mercoledì 18 marzo 2020

Alastair Crooke - Medio Oriente: cambiano le carte in tavola



Traduzione da Strategic Culture, 9 marzo 2020.

La fine di un'epoca. Quando finì la prima guerra mondiale, già erano evidenti i segnali che facevano presagire la fine di un'epoca dominata dall'Europa: dolorose iniziative diplomatiche congiunte, una visione politica limitata e l'approssimarsi di una crisi finanziaria con le appesantite politiche monetarie delle banche centrali ad annunciare la Grande Depressione. Ma la vita andò avanti: per tutti gli anni 20 uomini e donne in Europa ballarono un can can sfrenato. Era l'epoca del cabaret, delle feste. Nessuno voleva riconoscere i segni di ciò che si preparava.
Il mese scorso un accademico dello stato sionista si è detto dell'opinione che il futuro assetto del Medio Oriente è nelle mani di tre paesi che ne fanno parte: Iran, Turchia e stato sionista. Un'osservazione interessante. Nessuno dei tre paesi è arabo; e questa affermazione prevede un sempre maggiore disimpegno statunitense e un ruolo di secondo piano della Russia come distributrice di corone.
A rendere intrigante questa dichiarazione è il suo concentrarsi su tre paesi soltanto e il suo prevedere lo scemare degli interventi esterni intesi come fattore essenziale nel contesto di una futura mappa strategica. Il sottinteso è che dal punto di vista militare Iran, Turchia e stato sionista stanno gonfiando i muscoli. Ma i diplomatici e gli analisti politici di solito preferiscono attenersi al piano degli interessi politici nazionali. Non gli piace il dato di fatto per cui il risultato di un confronto militare può determinare di per sé degli esiti politici, confermando o negando i rispettivi interessi nazionali. Si tratta di un'offesa per la diplomazia. Solo che spesso succede proprio così. In questo momento il Medio Oriente non è davvero suscettibile di un approccio concettuale diretto: concentrarsi sul risultato di un confronto militare e delle prove di forza da una parte, e sulle dinamiche -piuttosto diverse- del coronavirus e dei suoi effetti sull'economia dall'altra ha più senso che non attenersi al tradizionale, mero calcolo degli interessi politici.
Ovviamente, nessuno di noi trova facile mescolare al pastone rappresentato dalle prove di forza militari di questi paesi i possibili effetti di qualche evento terzo, come l'irrompere del coronavirus, su cui si deve procedere soltanto per congetture. Comunque, proviamoci.
Pensiamo alla Turchia: i suoi vertici hanno gettato la maschera. Ah, la Turchia ha sostenuto gli oppositori islamici (moderati...?) al Presidente Assad? Ecco: via la maschera all'improvviso e arriva un "Idlib è nostra", vale a dire turca. "Anche Aleppo è turca, come il Sangiaccato". Neoottomanismo, panturchismo. Il mondo arabo ovviamente se ne è accorto, e i paesi del Golfo stanno rapidamente facendo fronte comune con Damasco contro questi intendimenti.
Appena questo progetto apertamente revanscista ha corso il rischio di essere sconfitto per la diretta pressione militare della Sicilia e dei suoi alleati, Ankara non ha fatto altro che scatenare il proprio esercito a fianco di al Qaeda; ha anche chiamato rinforzi jihadisti uiguri e ceceni da Jisr al Sughur, estremisti fra i peggiori. Che certe conventicole occidentali non si facciano più sentire a parlare di "ribelli moderati" legati alla Turchia.
Diversi soldati turchi, oltre una trentina, che si trovavano mescolati a questi estremisti sono rimasti uccisi mentre cercavano di disimpegnarsi da Saraqib, la seconda volta che la città è stata conquistata dai siriani e dai loro alleati. I vertici del potere in Turchia sono usciti di testa per l'emozione e per la rabbia. La retorica del tradimento ha imperversato; in violazione di ogni accordo preso nei confronti del presidente Putin, hanno sferrato contro le forze armate e le installazioni militari siriane un'ondata di attacchi con droni suicidi e già che c'erano hanno ammazzato un bel po' di iraniani e di uomini di Hezbollah.
Quale importanza ha tutto questo per il futuro strategico del Medio Oriente? Importa in questo senso: l'esercito turco, di gran lunga il più forte, ha subito ad opera della strategia di guerra asimmetrica che gli è stata rivolta contro una lezione ben più grave rispetto agli oltre trenta soldati caduti a Saraqib. Insomma: il secondo più grande esercito della NATO è stato concretamente surclassato da forze irregolari meno numerose ma esperte.
Ancora peggio, dopo 24 ore che i turchi si gloriavano per lo straordinario successo dei propri droni armati -lanciati durante uno sfortunato cessate il fuoco invocato dalla Russia- a sentir loro destinati nientemeno che a rovesciare l'equilibrio dei poteri in Medio Oriente, la loro minaccia veniva completamente neutralizzata dalle difese aeree siriane e da contromisure elettroniche probabilmente russe.
E c'è anche dell'altro: è venuto fuori che la Turchia si è servita dell'Islam -e degli jihadisti di al Qaeda- come puro e semplice orpello per le proprie ambizioni revansciste di stampo neoottomano e panturchista. La maschera è caduta e non si può sostituire. Né l'esercito né i droni si sono rivelati in grado di rovesciare la situazione come invece pensava la leadership turca. Con quel suo usare i profughi come una minaccia, la Turchia si è anche alienata gli europei. Erdogan non aveva messo in conto l'impatto di questo virus su quello che gli europei pensano del fenomeno migratorio?
Erdogan ha fatto imbestialire l'esercito russo; in un ultimatum congiunto senza precedenti, l'esercito iraniano e il braccio militare di Hezbollah hanno detto che i soldati turchi sarebbero diventati un bersaglio se la Turchia avesse proseguito con questi comportamenti. Questa volta i turchi hanno fatto incazzare praticamente tutti.
Ma non è ancora finita. Questo virus colpisce anche un altro calcolo: l'indebitamento, e soprattutto il debito sovrano, all'improvviso viene considerato con estremo scetticismo, dato l'improvviso diminuire delle scorte a livello mondiale. L'economia turca si trova in grossi guai; in circostanze dello stesso genere fino a oggi i cinesi avevano aiutato la lira turca a stare a galla; adesso anche in Cina regna la freddezza, perché Erdogan sta cercando di proteggere circa tremila jihadisti uiguri per servirsene come strumento nell'interesse turco. I guai si accumulano... E ci sono anche segnali che fanno pensare ad una frammentazione del sostegno politico di cui Erdogan gode sul fronte interno, anche in seno al suo stesso partito.
Putin conosce la situazione: un conflitto fra Russia e Turchia andrebbe ad esclusivo beneficio dell'AmeriKKKa. Per questo ha lisciato il pelo di Erdogan, ne ha un po' gratificato l'ego, e ha tolto dal tavolo la questione dell'autostrada M4, della M5 e in fin dei conti della stessa Idlib. Il cessate il fuoco del 5 marzo non è che un accordo temporaneo. Non durerà, ma mette le cose come stanno. Idlib è lo spillo che ha forato il pallone gonfiato turco. A livello regionale si tratta di un ribaltamento strategico di primaria importanza.
Adesso diamo un'occhiata all'altro elemento di questa equazione strategica e militare: l'Iran ha ampiamente dimostrato di essere una realtà militarmente temibile sia per quanto riguarda missili, droni e contromisure elettroniche, sia per aver fatta propria una capacità offensiva radicalmente decentralizzata, dalla forma indefinita e indefinibile. Non siamo alla perfezione: niente di tutto questo è fatto per arrivare ai ferri corti con gli USA o con lo stato sionista. Il tutto può però imporre a qualsiasi avversario i costi della guerra asimmetrica, e spargerli per l'intera regione.
I paesi del Golfo lo hanno finalmente capito; e lo ha capito anche lo stato sionista, che non può permettersi di affrontare una guerra su più fronti più di quanto l'Iran non possa pensare di vincere in un confronto diretto con gli USA. Questo, anche se la capacità degli USA di impegnarsi a tutto campo in qualcosa del genere probabilmente non esiste più. Non è più credibile l'idea che gli USA possano invadere l'Iran per interrompere una prolungata e sfuggente serie di attacchi missilistici contro bersagli ameriKKKani e sionisti. Insomma, l'Iran si è conquistato qualcosa di simile a una competitività sul piano militare, almeno quel tanto che basta a fare da deterrente.
Dopo aver considerato le dinamiche militari, è la volta degli effetti geopolitici ed economici del coronavirus.
Per l'economia reale, il virus rappresenta uno shock improvviso e dalla natura estranea. Questo virus non è come l'influenza di stagione. È molto più virulento perché staziona in gola più che nei polmoni e si diffonde con la tosse e con gli starnuti, rimanendo per molti giorni su oggetti che vengono toccati dagli altri. A differenza di quanto succede con l'influenza, i portatori del virus possono non mostrare sintomi della malattia, il che rende difficile identificare la catena di infezione o prendere appropriate iniziative di contenimento. In medicina le circostanze per cui il coronavirus ha iniziato a diffondersi non sono note; se ne presume un'origine animale, ma non ci sono prove. Non se ne conoscono la riproduzione e il tasso di letalità, non si sa se sia interessato dai cambiamenti di stagione. Sembra che sia già mutato una volta, producendo sia una variante più lieve che una più letale.
Insomma, chiunque dica quanto durerà l'epidemia sta semplicemente tirando a caso. L'influenza spagnola, tanto per mostrare quale sia la natura di questi incerti di origine virale, iniziò alla fine del 1917 e attraversò tre fasi distinte nel 1918; mutò e divenne più letale nell'agosto del 1918, con un picco di letalità tra settembre e novembre. Iniziò a perdere forza nel 1919. Infettò un terzo della popolazione mondiale e uccise fra i cinquanta e i cento milioni di persone in Europa, Nord America e Asia.
A fronte di tanta incertezza, cosa possiamo dire del Medio Oriente? Innanzitutto che quest shock per l'economia arriva alla fine di un ciclo di debito e di credito a lungo termine in cui le banche centrali hanno sostenuto il valore delle azioni tramite iniezioni di liquidità e tassi di interesse prossimi allo zero. E questo è il punto essenziale: ormai qualche decennio che le politiche occidentali senza eccezioni e quella cinese sono state impostate in modo da stimolare la domanda. Gli strumenti per farlo erano tutti monetari, ed erano fatti perché la gente spendesse e consumasse di più.
Un improvviso venire meno delle scorte provocato da una pandemia non può essere corretto con strumenti monetari o intervenendo sui tassi di interesse. Le fabbriche delocalizzate e le linee di rifornimento interrotte implicano anche il venire meno della domanda, cosa che rappresenta l'altro rovescio della medaglia del venire meno di una produzione in cui i lavoratori vengono licenziati o subiscono decurtazioni della paga.
Già adesso  il commercio è fermo, il turismo non esiste più e i mercati stanno fluttuando vorticosamente. Il virus sta mettendo in questione le catene di rifornimento globalizzante e la politica monetaria occidentale. Quando la Fed statunitense ha annunciato un taglio degli interessi dello 0,5% dovuto all'emergenza, il primo da 2008, i mercati sono crollati. Di sicuro il discorso si sposterà adesso sulle misure fiscali. Ma anche le misure fiscali non hanno il potere di riaprire le fabbriche chiuse a causa della malattia e della quarantena. Le misure fiscali possono fare da sussidio ad attività che altrimenti sarebbero in perdita, ma una cosa del genere andrebbe in direzione contraria alla nostra cultura del laissez faire. Nell'Unione Europea, violerebbe le regole stesse dell'Unione.
Quanto severamente il Medio Oriente ne verrà colpito? Nessuno può prevedere la tempistica o quanto alla fine si rivelerà virulenta l'epidemia. L'influenza stagionale ha una mortalità dello 0,2% tra i soggetti colpiti. Nel caso del coronavirus l'OMS la stima nel 3,4%. Lo scenario previsto per il peggiore dei casi nel Regno Unito parla di mezzo milione di morti. Che la sanità mediorientale possa reggere un numero di ospedalizzati pari al 15 o 20% di quanti sono infettati dal coronavirus è improbabile. Non può riuscirci nemmeno la sanità europea. Secondo stime meramente ipotetiche il picco è previsto per l'inizio dell'estate.
E poi ci sono le conseguenze economiche: il turismo non esiste più; i mercati globali sono andati a picco e tutti sono preoccupati per l'impennarsi del debito sovrano e di quello delle imprese, nel caso il venir meno dei rifornimenti dovesse prolungarsi. A rimetterci di più saranno senz'altro i produttori di greggio, vale a dire i paesi del Golfo. Il greggio WTI già viene scambiato verso i quarantacinque dollari. Tuttavia, anche i paesi più integrati nel sistema finanziario newyorkese possono risentire della turbolenza finanziaria e dei fallimenti; si tratta dello stato sionista e dei paesi del Golfo. Non è verosimile che qualcuno riesca a sfuggire agli effetti del coronavirus, in un modo o nell'altro. Anche se perdesse virulenza oggi, non è probabile che l'economia si riprenda di colpo. Gli effetti si ripercuoteranno sui prossimi due trimestri. In questo momento a risentirne maggiormente è l'Iran, ma la parabola di un virus segue percorsi capricciosi: perché in Europa proprio lo stato che occupa la penisola italiana è stato colpito in modo tanto duro? Non si sa, anche se sembra sia colpa della più virulenta mutazione L.
Tiriamo le somme. Sul piano strategico la Turchia non ha vinto la sua partita al gioco del coniglio in Siria. Può anche essere sul punto di implodere economicamente, cosa che sarebbe mitigata solo dal suo essere più o meno disposta a inchinarsi al volere di Mosca e di Pechino. L'Iran sopravviverà perché gli sciiti hanno una lunga esperienza quanto a tempi grami, e perché l'Iran è troppo importante per cadere, sia per la Cina che per la Russia. Le oligarchie libanesi, irachene e giordane, oltre ai tradizionali vertici settari, erano già a rischio prima che gli effetti economici del coronavirus le colpissero anch'essi. Non possono cambiare, e rifiutano di adattarsi. Lo scontento peggiorerà e le proteste causate dagli effetti del virus si moltiplicheranno. Il malcontento generato al coronavirus in Corea del Sud e in Giappone si è diretto contro la classe politica del paese.
Ma gli stati del Golfo, già bistrattati politicamente dalla umiliante riedizione del Sykes-Picot che Trump pretende di imporre con toni ultimativi per il suo "accordo del secolo" e stretti fra l'incudine della politica di Washington contro l'Iran e il martello della risposta iraniana, si troveranno a soffrire economicamente in una maniera che né la classe politica né la parte della popolazione che vive grazie al proprio stipendio sono pronte ad affrontare. Il greggio a quarantacinque dollari e l'industria turistica paralizzata per tutto il tempo dell'epidemia rappresentano uno shock peggiore di quello apportato lo scorso settembre dalla vulnerabilità della Aramco.
La mappa strategica sta cambiando.

 

Nessun commento:

Posta un commento