martedì 26 dicembre 2023

Alastair Crooke - Netanyahu superato dal furbo Biden? No, è Biden quello che viene preso in giro

Traduzione da Strategic Culture,25 dicembre 2023.

Quando un ospite gli ha detto che Netanyahu sta trascinando gli Stati Uniti in una guerra di civiltà e che Netanyahu dà la colpa a lui lamentandosi che la Casa Bianca vuole impedire allo stato sionista di affrontare il problema alla radice con tutti quei discorsi su Gaza e sul "giorno dopo", Biden ha sorriso e ha risposto "Lo so".
In pratica, Netanyahu sta semplicemente mettendo in atto una classica manovra di aggiramento, cercando di eludere Biden con la scusa del conflitto più grave che in atto con l'Iran: "Perché mi tormenti con Gaza quando c'è una guerra grossissima in corso", suggerisce un Bibi esasperato?
"Questa non è solo la 'nostra guerra', ma per molti versi anche la vostra... È una battaglia contro l'asse iraniano... che ora minaccia di chiudere lo stretto marittimo di Bab Al-Mandeb... È l'interesse... dell'intero mondo civile", ha detto Netanyahu senza tanti giri di parole.
La reazione di Biden è un sorriso compiaciuto che lascia intendere che egli pensa di poter superare Netanyahu ("la volpe"). Questo è l'approccio di Biden: mira a disinnescare le accuse di Netanyahu -per cui gli USA gli starebbero facendo ostruzionismo- per mezzo di una serie di incontri ad alto livello che ribadiscono il suo incondizionato sostegno allo stato sionista, e ad anticipare Bibi insistendo sul fatto che lui (Biden) si occuperà delle questioni non legate a Gaza (Hezbollah, Yemen...).
Insomma, gli Stati Uniti stanno mettendo insieme una forza navale per affrontare AnsarUllah nello Yemen; l'amministrazione Biden agirà per sanzionare i coloni violenti in Cisgiordania, sta ammonendo Baghdad di tenere a freno lo Hashad al Sha'abi, e i suoi inviati a Beirut stanno cercando di negoziare un "accordo diplomatico" che includa il ritiro delle Forze Radwan di Hezbollah dall'altro lato del fiume Litani nel sud del Libano, e che affronti anche le dispute di confine irrisolte tra stato sionista e Libano.
Biden si vanta di essere un attore di politica estera di grande esperienza e si ritiene troppo astuto per i trucchi di Bibi. Ma forse Netanyahu, pur con tutti i suoi difetti, capisce meglio la regione.
È chiaro che Biden viene davvero preso in giro. Anche se non lo riconosce.
Netanyahu sa che Hezbollah non disarmerà mai ritirandosi a nord del Litani. Lo sa e quindi può aspettare il fallimento diplomatico di Biden, prima di dire che i circa settantamila cittadini dello stato sionista sfollati dalle città del nord dopo il 7 ottobre devono "tornare a casa" e che se gli Stati Uniti non possono allontanare Hezbollah dal confine, allora lo farà lo stato sionista.
Netanyahu sta usando l'iniziativa diplomatica libanese di Biden per costruire una giustificazione ad uso degli europei per un'operazione sionista in programma da qui a poche settimane per allontanare Hezbollah dal confine. Un'operazione dello stato sionista contro Hezbollah è in programma fin dall'inizio della guerra a Gaza.
Netanyahu sa anche che il controllo sulle violenze dei coloni in Cisgiordania non spetta a lui e che è nelle mani dei suoi colleghi, i ministri Ben Gvir e Smotrich. Né lui né Biden possono imporre loro nulla: da mesi stanno aumentando silenziosamente la stretta sui palestinesi della Cisgiordania. Infine, Netanyahu conosce gli Houthi: non si lasceranno scoraggiare dalla flottiglia di Biden. Anzi, si divertiranno ad attirare l'Occidente in un pantano nel Mar Rosso.
Che piaccia o no, la tattica di Biden di contenere e prevenire l'escalation regionale imponendo il ruolo da protagonista degli Stati Uniti al posto dello stato sionista sta chiaramente trascinando gli USA in un conflitto ancora più profondo. Biden crede forse che gli Houthi si ritireranno tranquillamente perché la Gerald Ford è ancorata al largo di Bab Al-Mandeb, o che Hezbollah accetterà le istruzioni di Amos Hochstein?
Il secondo aspetto per cui Biden si trova surclassato è il fatto che egli considera il problema dello stato sionista come impersonato dal solo Bibi, che starebbe indulgendo in una politica personalistica. Certo, è vero che il premier dello stato sionista sta plasmando la politica del paese in base alle proprie esigenze di sopravvivenza; tuttavia ci si trattenga un attimo a considerare ciò che il presidente Herzog ha detto martedì durante una intervista richiesta dallo Atlantic Council, uno importante think tank con sede a Washington.
Prima della guerra, Herzog è stato a lungo considerato dallo establishment della politica estera di Washington come una colomba, e senz'altro di sinistra rispetto a Netanyahu.
Nella suddetta intervista Herzog ha affermato che "Intendiamo conquistare l'intera Striscia di Gaza e cambiare il corso della storia". Ha affermato che l'attuale conflitto è uno scontro tra "civiltà differenti" e ha definito Hamas (in termini puramente manichei) una "forza del male", aggiungendo che lo stato sionista non avrebbe più tollerato che Gaza fosse una "base per un Iran che sta spingendo tutti nell'abisso delle stragi e della guerra".
Non c'è molta differenza tra lui e il Primo Ministro, quindi.
La convergenza tra Herzog e Bibi riflette forse un cambiamento più sostanziale in atto nello stato sionista, un cambiamento strategico che va ben oltre l'ossessione personale di Biden per Bibi: il New York Times e lo Jerusalem Post riferiscono che dopo il 7 ottobre il 36% dei cittadini dello stato sionista si è spostato decisamente a destra su una serie di questioni politiche, tra cui il sostegno ai coloni in Cisgiordania, l'appoggio a politici di estrema destra e persino gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Sebbene l'opinione pubblica nei confronti dello stesso Netanyahu stia mostrandosi dubbiosa, non si prevede che il suo governo cada. E anche se dovesse succedere, è essenziale capire che l'appoggio per le politiche sostenute dal governo di destra radicale di Netanyahu sta crescendo, e sta crescendo rapidamente.
La destra dello stato sionista predica in genere il controllo della Cisgiordania e di Gaza, e in molti a destra si oppongono al principio che prevede l'esistenza di uno stato palestinese accanto a uno stato sionista. Lo si capisce da molte delle politiche dell'attuale governo, che ha lavorato per espandere gli insediamenti in Cisgiordania e per rendere Gaza invivibile per i palestinesi.
Al lato opposto dello spettro si trova la sinistra dello stato sionista. Lo Jerusalem Post osserva che la sinistra è ampiamente convinta del fatto che lo stato sionista stia "occupando" la Cisgiordania e che si possa giungere alla fine del conflitto solo mettendo termine all'occupazione e consentendo una soluzione basata su due stati. Ma nessuno è esplicito su dove dovrebbe situarsi questo secondo stato, uno stato palestinese. Dal punto di vista legale si tratterebbe di Gaza, Cisgiordania e parte di Gerusalemme. Ma chi potrebbe imporre queste condizioni? Chi espellerebbe i coloni dalla Cisgiordania?
Per molti nello stato sionista la situazione degli ultimi trent'anni, con uno stato di occupazione e una segregazione in stile apartheid rapppresentava il tipo praticabile di una soluzione basata su due stati: solo che i suoi pilastri -la separazione strutturale, l'imposizione con la forza militare e la deterrenza- che per molti nello stato sionista sembravano promettere la "tranquillità" in cui molti confidavano sono andati in pezzi il 7 ottobre.
"Il trauma seguito al 7 ottobre ha mutato aspetto alla società dello stato sionista; l'ha costretta a mettere in discussione principi fondamentali come l'essere o meno al sicuro a casa propria", ha detto l'editorialista Tal Schneider:
"Ora chiedono di più: più militari, più protezione, più politica intransigente".
"Molte persone di destra", scrive Ariella Marsden sullo Jerusalem Post, "e una minoranza di persone di sinistra, hanno visto il 7 ottobre come la riprova del fatto che la pace con i palestinesi è impossibile". Non sorprende che si stia pensando a cacciare la popolazione; un proposito che si intona con l'idea della "nuova guerra d'indipendenza" cara a Netanyahu.
In breve, Biden può anche credere che la sua lunga esperienza gli permetta di mettersi dalla "parte giusta" nel giudicare gli eventi. La sua esperienza, tuttavia, appartiene a un'altra epoca. La politica dello stato sionista che gli era familiare non esiste più: il vecchio paradigma del suo modus vivendi con i palestinesi non ha più agibilità. La demografia non spinge più verso il concedere uno stato ai palestinesi, ma piuttosto verso il ripulire il paese da tutte le "popolazioni ostili".
Nello stato sionista, adesso, ci si sta adoperando per arrivare a questa nuova soluzione.
E proprio come la resistenza di Hamas ha indicato nuovi modi di fare la guerra, così la "lunga esperienza" di Biden, esemplificata dall'invio di portaerei e navi risalenti agli anni Sessanta a incrociare al largo in un'epoca di droni agili e intelligenti spesso non tracciabili e di missili guidati, sta a testimoniare qualcosa di altrettanto superato.
Gli Stati Uniti sono oggi direttamente impegnati nello Yemen, in Libano, in Cisgiordania, in Iraq e in Siria. E man mano che il conflitto si espande gli Stati Uniti ne saranno ritenuti almeno in parte responsabili: avete deliberatamente lasciato che a Gaza si arrivasse alla rottura? Adesso i cocci sono vostri. E saranno vostri anche i cocci di tutto quant'altro dovesse andare in pezzi.
Due milioni di abitanti di Gaza diventeranno tutti profughi e saranno privi di un governo in grado di esercitare funzioni minime e di fornire servizi di base. Netanyahu lo capisce? Certamente. Alla stragrande maggioranza dei cittadini dello stato sionista la cosa interessa? No. Ma al resto del mondo sì. E il resto del mondo vede una macchia scura che si sta espandendo sulla mappa, e che si riversa sull'Occidente.
E la flottiglia statunitense nel Mar Rosso, l'impegno della diplomazia in Libano, le telefonate frenetiche perché la Cina aiuti a tenere a freno l'Iran e gli sforzi con Baghdad, basteranno a porre fine al piano dell'Asse?
No. La Resistenza pretende di vedere annaspare gli USA, e di vedere lo stato sionista soffocato dalla rabbia che la invita a salire altri gradini nella escalation di un conflitto sempre più ampio e diffuso.

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