si deteriorassero del tutto. Mosca spera -senza grande convinzione- che in futuro si possa arrivare a dialogare con il prossimo Presidente degli Stati Uniti.
Mosca probabilmente arriverà a concludere che "accordi" di cessate il fuoco del tipo di quello di Astana che avrebbe contemplato la permanenza degli jihadisti entro i confini della zona autonoma di Idlib in Siria non valgono nemmeno la carta su cui sono stati scritti. La Turchia era garante degli accordi di Astana e ha pugnalato Mosca alle spalle. Probabilmente questo renderà la leadership russa più dura nei confronti dell'Ucraina e di qualsiasi discorso occidentale su un cessate il fuoco.
La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran così ha parlato l'11 dicembre: "Non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che ciò che è accaduto in Siria è frutto delle trame ordite nelle sale di comando degli Stati Uniti e dello stato sionista. Ne abbiamo le prove. Anche uno dei Paesi confinanti con la Siria ha avuto un ruolo, ma i pianificatori principali sono gli Stati Uniti e il regime sionista". In questo contesto, l'ayatollah Khamenei ha respinto le speculazioni su un eventuale indebolimento della determinazione alla resistenza.
La vittoria per procura conseguita dalla Turchia in Siria potrebbe tuttavia rivelarsi anche una vittoria di Pirro. Il ministro degli Esteri di Erdogan Hakan Fidan ha mentito alla Russia, agli Stati del Golfo e all'Iran sulla natura di ciò che si stava preparando in Siria. Ma è Erdogan ad essere rimasto col cerino in mano. Chi ha subito questo doppio gioco prima o poi si vendicherà.
L'Iran, a quanto pare, tornerà a dedicarsi come prima al ricollegare i vari fili della resistenza regionale per combattere la reincarnazione di AlQaeda. Non volterà le spalle alla Cina, né al progetto BRICS. L'Iraq -ricordando le atrocità dell'ISIS nella guerra civile- si unirà all'Iran, così come lo Yemen. In Iran sanno che le compagini superstiti del vecchio esercito siriano a un certo punto potrebbero prendere le armi contro il cartello dello Hayat Tahrir al Sham: la notte in cui Bashar al Assad ha lasciato la Siria, Maher al Assad ha portato con sé in esilio in Iraq una intera divisione corazzata.
La Cina non sarà certo soddisfatta per quanto successo in Siria. Gli uiguri hanno avuto un ruolo di primo piano nella rivolta siriana e secondo certe stime ci sarebbero stati trentamila uiguri a Idlib, addestrati da una Turchia che considera gli uiguri come una componente originaria della nazione turca. Anche la Cina probabilmente vedrà il sovvertimento della Siria come una minaccia occidentale alla sicurezza delle proprie linee di approvvigionamento energetico che passano attraverso Iran, Arabia Saudita e Iraq.
Infine, gli interessi occidentali hanno combattuto per secoli per le risorse mediorientali; in ultima analisi, questo è quello che sta alla base della guerra di oggi.
Ci si chiede se Trump sia o meno a favore della guerra, dal momento che ha già indicato che il predominio energetico sarà una strategia chiave sotto la sua amministrazione.
Ora, i Paesi occidentali sono indebitati, i loro margini di manovra in campo fiscale si stanno riducendo rapidamente e i detentori di obbligazioni cominciano a spazientirsi. C'è la corsa a trovare un nuovo collaterale per le valute fiat. Una volta era l'oro; dagli anni Settanta era diventato il petrolio, ma ormai il petrodollaro vacilla. Gli anglosassoni vorrebbero rimettere le mani sul petrolio iraniano -dove le avevano avute fino agli anni '70- per mettere in piedi e per garantire un nuovo sistema monetario legato al valore reale delle materie prime.
Ma Trump dice di voler "porre fine alle guerre" e non di volerne iniziare. Il ridisegno della mappa geopolitica rende più o meno probabile un'intesa globale tra Est e Ovest?
Per quanto si parli di possibili "accordi" di Trump con l'Iran e la Russia, è probabilmente troppo presto per dire se si concretizzeranno o se potranno concretizzarsi.
A quanto pare, Trump dovrà prima "accordarsi" sul fronte interno, prima di sapere se avrà la possibilità di concludere accordi in politica estera. Sembra che le strutture di governo -in particolare la corrente senatoria del movimento Never Trump- lasceranno a Trump una notevole libertà di manovra sulle nomine chiave per i ministeri e le agenzie nazionali che gestiscono gli affari politici ed economici degli Stati Uniti -che sono la preoccupazione principale di Trump- e gli lasceranno anche una certa discrezionalità negli ambienti -diciamo così- più riottosi. Quelli che hanno preso di mira Trump negli ultimi anni, come lo FBI o il Ministero della Giustizia.
Secondo questo presunto "accordo" pare che le nomine di Trump dovranno comunque essere confermate dal Senato e che dovranno essere ampiamente "in linea" con la politica estera delle agenzie governative, in particolare per quanto riguarda la politica nei confronti dello stato sionista. I massimi livelli delle agenzie governative tuttavia, secondo quanto riferito, insistono sul loro veto per le nomine che riguardano le strutture più profonde della politica estera. E qui sta il nocciolo della questione.
Nello stato sionista in generale si fa festa per le "vittorie" conseguite. Questa euforia farà sentire il suo peso sulle élite economiche statunitensi? Hezbollah è stato arginato, la Siria è smilitarizzata e l'Iran non è più ai confini dello stato sionista. Lo stato sionista oggi è soggetto a minacce qualitativamente inferiori. Di per sé basterà questo a consentire un allentamento delle tensioni o a far emergere alcune intese più ampie? Molto dipenderà dalla situazione politica di Netanyahu. Se il premier dovesse uscire relativamente indenne dal processo penale, avrà davvero bisogno della grande scommessa di un'azione militare contro l'Iran, con una mappa geopolitica che si è trasformata in modo tanto improvviso?

18 marzo 2020

Alastair Crooke - Medio Oriente: cambiano le carte in tavola



Traduzione da Strategic Culture, 9 marzo 2020.

La fine di un'epoca. Quando finì la prima guerra mondiale, già erano evidenti i segnali che facevano presagire la fine di un'epoca dominata dall'Europa: dolorose iniziative diplomatiche congiunte, una visione politica limitata e l'approssimarsi di una crisi finanziaria con le appesantite politiche monetarie delle banche centrali ad annunciare la Grande Depressione. Ma la vita andò avanti: per tutti gli anni 20 uomini e donne in Europa ballarono un can can sfrenato. Era l'epoca del cabaret, delle feste. Nessuno voleva riconoscere i segni di ciò che si preparava.
Il mese scorso un accademico dello stato sionista si è detto dell'opinione che il futuro assetto del Medio Oriente è nelle mani di tre paesi che ne fanno parte: Iran, Turchia e stato sionista. Un'osservazione interessante. Nessuno dei tre paesi è arabo; e questa affermazione prevede un sempre maggiore disimpegno statunitense e un ruolo di secondo piano della Russia come distributrice di corone.
A rendere intrigante questa dichiarazione è il suo concentrarsi su tre paesi soltanto e il suo prevedere lo scemare degli interventi esterni intesi come fattore essenziale nel contesto di una futura mappa strategica. Il sottinteso è che dal punto di vista militare Iran, Turchia e stato sionista stanno gonfiando i muscoli. Ma i diplomatici e gli analisti politici di solito preferiscono attenersi al piano degli interessi politici nazionali. Non gli piace il dato di fatto per cui il risultato di un confronto militare può determinare di per sé degli esiti politici, confermando o negando i rispettivi interessi nazionali. Si tratta di un'offesa per la diplomazia. Solo che spesso succede proprio così. In questo momento il Medio Oriente non è davvero suscettibile di un approccio concettuale diretto: concentrarsi sul risultato di un confronto militare e delle prove di forza da una parte, e sulle dinamiche -piuttosto diverse- del coronavirus e dei suoi effetti sull'economia dall'altra ha più senso che non attenersi al tradizionale, mero calcolo degli interessi politici.
Ovviamente, nessuno di noi trova facile mescolare al pastone rappresentato dalle prove di forza militari di questi paesi i possibili effetti di qualche evento terzo, come l'irrompere del coronavirus, su cui si deve procedere soltanto per congetture. Comunque, proviamoci.
Pensiamo alla Turchia: i suoi vertici hanno gettato la maschera. Ah, la Turchia ha sostenuto gli oppositori islamici (moderati...?) al Presidente Assad? Ecco: via la maschera all'improvviso e arriva un "Idlib è nostra", vale a dire turca. "Anche Aleppo è turca, come il Sangiaccato". Neoottomanismo, panturchismo. Il mondo arabo ovviamente se ne è accorto, e i paesi del Golfo stanno rapidamente facendo fronte comune con Damasco contro questi intendimenti.
Appena questo progetto apertamente revanscista ha corso il rischio di essere sconfitto per la diretta pressione militare della Sicilia e dei suoi alleati, Ankara non ha fatto altro che scatenare il proprio esercito a fianco di al Qaeda; ha anche chiamato rinforzi jihadisti uiguri e ceceni da Jisr al Sughur, estremisti fra i peggiori. Che certe conventicole occidentali non si facciano più sentire a parlare di "ribelli moderati" legati alla Turchia.
Diversi soldati turchi, oltre una trentina, che si trovavano mescolati a questi estremisti sono rimasti uccisi mentre cercavano di disimpegnarsi da Saraqib, la seconda volta che la città è stata conquistata dai siriani e dai loro alleati. I vertici del potere in Turchia sono usciti di testa per l'emozione e per la rabbia. La retorica del tradimento ha imperversato; in violazione di ogni accordo preso nei confronti del presidente Putin, hanno sferrato contro le forze armate e le installazioni militari siriane un'ondata di attacchi con droni suicidi e già che c'erano hanno ammazzato un bel po' di iraniani e di uomini di Hezbollah.
Quale importanza ha tutto questo per il futuro strategico del Medio Oriente? Importa in questo senso: l'esercito turco, di gran lunga il più forte, ha subito ad opera della strategia di guerra asimmetrica che gli è stata rivolta contro una lezione ben più grave rispetto agli oltre trenta soldati caduti a Saraqib. Insomma: il secondo più grande esercito della NATO è stato concretamente surclassato da forze irregolari meno numerose ma esperte.
Ancora peggio, dopo 24 ore che i turchi si gloriavano per lo straordinario successo dei propri droni armati -lanciati durante uno sfortunato cessate il fuoco invocato dalla Russia- a sentir loro destinati nientemeno che a rovesciare l'equilibrio dei poteri in Medio Oriente, la loro minaccia veniva completamente neutralizzata dalle difese aeree siriane e da contromisure elettroniche probabilmente russe.
E c'è anche dell'altro: è venuto fuori che la Turchia si è servita dell'Islam -e degli jihadisti di al Qaeda- come puro e semplice orpello per le proprie ambizioni revansciste di stampo neoottomano e panturchista. La maschera è caduta e non si può sostituire. Né l'esercito né i droni si sono rivelati in grado di rovesciare la situazione come invece pensava la leadership turca. Con quel suo usare i profughi come una minaccia, la Turchia si è anche alienata gli europei. Erdogan non aveva messo in conto l'impatto di questo virus su quello che gli europei pensano del fenomeno migratorio?
Erdogan ha fatto imbestialire l'esercito russo; in un ultimatum congiunto senza precedenti, l'esercito iraniano e il braccio militare di Hezbollah hanno detto che i soldati turchi sarebbero diventati un bersaglio se la Turchia avesse proseguito con questi comportamenti. Questa volta i turchi hanno fatto incazzare praticamente tutti.
Ma non è ancora finita. Questo virus colpisce anche un altro calcolo: l'indebitamento, e soprattutto il debito sovrano, all'improvviso viene considerato con estremo scetticismo, dato l'improvviso diminuire delle scorte a livello mondiale. L'economia turca si trova in grossi guai; in circostanze dello stesso genere fino a oggi i cinesi avevano aiutato la lira turca a stare a galla; adesso anche in Cina regna la freddezza, perché Erdogan sta cercando di proteggere circa tremila jihadisti uiguri per servirsene come strumento nell'interesse turco. I guai si accumulano... E ci sono anche segnali che fanno pensare ad una frammentazione del sostegno politico di cui Erdogan gode sul fronte interno, anche in seno al suo stesso partito.
Putin conosce la situazione: un conflitto fra Russia e Turchia andrebbe ad esclusivo beneficio dell'AmeriKKKa. Per questo ha lisciato il pelo di Erdogan, ne ha un po' gratificato l'ego, e ha tolto dal tavolo la questione dell'autostrada M4, della M5 e in fin dei conti della stessa Idlib. Il cessate il fuoco del 5 marzo non è che un accordo temporaneo. Non durerà, ma mette le cose come stanno. Idlib è lo spillo che ha forato il pallone gonfiato turco. A livello regionale si tratta di un ribaltamento strategico di primaria importanza.
Adesso diamo un'occhiata all'altro elemento di questa equazione strategica e militare: l'Iran ha ampiamente dimostrato di essere una realtà militarmente temibile sia per quanto riguarda missili, droni e contromisure elettroniche, sia per aver fatta propria una capacità offensiva radicalmente decentralizzata, dalla forma indefinita e indefinibile. Non siamo alla perfezione: niente di tutto questo è fatto per arrivare ai ferri corti con gli USA o con lo stato sionista. Il tutto può però imporre a qualsiasi avversario i costi della guerra asimmetrica, e spargerli per l'intera regione.
I paesi del Golfo lo hanno finalmente capito; e lo ha capito anche lo stato sionista, che non può permettersi di affrontare una guerra su più fronti più di quanto l'Iran non possa pensare di vincere in un confronto diretto con gli USA. Questo, anche se la capacità degli USA di impegnarsi a tutto campo in qualcosa del genere probabilmente non esiste più. Non è più credibile l'idea che gli USA possano invadere l'Iran per interrompere una prolungata e sfuggente serie di attacchi missilistici contro bersagli ameriKKKani e sionisti. Insomma, l'Iran si è conquistato qualcosa di simile a una competitività sul piano militare, almeno quel tanto che basta a fare da deterrente.
Dopo aver considerato le dinamiche militari, è la volta degli effetti geopolitici ed economici del coronavirus.
Per l'economia reale, il virus rappresenta uno shock improvviso e dalla natura estranea. Questo virus non è come l'influenza di stagione. È molto più virulento perché staziona in gola più che nei polmoni e si diffonde con la tosse e con gli starnuti, rimanendo per molti giorni su oggetti che vengono toccati dagli altri. A differenza di quanto succede con l'influenza, i portatori del virus possono non mostrare sintomi della malattia, il che rende difficile identificare la catena di infezione o prendere appropriate iniziative di contenimento. In medicina le circostanze per cui il coronavirus ha iniziato a diffondersi non sono note; se ne presume un'origine animale, ma non ci sono prove. Non se ne conoscono la riproduzione e il tasso di letalità, non si sa se sia interessato dai cambiamenti di stagione. Sembra che sia già mutato una volta, producendo sia una variante più lieve che una più letale.
Insomma, chiunque dica quanto durerà l'epidemia sta semplicemente tirando a caso. L'influenza spagnola, tanto per mostrare quale sia la natura di questi incerti di origine virale, iniziò alla fine del 1917 e attraversò tre fasi distinte nel 1918; mutò e divenne più letale nell'agosto del 1918, con un picco di letalità tra settembre e novembre. Iniziò a perdere forza nel 1919. Infettò un terzo della popolazione mondiale e uccise fra i cinquanta e i cento milioni di persone in Europa, Nord America e Asia.
A fronte di tanta incertezza, cosa possiamo dire del Medio Oriente? Innanzitutto che quest shock per l'economia arriva alla fine di un ciclo di debito e di credito a lungo termine in cui le banche centrali hanno sostenuto il valore delle azioni tramite iniezioni di liquidità e tassi di interesse prossimi allo zero. E questo è il punto essenziale: ormai qualche decennio che le politiche occidentali senza eccezioni e quella cinese sono state impostate in modo da stimolare la domanda. Gli strumenti per farlo erano tutti monetari, ed erano fatti perché la gente spendesse e consumasse di più.
Un improvviso venire meno delle scorte provocato da una pandemia non può essere corretto con strumenti monetari o intervenendo sui tassi di interesse. Le fabbriche delocalizzate e le linee di rifornimento interrotte implicano anche il venire meno della domanda, cosa che rappresenta l'altro rovescio della medaglia del venire meno di una produzione in cui i lavoratori vengono licenziati o subiscono decurtazioni della paga.
Già adesso  il commercio è fermo, il turismo non esiste più e i mercati stanno fluttuando vorticosamente. Il virus sta mettendo in questione le catene di rifornimento globalizzante e la politica monetaria occidentale. Quando la Fed statunitense ha annunciato un taglio degli interessi dello 0,5% dovuto all'emergenza, il primo da 2008, i mercati sono crollati. Di sicuro il discorso si sposterà adesso sulle misure fiscali. Ma anche le misure fiscali non hanno il potere di riaprire le fabbriche chiuse a causa della malattia e della quarantena. Le misure fiscali possono fare da sussidio ad attività che altrimenti sarebbero in perdita, ma una cosa del genere andrebbe in direzione contraria alla nostra cultura del laissez faire. Nell'Unione Europea, violerebbe le regole stesse dell'Unione.
Quanto severamente il Medio Oriente ne verrà colpito? Nessuno può prevedere la tempistica o quanto alla fine si rivelerà virulenta l'epidemia. L'influenza stagionale ha una mortalità dello 0,2% tra i soggetti colpiti. Nel caso del coronavirus l'OMS la stima nel 3,4%. Lo scenario previsto per il peggiore dei casi nel Regno Unito parla di mezzo milione di morti. Che la sanità mediorientale possa reggere un numero di ospedalizzati pari al 15 o 20% di quanti sono infettati dal coronavirus è improbabile. Non può riuscirci nemmeno la sanità europea. Secondo stime meramente ipotetiche il picco è previsto per l'inizio dell'estate.
E poi ci sono le conseguenze economiche: il turismo non esiste più; i mercati globali sono andati a picco e tutti sono preoccupati per l'impennarsi del debito sovrano e di quello delle imprese, nel caso il venir meno dei rifornimenti dovesse prolungarsi. A rimetterci di più saranno senz'altro i produttori di greggio, vale a dire i paesi del Golfo. Il greggio WTI già viene scambiato verso i quarantacinque dollari. Tuttavia, anche i paesi più integrati nel sistema finanziario newyorkese possono risentire della turbolenza finanziaria e dei fallimenti; si tratta dello stato sionista e dei paesi del Golfo. Non è verosimile che qualcuno riesca a sfuggire agli effetti del coronavirus, in un modo o nell'altro. Anche se perdesse virulenza oggi, non è probabile che l'economia si riprenda di colpo. Gli effetti si ripercuoteranno sui prossimi due trimestri. In questo momento a risentirne maggiormente è l'Iran, ma la parabola di un virus segue percorsi capricciosi: perché in Europa proprio lo stato che occupa la penisola italiana è stato colpito in modo tanto duro? Non si sa, anche se sembra sia colpa della più virulenta mutazione L.
Tiriamo le somme. Sul piano strategico la Turchia non ha vinto la sua partita al gioco del coniglio in Siria. Può anche essere sul punto di implodere economicamente, cosa che sarebbe mitigata solo dal suo essere più o meno disposta a inchinarsi al volere di Mosca e di Pechino. L'Iran sopravviverà perché gli sciiti hanno una lunga esperienza quanto a tempi grami, e perché l'Iran è troppo importante per cadere, sia per la Cina che per la Russia. Le oligarchie libanesi, irachene e giordane, oltre ai tradizionali vertici settari, erano già a rischio prima che gli effetti economici del coronavirus le colpissero anch'essi. Non possono cambiare, e rifiutano di adattarsi. Lo scontento peggiorerà e le proteste causate dagli effetti del virus si moltiplicheranno. Il malcontento generato al coronavirus in Corea del Sud e in Giappone si è diretto contro la classe politica del paese.
Ma gli stati del Golfo, già bistrattati politicamente dalla umiliante riedizione del Sykes-Picot che Trump pretende di imporre con toni ultimativi per il suo "accordo del secolo" e stretti fra l'incudine della politica di Washington contro l'Iran e il martello della risposta iraniana, si troveranno a soffrire economicamente in una maniera che né la classe politica né la parte della popolazione che vive grazie al proprio stipendio sono pronte ad affrontare. Il greggio a quarantacinque dollari e l'industria turistica paralizzata per tutto il tempo dell'epidemia rappresentano uno shock peggiore di quello apportato lo scorso settembre dalla vulnerabilità della Aramco.
La mappa strategica sta cambiando.

 

11 maggio 2019

Alastair Crooke - Esiste un modo per attenuare le tensioni geostrategiche in Medio Oriente?



Traduzione da Strategic Culture, 6 maggio 2019.


La rottura tra Turchia e paesi del Golfo -quelli con alle spalle gli USA e lo stato sionista- è entrata in fase acuta. Erdogan è sempre più sotto pressione; è un attaccabrighe ed è probabile che reagirà menando le mani. L'Iran, come la Turchia, è sottoposto a un attacco a tutto campo da parte del Tesoro statunitense. Probabilmente anche l'Iran in un modo o nell'altro reagirà contro quanti hanno esortato il Presidente Trump e i suoi falchi a scendere sul sentiero di guerra. Iran e Turchia sanno con chi rifarsela, sanno chi ha soffiato sul fuoco: Muhammad bin Zayed e il suo compare Muhammad bin Salman. Il teatro in cui si dispiegherà questo acuirsi delle tensioni sarà verosimilmente quello del nord Africa e del corno d'Africa.
Questa rottura va a sommarsi alle altre che già frammentano il Medio Oriente. Le tensioni si sono fatte molto serie. Il linguaggio bellicoso di Trump sivene spesso inteso come una fanfaronata calcolata, il cui scopo è quello di partire da una posizione di favore in vista di qualche negoziato. Ma quello che forse il Presidente non aveva previsto è che il suo fare bellicoso si sarebbe diffuso ovunque nei think tank di Washington e degli ambienti governativi. Qualunque carrierista in cerca di una promozione o di un posto nell'esecutivo ora cerca di imitare, magari su Fox News, quel pistolero di Bolton e la sua retorica a muso duro.
Il fatto è che Trump viene dall'immobiliare e la sua esperienza contempla esplicitamente il cambiare repentinamente atteggiamento, quando serve. E Trump lo fa, come lo faceva in affari: le virate di centoottanta gradi non sono un problema, per lui. Ma per la sua squadra? La cosa non è altrettanto chiara. Magari qualcuno potrebbe anche vedere la retorica bellicosa di Trump come lo strumento necessario per mettere il Presidente sulla via di una convergenza sempre più serrata, giunti alla quale le virate non sono più un'opzione praticabile.
Le pressioni statunitensi su Erdogan sono veramente forti: di sicuro ci sono le sanzioni, ma ci sono anche i reiterati inviti da parte delle principali banche di Wall Street affinché si abbrevi l'agonia della lira turca; la promessa di ulteriori punizioni statunitensi (il Tesoro che gli fa la guerra ancora di più) nel caso la Turchia dovesse ricevere dalla Russia i missili antiaerei S400. Infine, proprio ora, il ritiro dei "capitolati di esenzione" statunitensi sul greggio leggero che la Turchia importa dall'Iran e che è quello che serve a far funzionare le raffinerie turche. In altre parole, la produzione turca è calibrata sul greggio leggero iraniano e una riorganizzazione industriale sarebbe costosa.
Poi ci sono le pressioni strategiche. Tra queste, l'intento dichiarato di Trump di mettere i Fratelli Musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche. A Washington la faccenda è ancora in fase di definizione, ma in genere si pensa che finirà in questo modo.
E allora? Allora lo AKP corrisponde informalmente ai Fratelli Musulmani, almeno per quanto riguarda una delle sue componenti più importanti; Erdogan è culturalmente dei Fratelli Musulmani e si considera un loro protettore; lo AKP agevola il finanziamento delle organizzazioni sociali dei Fratelli Musulmani che operano in Turchia con donazioni erogate dal comune di Istanbul. Gli editorialisti turchi accusano senza mezzi termini certi paesi del Golfo di aver messo la lista di proscrizione sotto gli occhi di Trump, e hanno ragione. E non si tratta di una questione banale.
Poi ci sono i curdi in Siria, che gli USA si dicono intenzionati ad armare con missili superficie aria Stinger. Davvero? Lo Stato Islamico di questi tempi usa gli elicotteri? E c'è una dichiarazione recente di un funzionario del Dipartimento di Stato secondo cui gli USA occuperanno un terzo del territorio siriano, quello più ad est, per "molto tempo" e vi faranno investimenti, vale a dire armeranno i curdi ancora di più. L'inviato statunitense James Jeffry sta spingendo perché Erdogan accetti la presenza di una guardia di frontiera curda armata dislocata al confine meridionale della Turchia con la Siria, e incaricata del suo controllo.
Ovviamente nelle conventicole che circondano Erdogan si capisce che il cappio si sta stringendo al collo della Turchia; questo "progetto" con i curdi viene inteso come nient'altro che un "punto di appoggio" per penetrare in Turchia e indebolirla. Per i vertici dello stato turco si tratta di una cospirazione alla luce del sole il cui scopo resta quello di indebolire il paese.
Infine, tra le iniziative del fronte antiturco con sede nel Golfo troviamo il rovesciamento del governo sudanese cui era a capo un presidente collegato ai Fratelli Musulmani, la probabile cacciata della Turchia dalla base navale che possiede in Sudan dirimpetto a Gedda e, per ultimo ma non ultimo, l'assalto del generale Haftar contro Tripoli e Misurata, che sono difese da forze sostenute dalla Turchia e dal Qatar. Una percentuale significativa della popolazione nella Libia settentrionale è etnicamente turca.
Così, come riferisce in arabo Abdel Bari Atwan sul Rai al-Youm, "lo sviluppo più importante nel contesto libico è dato dal fatto che il presidente turco si è fatto avanti [con una] teledonata al signor Al-Sarraj: [Erdogan] impegnerà tutti i mezzi di cui il suo paese dispone per impedire che quella che ha definito 'la cospirazione' colpisca il popolo libico. Ha sottolineato l'importanza che Al-Sarraj e il suo governo hanno nella difesa di Tripoli. Secondo noi questo significa sostegno anche militare, non solo politico", conclude Bari Atwan.
Insomma, Erdogan -alleato con il Qatar- sta scendendo in campo contro gli Emirati Arabi Uniti e contro le forze di Haftar, sostenute dall'Arabia Saudita e dagli USA e a favore del governo di accordo nazionale sostenuto dall'ONU e dallo stato che occupa la penisola italiana.
L'attacco di Haftar si è già impantanato nei sobborghi di Tripoli. Sembra poco probabile adesso che il Qatar o la Turchia acconsentiranno al colpo di stato messo su dagli Emirati e dall'Arabia Saudita senza un confronto sanguinoso. Al momento il governo di accordo nazionale, tramite la banca centrale, controlla le entrate petrolifere anche se i giacimenti sono materialmente in mano a Haftar. Haftar potrebbe rovesciare questa situazione e tenere per sé le rendite petrolifere. La banca centrale che controlla l'accesso a questi fondi, depositati in un conto di garanzia a New York, si trova a Tripoli.
Il fatto è che se la Turchia è sottoposta a pressioni forti sia sul piano interno (la sua economia è fragile, e poi il nuovo sindaco di Istanbul sta mettendo in discussione i fondamenti stessi della politica dello AKP) sia sul piano della politica estera, anche i paesi del Golfo lo sono, anche se si tratta di pressioni di natura differente.
Intanto, la guerra nello Yemen non sta andando bene per l'Arabia Saudita. Sembra che il fronte meridionale saudita si stia disintegrando malamente e che le forze yemenite stiano spingendosi nel sud dell'Arabia Saudita. Poi, il tentativo dei paesi del Golfo di instaurare regimi militari di sicurezza in Sudan, in Algeria e in Libia non è garantito da nessun punto di vista. Il rischio è che l'instabilità causata da questi tentativi di colpo di stato si diffonda a macchia d'olio in tutto il nord Africa. Nel Ciad si vive in ansia perché Haftar vi ha tentato un colpo di stato alcuni anni fa; la Mauritania pensa che gli Emirati Arabi Uniti abbiano messo gli occhi sulle sue risorse, e il Marocco è ai ferri corti con gli Emirati Arabi Uniti a causa del suo essersi rivolto al Qatar. Il risultato finale di questa tripletta di colpi di stato è in bilico.
E questo ci riporta al quadro generale. Trump è deciso a riplasmare il Medio Oriente. Kushner e gli altri inviati non ne fanno mistero: il loro obiettivo è quello di rimodellare la regione a piacimento dello stato sionista. Lo stato sionista diventerà "grande Israele" sottomettendo qualcosa come sei milioni e mezzo di palestinesi; per facilitare questo piano tre nazioni storiche -i pilastri dell'ordinamento regionale- devono subire un ridimensionamento: la Grande Siria sarà un po' meno grande senza un terzo di un territorio che è già ridotto; Iran e Turchia vanno arginati, indeboliti e i loro attuali governi se possibile rovesciati affinché lascino il posto a compagini più condiscendenti.
Una iniziativa ambiziosa ma non esente da evidenti difetti. Il primo lo indica una fonte ben informata in materia di sanzioni: David Cohen, ex sottosegretario al Tesoro statunitense con competenze sul terrorismo e lo spionaggio finanziario. Insomma, le  sanzioni fatte persona:
Negli ultimi decenni... le sanzioni sono diventate uno strumento fondamentale nella politica estera statunitense. L'amministrazione Trump ha fatto un utilizzo particolarmente pesante di questo strumento, spcialmente negli sforzi compiuti per rovesciare il governo in Venezuela e in Iran... E anche se l'amministrazione è stata più vaga nel suo invocare il rovesciamento della forma di governo religioso in Iran, le richieste che essa ha posto a Tehran sono talmente onerose che, come ha sostenuto l'ex ambasciatore statunitense Robert Blackwill, "è di fatto impossibile per l'Iran ottemperarvi senza un mutamento sostanziale ai vertici dello stato e nella forma di governo". Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in altre parole, "vuole in Iran un rovesciamento del governo, ma non lo indica in questi termini".
"Solo che perché le sanzioni funzionino... devono puntare a un comportamento che il soggetto colpito sia in grado di cambiare, per quanto obtorto collo. La parte colpita deve anche credere che le sanzioni verranno meno, se essa abbanbdona il comportamento di cui sopra.
La logica delle sanzioni costrittive non funziona invece quando il loro obiettivo è quello di rovesciare un governo. Questo, semplicemente perché il costo di lasciare il potere sarà sempre più alto del beneficio ricavabile dalla fine delle sanzioni; uno stato sanzionato non può verosimilmente permettersi di acconsentire al rovesciamento del proprio governo...
Ci sono poche ragioni per aspettarsi che oggi in Venezuela o in Iran il risultato sarà diverso. Le sanzioni imposte unilateralmente dagli USA stanno imponendo pedaggi onerosi, ma non si deve pensare che il loro impatto economico sia indice di un successo politico, specialmente se il loro obiettivo è quello di rovesciare un governo.
Un altro esperto, il colonnello degli Stati Uniti Pat Lang, nota che gli ultimi pasticciati tentativi di mettere in piedi un'insurrezione dei militari venezuelani per cacciare il Presidente Maduro sono stati per molti versi una cialtronata paragonabile allo sbarco nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961, che si fondava sull'errata convinzione che anche il popolo cubano sarebbe insorto fornendole immediato appoggio.
Gli eventi in Venezuela sottolineano come la retorica machista degli USA sia spesso più chiacchiere che sostanza: insomma, l'idea di sé che ogni macho ha è inversamente proporzionale alle sue oggettive prestazioni in quel settore. Ovviamente in Medio Oriente è una cosa che hanno notato tutti.
Insomma, se le sanzioni non avranno successo, e gli USA cercheranno verosimilmente di abborracciare un colpo di stato sotto copertura stile Maidan in Iran o in Russia, non c'è nulla da temere?
Non è del tutto vero. Perché se anche il tentativo di fare dello "avamposto dell'Occidente" in Medio Oriente la forza predominante complicherà le cose nella regione, che gli USA ci mettano o no il becco, la questione è differente: la montante retorica bellicista degli USA che ne riempie la politica ufficiale non si esaurisce con le chiacchiere. Essas fa riferimento alle "guerre perenni" dell'AmeriKKKa: l'infinita guerra generazionale -secondo la dottrina prevalente- contro la Russia e l'Iran. Il linguaggio che indica l'Iran e il Presidente Putin come il Male assoluto è deliberato e fa parte di un progressivo troncamento di ogni canale di comunicazione e di cointeressenza tra l'Occidente da una parte e la Russia e l'Iran dall'altra: il pubblico statunitense non è ancora abituato a considerare come il Male anche il popolo cinese.
Passo dopo passo i canali dedicati alla comunicazione reciproca sono stati fatti atrofizzare. Le aree di collaborazione costruite con il lavoro di anni vengono cancellate; la reciproca comprensione in materia di armamenti e di sicurezza cui si è dolorosamente arrivati viene messa da parte. E si statuisce invece che non c'è nessuno con cui parlare, perché gli altri sono per natura infidi, mendaci e traditori.
Ovviamente chi pensa che il linguaggio bellicoso ostentato da Bolton e da Pompea serva semplicemente come strategia negoziale è padronissimo di rimanere della propria opinione; altri tuttavia potrebbero vedervi la metodica edificazione di una galleria sempre più stretta e con un unico sbocco, che è la perenne escalation contro la "malvagità".
La questione autentica è: Trump vede tutto questo? Ne è consapevole? O si è convinto che le fanfaronate della sua amministrazione sono davvero vincenti facendo nuovamente grande l'AmeriKKKa? Il futuro di tutti dipende da questo.

17 aprile 2019

Alastair Crooke - Ecco perché sepreggia il nervosismo fra gli stati del Golfo



Traduzione da Strategic Culture, 15 aprile 2019.


Poco più di dieci anni or sono mi chiesero di pronunciare un discorso a un banchetto tenutosi a Londra, cui partecipavano una ventina di personaggi provenienti dal Golfo: ambasciatori e gente ammanicata, tutti rappresentanti della ricca e cosmopolita élite locale. Verso la fine della serata il discorso si spostò su Hezbollah, e i presenti fecero fuoco e fiamme all'istante. Fuoco e fiamme quasi alla lettera perché a quegli alti papaveri andò di traverso il fumo, e dalle narici gli saettavano le fiamme. Il minimo che si possa dire è che non si mostrarono per nulla contenti. Giurarono in coro che non si sarebbero fermati davanti a nulla, pur di stroncare "la resistenza". La stessa parola resistenza minacciò di soffocarli un'altra volta. Giurarono di distruggerla fino all'ultimo brandello.
Ma col tempo le cose cambiano. Ovviamente c'è stata nel mezzo la guerra del 2006, che questi gentiluomini sostennero perché si pensava che avrebbe distrutto Hezbollah una volta per tutte e invece non è successo. C'è stata in Siria un'insurrezione finanziata con miliardi di dollari contro il refrattario Presidente Assad, che si sperava avrebbe abbattuto il pilastro della resistenza e invece non lo ha fatto; e c'è stata una massiccia guerriglia dell'informazione destinata a trasformare la Repubblica Islamica dell'Iran nell'appestato del pianeta.
In effetti questi raffinati gentiluomini hanno avuto un certo successo nell'affossare la cosiddetta Primavera Araba e nel mandare in pezzi e nel demonizzare Hamas e i Fratelli Musulmani. Eppure nonostante tutto questo, e dopo aver imbrogliato alla grande statunitensi ed europei con la loro propaganda antiiraniana, gli stati del Golfo sono di nuovo inquieti. Come mai?
I problemi ora sono in Libia, dove il generale Haftar preme sulla capitale Tripoli. A un primo livello di analisi è evidente che l'iniziativa è parte di una lotta di potere interna al paese; a un altro livello però la repentina ed inattesa uscita di Haftar dal processo politico (il segretario generale e l'inviato dell'ONU in occasione della loro ultima visita in Libia furono lasciati con un palmo di naso) si rivela più che altro come espressione della confusione che esiste nel Golfo perché l'offensiva di Haftar è cominciata dopo un giro di consultazioni in certe capitali del Golfo.
Non è che ci si agiti molto per la Libia; piuttosto ci sono timori, e timori forti, per l'Algeria. In Algeria sono in corso nutrite e ripetute proteste popolari che hanno costretto il presidente a fare un passo indietro. Le proteste, finora pacifiche, continuano, ma l'apparato di sicurezza si erge ancora minaccioso sullo sfondo. Anche a Khartoum ci sono state manifestazioni e ora che il presidente è stato spodestato con un golpe militare i fantasmi del passato, arrivati dal 2011, tornano ad angustiare i leader del Golfo.
Il messaggio da parte degli Emirati Arabi e dell'Arabia Saudita rappresentato dal via libera a uno Haftar (che odia gli islamici) per la presa di una Tripoli in mano islamica è diretto al popolo algerino: se vi ribellate al potere costituito, fate attenzione: "la repressione sarà inesorabile". Non saranno tollerate presenze islamiche: ecco la linea rossa da non oltrepassare. Gli Emirati Arabi Uniti hanno una pregressa storia di intromissioni negli affari algerini, attuate tramite l'esercito di quel paese. Fino a quando non è diventato presidente, Bouteflika è stato un ospite emiratino.
Se si trattasse di questo, si potrebbe concludere cinicamente, gli Emirati Arabi Uniti si metteranno probabilmente d'accordo con l'Algeria; che bisogno c'è di fare tanto chiasso. Solo che non si tratta di questo. La situazione algerina fa parte di un contesto, di un panorama, che fa davvero innervosire gli stati del Golfo.
Il punto è questo. Dopo aver fatto fuoco e fiamme a quella cena dieci e passa anni fa, e dopo tutto il sarcasmo che i mezzibusti statunitensi hanno diretto dopo allora contro la resistenza, un vero e proprio fronte resistente sta a tutti gli effetti prendendo forma. Dal Libano fino all'Iran, la sconfitta degli jihadisti e del progetto politico curdo patrocinati dai paesi del Golfo ha prodotto il consolidamento di un fronte politico.
Per amor di chiarezza, l'iniziativa che punta a unificare e a collegare l'Iran con i porti mediterranei di Tripoli in Libano e di Lattakia in Siria passando per l'Iraq, la Siria e il Libano è molto interessante per la Cina, proprio come i suoi aspetti sul piano dell'energia sono interessanti per la Russia. Nicholas Lyall scrive sul The Diplomat:
Il Levante è destinato a diventare un punto critico per il corridoio economico e infrastrutturale che deve unire la Cina all'Asia centrale e a quella occidentale, perché rappresenta un percorso alternativo al canale di Suez per raggiungere il Mediterraneo. Nel lungo termine, ai fini del raggiungimento di questo obiettivo la Siria è considerata come il paese fondamentale nell'area. Tripoli in Libano ad esempio dovrebbe diventare una zona economica speciale all'interno di questo complesso, e si programma la trasformazione del porto di Tripoli in un punto di smistamento fondamentale per il Mediterraneo orientale. Tutto questo assicurerebbe ai prodotti cinesi una strada verso l'Europa più diretta rispetto al canale di Suez.
"La Cina è destinata a essere l'attore principale nell'imminente ricostruzione del dopoguerra in Siria... gli accordi sottoscritti riguardano la costruzione di acciaierie e centrali elettriche, l'industria dell'auto e lo sviluppo di centri ospedalieri. Fra i campi di maggior prestigio per la partecipazione cinese, l'impegno preso nel 2015 dalla Huawei di ricostruire entro il 2020 la rete per le telecomunicazioni in Siria, e la quota di maggioranza della China National Petroleum Corporation in due delle maggiori compagnie petrolifere siriane."
Cosa c'entra questo con la Libia, con l'Algeria o col nervosismo dei paesi del Golfo? C'entra, e molto. Non solo perché Siria, Iran, Iraq e Libano -tutti dalla parte sbagliata, nei piani per il Medio Oriente secondo i paesi del Golfo- vanno ora per la maggiore, ma perché la Turchia e il ben fornito Qatar si stanno avvicinando sempre di più alla Russia e all'asse di cui fanno parte Iran, Iraq e Siria.
La Turchia e il Qatar sono i principali sostenitori della mlizia libica di Misurata e degli islamici di Tripoli; questo significa che agevolano e finanziano le forze che si oppongono a un generale Haftar intenzionato a distruggere il movimento islamico basato a Tripoli. Il conflitto in corso in Libia è anche una guerra per procura, che i paesi del Golfo stanno combattendo contro i Fratelli Musulmani e contro i loro protettori Turchia e Qatar. E questo è un ulteriore messaggio diretto all'Algeria: i Fratelli Musulmani non devono avere alcun ruolo nelle proteste popolari, altrimenti sono guai.
Ci sono anche altre cose che tengono svegli la notte gli alti papaveri del Golfo. La Turchia sta lasciando senza chiasso la NATO per passare a Mosca, per quanto possa fare Erdogan in questo campo senza perdere del tutto l'elettorato laico ed europeista delle coste. Anche se la Turchia dovesse rimanere nella NATO col corpo, sia pure non con lo spirito, si tratta comunque di un mutamento strategico notevole, con ampie ripercussioni su un'Asia centrale sostanzialmente turca e sul Medio Oriente.
Insomma, in Medio Oriente sta venendo meno un pilastro fondamentale degli USA proprio in un periodo in cui i leader del Golfo stanno avanzando dubbi sul perdurare del sostegno statunitense e sono sul chi vive a causa della recrudescenza delle proteste popolari. Non stupisce che stiano aprendo allo stato sionista; a chi altri potrebbero rivolgersi per ottenere protezione, in un mondo sempre più ostile ai loro interessi?
Ma anche questa prospettiva non è priva di rischi. Esistono resoconti che affermano che Trump è sul punto di rendere pubblico il suo "Accordo del Secolo". Ci si attende ampiamente che si tratterà di un'altra naqba, un'altra tragedia per i palestinesi. I leader del Golfo, che guardinghi hanno sostenuto l'accordo di Kushner, temono che la sua pubblicazione alimenterà i pretesti della Turchia e del Qatar per aizzargli contro i Fratelli Musulmani, proprio sulla questione palestinese.
Soprattutto gli alti papaveri del Golfo hanno ottimi motivi per essere nervosi. Si accorgono che i falchi nell'amministrazione Trump stanno mettendo all'angolo l'Iran in un crescere di pressioni e di provocazioni. Dopo il tre maggio, quando gli accordi sul petrolio saranno scaduti, potremo trovarci ad assistere a una rimarchevole escalation contro l'Iran da parte di Bolton e di Pompeo. Fino a che punto potrebbe trattarsi di un bluff spaccone in vista delle cruciali elezioni per la presidenza USA? O forse si sta senza parere manovrando Trump affinché dia il via a quella sempiterna guerra contro l'Iran che John Bolton cerca da tanto tempo? E Netanyahu lo seguirà a ruota? Cosa succederà allora nel Golfo?
Tutto questo complica le cose al Presidente Putin tutto. L'allineamento politico ed economico che sta prendendo forma in Medio Oriente e che arriva al Mediterraneo non è solo un accadimento estraneo privo di autentiche ripercussioni per la Russia. Anzi, esso ha un impatto molto diretto sugli interessi strategici russi. Il nuovo assetto rappresenta la linea del fronte rispetto al ventre molle russo e cinese, rappresentato dai vari stan dell'Asia centrale e dalla provincia cinese dello Xingjian. La Cina ha bisogno di assicurarsi un corridoio verso l'Europa per le merci che produce, la Russia necessita di un passaggio per l'energia che vende e per controbattere ai tentativi di Trump di imporre la supremazia statunitense nel settore tarpando le ali ai produttori avversari.  Sia la Cina che la Russia rischiano di vedersi imporre controlli serrati sulle rotte marine, chiuse dagli USA tramite un blocco navale.
Il quadro che si va formando nel settentrione del quadrante mediorientale, il lento passare della Turchia dalla NATO all'ombrello russo e un pari venir meno dell'agibilità di quello spazio per Stati Uniti e stato sionista sono già elementi sufficienti perché la Russia debba temere le intromissioni statunitensi, non fosse che per la presa che Tel Aviv ha sulla politica estera degli USA. In altre parole, la Russia deve prepararsi a un conflitto regionale -verosimilmente tra USA e stato sionista da una parte e Iran dall'altra- e lo sta facendo. Si ricordi la vecchia dottrina di Mackinder; chi controlla il blocco continentale asiatico...
Il 14 marzo il Consiglio per la Sicurezza Nazionale in Russia presieduto dal Presidente Putin ha ufficialmente cambiato la definizione degli intenti ameriKKKani verso la Russia passando dall'espressione "pericoli militari" (opasnosti) direttamente a quella di "minacce militari" (ugrozy). Insomma, il Cremlino si sta preparando per la guerra, per quanto difensive siano le sue intenzioni.
A Mosca pensano che Trump voglia la guerra? C'è da dubitarne, ma la posizione di Trump, la sua stessa permanenza in carica, come nel caso dei suoi predecessori, è inevitabilmente alla mercè di uno stato profondo che non permette ad alcuna minaccia di ergersi contro la sua cerchia o di arrivare a diventare un rischio per le leve del potere mondiale. Di sicuro Trump è consapevole di quale sia stato il destino dei suoi predecessori, e mantiene con loro i contatti che gli servono per le sue necessità politiche, davanti alla prospettiva di concedere ai due pupilli di Sheldon Anderson la licenza di fare le volontà dello stato sionista. Una circostanza forse faustiana, ma ne va della sopravvivenza.
Sembra quindi che la reazione di Putin sia quella di privilegiare la condizione di Mosca come mediatore mondiale che non si fa trascinare in alcuna guerra mediorientale e che si mantiene però al di sopra della mischia. Il problema è che i conflitti mediorientali hanno la brutta tendenza all'ecalation. E il rischio di un potenziale confronto diretto fra Russia e USA potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Per questo Putin ha bisogno di un canale diretto con Trump, e a livello diplomatico non ne esiste nessuno perché sono stati tutti smantellati. Per riuscire a mediare fra stato sionista e Iran, ha bisogno invece di tenersi caro Netanyahu come se fosse l'amico del cuore e di mostrare empatia per le sue necessità politiche. Una strategia che Putin ha sviluppato con buoni risultati anche nel caso dell'incostante Erdogan.
Non sarà facile: Netanyahu chiede che si continuino gli attacchi contro quelle che vengono presentate come strutture iraniane in Siria e in Iraq, e vuole rassicurazioni sul fatto che le difese russe non interverranno. E inoltre vuole che lui e Washington possano dire la loro sul futuro politico della Siria.
Non sono richieste di poco conto perché mettrebbero a rischio i rapporti della Russia con l'Iran, con la Siria e con gli altri alleati nell'iniziativa infrastrutturale e geopolitica su ricordata. E si tratterebbe di un precedente destinato a diventare regola. Putin può camminare su questa fune? Sarà di aiuto Netanyahu, come tramite per Trump? Netanyahu è degno di fede?

01 febbraio 2019

Alastair Crooke - Inizia in Medio Oriente un processo di ricomposizione di vasta portata. Gli esiti della guerra in Siria si ritorceranno contro chi l'ha voluta.



Traduzione da Strategic Culture, 14 gennaio 2019.

Il Medio Oriente sta cambiando volto. Stanno emergendo nuove linee di faglia; nonostante il teatro sia nuovo, i falchi della politica estera di Trump stanno ancora cercando di mandare in proiezione film già visti.
Uno di questi film già visti è il sostegno degli USA a favore degli stati arabi sunniti, da guidare verso il confronto con quell'Iran cui è affidato il ruolo del cattivo. La squadra di Bolton sta tornando al Clean Break, il vecchio copione del 1996, come se nel frattempo nulla fosse successo. I funzionari del Dipartimento di Stato hanno deciso che il discorso che il Segretario Pompeo ha tenuto al Cairo il 10 gennaio era stato "programmato per dire al pubblico -anche se Pompeo non poteva fare il nome dell'ex presidente- che Obama aveva mal cosigliato i popoli mediorientali su quale fosse l'autentica fonte del terrorismo, quella che aveva contribuito anche all'ascesa dello Stato Islamico. Pompeo continuerà a dire che l'Iran è la vera causa del terrorismo, quell'Iran che Obama aveva cercato di coinvolgere. Le bozze del discorso indicano anche che Pompeo avanza l'idea che l'Iran potrebbe prendere lezione dai sauditi in materia di diritti umani e di stato di diritto."
Beh, almeno sarà un discorso che sarà accolto da risate di scherno in tutta la regione. Sul piano concreto le linee di faglia nella regione si sono mosse e non riguardano più tanto l'Iran. I paesi del Consiglio degli Stati del Golfo hanno cambiato agenda, e sono ora assai più interessati a contenere la Turchia e a fermare l'influenza turca che sta facendosi strada in tutto il Levante. I paesi del Golfo temano che il Presidente Erdogan, in considerazione dell'ondata di antipatia viscerale e psicologica scatenata dall'uccisione di Khashoggi, possa mobilitare le reti su cui i Fratelli Musulmani -pieni di nuove energie- possono contare nel Golfo. Far leva sulle preoccupazioni che nel Golfo serpeggiano attualmente sulla situazione economica e inficiare qualunque visione di più ampio respiro quei paesi possano avere consentirebbe di minare il rigido "sistema arabo" del Golfo, che si sostanzia nella monarchia tribale. Per le monarchie del Golfo i Fratelli Musulmani pensano a una riforma in senso islamico ma dai toni morbidi, secondo le linee a suo tempo caldeggiate da Jamak Khashoggi.
I vertici dello stato turco sono comunque convinti che dietro la costruzione della zona cuscinetto curda e dietro il complotto volto a mettere questo mini-stato contro la Turchia insieme allo stato sionista e agli USA ci siano stati gli Emirati Arabi Uniti, e in particolare Mohammed bin Zayed. Comprensibile che adesso i paesi del Golfo che hanno armato in questo modo le aspirazioni curde temano una possibile rappresaglia turca.
E i paesi che fanno parte del Consiglio degli Stati del Golfo pensano che la Turchia sia già al lavoro -in stretta coordinazione con quel Qatar che è protettore del Fratelli Musulmani e membro del Consiglio- per incrementare le divisioni in un Consiglio degli Stati del Golfo ormai al collasso. La situazione fa presagire un nuovo scontro tra Fratelli Musulmani e wahabismo saudita, la cui posta in gioco è l'anima dell'Islam sunnita.
I paesi del Consiglio sperano quindi di mettere insieme un fronte che si contrapponga alla Turchia nel Levante. Per questo stanno cercando di attirare di nuovo il Presidente Assad nel campo arabo, ovvero di riammetterlo alla Lega Araba, e di far sì che agisca -di concerto con loro- come baluardo arabo contro la Turchia.
Il problema in questo caso è chiaro: il Presidente Assad è un alleato stretto dell'Iran, come la Russia e come la Turchia. Fare gli iranofobi alla moda -come vorrebbe Pompeo- impedirebbe ai paesi del Consiglio di mettere in atto il loro piano antiturco. I siriani possono nutrire un giusto scetticismo nei confronti delle iniziative e degli obiettivi della Turchia in Siria, ma dal punto di vista del Presidente Assad l'Iran e la Russia sono assolutamente indispensabili per controllare la incostante Turchia. La Turchia rappresenta un elemento in grado di minacciare l'esistenza della Siria. Cercare di fare pressione su Assad -o sul Libano, o sulla Turchia- perché prendano le distanze dall'Iran sarebbe assurdo. Non succederà nulla del genere, e i paesi del Golfo hanno ancora sufficiente discernimento da capirlo, dopo la cocente sconfitta subita proprio in Siria. La posizione antiiraniana dei paesi del Golfo ha subìto una brusca perdita di potenza, e riacquista vigore solo quando c'è bisogno di lisciare il pelo agli USA.
Insomma, vedono chiaramente che a comandare e a mettere in piedi il nuovo "ordine regionale" del Medio Oriente non è il signor Bolton, ma Mosca, con Tehran e (a volte) Ankara che fanno anch'essi la stessa parte dietro le quinte.
Probabilmente i servizi ameriKKKani sanno -e i paesi del Goilfo ne sono consapevoli- che comunque in Siria non ci sono quasi più militari iraniani, anche se i collegamenti della Siria con l'Iran restano solidi come sempre; questo, nonostante Pompeo e lo stato sionista asseriscano l'opposto e dicano di essere impegnati a respongere duramente ogni "minacciosa presenza" militare iraniana in Siria. In Medio Oriente ci crederanno in pochi.
La seconda notevole linea di faglia che si va delineando è quella che si sta aprendo fra la Turchia da una parte e gli USA e lo stato sionista dall'altra. La Turchia è consapevole -ed Erdogan lo è ancora di più- che Washington adesso è profondamente diffidente e che pensa che la Turchia stia passando sempre più velocemente nell'orbita di Mosca e di Pechino; a Washington sarebbero contenti di sapere Erdogan finito, e che al suo posto si trova un leader maggiormente favorevole alla NATO.
Anche a Washington devono sapere bene per quale motivo la Turchia sta guardando a oriente. Erdogan ha bisogno della Russia e dell'Iran, che agiscano da dietro le quinte in modo da alleggerire le difficoltà che egli si troverà ad avere in futuro con Damasco. La Russia, e ancor più l'Iran, gli sono indispensabili per arrivare a una soluzione politica plausibile per i curdi in Siria. E ha bisogno anche della Cina, che faccia da sostegno all'economia turca.
Erdogan è pienamente consapevole del fatto che lo stato sionista, più che i paesi del Golfo, ambisce ancora alla vecchia idea di Ben Gurion di inserire nella zona nevralgica dell'Asia sudoccidentale e centrale (e ai margini del ventre molle della Turchia) uno stato etnico curdo alleato a quello sionista e dotato di rilevanti risorse petrolifere.
Lo stato sionista ha sostenuto operativamente la formazione di uno stato curdo in modo piuttosto evidente all'epoca della fallita iniziativa di Barzani per l'indipendenza dall'Iraq. Solo che Erdogan si è sempre detto contrario a una cosa del genere; l'ultima volta lo ha detto a Bolton pochi giorni fa. Nonostante questo, Ankara ha ancora bisogno della collaborazione dei russi e degli iraniani per far sì che Bolton rinunci all'idea di un mini stato curdo in Siria. Ankara ha bisogno della Russia per arrivare alla realizzazione di una zona cuscinetto controllata dalla Siria, che prenda il posto della fascia di territorio che ameriKKKani e curdi hanno avviluppato alla sua frontiera meridionale.
Non è comunque probabile che, a dispetto della minaccia concreta che il sostegno armato ameriKKKano ai curdi rappresenta per la Turchia, Erdogan voglia veramente invadere la Siria, nonostante abbia minacciato di farlo e nonostante le "condizioni" poste da Bolton possano finire col non lasciare altra scelta alla Turchia. Di sicuro Erdogan è consapevole del fatto che un'invasione mal condotta della Siria farebbe sprofondare la lira turca, che già si trova in una situazione delicata.
Turchia, Siria, Iran e Russia vogliono che l'AmeriKKKa se ne vada dalla Siria. E per un momento è sembrato che la cosa potesse procedere senza intoppi dopo che Trump aveva accondisceso alle argomentazioni di Erdogan durante la loro famosa conversazione telefonica. Poi però il senatore Lindsay Graham ha sollevato obiezioni, in uno scenario di corali gemiti di angoscia che provenivano dai think tank di politica estera della capitale. Bolton ha fatto marcia indietro sottoponendo il ritiro statunitense dalla Siria a condizioni che sembrano fatte apposta per non poter verificarsi, e senza porre alcuna scadenza in particolare. La cosa al Presidente Erdogan non è piaciuta.
A questo punto dovrebbe essere ovvio che si sta entrando in una fase di profondo rimaneggiamento. Gli USA stanno lasciando la Siria. Il tentativo di Bolton di non effettuare il ritiro è stato respinto. E gli USA, in ogni caso, hanno tradito la fiducia del curdi con la prima dichiarazione di Trump sull'argomento. I curdi adesso guardano a Damasco, e la Russia sta facendo da mediatore per un accordo.
Potrà volerci del tempo, ma gli USA se ne andranno. Le forze curde, ad eccezione di quelle che fanno capo al PKK, verranno probabilmente integrate nell'esercito siriano e la zona cuscinetto non sarà diretta contro la Turchia ma sarà rappresentata da un insieme di forze siriane e di elementi curdi sotto comando siriano sul cui comportamento nei confronti della Turchia saranno comunque i russi a sovrintendere. E l'esercito siriano, a tempo debito, ripulirà Idlib dalla risorta alQaeda dello HTS.
I paesi arabi stanno riaprendo le ambasciate di Damasco, in parte per il timore che le contorsioni della politica ameriKKKana, con la sua radicale polarizzazione e la sua propensione a tornare del tutto o in parte sui propri passi ad opera dello stato profondo possa lasciare i paesi del Golfo improvvisamente privi di sostegno. In concreto i paesi del Consiglio di Cooperazione stanno munendosi contro questo rischio cercando di ricomporre i pezzi del mondo arabo e conferendogli nuovi scopi e nuova credibilità come contrappeso alla Turchia, al Qatar e ai Fratelli Musulmani, antica nemesi siriana.
Esiste anche un altro livello da considerare, secondo quanto scritto dal navigato esperto di Medio Oriente Elijah Magnier. 
Il Levante sta tornando al centro dell'attenzione nel Medio Oriente e nel mondo, e più forte di come era nel 2011. La Siria possiede missili ad alta precisione in grado di colpire qualsiasi edificio dello stato sionista. Assad ha anche un sistema di difesa aerea che prima del 2011 non si era nemmeno sognato, e lo ha grazie alle continue violazioni commesse nel suo spazio aereo dallo stato sionista e grazie al suo perdurante disprezzo per l'autorità russa. Hezbollah ha realizzato basi di montagna per i suoi missili di precisione a lungo e medio raggio e ha creato con la Siria un tale legame che sarebbe stato impossibile arrivarci se non fosse stato per la guerra. L'Iran ha stabilito con la siria un rapporto strategico fraterno, grazie al ruolo che ha avuto nei piani per impedire il rovesciamento dello stato siriano.
Il sostegno che la NATO ha fornito all'espansione dello Stato Islamico ha creato un legame fra Siria e Iraq che né i musulmani né i baathisti avrebbero mai potuto realizzare. L'Iraq ha carta bianca per bombardare le posizioni dello Stato Islamico in Siria senza che i vertici siriani debbano dare il loro assenso, e le forze di sicurezza irachene possono entrare in Siria ogni volta gli pare sia il caso di farlo per combattere lo Stato Islamico. L'asse contrario allo stato sionista non è mai stato più forte di quanto lo sia oggi. Ecco il risultato della guerra imposta alla Siria negli anni compresi fra il 2011 e il 2018.
Ecco. Questa è la terza linea di faglia che sta emergendo: lo stato sionista da una parte, e la realtà che si va consolidando nel nord della Siria dall'altra. Un'ombra che è tornata a perseguitare i primi istigatori della guerra destinata a indebolire la Siria. Il Primo Ministro Netanyahu ha messo tutte le speranze dello stato sionista nelle mani della famiglia Trump. Proprio i rapporti di Netanyahu con Trump -e non quelli con i palestinesi- sono stati presentati nello stato sionista come la parte sostanziale dell'"Accordo del Secolo". Eppure quando Bibi si è lamentato vigorosamente del ritiro statunitense dalla Siria -che a sentir lui avrebbe lasciato la Siria esposta alla dislocazione di evoluti missili iraniani- Trump ha risposto con noncuranza che gli USA forniscono allo stato sionista quattro miliardi e mezzo di dollari l'anno: "E ci starete bene", ha chiuso Trump.
Nello stato sionista l'episodio è stato considerato come un formidabile schiaffo al Primo Ministro. Ma nello stato sionista non possono certo evitare di riconoscere di aver avuto qualche responsabilità in ciò che ha portato alla situazione di cui si lamentano a gran voce.
E per finire, le cose non sono andate secondo i piani. Non è l'AmeriKKKa a plasmare il nuovo "ordine" nel Levante, ma Mosca. E le imperterrite ostentazioni di disprezzo dello stato sionista nei confronti degli interessi di Mosca nel Levante hanno prima mandato in bestia il Comando Supremo russo, e poi lo hanno indotto a dichiarare il quadrante settentrionale del Medio Oriente in pratica una zona a divieto di sorvolo per gli aerei dello stato sionista. Per gli USA e per Netanyahu si tratta di un rovescio strategico di prim'ordine.
In ultimo c'è questo copione che si ripete, in cui il Presidente degli USA fa dichiarazioni di politica estera che vengono quasi sistematicamente contraddette o "corrette" da parte di questo o quel settore della macchina burocratica statunitense, e che rappresenta la massima incognita per il Medio Oriente e anche al di là dei suoi confini. Si tratta di un copione che vede il Presidente isolato, intanto che i funzionari vuotano di autorevolezza esecutiva le sue affermazioni che poi vengono fatte proprie o smentite dall'apparato burocratico. Per quello che riguarda la condotta della politica estera, Trump sta diventando quasi irrilevante.
Ci troviamo davanti a un tacito processo -portato avanti con consapevolezza- per rimuovere passo per passo Trump dalla sua posizione di potere? Siamo davanti a una serie di iniziative che puntano a svuotare le sue prerogative presidenziali, lasciandogli di fatto solo il ruolo di molesto utente di Twitter, senza tirare in mezzo il trambusto e la confusione che comporterebbe una sua formale rimozione dalla carica? Staremo a vedere.
E cosa succederà a quel punto? Come osserva Simon Henderson, non si può essere sicuri di niente. Si resta a chiedersi
"...che ne è del gran tour per le capitali mediorientali del Segretario Pompeo? In breve, Pompeo sta cercando di rivendere e/o di spiegare agli amici degli USA la politica di Trump sull'abbandono della Siria... Amman in Giordania, il Cairo in Egitto, Manama nel Bahrein, Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti, Doha nel Qatar, Riyadh in Arabia Saudita, Masqat nell'Oman e Kuwait City in Kuwait. Accidenti: anche con un jet privato a disposizione e senza dover fare la fila al controllo passaporti, è un viaggio massacrante... Il fatto che siano previste otto tappe in otto giorni probabilmente rispecchia la grande quantità di spiegazioni che c'è bisogno di fornire."