Traduzione da Strategic Culture,
22 aprile 2024.(Questo articolo rappresenta la traccia per un intervento previsto al 25° Yasin (aprile), iniziativa accademica internazionale sullo sviluppo economico alla Università HSE di Mosca, aprile 2024)
Nell'estate che seguì l'offensiva (fallita) dello stato sionista contro Hezbollah del 2006, Dick Cheney sedeva un giorno nel suo ufficio lamentandosi ad alta voce del fatto che Hezbollah ne era suscito intatto e, peggio ancora, del fatto che gli sembrava che l'Iran fosse stato il principale beneficiario della guerra in Iraq degli Stati Uniti del 2003.
All'incontro era presente John Hannah, che avrebbe poi
raccontato di come l'ospite di Cheney -l'allora capo dell'intelligence saudita il principe Bandar- avrebbe convintamente concordato. Tra lo stupore generale il principe Bandar affermò che si poteva comunque mettere l'Iran al suo posto.
La Siria era l'anello "debole" tra l'Iran e Hezbollah: lo si sarebbe potuto spaccare attraverso un'insurrezione islamista, propose Bandar. Lo scetticismo iniziale di Cheney si trasformò in euforia quando Bandar disse che il coinvolgimento degli Stati Uniti non sarebbe stato necessario: sarebbe stato lui, il principe Bandar, a organizzare e gestire la cosa. "Lasciate fare a me", disse.
Bandar disse a quattr'occhi a John Hannah: "Il Re sa che a parte il collasso della Repubblica Islamica stessa, non c'è nulla che indebolirebbe l'Iran più della perdita della Siria".
Una nuova fase della guerra di logoramento contro l'Iran iniziò così. Si sarebbe spostato in modo decisivo l'equilibrio del potere regionale verso l'Islam sunnita e le monarchie del Golfo.
Il vecchio equilibrio dell'epoca dello Scià, in cui la Persia godeva del primato regionale, doveva finire: e finire definitivamente, speravano gli Stati Uniti, lo stato sionista e il re saudita.
L'Iran -già gravemente ferito dalla
guerra imposta con l'Iraq- aveva deciso che non sarebbe mai più stato tanto vulnerabile. L'Iran
aveva mirato a trovare un modo per mantenere una propria deterrenza strategica nel contesto di una regione dominata dallo schiacciante dominio aereo dei suoi avversari.
Ciò che è accaduto questo sabato 14 aprile -circa 18 anni dopo- è quindi di estrema importanza.
Nonostante le polemiche e il brusìo che sono seguiti all'attacco iraniano, lo stato sionista e gli Stati Uniti conoscono la verità:
i missili iraniani sono riusciti a penetrare direttamente nelle due basi e nei siti aeronautici più sensibili e più difesi dello stato sionista. Dietro la retorica occidentale si nascondono lo shock e i timori dello stato sionista. Le sue basi non sono più
intoccabili.
Lo stato sionista sa anche -ma non può ammetterlo- che il cosiddetto "attacco" non era un attacco, ma un messaggio con cui l'Iran affermava la nuova equazione strategica: qualsiasi attacco sionista all'Iran o al suo personale comporterà una rappresaglia iraniana nei confronti dello stato sionista.
Questo atto di fissare una nuova "equazione nell'equilibrio del potere" unisce i diversi fronti contro "la connivenza degli Stati Uniti verso le iniziative dello stato sionista in Medio Oriente, che sono al centro della politica di Washington e che per molti versi sono la causa principale di nuove tragedie", per dirla con le parole del Ministro degli Esteri russo Sergey Ryabkov.
Questa equazione rappresenta un fronte fondamentale -insieme alla guerra della Russia contro la NATO in Ucraina- per convincere l'Occidente che il suo mito eccezionalista e redentore si è rivelato essere di una presunzione fatale, che deve essere abbandonato e che è necessario un profondo mutamento culturale in Occidente.
Le radici di questo conflitto culturale dalla più ampia portata sono profonde, ma finalmente sono emerse.
Il principe Bandar nel 2006 ha iniziato a giocare la carta sunnita, ma poi la partita è andata male. Per la maggior parte grazie all'intervento della Russia in Siria. E l'Iran è uscito dall'isolamento ed è saldamente attestato come potenza regionale di primo piano. È il partner strategico di Russia e Cina. E gli Stati del Golfo oggi stanno attenti più che altro al denaro, agli "affari" e alle tecnologie, piuttosto che alla giurisprudenza salafita.
La Siria, all'epoca presa di mira dall'Occidente e messa al bando, non solo è sopravvissuta a tutto ciò che l'Occidente poteva gettarle addosso, ma ha ritrovato il caloroso abbraccio dalla Lega Araba e la sua riabilitazione. E oggi la Siria sta lentamente ritrovando la strada per tornare a essere se stessa.
Tuttavia, anche durante la crisi siriana si sono verificate dinamiche impreviste nel gioco in cui il principe Bandar contrapponeva l'identità islamista all'identità laica socialista araba. Scrivevo nel 2012:
Negli ultimi anni abbiamo sentito i sionisti ribadire con forza la loro intenzione di essere riconosciuti come Stato nazionale specificamente ebraico, piuttosto che come stato sionista di per sé.
Uno Stato che avrebbe sancito
diritti eccezionali per gli ebrei in campo politico, giuridico e militare.
[All'epoca] i paesi musulmani cerca[va]no di smantellare gli ultimi resti dell'era coloniale. Vedremo forse questa lotta prendere sempre più le forme di una lotta primordiale tra simboli religiosi ebraici e islamici, tra al-Aqsa e il Monte del Tempio?
Per essere chiari, ciò che era evidente già allora nel 2012 era "che sia lo stato sionista che il territorio circostante stanno marciando al passo con un linguaggio che li porta lontano dai concetti di fondo, in gran parte laici, con cui questo conflitto è stato tradizionalmente interpretato. Quali le potenziali conseguenze, visto che il conflitto per sua stessa logica diventa così uno scontro tra poli religiosi?".
Se dodici anni fa i protagonisti si stavano esplicitamente allontanando dai basilari concetti laici con cui l'Occidente aveva interpretato il conflitto, noi, al contrario, stiamo ancora oggi cercando di comprendere il conflitto palestinese attraverso la lente di concetti laici e di ispirazione razionale, anche se lo stato sionista è adesso evidente preda di una frenesia sempre più apocalittica.
Siamo bloccati di conseguenza nel tentativo di affrontare il conflitto attraverso gli strumenti politici utilitaristici e razionalisti cui ricorriamo abitualmente. E ci chiediamo perché la nostra interpretazione non funziona. Non funziona perché entrambi i contendenti hanno superato il razionalismo meccanicistico e si sono spostati su un piano diverso.
Il conflitto diventa escatologico
Le elezioni dello scorso anno nello stato sionista hanno comportato un cambiamento rivoluzionario: i mizrahim sono arrivati fino all'ufficio del Primo Ministro. Questi ebrei provenienti dal mondo arabo e nordafricano e che adesso costituiscono forse la maggioranza hanno abbracciato insieme ai loro alleati politici di destra un programma radicale: completare la fondazione dello stato sionista sulla Terra d'Israele (niente Stato palestinese, quindi); costruire il Terzo Tempio al posto di Al-Aqsa e istituire la legge halachica al posto della legge laica.
Niente di tutto questo può essere definito "laico" o liberale. Si tratta del rovesciamento rivoluzionario della élite aschenazita. Fu Begin a legare i mizrahim prima all'Irgun e poi al Likud. I mizrahim ora al potere considerano se stessi i veri rappresentanti dell'ebraismo e il loro progetto è l'Antico Testamento. E trattano con sufficienzza i liberali aschenaziti di origine europea.
Se pensiamo di poterci lasciare alle spalle i miti e i dettami della Bibbia in questa nostra epoca intrisa di laicismo, in cui gran parte del pensiero occidentale contemporaneo ignora queste prospettive liquidandole come confuse o irrilevanti, ci sbagliamo.
I personaggi politici dello stato sionista ormai infarciscono in continuazione i loro proclami di riferimenti biblici e di allegorie. Primo fra tutti Netanyahu... Dovete ricordare ciò che Amalek vi ha fatto, dice la nostra Sacra Bibbia, e noi lo ricordiamo - e stiamo combattendo..." Qui [Netanyahu] non solo invoca la profezia di Isaia, ma inquadra il conflitto come uno scontro della "luce" contro le "tenebre" e del bene contro il male, dipingendo i palestinesi come i figli delle tenebre che devono essere sconfitti dagli Eletti: Il Signore ordinò al re Saul di distruggere il nemico e tutto il suo popolo: "Va' dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini" (15:3)".
Potremmo definire questo modo di fare come "escatologia a caldo"; è un approccio che si sta diffondendo tra i giovani quadri militari dello stato sionista, al punto che l'alto comando ne sta perdendo il controllo sul campo dal momento che gli manca una una classe di sottufficiali.
D'altra parte, la rivolta lanciata da Gaza non si chiama "Alluvione di Al Aqsa" per niente. Al Aqsa è sia il simbolo di una storica civiltà islamica, sia il baluardo contro la costruzione del Terzo Tempio per il quale sono in corso i preparativi. Il punto è che Al-Aqsa rappresenta l'Islam in generale, non quello sciita, quello sunnita o quello ideologico.
Poi, a un altro livello, abbiamo per così dire una "escatologia spassionata": quando Yahyah Sinwar scrive di "vittoria o martirio" per il suo popolo a Gaza; quando Hezbollah parla di sacrificio; e quando la Guida Suprema iraniana parla di Hussein bin Ali (il nipote dell'Inviato) e dei suoi circa settanta compagni che nel 680 d.C. andarono per una causa di giustizia incontro al massacro contro un esercito forte di mille uomini, si tratta di un sentire semplicemente al di là della portata della comprensione occidentale, che è centrata sull'utilitarismo.
Non possiamo razionalizzare facilmente questo modo di porsi, secondo le modalità del pensiero occidentale. Tuttavia, come
osserva l'ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, l'Occidente pur essendo laico è "consumato dalla fiamma del proselitismo". Lo "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni" di San Paolo è diventato "andate a diffondere i diritti umani in tutto il mondo"... E questo proselitismo è estremamente radicato nel [DNA occidentale]: "Anche le persone meno religiose, totalmente atee, hanno ancora una mentalità di questo tipo [anche se] non sanno da dove venga".
Potremmo chiamarla "escatologia laica", per così dire. È certamente una conseguenza.
Una rivoluzione militare: adesso siamo pronti
L'Iran, nonostante la guerra di logoramento dell'Occidente, ha perseguito una sua astuta strategia fondata sul saper incassare sul piano strategico, e ha tenuto i conflitti lontani dai suoi confini. Una strategia che ha puntato molto sulla diplomazia e sul commercio, oltre che sul soft power come strumento per intrecciare rapporti costruttivi con paesi vicini e lontani.
Dietro questa facciata tranquilla, tuttavia, si nascondeva l'evoluzione verso la deterrenza attiva. Un percorso che richiedeva una lunga preparazione militare e la disponibilità di alleati.
La nostra comprensione del mondo è diventata antiquata
Solo in pochi casi, davvero in pochi casi, una rivoluzione militare può rovesciare il paradigma strategico predominante. Questa è stata tuttavia l'intuizione chiave di Qassem Suleimani. Questo è ciò che implica la deterrenza attiva: il passaggio a una strategia in grado di rovesciare i paradigmi predominanti.
Sia lo stato sionista che gli Stati Uniti hanno eserciti convenzionali molto più potenti di quelli dei loro avversari, che per lo più sono piccole formazioni ribelli o rivoluzionarie non statali. Compagini del genere nell'ottica colonialista tradizionale vengono considerati più che altro come ammutinati, nei cui confronti è generalmente considerato sufficiente un dispendio minimo di potenza di fuoco.
L'Occidente, tuttavia, non ha completamente afferrato il senso delle rivoluzioni militari in corso. Si è verificato uno spostamento radicale dell'equilibrio di potere tra l'improvvisazione a bassa tecnologia e i costosi, complessi e meno robusti sistemi d'arma.
Gli elementi aggiuntivi
A rendere il nuovo approccio militare iraniano davvero foriero di ampie trasformazioni sono stati due fattori aggiuntivi. Uno è stato la comparsa di un eccezionale stratega militare, finito poi assassinato; l'altro, la sua capacità di mescolare e dislocare questi nuovi strumenti in una matrice del tutto nuova. La fusione di questi due fattori, insieme a droni e missili da crociera a bassa tecnologia, ha portato a termine la rivoluzione.
La filosofia che guida questa strategia militare è chiara: l'Occidente ha investito troppo nel dominio aereo e nella potenza di fuoco a tappeto che gli è propria. Privilegia gli assalti del tipo "shock and awe", ma si esaurisce rapidamente nelle prime fasi dello scontro. Raramente può reggere a lungo. E l'obiettivo della Resistenza è proprio quello di esaurire il nemico.
Il secondo principio chiave che guida questo nuovo approccio militare riguarda l'attenta calibrazione dell'intensità del conflitto, alzando e abbassando la tensione a seconda dei casi e, allo stesso tempo, facendo in modo che sia la Resistenza a decidere della escalation.
In Libano nel 2006 Hezbollah è rimasto in profondità nel sottosuolo mentre l'aeronautica sionista imperversava. I danni fisici in superficie sono stati enormi, ma le forze di Hezbollah sono rimaste intatte e sono emerse dai profondi tunnel solo dopo. Poi sono arrivati i trentatre giorni di missili lanciati da Hezbollah, fino a quando non è stato lo stato sionista a decidere di mollare.
La risposta militare sionista all'Iran ha avuto un qualche significato strategico?
I sionisti sono convinti che senza deterrenza -cioè senza che il mondo abbia paura di loro- non possono sopravvivere. Il 7 ottobre ha tolto alla società sionista ogni freno al timore essa prova per la propria esistenza. La presenza stessa di Hezbollah non fa che esacerbarlo. E poi è arrivato l'Iran, che ha fatto piovere missili direttamente sullo stato sionista.
L'apertura del fronte iraniano, in un certo senso, ha inizialmente favorito Netanyahu: la sconfitta delle forze armate sioniste nella guerra di Gaza, l'impasse per il rilascio degli ostaggi, gli sfollati che continuano a essere sfollati nel nord del paese e persino l'assassinio degli operatori umanitari della World Kitchen sono stati temporaneamente dimenticati. L'Occidente ha di nuovo fatto gruppo a fianco dello stato sionista e di Netanyahu. I paesi arabi hanno ricominciato a collaborare. E l'attenzione
si è spostata da Gaza all'Iran.
Fin qui tutto bene... per Netanyahu, senza dubbio. Netanyahu ha cercato per vent'anni di coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra contro l'Iran; due presidenti statunitensi hanno rifiutato uno dopo l'altro questa pericolosa prospettiva. E per ridimensionare l'Iran l'assistenza militare degli Stati Uniti sarebbe davvero necessaria.
Netanyahu percepisce la debolezza di Biden e ha gli strumenti e le competenze necessarie a manipolare la politica statunitense: in effetti, lavorando in questo modo, Netanyahu potrebbe costringere Biden a continuare a fornire armi allo stato sionista e persino ad approvare il suo coinvolgimento nel conflitto di Hezbollah in Libano.
Conclusione
Lo stato sionista andrà avanti con la strategia degli ultimi decenni, inseguendo speranzoso la chimera di una de-radicalizzazione dei palestinesi a vantaggio della propria sicurezza.
Un ex ambasciatore dello stato sionista negli Stati Uniti sostiene che lo stato sionista non può avere la pace senza questa de-radicalizzazione in grado di cambiare veramente le cose. "Se la portiamo avanti bene", insiste Ron Dermer, "renderà più forte lo stato sionista e anche gli Stati Uniti". È in questo contesto che va inquadrata l'insistenza dell'esecutivo di guerra per una rappresaglia contro l'Iran.
Le argomentazioni razionali favorevoli alla moderazione vengono interpretate come un invito ad ammettere la sconfitta.
Tutto questo per dire che i cittadini dello stato sionista sono psicologicamente molto lontani dall'idea di riconsiderare l'essenza dell'iniziativa sionista, ovvero i diritti esclusivi degli ebrei. Per ora essi hanno preso una strada del tutto differente, affidandosi a una interpretazione della Bibbia che molti sono arrivati a considerare come una serie di prescrizioni obbligatorie imposte dalla legge halachica.
Hubert Védrine ci pone una domanda supplementare: "Riusciamo a immaginare un Occidente che riesca a preservare i sistemi sociali che esso stesso ha generato e che al tempo stesso non faccia proselitismo e non sia interventista? In altre parole, un Occidente che sappia accettare l'alterità, che sappia vivere con gli altri e accettarli per quello che sono?"
Secondo Védrine questo "non è problema da macchinosità diplomatiche: è questione di un profondo esame di coscienza, un profondo cambiamento culturale. Che deve avvenire nella società occidentale".
È probabile che non si possa evitare un confronto tra lo stato sionista e i fronti della Resistenza schierati contro di esso.
Il dado è stato deliberatamente tratto.
Netanyahu sta giocando molto sul futuro dello stato sionista e dell'America. E potrebbe perdere.
Se ci sarà una guerra regionale e lo stato sionista dovesse uscirne sconfitto, cosa succederà?
Quando il senso di stanchezza e quello di sconfitta si faranno finalmente sentire e gli interessati andranno a raschiare il fondo del barile per trovare nuove soluzioni alle loro angosce strategiche, la soluzione veramente in grado di cambiare le cose potrebbe essere quella in cui un leader dello stato sionista pensasse all'impensabile: a un unico Stato tra il fiume e il mare.