martedì 26 dicembre 2023

Alastair Crooke - Netanyahu superato dal furbo Biden? No, è Biden quello che viene preso in giro

Traduzione da Strategic Culture,25 dicembre 2023.

Quando un ospite gli ha detto che Netanyahu sta trascinando gli Stati Uniti in una guerra di civiltà e che Netanyahu dà la colpa a lui lamentandosi che la Casa Bianca vuole impedire allo stato sionista di affrontare il problema alla radice con tutti quei discorsi su Gaza e sul "giorno dopo", Biden ha sorriso e ha risposto "Lo so".
In pratica, Netanyahu sta semplicemente mettendo in atto una classica manovra di aggiramento, cercando di eludere Biden con la scusa del conflitto più grave che in atto con l'Iran: "Perché mi tormenti con Gaza quando c'è una guerra grossissima in corso", suggerisce un Bibi esasperato?
"Questa non è solo la 'nostra guerra', ma per molti versi anche la vostra... È una battaglia contro l'asse iraniano... che ora minaccia di chiudere lo stretto marittimo di Bab Al-Mandeb... È l'interesse... dell'intero mondo civile", ha detto Netanyahu senza tanti giri di parole.
La reazione di Biden è un sorriso compiaciuto che lascia intendere che egli pensa di poter superare Netanyahu ("la volpe"). Questo è l'approccio di Biden: mira a disinnescare le accuse di Netanyahu -per cui gli USA gli starebbero facendo ostruzionismo- per mezzo di una serie di incontri ad alto livello che ribadiscono il suo incondizionato sostegno allo stato sionista, e ad anticipare Bibi insistendo sul fatto che lui (Biden) si occuperà delle questioni non legate a Gaza (Hezbollah, Yemen...).
Insomma, gli Stati Uniti stanno mettendo insieme una forza navale per affrontare AnsarUllah nello Yemen; l'amministrazione Biden agirà per sanzionare i coloni violenti in Cisgiordania, sta ammonendo Baghdad di tenere a freno lo Hashad al Sha'abi, e i suoi inviati a Beirut stanno cercando di negoziare un "accordo diplomatico" che includa il ritiro delle Forze Radwan di Hezbollah dall'altro lato del fiume Litani nel sud del Libano, e che affronti anche le dispute di confine irrisolte tra stato sionista e Libano.
Biden si vanta di essere un attore di politica estera di grande esperienza e si ritiene troppo astuto per i trucchi di Bibi. Ma forse Netanyahu, pur con tutti i suoi difetti, capisce meglio la regione.
È chiaro che Biden viene davvero preso in giro. Anche se non lo riconosce.
Netanyahu sa che Hezbollah non disarmerà mai ritirandosi a nord del Litani. Lo sa e quindi può aspettare il fallimento diplomatico di Biden, prima di dire che i circa settantamila cittadini dello stato sionista sfollati dalle città del nord dopo il 7 ottobre devono "tornare a casa" e che se gli Stati Uniti non possono allontanare Hezbollah dal confine, allora lo farà lo stato sionista.
Netanyahu sta usando l'iniziativa diplomatica libanese di Biden per costruire una giustificazione ad uso degli europei per un'operazione sionista in programma da qui a poche settimane per allontanare Hezbollah dal confine. Un'operazione dello stato sionista contro Hezbollah è in programma fin dall'inizio della guerra a Gaza.
Netanyahu sa anche che il controllo sulle violenze dei coloni in Cisgiordania non spetta a lui e che è nelle mani dei suoi colleghi, i ministri Ben Gvir e Smotrich. Né lui né Biden possono imporre loro nulla: da mesi stanno aumentando silenziosamente la stretta sui palestinesi della Cisgiordania. Infine, Netanyahu conosce gli Houthi: non si lasceranno scoraggiare dalla flottiglia di Biden. Anzi, si divertiranno ad attirare l'Occidente in un pantano nel Mar Rosso.
Che piaccia o no, la tattica di Biden di contenere e prevenire l'escalation regionale imponendo il ruolo da protagonista degli Stati Uniti al posto dello stato sionista sta chiaramente trascinando gli USA in un conflitto ancora più profondo. Biden crede forse che gli Houthi si ritireranno tranquillamente perché la Gerald Ford è ancorata al largo di Bab Al-Mandeb, o che Hezbollah accetterà le istruzioni di Amos Hochstein?
Il secondo aspetto per cui Biden si trova surclassato è il fatto che egli considera il problema dello stato sionista come impersonato dal solo Bibi, che starebbe indulgendo in una politica personalistica. Certo, è vero che il premier dello stato sionista sta plasmando la politica del paese in base alle proprie esigenze di sopravvivenza; tuttavia ci si trattenga un attimo a considerare ciò che il presidente Herzog ha detto martedì durante una intervista richiesta dallo Atlantic Council, uno importante think tank con sede a Washington.
Prima della guerra, Herzog è stato a lungo considerato dallo establishment della politica estera di Washington come una colomba, e senz'altro di sinistra rispetto a Netanyahu.
Nella suddetta intervista Herzog ha affermato che "Intendiamo conquistare l'intera Striscia di Gaza e cambiare il corso della storia". Ha affermato che l'attuale conflitto è uno scontro tra "civiltà differenti" e ha definito Hamas (in termini puramente manichei) una "forza del male", aggiungendo che lo stato sionista non avrebbe più tollerato che Gaza fosse una "base per un Iran che sta spingendo tutti nell'abisso delle stragi e della guerra".
Non c'è molta differenza tra lui e il Primo Ministro, quindi.
La convergenza tra Herzog e Bibi riflette forse un cambiamento più sostanziale in atto nello stato sionista, un cambiamento strategico che va ben oltre l'ossessione personale di Biden per Bibi: il New York Times e lo Jerusalem Post riferiscono che dopo il 7 ottobre il 36% dei cittadini dello stato sionista si è spostato decisamente a destra su una serie di questioni politiche, tra cui il sostegno ai coloni in Cisgiordania, l'appoggio a politici di estrema destra e persino gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Sebbene l'opinione pubblica nei confronti dello stesso Netanyahu stia mostrandosi dubbiosa, non si prevede che il suo governo cada. E anche se dovesse succedere, è essenziale capire che l'appoggio per le politiche sostenute dal governo di destra radicale di Netanyahu sta crescendo, e sta crescendo rapidamente.
La destra dello stato sionista predica in genere il controllo della Cisgiordania e di Gaza, e in molti a destra si oppongono al principio che prevede l'esistenza di uno stato palestinese accanto a uno stato sionista. Lo si capisce da molte delle politiche dell'attuale governo, che ha lavorato per espandere gli insediamenti in Cisgiordania e per rendere Gaza invivibile per i palestinesi.
Al lato opposto dello spettro si trova la sinistra dello stato sionista. Lo Jerusalem Post osserva che la sinistra è ampiamente convinta del fatto che lo stato sionista stia "occupando" la Cisgiordania e che si possa giungere alla fine del conflitto solo mettendo termine all'occupazione e consentendo una soluzione basata su due stati. Ma nessuno è esplicito su dove dovrebbe situarsi questo secondo stato, uno stato palestinese. Dal punto di vista legale si tratterebbe di Gaza, Cisgiordania e parte di Gerusalemme. Ma chi potrebbe imporre queste condizioni? Chi espellerebbe i coloni dalla Cisgiordania?
Per molti nello stato sionista la situazione degli ultimi trent'anni, con uno stato di occupazione e una segregazione in stile apartheid rapppresentava il tipo praticabile di una soluzione basata su due stati: solo che i suoi pilastri -la separazione strutturale, l'imposizione con la forza militare e la deterrenza- che per molti nello stato sionista sembravano promettere la "tranquillità" in cui molti confidavano sono andati in pezzi il 7 ottobre.
"Il trauma seguito al 7 ottobre ha mutato aspetto alla società dello stato sionista; l'ha costretta a mettere in discussione principi fondamentali come l'essere o meno al sicuro a casa propria", ha detto l'editorialista Tal Schneider:
"Ora chiedono di più: più militari, più protezione, più politica intransigente".
"Molte persone di destra", scrive Ariella Marsden sullo Jerusalem Post, "e una minoranza di persone di sinistra, hanno visto il 7 ottobre come la riprova del fatto che la pace con i palestinesi è impossibile". Non sorprende che si stia pensando a cacciare la popolazione; un proposito che si intona con l'idea della "nuova guerra d'indipendenza" cara a Netanyahu.
In breve, Biden può anche credere che la sua lunga esperienza gli permetta di mettersi dalla "parte giusta" nel giudicare gli eventi. La sua esperienza, tuttavia, appartiene a un'altra epoca. La politica dello stato sionista che gli era familiare non esiste più: il vecchio paradigma del suo modus vivendi con i palestinesi non ha più agibilità. La demografia non spinge più verso il concedere uno stato ai palestinesi, ma piuttosto verso il ripulire il paese da tutte le "popolazioni ostili".
Nello stato sionista, adesso, ci si sta adoperando per arrivare a questa nuova soluzione.
E proprio come la resistenza di Hamas ha indicato nuovi modi di fare la guerra, così la "lunga esperienza" di Biden, esemplificata dall'invio di portaerei e navi risalenti agli anni Sessanta a incrociare al largo in un'epoca di droni agili e intelligenti spesso non tracciabili e di missili guidati, sta a testimoniare qualcosa di altrettanto superato.
Gli Stati Uniti sono oggi direttamente impegnati nello Yemen, in Libano, in Cisgiordania, in Iraq e in Siria. E man mano che il conflitto si espande gli Stati Uniti ne saranno ritenuti almeno in parte responsabili: avete deliberatamente lasciato che a Gaza si arrivasse alla rottura? Adesso i cocci sono vostri. E saranno vostri anche i cocci di tutto quant'altro dovesse andare in pezzi.
Due milioni di abitanti di Gaza diventeranno tutti profughi e saranno privi di un governo in grado di esercitare funzioni minime e di fornire servizi di base. Netanyahu lo capisce? Certamente. Alla stragrande maggioranza dei cittadini dello stato sionista la cosa interessa? No. Ma al resto del mondo sì. E il resto del mondo vede una macchia scura che si sta espandendo sulla mappa, e che si riversa sull'Occidente.
E la flottiglia statunitense nel Mar Rosso, l'impegno della diplomazia in Libano, le telefonate frenetiche perché la Cina aiuti a tenere a freno l'Iran e gli sforzi con Baghdad, basteranno a porre fine al piano dell'Asse?
No. La Resistenza pretende di vedere annaspare gli USA, e di vedere lo stato sionista soffocato dalla rabbia che la invita a salire altri gradini nella escalation di un conflitto sempre più ampio e diffuso.

venerdì 22 dicembre 2023

Firenze. Il ricco Marco Carrai e il sionismo di complemento nel dicembre 2023


Marco Carrai è ricco, si mostra solitamente ben vestito e ricopre una serie di cariche discretamente retribuite.
Esiste un curriculum pessimamente redatto (tra ricchi possono anche permetterselo) che elenca molte di queste cariche e nessun titolo accademico. Tace a riguardo anche il sito dell'Università di Firenze.
Il signor Carrai avrebbe avuto tutte le carte in regola per conoscere da vicino gli agi che il liberismo e la meritocrazia riservano anche a chi ha curato la propria formazione molto più di lui. Per cui è lecito ipotizzare che ricchezza, abbigliamento raffinato e accesso a consessi dal nome altisonante non li debba per intero a una giovinezza passata chino sui libri o facendo esercizio di pazienza sui treni del pendolarismo.
Fra le cariche che ricopre c'è anche quella di console onorario[*] dello stato sionista. Quello del sionismo di complemento è peraltro un campo in cui si fa notare da almeno quindici anni.
Nel dicembre 2023 lo stato sionista è impegnato da un paio di mesi in una rappresaglia che sta comportando la sostanziale distruzione del territorio di Gaza; Marco Carrai è impegnato da altrettanto tempo nel fare largo a gomitate alle istanze che ha il dovere di rappresentare.
Solo che a Firenze lo stato sionista non è molto popolare neppure in via Farini, e vi abbondano per giunta le persone serie che non si fanno alcun problema a ricordare (gratis) al ben vestito Carrai l'impopolarità delle istanze che sostiene.
Si riporta qui senza correzioni un volantino diffuso in città, che ha contrariato non poco il ricco Marco Carrai. Fra i pregi che presenta c'è anche quello di non ricorrere al linguaggio inclusivo.


Fondazione Meyer: il diritto alle cure vale anche per i bambini palestinesi?

Una strage senza tregua di cui è difficile ancora calcolare le dimensioni sta travolgendo la Palestina.
Dopo 2 mesi si contano più di 10.000 bambini uccisi a Gaza, oltre alle migliaia che hanno subito - e stanno subendo - mutilazioni e ferite.
Gli ospedali sono saturi e alcuni ormai fuori servizio; è stata tagliata l’elettricità e i generatori hanno finito il carburante.
Manca l’acqua e non si può sterilizzare; mancano farmaci e antidolorifici.
I pazienti subiscono amputazioni e interventi senza anestesia sul pavimento delle corsie: gli ospedali sono incapaci di contenere il massacro in atto. Gli operatori della sanità mettono a repentaglio la propria vita per assistere i feriti in circostanze apocalittiche. Nel frattempo gli attacchi dell’esercito israeliano contro strutture ospedaliere e ambulanze sono sistematici: è in atto una aggressione pianificata contro chi pratica la professione medica. Si contano 364 attacchi a strutture sanitarie. 250 operatori uccisi. 190 ambulanze bombardate. Non solo: gli ordini di evacuazione dati da Israele condannano a morte malati e feriti, donne partorienti, bambini che per sopravvivere devono stare nelle incubatrici.
In mezzo all’angoscia che questo genocidio ci crea siamo allarmati da un altro avvenimento di questo nefasto ottobre: la nomina del nuovo presidente della Fondazione Meyer, Marco Carrai, Console onorario di Israele.

Chi è Marco Carrai?

Uno dei tanti uomini di potere italiani, conosciuto come “l’uomo ombra” di Renzi, con le mani in pasta un po’ ovunque ma che non ha nulla a che vedere con la medicina e la sua etica.
Presidente di Toscana Aeroporti dal 2015, Carrai è sostenitore per tornaconto personale del nuovo aeroporto di Peretola - di cui anche la recente alluvione ha mostrato tutte le possibili criticità. È inoltre membro dei consigli di amministrazione di varie aziende (recentemente anche delle acciaierie di Piombino, dove sono in ballo enormi interessi economici).
È membro del CdA della Fondazione Ente cassa di risparmio di Firenze (altri interessi!) ed è indagato per l’ipotesi di reato di “finanziamento illecito ai partiti” nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Dal 2019 ricopre anche il ruolo di console onorario di Israele per la Toscana, l’Emilia Romagna e la Lombardia. Come è possibile che una fondazione che si occupa di sviluppare le migliori cure per i bambini sia presieduta dal console di un paese che sta bombardando ospedali e attuando un genocidio di massa? Crediamo che queste ipocrisie non siano tollerabili e che un tale incarico, finalizzato all’accesso alle migliori cure per tutti i bambini, non possa essere ricoperto da persone che si occupano solo di business e di alleanze con chi rappresenta maggior potere e ricchezza. Se si danno incarichi istituzionali a loschi individui come Carrai significa che ci sono complicità in alto! Chiediamo a gran voce l’esonero immediato di Marco Carrai dalla fondazione Meyer: nessun sostegno a chi si rende complice del genocidio del popolo palestinese.

Basta col massacro di civili e bambini!
Boicottiamo Israele e la sua economia di guerra!
Vi invitiamo a partecipare:
- Venerdì 22 dicembre, ore 10-12: volantinaggio al N.I.C. di Careggi
- Sabato 23 dic. ore 15.30: flash mob di fronte all’ospedale pediatrico Meyer

Operatori sanitari per la Palestina
CUB Firenze
Comitato “Io non ci sto”, FI
CPA-FI Sud
Firenze per la Palestina
Casa dei diritti dei popoli
Comunità palestinese


[*] Neanche console. Console onorario. "Neanche cuoco: sottocuoco...!" (cit.) 

martedì 19 dicembre 2023

Alastair Crooke - Gaza. L'Asse della Resistenza può mettersi tranquillamente ad aspettare e lasciare che sia Netanyahu a muoversi... e a commettere errori



Gaza. Nella piccola stanza poco illuminata la prima cosa che si notava era quella sedia a rotelle da museo. Solo dopo si distingueva la figura accartocciata e coperta del paraplegico che la occupava.
All'improvviso, dalla sedia a rotelle sembrò venire uno stridio acuto; l'apparecchio acustico del suo occupante era impazzito e avrebbe continuato a strepitare a intervalli regolari durante tutto il tempo della mia visita. Mi chiesi quanto potesse sentire l'occupante della sedia, con un apparecchio acustico così mal regolato.
Durante la conversazione mi resi conto che, disabile o meno, la sua mente era più acuta di un coltello. Era duro come il ferro, animato da un sobrio umorismo e dagli occhi sempre vivaci. Era chiaro che si stava divertendo, tranne quando lottava con i fischi e gli strepiti del suo apparecchio acustico. Come era possibile che da una figura tanto esile promanasse un tale carisma?
Quest'uomo sulla sedia a rotelle e con l'auricolare sgangherato -lo sceicco Ahmad Yassin- era il fondatore di Hamas.
Alla fine, quello che mi disse quella mattina è quello che ha stravolto il mondo islamico di oggi.
Mi disse: "Hamas non è un movimento islamico. È un movimento di liberazione e chiunque, sia egli cristiano o buddista" -persino io, quindi- "potrebbe unirsi a esso. Siamo tutti benvenuti".
Perché questa semplice espressione si sarebbe rivelata tanto significativa e collegata agli eventi di oggi?
Beh, il clima di Gaza a quel tempo (2000-2002) era prevalentemente quello dell'islamismo ideologico. I Fratelli Musulmani egiziani vi erano profondamente radicati. Non si trattava di un movimento di resistenza in sé; era capace di ricorrere alla violenza, ma il suo obiettivo principale erano le opere sociali e una pratica governativa scevra dalla corruzione. Voleva dimostrare fino a che punto arrivassero le sue competenze in materia di governo.
Il commento di Yassin era rivoluzionario perché il concetto di liberazione era prevalente rispetto ai dogmi e alle varie "scuole" dell'Islam politico. Alla fin fine lo "Hamas di Gaza" avrebbe preso questa forma, in contrasto con quelli che per convenzione si intendono come i vertici del movimento che se ne stanno a Doha. Sinwar e Dief sono "figli di Yassin".
Per farla breve poco tempo dopo Yassin, mentre attraversava la strada con la sedia a rotelle per recarsi alla moschea adiacente durante la preghiera del venerdì, è stato fatto a pezzi da un missile dello stato sionista appena uscito da casa.
L'ala dei Fratelli Musulmani di Hamas ha avuto la possibilità di dimostrare quanto fosse competente a governare: ha vinto con ampio suffragio le elezioni del 2006 dell'Autorità Palestinese a Gaza e ha conquistato la maggioranza dei seggi, alcuni anche in Cisgiordania.
Il presidente Bush e Condoleeza Rice restarono inorriditi. Avevano appoggiato l'iniziativa di tenere le elezioni... e guarda cosa va a succedere. Così il premier Blair e il presidente Bush misero a punto un piano segreto per reagire, senza metterne al corrente l'Unione Europea: i leader di Hamas e le ONG del movimento che facevano attività sociale dovevano essere eliminati. Inoltre, l'Autorità Palestinese avrebbe dovuto reprimere tutte le attività di Hamas, in stretta collaborazione con lo stato sionista.
Secondo questo piano la Cisgiordania sarebbe stata destinataria di ingenti aiuti finanziari per costruire un prospero stato di tipo occidentale all'insegna dei consumi e della sicurezza, mentre Gaza sarebbe stata ridotta di proposito alla fame. Sarebbe stata costretta a cuocere nel suo brodo, stretta d'assedio per sedici anni. Avrebbe stagnato nella povertà.
Dallo stato sionista hanno fornito una base empirica al piano di Blair, calcolando esattamente quante calorie a testa, quanto carburante e gas sarebbero potuti entrare a Gaza in modo da mantenervi un livello di vita di pura sussistenza. Dopo questa iniziativa di Blair e Bush, i palestinesi sono rimasti irrimediabilmente divisi, e un progetto politico non è nemmeno lontanamente possibile. Come scrive Tareq Baconi su Foreign Policy:
"Hamas si trovava bloccato... in una situazione in cui l'equilibrio era determinato dalla violenza, in cui la forza militare si affermava come mezzo per negoziare concessioni tra Hamas e stato sionista. [Hamas ha usato] missili e altre tattiche per costringere lo stato sionista ad alleviare le restrizioni sul blocco, mentre [lo stato sionista] ha risposto con forza schiacciante per imporre la propria deterrenza e garantire la "calma" nelle aree intorno alla Striscia di Gaza. Il ricorso alla violenza ha permesso ad entrambe le entità di operare im un quadro in cui Hamas ha potuto mantenere il suo ruolo di autorità di governo a Gaza anche se sottoposto a un blocco che è di fatto una violenza strutturale quotidiana contro i palestinesi".
È questo paradigma della Gaza sotto assedio che si è infranto il 7 ottobre:
"Il mutamento di strategia ha comportato il passaggio da un limitato ricorso al lancio di razzi per negoziare con lo stato sionista a un'offensiva militare a tutto campo volta a spezzare in modo particolare il suo accerchiamento e a disconfermare la convinzione sionista di poter imporre impunemente un sistema di apartheid".
Hamas ha cambiato fisionomia. Adesso è il "movimento di liberazione", la liberazione di tutti coloro che vivono sotto l'occupazione, che lo sceicco Yassin aveva vaticinato. Ancora una volta, alla maniera di Yassin, si focalizza su un Islam non ideologico simboleggiato dall'icona civile della moschea di Al-Aqsa, che non è né palestinese, né sciita, né sunnita, né wahhabita, né dei Fratelli Musulmani, né salafita. Ed è proprio questo, il posizionarsi di Hamas tra i movimenti di liberazione, che si accorda direttamente con la nuova "spinta indipendentista" globale a cui stiamo assistendo oggi e che forse spiega gli enormi cortei a sostegno di Gaza in tutto il Sud del mondo, così come in Europa e negli Stati Uniti. La rappresaglia inflitta ai civili di Gaza ha quell'immancabile tocco di colonialismo vecchia maniera che viene accolto con compartecipata rabbia su un vastissimo spazio.
Il calcolo di Hamas è che la sua resilienza militare unita alla forte pressione internazionale derivante dai massacri a Gaza potrebbero alla fine costringere lo stato sionista a negoziare, e a raggiungere in conclusione un (costoso, del tipo "tutto in cambio di tutti") accordo sugli ostaggi con il movimento palestinese, e imporre anche un mutamento di paradigma nel contesto politico degli infiniti "colloqui di pace" con lo stato sionista. In breve, la scommessa di Hamas è che la sua resilienza militare durerà probabilmente quanto basta perché si manifesti l'impazienza della Casa Bianca di porre rapidamente fine all'episodio della guerra a Gaza. Questo approccio sottolinea come Hamas e i suoi alleati nell'Asse della Resistenza dispongano di una strategia in cui i passi successivi della escalation sono coordinati e procedono secondo consenso, evitando reazioni impulsive agli eventi che potrebbero far precipitare la regione in una guerra totale; un esito distruttivo cui nessuno dei protagonisti dell'Asse desidera arrivare.
In definitiva l'attento calcolo dell'Asse si basa sull'assunto che lo stato sionista commetta errori prevedibili che consentano una graduale ascesa a livello regionale nel logoramento delle sue capacità militari. La reazione forsennata del governo dello stato sionista agli avvenimenti del 7 ottobre rientrava nel calcolo; ci si aspettava che lo stato sionista avrebbe fallito nello sconfiggere Hamas a Gaza, così come erano esiti attesi l'escalation dei coloni in Cisgiordania e il passaggio all'azione dello stato sionista per cercare di cambiare lo status quo rispetto a Hezbollah. Anche questo era stato messo in conto, gli abitanti del nord dello stato sionista non accetteranno di tornare alle loro case senza un cambiamento dello status quo nel sud del Libano.
Tutte queste ipotizzate escalation da parte dello stato sionista potrebbero tradursi in realtà come forma di "distrazione rispetto ai fatti di Gaza" concertata da Netanyahu, in quanto l'opinione pubblica dello stato sionista comincia a dubitare che Hamas sia vicino alla sconfitta, e anche a dubitare che bombardare i civili palestinesi rappresenti un modo per fare pressione su Hamas affinché compia altri rilasci, come sostiene il governo, o piuttosto non possa mettere a rischio la vita di altri ostaggi.
Anche se le forze dell'IDF dovessero continuare a operare a Gaza ancora per qualche settimana, scrive l'editorialista di questioni militari di Haaretz Amos Harel,
"rischierebbero di non soddisfare le aspettative dell'opinione pubblica, dal momento che la leadership politica ha promesso di eliminare Hamas, liberare tutti gli ostaggi, ricostruire tutte le comunità di confine devastate e rimuovere la minaccia alla sicurezza. Si tratta di obiettivi ambiziosi, ed è già chiaro che alcuni di essi non saranno raggiunti...".
I leader di Hamas al contrario sono consapevoli che i membri dell'attuale esecutivo (Levin, Smotrich e Ben Gvir) sono andati dicendo per anni che avrebbe potuto essere necessaria una crisi vera e propria -o una guerra- per attuare il piano di pulizia della Cisgiordania dalla popolazione palestinese che vogliono realizzare per instaurare lo stato sionista sulla biblica "Terra di Israele".
È quindi inverosimile che l'Asse della Resistenza fondi il suo piano sugli errori strategici dello stato sionista? Forse non è così inverosimile come alcuni potrebbero pensare.
Netanyahu deve continuare con la guerra -ne va della sua stessa sopravvivenza- perché la fine degli scontri potrebbe essere un disastro per lui e per la sua famiglia. Netanyahu è quindi nel bel mezzo di una campagna. Non è una campagna elettorale, perché non ha alcuna possibilità di sopravvivere a delle elezioni. Al contrario, si tratta di una "campagna per la sopravvivenza" con due obiettivi: rimanere aggrappato al suo seggio per altri due anni (cosa fattibile, dato che la possibilità di defezioni dal governo è tutt'altro che assicurata), e in secondo luogo preservare, o addirittura rafforzare, la servile ammirazione tributatagli dalla sua base.
Solo io, Netanyahu, posso impedire la nascita di uno Stato palestinese a Gaza, in Giudea o in Samaria": "Non lo permetterò". "Non ci sarà mai" uno Stato palestinese. Solo io posso gestire le relazioni con Biden. Solo io so come manipolare la psiche statunitense".
"Io sto facendo tutto questo"... non solo per la storia ebraica, ma anche per la civiltà occidentale.
"Ma a cosa serve una lunga guerra", si chiede il corrispondente e commentatore di Haaretz B. Michael,
"se alla fine, o anche mentre è ancora in corso, la 'base' se ne annoia, diventa indifferente e si mostra delusa? Non è una base di questo genere quella che si precipiterà nella cabina elettorale con la scheda giusta tra i denti. Quella base vuole azione. Quella base vuole sangue. Quella base vuole odiare, provare rabbia, sentirsi offesa, vendicarsi. Scaricare sull'altro tutto ciò che la fa arrabbiare".
"Questo è l'unico modo per capire l'ostinazione con cui [Netanyahu] evade da qualsiasi seria discussione su una politica di uscita dalla guerra. Solo così si possono comprendere le promesse infondate su un controllo permanente di Gaza". La base è estasiata, le sue speranze si stanno avverando: "Stiamo davvero attaccando gli arabi e buttandoli in mare. Ed è tutto merito di Bibi".
"Non c'è una goccia di logica nel bombardare a tappeto Gaza. Né una goccia di vantaggio verrà dall'uccisione di altri palestinesi... l'iniziativa è una palese follia e un imbarazzante condiscendere alla base, che dal suo leader non vuole delusioni neanche minime. Che ne sarà degli ostaggi? Ah, è più importante la base".
Israele ha già visto qualcosa di simile in passato, in particolare con la Nakba del 1948. La pretesa arrogante che quella volta si sarebbe davvero chiuso: i palestinesi espulsi, le loro proprietà saccheggiate ed espropriate. "Fine della storia", si credeva, e "problema risolto".
No, il problema non è mai stato risolto. Da qui il 7 ottobre.
Il Primo Ministro e il suo esecutivo sono in "campagna elettorale" per sfruttare e amplificare il trauma che la base ha sofferto il 7 ottobre e per plasmarlo in base alle loro esigenze elettorali.
Netanyahu ha ripetuto un unico messaggio: "Non smetteremo di combattere". Dal suo punto di vista, la guerra deve continuare per sempre:
"La visione di Ben-Gvir di Bezalel Smotrich e compagnia sta prendendo forma. E l'arrivo del messia deve essere dietro l'angolo. Ed è tutto merito di Bibi. Urrà per Bibi!".
La Resistenza vede e comprende tutto questo: come fa lo stato sionista a uscire da questa situazione? Rovesciando Bibi? Non basterà. È troppo tardi. Il tappo è stato tolto; i geni e i demoni sono usciti. Se il fronte della Resistenza mantiene la coordinazione, procede di concerto ed evita qualsiasi reazione pavloviana agli eventi che potrebbe far precipitare la regione in una guerra totale, allora i suoi protagonisti "possono mettersi tranquillamente ad aspettare e lasciare che sia (Netanyahu) a muoversi" ...e a commettere errori (Sun Tzu).

martedì 12 dicembre 2023

Alastair Crooke - Considerazioni strategiche da Mosca

 


Traduzione da Strategic Culture, 11 dicembre 2023.


Le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono ai minimi storici e la situazione è peggiore di quanto si possa immaginare. Gli Stati Uniti si relazionano con gli alti funzionari russi trattandoli con ogni evidenza come dei nemici. Tanto per dare un'idea, se uno di questi chiedesse "Cosa volete da me?" potrebbe sentirsi rispondere "Vorrei che tu crepassi".
I toni tesi e la mancanza di uno scambio autentico sono peggiori rispetto ai tempi della Guerra Fredda, quando i canali di comunicazione rimanevano aperti. Questa lacuna è aggravata dalla diffusa assenza di senso politico tra i leader europei, con cui non è stato possibile intavolare una discussione su temi concreti.
I funzionari russi capiscono che si tratta di una situazione rischiosa, ma non sanno come mettervi rimedio. Anche i toni del discorso sono scaduti dall'ostilità pura e semplice alla meschinità; gli Stati Uniti ad esempio potrebbero impedire l'accesso agli operai che entrano nella missione russa all'ONU per riparare le finestre rotte. Mosca, a malincuore, si ritrova con poche alternative se non quella di rispondere in modo altrettanto meschino; in questo modo si innesca una spirale discendente. Riconosce che la "guerra dell'informazione" -apertamente snobbata- è interamente dominata dai media occidentali, il che inasprisce ulteriormente l'atmosfera. Anche se gli sporadici media alternativi occidentali esistono e stanno guadagnando portata ed importanza, non sono facilmente coinvolgibili dal momento che tendono a essere tanto vari quanto a correre per conto proprio. Essere etichettato come "complice di Putin" comporta uno stigma per qualsiasi fornitore autonomo di notizie e può distruggerne la credibilità in un colpo solo.
In Russia si ritiene che l'Occidente si trovi attualmente in condizioni di "falsa normalità"; un interludio -in vista del 2024- nella guerra culturale che sta conducendo. I russi, tuttavia, vi percepiscono alcuni evidenti parallelismi rispetto alla loro esperienza di radicale polarizzazione civile dei tempi in cui la Nomenklatura sovietica esigeva la conformità alla "linea" del Partito sotto pena di sanzioni.
Mosca è aperta al dialogo con l'Occidente, ma gli interlocutori finora hanno rappresentato solo se stessi e non avevano nessun mandato. Questa esperienza ha portato i russi a concludere che non ha molto senso sbattere la testa contro il muro di mattoni rappresentato da una leadership occidentale guidata dall'ideologia; i difensori dell'ideologia occidentale reagiscono ai valori russi come un toro reagisce a un drappo rosso. Tuttavia non è chiaro se, quando sarà il momento, a Washington si potrà trovare qualche interlocutore dotato del potere -e della possibilità di impegnarsi- al punto di alzare il telefono.
L'inimicizia che l'Occidente proietta contro la Russia vi viene percepita come un aspetto positivo oltre che come un grave rischio data l'assenza di trattati sull'uso e sul dispiegamento degli armamenti. In Russia gli interlocutori sottolineano come il disprezzo occidentale nei confronti dei russi -un disprezzo che va oltre l'inimicizia esplicita- abbia finalmente permesso alla Russia di superare l'europeizzazione iniziata da Pietro il Grande. Essa viene oggi considerata come una deviazione dal vero destino della Russia, anche se deve essere inquadrata nel contesto dell'ascesa e dell'affermazione dello Stato nazionale europeo a seguito degli accordi di Westfalia.
L'ostilità mostrata dagli europei nei confronti del popolo russo, e non solo del governo, ha spinto la Russia a tornare ad essere se stessa, con suo grande beneficio.
Tuttavia questo cambiamento genera una certa tensione: È evidente che i "falchi" occidentali tengono sempre d'occhio lo scenario russo, per individuare qualche ospite all'interno del corpo politico da usare come incubatore per le spore di quel loro Nuovo Ordine Morale di cui hanno fatto l'arma con cui fessurare e frammentare la società russa. È inevitabile quindi che un esplicito attaccamento alla cultura occidentale susciti una certa cautela nella "corrente patriottica" mainstream. I russi che -soprattutto a Mosca e a San Pietroburgo- si orientano verso la cultura europea avvertono una certa tensione. Non sono né carne né pesce, la Russia si sta muovendo verso una nuova identità e un nuovo "modo di essere", e lascia indietro gli europeisti a contemplare i loro punti di riferimento che si allontanano. In generale questo cambiamento viene considerato inevitabile e ha portato a un vero e proprio rinascimento russo e a un diffuso senso di fiducia. La rinascita della religione, ci è stato riferito, è un fenomeno che si è innescato spontaneamente con la riapertura delle chiese dopo la fine del comunismo. Ne sono state costruite molte di nuove, e circa il 75% dei russi oggi si dichiara ortodosso. In un certo senso questa rinascita del cristianesimo ortodosso possiede un che di escatologico, in parte dovuto al suo porsi come antagonista all'"ordine basato sul dominio", per dirla con un nostro interlocutore. In particolare, pochi tra quanti abbiamo interpellato hanno mostrato nostaglia per i "liberali russi" laici, che la Russia l'hanno lasciata: "una liberazione", dicono, anche se alcuni di essi stanno tornando.
Esiste una sorta di processo di ripulitura della società dalla "occidentalizzazione" dei secoli precedenti, in cui sono inevitabili le contraddizioni: la cultura europea, almeno in termini di filosofia e di arte, è stata ed è una componente integrante della vita intellettuale russa e non è destinata a scomparire.


L'ambito politico

Non è facile far capire in che modo il concetto di una vittoria "assoluta" della Russia in Ucraina si è fuso con quello di questa rinascita, dando origine al nuovo senso di sé della Russia. La vittoria in Ucraina è stata in qualche modo assimilata a un destino metafisico, come a un qualcosa di sicuro il cui adempimento è in corso. I vertici militari russi sono -comprensibilmente- muti riguardo ai probabili esiti strutturali e istituzionali. I discorsi che si fanno nei talk show televisivi vertono più sulle faide e  sugli scismi che dilaniano Kiev piuttosto che sui dettagli delle operazioni sul campo di battaglia come in passato. 
Vige la convinzione che la NATO sia stata completamente sconfitta in Ucraina. La portata e la vastità del fallimento della NATO  sono stati forse una sorpresa in Russia, ma vengono considerate come una riprova della capacità di adattamento e dell'innovazione tecnologica russa nell'integrazione e nella comunicazione tra le varie armi. Una traduzione del concetto di "vittoria assoluta" può essere quello per cui "in nessun modo" Mosca permetterà che l'Ucraina diventi di nuovo una minaccia per la sicurezza russa.
I funzionari russi pensano che sia la guerra in Ucraina che quelle che interessano lo stato sionista in Medio Oriente contribuiscano a dividere l'Occidente in aree separate e conflittuali e a farlo dirigere verso la frammentazione e una probabile condizione di instabilità. Gli Stati Uniti si stanno ritrovando ad affrontare battute d'arresto e sfide che metteranno ulteriormente allo scoperto la loro perdita di deterrenza, esacerbandone ulteriormente l'apprensione per la propria sicurezza.
Mosca è consapevole di quanto sia cambiato il clima politico nello stato sionista con il governo radicale insediatosi dopo le ultime elezioni, e anche delle limitazioni che questo comporta per le iniziative politiche degli stati occidentali. Osserva con attenzione i piani dello stato sionista per quanto riguarda il Libano meridionale. La Russia si sta coordinando con altri stati per evitare che la situazioni degeneri in un conflitto di vasta portata. La visita del Presidente Raisi a Mosca la scorsa settimana sarebbe stata incentrata sull'accordo strategico globale in fase di negoziazione e (secondo quanto riferito) avrebbe incluso la firma di un documento per contrastare le sanzioni occidentali imposte a entrambi gli stati.
In termini di ordine globale emergente, Mosca assumerà la presidenza dei BRICS nel gennaio 2024. Si tratta di un'enorme opportunità per affermare il mondo multipolare dei BRICS in un momento di ampio consenso geopolitico nel Sud globale, ma anche di una sfida. Mosca si rende conto che questa presidenza offre una serie di occasioni, ma è ben consapevole che gli stati dei BRICS sono tutt'altro che omogenei. Per quanto riguarda le guerre dello stato sionista, la Russia dispone di un'influente lobby ebraica e di una diaspora russa nello stato sionista in grado di  imporre al Presidente il rispetto di alcuni doveri costituzionali. Probabilmente la Russia si muoverà con cautela in merito al conflitto tra stato sionista e palestinesi, per mantenere la coesione dei BRICS.
Nel corso della presidenza russa dei BRICS si affermeranno alcune importanti innovazioni in campo economico e finanziario.
Per quanto riguarda il "problema UE" della Russia, in contrapposizione al cosiddetto "problema Russia" dell'Europa, l'UE e la NATO (dopo Maidan) hanno edificato l'esercito ucraino fino a farlo diventare uno degli eserciti più grandi e meglio dotati di equipaggiamento NATO in Europa. Dopo che la proposta di un accordo tra Ucraina e Russia è stata bloccata da Boris Johnson e da Blinken nel marzo 2022 e mentre diventava sicuro che non si sarebbe potuto evitare un conflitto lungo e intenso, la Russia si è mobilitata e ha approntato le proprie catene logistiche.
I leader dell'UE adesso stanno "chiudendo il cerchio" agitando questa espansione militare russa -essa stessa una reazione all'intensificarsi della presenza della NATO in Ucraina- come prova dell'esistenza di un piano russo per invadere l'Europa continentale. In quello che sembra uno sforzo coordinato, i media mainstream occidentali stanno cercando qualsiasi cosa che possa anche solo lontanamente assomigliare a una prova di presunti piani della Russia contro l'Europa.
Lo spettro dell'imperialismo russo viene evocato per incutere timore alla popolazione europea e per sostenere che l'Europa deve dirottare risorse alla preparazione logistica per una guerra con la Russia considerata prossima. Questo rappresenta un altro colpo di scena di quella viziosa spirale bellicista al ribasso, che si preannuncia negativa per l'Europa. Per l'Europa non esisteva alcun problema russo, prima che i neoconservatori non approfittassero della crepa del Maidan per indebolire la Russia.