mercoledì 22 dicembre 2021

Centro Popolare Autogestito Firenze Sud. Venti anni di occupazione in via Villamagna


Il Centro Popolare Autogestito Firenze Sud.
Da vent'anni in via Villamagna.
Da trentadue anni contro l'Occidente.

Da trentadue anni di, da e per la Firenze che non conta.

giovedì 16 dicembre 2021

Alastair Crooke - Il panorama strategico non è mai stato più inquietante

Per la prima volta sono gli altri a dettare legge all'Occidente
piuttosto che ricevere istruzioni su come conformarsi alle linee rosse ameriKKKane.

 Traduzione da
Strategic Culture.

Il sospiro di sollievo nei corridoi occidentali è parso quasi di sentirlo. Anche se non ci sono stati progressi nell'incontro virtuale fra Biden e Putin, i colloqui, non a caso, hanno avuto come argomento principale un tema che nell'immediato è molto preoccupante: l'Ucraina. Si teme da più parti che il vulcano ucraino possa esplodere da un momento all'altro.
Durante l'incontro si è concordato sulla proposta di avviare una discussione "a basso livello" da governo a governo sulle linee rosse russe e su qualsiasi arresto dell'espansione della NATO verso est. Jake Sullivan, tuttavia, ha gettato acqua sul fuoco quando ha perentoriamente sottolineato che gli Stati Uniti non si sono impegnati in alcun modo su entrambe le questioni. Biden (come annunciato in anticipo), ha avvertito la Russia che un suo intervento in Ucraina comporterebbe forti contromisure, sia economiche che di altro genere.
L'elemento più rilevante tuttavia è il fatto che gli Stati Uniti stanno solo minacciando sanzioni contro la Russia e ventilando lo spostamento di più truppe nella regione, piuttosto che un esplicito intervento militare occidentale e della NATO in Ucraina. In precedenti dichiarazioni Biden e altri funzionari statunitensi sono stati vaghi su quale sarebbe stata la risposta di Washington a un'invasione russa: hanno ripetutamente parlato di "conseguenze", pur rinnovando il proprio impegno per la tutela della sovranità ucraina.
Si può davvero ricominciare a respirare? In realtà, no. In concreto l'immediata importanza della questione ucraina è sempre stata una sorta di depistaggio: La Russia non ha alcun desiderio di impelagarsi nel fango denso e vischioso di un pantano regionale, per quanto la cosa potrebbe venir apprezzata da qualcuno in Occidente. E le forze di Kiev sono stanche, malandate e demoralizzate dopo mesi passati al freddo nelle trincee lungo la linea di contatto. H
anno poca voglia di affrontare le milizie del Donbass (a meno che qualcuno non le aiuti dall'esterno). Su cosa fare con quella vasta e oscura distopia che è l'Ucraina in tutte le sue varie manifestazioni, non si è arrivati a niente. Il presidente Putin ha tirato fuori l'accordo di Minsk, ma nessuno a quanto pare ha abboccato e la lenza è rimasta inerte. Né si è arrivati a nulla su cosa fare con il crescente mucchio di macerie di quelle che una volta si chiamavano "relazioni diplomatiche" USA - Russia. Oggi, chiamarle relazioni diplomatiche è una freddura che non fa ridere nessuno.
Non si prevedono festeggiamenti, quindi. Le fazioni visceralmente anti-Putin negli Stati Uniti e a Kiev sono imbestialite: un senatore repubblicano americano, Roger Wicker, ha avvertito che in caso di un qualsiasi stallo sull'Ucraina, "non escluderei un'azione militare. Penso che cominciamo a sbagliare se togliamo opzioni dal tavolo, quindi spero che il presidente tenga sul tavolo anche questa". Alla domanda su cosa contemplerebbe un'azione militare contro la Russia, Wicker ha detto che potrebbe significare "che teniamo duro con le nostre navi nel Mar Nero e facciamo piovere distruzione sul potenziale militare russo", aggiungendo che gli Stati Uniti non dovrebbero nemmeno "escludere di prendere l'iniziativa di un'azione nucleare" contro la Russia.
Intanto l'Ucraina continua a languire. Se adesso dev'essere tregua, allora si tratta solo di questo, di una tregua. I falchi negli Stati Uniti e in Europa non hanno alzato bandiera bianca: L'Ucraina è un'arma troppo adeguata alle loro esigenze per essere gettata via alla leggera.
Questo concentrarsi sulla crisi ucraina, tuttavia, è come considerare un albero senza vedere il bosco: abbiamo tre bombe pronte a esplodere. Tre fronti diversi ma strettamente correlati, ora legati da obiettivi strategici e sincronia imperscrutabili: l'Ucraina, Taiwan, e il vacillante accordo sul nucleare iraniano che in questo momento sta scatenando a Tel Aviv un'angoscia indicibile.
Il bosco che scompare a fronte di questi tre alberi è insito nella questione irrisolta dell'edificio della sicurezza europea, della sicurezza del Medio Oriente e, in effetti, di tutto il costrutto della sicurezza globale. L'ordine esistente basato sulle regole è arrivato oltre la data di scadenza: non garantisce la sicurezza e non riflette la realtà degli attuali equilibri tra le grandi potenze. È diventato un agente patogeno. In poche parole, è troppo fossilizzato nella lietkultur del secondo dopoguerra.
In una recente intervista alla CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Jake Sullivan, consigliere di sicurezza di Biden: Allora, cos'è che dopo tutti i vostri 'discorsi da duri' siete stati in grado di concordare con la Cina, cosa è stato negoziato? "Domanda sbagliata", ha replicato tagliente Sullivan. "Metro sbagliato", ha ribadito fiaccamente: non chiedetemi degli accordi bilaterali - chiedetemi che cos'altro ci siamo assicurati. Il modo giusto di pensare alla questione, ha detto, è: "Abbiamo stabilito i termini di una competizione efficace in cui gli Stati Uniti sono in grado di difendere i loro valori e far avanzare i loro interessi; non solo nell'Indo-Pacifico, ma in tutto il mondo...".
"Vogliamo porre le condizioni per cui due grandi potenze opereranno in un sistema internazionale per il prossimo futuro - e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori ameriKKKani: Si tratta piuttosto di una disposizione favorevole in cui gli Stati Uniti e i loro alleati possono plasmare le regole internazionali su come affrontare questioni del tipo che in sostanza finiscono per rivelarsi importanti per la gente del nostro paese [l'AmeriKKKa] e per gli altri popoli in tutto il mondo...".
È questa lietkultur massimalista che ci sta portando a un punto in cui queste tre questioni esplosive insieme rischiano di sovvertire alle radici l'ordine globale. Bisogna andare molto indietro nel tempo per trovare un momento in cui il nostro mondo si è trovato tanto vulnerabile a un improvviso rovescio della sorte, a quello che Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph definisce "l'incubo dell'Occidente: una guerra su tre fronti".
Cosa sta succedendo? Beh, è certamente una cosa che ha delle ripercussioni molto vaste. E perché gli Stati Uniti si ostinano a tenere un atteggiamento tanto perentorio in merito all'ordine globale, per cui le altre grandi potenze non avrebbero il diritto di fissare proprie linee rosse in materia di sicurezza? Il motivo è dato di 'quattro cavalieri' dei grandi cambiamenti. La pandemia che porta a un sistema di regolamentazione sanitaria globale, l'emergenza climatica che porta a un regime globale di crediti e debiti per le emissioni di anidride carbonica, la rivoluzione tecnologica e dell'intelligenza artificiale che ci porta in un'era globale di automazione e bot (e di perdita di posti di lavoro) e, in quarto luogo, la transizione dall'economia classica a quella della teoria monetaria moderna applicata a livello globale, che richiede una reimpostazione globale del mucchio planetario di debiti che non saranno mai pagati.
La visione di Sullivan sul "futuro prevedibile" è essenzialmente concepita intorno a questo progetto di instaurazione di un ordine superiore: Il mantenimento di "regole per affrontare le questioni" globali congegnate per riflettere gli interessi degli Stati Uniti e degli alleati, come base da cui i fondamenti delle "transizioni" in materia di salute, cambiamento climatico, tecnocrazia manageriale e monetaria possano essere sottratti alla prerogativa dei parlamenti nazionali e portati a un livello sovranazionale fatto di collettivi manageriali aziendali e tecnologici incentrati sulla competenza, che non devono rispondere alla supervisione dei parlamenti nazionali.
Ripartiti in questo modo in ambiti come le precauzioni sanitarie, il ripristino del clima, la promozione di "miracoli" tecnologici e l'emissione di denaro separata dalla tassazione, i punti chiave delle transizioni non hanno un sapore ideologico e in qualche modo diventano quasi utopici.
Si capiva bene che tutte queste transizioni avrebbero sovvertito inveterati modi di vivere antichi e profondamente radicati, e inevitabilmente avrebbero scatenato la dissidenza; ecco il perché delle nuove forme di "disciplina" sociale, e perché è così importante che si usurpi la facoltà di controllare facendola passare dalla responsabilità nazionale al piano sovranazionale. Certamente non si sta rendendo la gente "felice" (come nel caso di Davos).
Mah, il substrato ideologico di questo "ordine superiore" può essere occultato alla vista, in quanto non di parte, ma è colui che decide gli standard internazionali, i protocolli, le metriche e le regole per queste transizioni ad essere sovrano, come ebbe a notare Carl Schmitt.
Sullivan ha almeno la correttezza di essere franco sull'ideologia che sottende la transizione: "Vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori ameriKKKani: Si tratta piuttosto di una disposizione favorevole in cui gli Stati Uniti e i loro alleati possono plasmare le regole internazionali su come affrontare questioni del tipo che in sostanza finiscono per rivelarsi importanti per la gente del nostro paese [l'AmeriKKKa] e per gli altri popoli in tutto il mondo...".
In questo caso stiamo chiaramente parlando di qualcosa che va ben oltre la portata dei vertici di Biden con Xi e Putin, e i colloqui di Vienna sull'accordo per il nucleare iraniano. Il presidente Putin ha avvertito che non avrebbe permesso alcuno sconfinamento di infrastrutture o forze della NATO in Ucraina, e che la Russia avrebbe agito con decisione per impedirlo. Allo stesso modo, l'Iran ha dichiarato esplicitamente che qualsiasi attacco da parte dello stato sionista ai suoi impianti nucleari non sarà tollerato e si tradurrebbe nella distruzione da parte iraniana delle infrastrutture vitali dello stato sionista su tutto il suo territorio.
La posizione dell'Iran e della Russia è identica a quella della Cina nei confronti di Taiwan: il presidente Xi lo ha chiarito nel vertice virtuale che ha tenuto con Biden il 15 novembre. Xi ha avvertito che non è tollerabile alcuna iniziativa secessionista da parte di Taiwan e che nel caso la risposta sarebbe militare.
A Vienna, l'Iran ha semplicemente statuito quali sono le sue "linee rosse": nessuna discussione sui missili balistici iraniani, nessuna discussione sul ruolo regionale dell'Iran e nessun congelamento dell'arricchimento fino a quando non sarà stato concordato un meccanismo per revocare le sanzioni e garantire che non vengano ripristinate; di fatto un ritorno al quadro originale dell'accordo del 2015. L'Iran chiede garanzie vincolanti contro il ripristino arbitrario delle sanzioni, che la normalizzazione dei traffici commerciali non possa essere di nuovo ostacolata in modo informale in contrasto con i termini dell'accordo -come è accaduto sotto Obama quando il Ministero del Tesoro degli Stati Uniti perseguiva una propria politica volta a minare il commercio, in contrasto con quella della Casa Bianca- e che tutte le sanzioni vengano revocate.
La cosa cui si dovrebbe fare caso è il contesto: si noti che la posizione iraniana è quasi identica nel contenuto a quella enunciata dalla Russia nei confronti degli Stati Uniti rispetto all'Ucraina: Putin chiede a Washington che gli interessi russi e le relative "linee rosse" siano formalmente riconosciuti e accettati; che siano stipulati accordi legalmente vincolanti per quanto riguarda la sicurezza della Russia in Europa orientale, la richiesta perentoria che non vi siano altre espansioni della NATO verso est e il veto alla presenza di qualsiasi infrastruttura della NATO in Ucraina.
Tutto questo rappresenta una novità assoluta; in geopolitica, coincidenze di questo tipo non si verificano spontaneamente. È evidente che le tre potenze sono strategicamente coordinate sul piano politico e probabilmente anche su quello militare.
Gli stati occidentali sono rimasti sbalorditi; è la prima volta che sono gli altri a indicare dei limiti invalicabili piuttosto che ricevere istruzioni su come conformarsi alle linee rosse ameriKKKane. Sono sconcertati e non sanno come reagire. Inoltre, come nota acutamente Anatol Lieven, alcune azioni avrebbero gravi conseguenze strategiche: "A parte il danno economico globale che risulterebbe da una guerra in Ucraina e le maniere con cui la Cina approfitterebbe di una tale crisi, l'Occidente ha un motivo molto valido per evitare una nuova guerra: l'Occidente perderebbe". Lieven prosegue: "Un conflitto rischierebbe anche di diventare una guerra mondiale; perché è praticamente certo che la Cina sfrutterebbe una guerra tra Stati Uniti e Russia e metterebbe gli Stati Uniti sotto la minaccia di rischiare due guerre contemporaneamente... e la sconfitta in entrambe".
Per ora, gli Stati Uniti e i loro alleati ripetono i soliti discorsi su "tutte le opzioni sul tavolo", sulle sanzioni che paralizzano e sulla formazione di una coalizione internazionale che eserciti pressioni per opporsi a questa mancanza di conformità. Perché senza la conformità dei concorrenti (ovvero l'effettivo isolamento politico e la condanna di questi stati), il supremo obiettivo di portare i punti chiave della transizione apparentemente "non ideologici" ad una sfera sovranazionale dotata di propri standard, protocolli eccetera (i "termini del sistema" nelle parole di Sullivan) non sarà raggiunto. Non sarà possibile aggiornare la suite di programmi del "Consenso verso Washington" se questi tre stati semplicemente rifiutano le "regole" di Sullivan.
Non sarà comunque facile arrivare a un ripristino dell'assetto strategico. L'Occidente è incastrato nella guerra dei meme, il che rende una ripartizione dell'ordine strategico ancora più difficile. Qualsiasi compromesso sulla narrativa per cui la Russia non può dettare limiti invalicabili, non può mettere veti all'adesione dell'Ucraina alla NATO né stabilire dove la NATO posssa o no posizionare i suoi missili e le sue armi nucleari rischia di mostrare Biden come un debole. I repubblicani hanno già incolpato preventivamente quella che chiamano la "debolezza" di Biden di aver incoraggiato il "pericoloso avventurismo" di Mosca.
Forse questi due vertici -insieme alla posizione dell'Iran a Vienna- rappresentano l'inizio della fine dell'ordine basato sulle regole dell'Occidente, e un conto alla rovescia verso un nuovo equilibrio geo-strategico tra i due blocchi e in ultima analisi, quindi, verso la pace o la guerra.

sabato 27 novembre 2021

Studio Legale Rotondi & Partners - Largo Augusto, 8 20122 – Milano (MI) Tel. +3902303111

 


A Milano, in Largo Augusto 8 (sì, proprio quello del Monopoli) esiste un qualche cosa che si fa chiamare LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners.
LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners ha varie sedi in giro per la penisola e una buona presenza su internet, con molte immagini che fanno intuire un mondo estremamente facoltoso e dedito a quella efficienza nell'incameramento di redditi da lavoro che costituisce una delle parti più insopportabili (e chissà quanto fondate) del genius loci milanese.
Un giorno di novembre un ben vestito di nome Francesco Rotondi sparpaglia per il web qualche riga trionfante.
E un po' sgrammaticata.
Probabilmente aveva fretta: il tempo è denaro e il giro è di quelli in cui si giudicano le persone dalle scarpe che portano e si va dicendo "Io valgo X euro l'ora" pretendendo anche di essere presi sul serio.
#LabLaw Studio dell'anno Lavoro!
Siamo orgogliosi di poter annunciare che #LabLaw ha vinto il premio come "Studio dell'anno Lavoro" ai TopLegal Awards 2021, con la seguente motivazione: "Stimato per la proattività e la lungimiranza con cui affianca i clienti. Come nell'assistenza a GKN per la chiusura dello stbailimento fiorentino e l'esubero di circa 430 dipendenti".
Lavoro di #squadra, #passione e #dedizione, questi i valori nei quali crediamo e che ci spingono a voler raggiungere traguardi sempre più alti.
#GoAheadLabLaw

Francesco Rotondi

Piccolo riepilogo: GKN, di proprietà di un fondo di investimento britannico, fabbrica componentistica per automobili. Il 9 luglio 2021 i quattrocentotrenta lavoratori di cui sopra sono stati licenziati via e-mail. 
 Chiusura dello stabilimento. 
Si arrangino: se proprio vogliono, aprano quattrocento bed and breakfast.
La proattività e la lungimiranza degli otto ben vestiti della foto hanno fatto loro affiancare il cliente così bene che la procedura è stata dichiarata nulla in tribunale dopo meno di due mesi.
Ora, chi ti mette deliberatamente centinaia di persone serie in questa situazione avrà anche le competenze necessarie per aiutarle ad uscirne?
Chi scrive assisterebbe senz'altro divertito e molto partecipe a uno workshop sull'argomento, con gli otto ben vestiti della foto da una parte e le quattrocentotrenta (quattrocentoventidue, per la precisione) persone serie dall'altra, senz'altro poco propense a quei formalismi cui in Largo Augusto 8 si conferisce tanta importanza.
Nell'immediato gli interessati hanno reagito (sul Libro dei Ceffi) con uno understatement che la proprietà britannica della GKN troverebbe senz'altro di proprio gusto.

And the winner IS...Comunque a noi pare che contro la Fiom di Firenze avete perso non uno ma due articoli 28, la fabbrica ad oggi non è chiusa, e per quanto ci riguarda abbiamo avuto modo di apprezzare la vostra discutibile presenza in sede sindacale dove non ci sembra abbiate tenuto testa a quattro operai in croce nell'assistere un liquidatore in sede sindacale senza nemmeno forse sapere che forma hanno i nostri semiassi. Firmato: i vostri 430 esuberi circa
PS cmq grazie di ricordare a tutti noi che questo mondo esiste.

Post scriptum. La popolarità dello studio LabLaw ha avuto un picco di popolarità mediatica, anche se non esattamente per i motivi che il signor Rotondi avrebbe potuto auspicare. Nelle ore successive è stato diffuso un irrilevante video di spiegazioni e le gazzette hanno poi riferito che il signor Toccafondi lamenta di essere stato messo alla gogna per uno scivolone comunicativo
No.
Lo scivolone ha fatto soltanto emergere il modo con cui il signor Toccafondi e i signori dall'aspetto ben nutrito con cui si è fatto ritrarre in occasione del "premio" riescono a percepire altissimi redditi. 
Un modo tollerabile solo a chi si trovi a condividerne gli utili.


venerdì 5 novembre 2021

"In sette al ristorante, in sei al museo: è il deserto Zeffirelli", frigna il "Corriere Fiorentino"

Gli "occidentalisti" fiorentini hanno portato in palmo di mano per decenni il signor Franco Zeffirelli, ostentandone sulle loro gazzette i meriti molto pregressi e moltissimo dimenticati.
Nel novembre del 2002 si tenne il Social Forum, un evento che per i fiorentini più seri rappresentò qualcosa di indimenticabile e che la feccia gazzettiera cercò di sporcare con ogni arma a disposizione. Il già assai maturo Franco Zeffirelli asserì convinto di essere pronto a incatenarsi sul Ponte Vecchio per impedirne la postulata devastazione. Molti volenterosi si dissero disponibilissimi ad assecondarlo e ad aiutarlo di persona, proponendo in tutta compostezza svariati metodi di fissaggio e varianti che andavano dal filo spinato ai rivetti, passando direttamente per l'impalamento accanto alla gioielleria Fallaci.
In uno scritto del 2010 riportammo per intero -a ulteriore titolo di scherno- un sunto di tutta la questione
Insomma, gli ambienti meglio vestiti della città hanno brigato, fatto e strafatto affinché venisse allestito in pieno centro -nel vecchio tribunale di Piazza San Firenze- un museo dedicato al suo indiscusso, indispensabile genio. E agli ambienti meglio vestiti della città il "Corriere Fiorentino" offre sempre e comunque sostegno, dal momento che non esiste idiozia da due spiccioli secreta da certa gente cui quella gazzetta non conferisca l'aura di Editto Pel Bon Governo. 
Si assiste quindi con una certa soddisfazione al fatto che sia proprio quel foglietto, con una mezza pagina pubblicata il 5 novembre 2021, a certificare la ovvia, prevedibile mediocrità dei risultati.
Il Museo Zeffirelli?
Fotine con le scrittine.
Mangioteca in una città e in un quartiere dove ci sono tre mangioteche in ogni isolato.
E un goccio di liquore annacquato a cinque euro, in una città e in un quartiere dove ci sono tre mescite in ogni isolato.
Tutte col goccio di liquore annacquato a cinque euro.
Più in là non ci vanno.
Fanno quasi rimpiangere i tempi in cui ogni edificio minimanente centrale che presentasse caratteristiche architettoniche appena superiori a quelle della scatola da scarpe diventava sede di una banca, secondo la prassi di una stolta età dell'abbondanza terminata qualche decennio fa lasciandosi dietro l'affettata aria di sufficienza tipica di certi ambienti, impermeabile ai rovesci e alle disconferme.


lunedì 25 ottobre 2021

Mahjabin Hakimi era una giovane afghana che voleva soltanto giocare a pallavolo e sentire il vento nei capelli

 

Certo, come no.
Ma andiamo con ordine.

Mahjabin Hakimi -assicurano in coro le gazzette- era una ragazza afghana che i ferocissimi talebani hanno per questo decapitato. Non contenti, questi biechi esponenti della oppressiva fallocrazia patriarcale avrebbero anche messo in giro foto della sua testa staccata dal corpo.
In capo a qualche ora sono diventati reperibili immagini e dettagli poco confacenti a questa versione dei fatti. Visti i decenni di precedenti analoghi ci sarebbe stato da stupirsi del contrario.
Tra le immagini reperibili, per esempio, difettano le teste tagliate e abbondano foto della Hakimi in montura da non pallavolista.
Il che fa pensare con buona fondatezza che -quale che sia stata la sua fine- la passione per la pallavolo e la riluttanza verso l'adozione dello hijab non c'entrino poi molto. Per non dire per niente.

L'occupazione "occidentale" dell'Afghanistan è finita ad agosto 2021 nel peggiore dei modi, come previsto vent'anni fa dalle persone serie.
Persone serie che la "libera informazione" ha abitualmente silenziato o cui ha tolto di mano il microfono con dei metodi, con una costanza e con una pervasività che qualsiasi propaganda totalitaria non poteva nemmeno immaginare.
A Mao Zedong è attribuito l'assunto per cui i combattenti dovrebbero muoversi tra la gente come i pesci nell'acqua. In vent'anni di occupazione gli "occidentali" hanno ucciso -pare- oltre settantamila pesci e fatto un numero di buchi nell'acqua -cioè vittime civili derubricate con fastidio a "perdite collaterali"- per lo meno doppio.
Con gli ottimi risultati cui si è fatto cenno.
L'enorme somma stanziata per questa splendida iniziativa è servita agli armamenti, alla corruzione e in una certa misura anche a creare una élite locale di collaborazionisti presentata dalle gazzette come unico volto dell'Afghanistan. Gente la cui sorte ha subito dal 15 agosto 2021 il peggiore dei rovesci e che deve essersi resa ancora più insopportabile dei gruppi di cui viene presentata come antagonista, se la Repubblica Islamica dell'Afghanistan è collassata in pochi mesi prima ancora che gli invasori finissero di ritirarsi dopo aver contrattato una pace per nulla onorevole -e senza nemmeno coinvolgere nelle trattative il governo collaborazionista- con i nemici che avevano giurato di sradicare.
La "libera informazione" sta quindi denunciando a getto continuo, e con una fondatezza per lo meno questionabile, prevaricazioni sanguinose e ingiustizie intollerabili che invocano non si sa bene quale vendetta o quale soluzione, visto che di più e di meglio che esportare democrazia per vent'anni a mezzo missile da crociera è difficile che l'"Occidente" e la sua autonominata potenza-guida possano fare. Un repertorio di historiae calamitatum ottimo per chiudere i numeri e per accompagnare l'inventario di marginalità disperate e disperanti tratte dalle periferie delle città "occidentali" caro da anni alla propaganda "occidentalista", accomunati dal fatto di essere per lo più oggetto di indignata denuncia ad opera delle stesse gazzette e delle stesse forze politiche che hanno attivamente contribuito a crearle.
In questo contesto, un esame sarcasticamente obiettivo della narrativa gazzettiera può tenere presente una vecchia storiella inclusa anni fa da Moni Ovadia nei suoi spettacoli.

Nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche radio Erevan pare fosse nota per il rigore della propria agenda. Un giorno quindi lo speaker legge senza tradire nessuna emozione una notizia sensazionale: "Compagni, stamattina sulla Piazza Rossa a Mosca stanno regalando automobili."
Immediatamente il resto della redazione e i piani alti del Partito finiscono nel panico: ma come è possibile che sia arrivata una nota del genere e che sia stata letta come se nulla fosse? Il direttore della radio si precipita in studio: lo speaker gli mostra la nota arrivata da Mosca e tutto risulta regolarissimo.
Tocca a radio Erevan risolvere la grana.
Un addetto ha un'idea: "Proviamo a cercare il vecchio Abrahamowicz, quell'ebreo che vive dietro il Matenadaran... lui le ha passate tutte: i turchi, la guerra, Stalin... sicuramente saprà dirci cosa fare."
Lo mandano a cercare, e il vecchio Abrahamowicz non si fa pregare. Arriva in radio e si fa mettere dietro il microfono. "Non preoccupatevi, ci penso io alla smentita, e lo farò senza che nessuno ci perda la faccia!"
La redazione, che si era già vista al gran completo sulla tradotta per Vladivostok, tira un sospiro di sollievo.
"Compagni in ascolto, salute! Qui Itzak Abrahamowicz da radio Erevan. Ho il piacere di confermare la notizia data qualche ora fa per cui sulla Piazza Rossa di Mosca starebbero donando automobili..."
Gli astanti raggelano.
"...con alcune precisazioni. Innanzitutto, l'evento non riguarda la Piazza Rossa di Mosca, ma via Rustaveli qui a Erevan; poi, non si tratta propriamente di automobili ma di biciclette. E insomma, non è che proprio le regalano. Le rubano...!"


venerdì 15 ottobre 2021

Alitalia fa rotta verso Fanculo. Ultima parte?

 


Secondo le gazzette il 14 ottobre la compagnia aerea "di bandiera" dello stato che occupa la penisola italiana ha effettuato il proprio ultimo volo.
Un volo interno da poche miglia.
Con venti minuti di ritardo, giusto per chiudere senza smentirsi. Evidentemente esistono un onore e una coerenza da difendere persino in circostanze del genere.
Il sostituto è già pronto da un pezzo, partenza in sordina e una novantina di milioni per rilevare il marchio quando sarebbe stato assai più dignitoso e assennato accantonarlo senza tanto chiasso.
L'auspicio sarebbe di non sentirne più parlare, a cominciare dalle parodistiche "eccellenze" fatte di caffè espresso (a terra costa un euro) e di quel liquore dal sapore di detersivo che si onoravano persino di servire a chi strapagava i loro biglietti.
Ma qualcosa ci dice che in questo caso saremo pessimi profeti.


Alitalia fa rotta verso Fanculo. Sesta parte.
Alitalia fa rotta verso Fanculo. Quinta parte.
Alitalia fa rotta verso Fanculo. Quarta parte.
Alitalia fa rotta verso Fanculo. Terza parte.
Alitalia fa rotta verso Fanculo. Seconda parte.
Alitalia fa rotta verso Fanculo. Prima parte.



mercoledì 6 ottobre 2021

Orditura Luana SRL - Via Garigliano 10/12 59013 Montemurlo (PO) - Tel 0574682957

 

"Non ci si inventa imprenditori in un giorno. Ho fatto una lunga gavetta e tutt’ora seguo in prima persona l’azienda, perché il lavoro ogni giorno ti mette alla prova, ma alla fine la determinazione è quella che ti fa emergere. Purtroppo, con un certo rammarico, devo constatare che manca un po' di umiltà e la volontà di voler imparare, perché lo spazio per lavorare ci sarebbe."

Luana Coppini, padrona

"L’Orditura di Luana Coppini è una delle tante eccellenze del nostro distretto. Un’azienda lungimirante che ha saputo trasformarsi da semplice orditura a centro servizi per il tessile. [...] Il tessile è ancora il motore trainante della nostra economia ed è importante investire sulla formazione delle persone, per non disperdere un patrimonio immenso di competenze e qualità. Mi rivolgo in particolare ai sindaci e agli imprenditori ai quali dico: apriamo un confronto con la Regione, perché il ricambio generazionale e la formazione rischiano di diventare il vero problema per la sopravvivenza del distretto".

Mauro Lorenzini, borgomastro a Montemurlo, ex sindacalista tessile
Fonte: LineaLibera.info, 22 febbraio 2018. In copia su Archive.org.
Nella foto a corredo dell'articolo, Luciana Coppini col marito e con Mauro Lorenzini.
Nella eccellenza distrettuale Orditura Luana di Luana Coppini, il 3 maggio 2021 una ragazza di ventidue anni di nome Luana d'Orazio incappa in una eccellente morte distrettuale a causa di un macchinario.
In questo scritto si evita di proposito di pubblicarne immagini; i nostri lettori non hanno certo bisogno di spiegazioni sul perché.

"... La nostra assistita ha risposto a tutte le domande in modo franco secondo quanto a sua conoscenza. Non è mancata l’occasione per rammentare quanto l’attività da lei svolta come imprenditrice fosse improntata a spirito di condivisione con tutti i lavoratori".
Fonte: Notiziediprato.it, 16 giugno 2021. In copia su Archive.org.
In questo articolo la determinata, umile e volenterosa Luana d'Orazio compare in una foto natalizia in allegria -come i bambini degli impiegati alla ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica- insieme alla padrona improntata a spirito di condivisione con tutti i lavoratori che -ipsa dixit- segue in prima persona l'azienda.

"Secondo quanto raccolto dall’ingegner Carlo Gino, incaricato dalla Procura di esaminare il macchinario, l’apparecchio sarebbe stato montato in modo non conforme alla sicurezza sul lavoro, così da velocizzare i tempi di produzioni.
L’analisi del perito confermerebbe le ipotesi degli inquirenti sulla manomissione dell’orditoio sul quale la giovane lavorava ignara dei rischi che correva.
La perizia di 69 pagine contiene informazioni secondo le quali la presenza di una staffa sporgente e non protetta avrebbe trascinato la ragazza in una morsa. "La macchina presentava una evidente manomissione con un altrettanto evidente nesso causale con l’infortunio", sostiene l’ingegnere Gini. "La funzione di sicurezza della saracinesca era stata completamente disabilitata per cui l’operatore poteva accedere alla zona pericolosa, anche in modalità automatica, senza alcuna protezione". Nella relazione Gini sottolinea come la manomissione dei macchinari fosse "consuetudine di lavoro", al punto che "la saracinesca non veniva abbassata da tempo". A provarlo, le "varie ragnatele che si erano andate a formare tra le parti fisse e quelle mobili".
Nel frattempo continuano le indagini della procura di Prato, che lavora per chiarire anche quali mansioni doveva compiere Luana al netto del suo contratto da apprendista, che prevederebbe l’assistenza di un tutor. Rimangono tre le persone indagate: il titolare dell’azienda, Luana Coppini; suo marito Daniele Faggi, secondo gli inquirenti "amministratore di fatto della ditta"; e l’addetto alla manutenzione Mario Cusimano. Sono accusati di omicidio colposo e rimozione delle tutele antinfortunistiche."
Fonte: Open.online, 19 settembre 2021. In copia su Archive.org.

La procura ha chiuso le indagini, ecco come è morta Luana d'Orazio.
La procura ha anche ordinato un accertamento utile a misurare gli effetti della manomissione sulla produttività e redditività del macchinario. La guardia di finanza ha lavorato diverse settimane stabilendo, pare, che a saracinesca alzata l'orditoio avrebbe incrementato la sua produttività dell'8 per cento senza però riuscire a dire se e di quanto sarebbe aumentato il fatturato. Non è escluso che consentire al macchinario di funzionare anche senza la protezione antinfortunistica, servisse solo a rendere più fluido il lavoro senza che ciò rivestisse un particolare interesse economico.
Fonte: Notiziediprato.it, 6 ottobre 2021. In copia su Archive.org.

L'otto per cento.
Doveva chiudere nel 2009. 
Deve chiudere nel 2021
Stessi identici motivi. 
 
 

martedì 5 ottobre 2021

Gabriele Toccafondi, Limoges, Barbara Balzerani e le elezioni a Sesto Fiorentino

 

Nella lingua francese esiste il verbo limoger, che nell'ambiente militare sta per silurare, congedare senza troppo onore, insomma, mettere qualcuno in condizione di non far danni.
Etimologicamente dovrebbe derivare da Limoges, cittadina del Massiccio Centrale prossima al centro dell'Esagono e lontana da qualsiasi ipotizzabile linea di fronte.
Nel 1914 -Joseph Joffre ne era sicuro- un ufficiale destinato alla guarnigione di Limoges difficilmente avrebbe procurato danni alla République con alzate di inventiva tipo assalti frontali in giubba blu orizzonte e pantaloni rosso ciliegia contro le mitragliatrici, e al tempo stesso non avrebbe potuto risentirsi per una deminutio capitis di sostanza, ma legalissima e formalmente ineccepibile.
Nell'autunno del 2021 un ben vestito di nome Gabriele Toccafondi était limogé tramite elezioni amministrative al comune di Sesto Fiorentino.
Quello di Gabriele Toccafondi è un nome ricorrente in questa sede, dove difficilmente si è avuto modo di parlarne bene, come si nota dalla piccola ma eloquente raccolta di link qui riproposta.

Firenze è preda del degrado e dell'insicurezza per colpa di un'amministrazione buonista accecata dall'ideologia. Nel 2013 la propaganda "occidentalista" pestava i piedini per la sorte di due fucilieri di marina detenuti per aver ucciso cittadini di una superpotenza nucleare. Gabriele Toccafondi intendeva imporre alla città di Firenze una compartecipazione alla loro causa che non aveva alcun riscontro presso la cittadinanza.
Firenze: il PDL, Boutique Pound e le menzogne di Gabriele Toccafondi. Nel 2012 quel ben vestito fece ufficialmente finta di non conoscere certi ingombranti compagni di strada, dal cui milieu pochi mesi prima era emerso un individuo dispostissimo alle soluzioni radicali in materia di 'nsihurezzeddegrado.
Il PDL di Firenze e le tende canadesi. Nel 2011 gli esponenti delle formazioni "occidentaliste" erano ancora costretti a far finta di tenere al bene comune e a mostrarsi ogni tanto in carne ed ossa, sia pure con la discreta compagnia di un congruo numero di gendarmi a tutela contro il peggio. Luca Morisi e i suoi strepitosi risultati erano ancora di là da venire. Qui si cimentarono in sei nell'erezione di una tenda canadese. E che erezione, commentarono i realisti.
Oriana Fallaci è morta da cinque anni? E chi se ne frega...! «Il Pdl ricorda Oriana Fallaci, la sinistra no. La politica è fare delle scelte, noi le abbiamo fatte e ne andiamo fieri», sgazzettava ancora nel 2011 Gabriele Toccafondi. Nel 2021 i limiti di certe scelte, con i costruttivi esiti anche dell'occupazione dell'Afghanistan a rimorchio degli USA, si sono mostrati con una perentorietà persino maggiore delle attese. Non è stato difficile prevedere come sarebbe finita, è stato soltanto un po' lungo attendere l'avverarsi delle previsioni.
In tempi più recenti Gabriele Toccafondi non ha apprezzato una presentazione libraria tenutasi al Centro Popolare Autogestito Firenze Sud che chi scrive frequenta da oltre venticinque anni. Costruttivamente si è dunque data visibilità a Barbara Balzerani, l'autrice al centro delle rimostranze sue e delle gazzette amiche, e al libro presentato in quell'occasione.

Gabriele Toccafondi a Sesto Fiorentino ha ottenuto circa 1300 voti e pare destinato a un ruolo di lobbista aeroportuale in un contesto che di certi temi non vuole nemmeno sentir parlare.
Una Limoges metaforica ma sperabilmente non meno efficace.
A differenza di chi gode di un ottimo tenore di vita grazie al democratismo rappresentativo, le persone serie hanno la memoria lunga. Per questo abbiamo celebrato l'arrivo in guarnigione del signor Toccafondi ordinando i volumi che ancora ci mancavano della bibliografia di Barbara Balzerani, tutti disponibili sul sito dell'editore DeriveApprodi. Ci riproponiamo di sottoporne le recensioni all'attenzione dei lettori.

lunedì 13 settembre 2021

11 settembre e Oriana Fallaci. Firenze, Emanuele Cocollini (Lega): "Sosteniamo iniziativa Presidente Milani, Oriana Fallaci e suo pensiero patrimonio comune della Città"

  

Emanuele Cocollini è un ben vestito noto ai nostri lettori per la sobrietà con cui perora la causa dell'"occidentalismo" a Firenze.
Con la stessa sobrietà ha perorato la causa -irricevibile per qualsiasi persona seria- di Oriana Fallaci, con un comunicato stampa in cui non si salva nulla.
A cominciare dalle intenzioni.
Ci siamo fatti promotori, abbiamo sostenuto e sosteniamo il coraggio dell’iniziativa del Presidente Milani di voler ricordare Oriana Fallaci nel giorno della sua morte, il 15 settembre ed anche in relazione ad un rapporto da ricucire con la sua amata città.
Non si capisce cosa ci sia da ricucire con un elemento che in occasione del Social Forum del 2002 si produsse in roba come questa, che già all'epoca invogliò a passare a vie di fatto individui assai più riflessivi di chi scrive. Nessuno ha motivo di tollerare né la vicinanza né tanto meno le lezioni dall'equivalente pennaiolo di una mantenuta che lascia il SUV in seconda fila quando accompagna la bambina a scuola bloccando il traffico per mezz'ora e che pretende anche di avere ragione.
Da un elemento del genere sarebbe stato molto grave l'essere stimati e la prevedibile, prevista e umiliante serie di rovesci subiti in vent'anni dagli aggressori "occidentali" in tutte le guerre perpetrate e propagandate sulla base di materiali del genere non invoglia certo ad esprimersi in modo conciliante.
Soltanto su una cosa il signor Cocollini ha ragione: per organizzare un'iniziativa del genere occorre davvero del coraggio.
A chi ha deciso di strumentalizzare anche il ricordo di questo giorno solenne, a vent’anni dagli attentati nel cuore di Manhattan, ci sentiamo di rispondere attraverso le parole di Oriana, scritte all’indomani dell’11/09, proprio a dimostrazione della fondatezza delle sue idee e di quanto il suo pensiero sia ancora attuale.
Una solennità è una ricorrenza festiva -in genere religiosa- di particolare importanza.
L'11 settembre era ed è una giornata qualsiasi.
La "fondatezza" delle "idee" di quella "scrittrice" era oggetto di scherno prima dell'11 settembre del 2001, e vieppiù lo è stata dopo allora. Se il signor Cocollini è convinto che il "pensiero" di Oriana Fallaci sia ancora attuale, ammette di fatto l'inutilità e la demenzialità delle guerre statunitensi e la mediocrità dell'operato degli yankee di complemento, in qualsiasi settore e disciplina di impiego.
“Ho saputo che anche in Italia[*] alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene» ». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d' una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza”.
Una prassi di redazione riscontrabile nella spazzatura "occidentalista" che sporca i mass media -e che nel 2001 almeno era in gran parte limitata a gazzette e televisioni, stante la quasi totale assenza di quei repellenti schedari di buoni a nulla che chiamano "reti sociali"- consiste nel proiettare su gruppi o individui che si intende presentare negativamente caratteristiche e comportamenti che sono, invece, i propri. Agli occhi delle persone serie di conseguenza i palestinesi di Gaza -che non vivevano in attici di lusso e men che meno venivano strapagati da qualche gazzetta- erano e sono uomini, donne e bambini senza che ci sia bisogno che una vecchia patologicamente egocentrica e spettacolosamente viziata gliene accordi la patente. Patente che immaginiamo gli "occidentalisti" siano propensi a concedere senza esami ai residenti nello stato sionista che nel 2014 mangiavano pop corn godendosi in tutta comodità i bombardamenti su Gaza.
Chi scrive nel 2001 svolgeva, come oggi, la professione di tecnico informatico senza stare a chiedersi se la cosa lo qualificasse o meno come cicala di lusso. E come moltissime altre persone serie -magazzinieri, insegnanti, operatori sociosanitari, contabili, tecnici del suono, imbianchini, tassisti, impiegati postali- era convinto che gli USA non potessero e non dovessero incolpare dell'accaduto altri che se stessi. Se questo provocava la rabbia -per nulla fredda, per nulla lucida e razionale ancora meno- di questa strapagata "scrittrice", la cosa non poteva che essere motivo di una qualche soddisfazione.
Ci sentiamo di ribadire che ci uniamo e ci uniremo sempre al ricordo della nostra più illustre concittadina e che stiamo e staremo sempre dalla parte dell’Occidente libero e degli Stati Uniti. God Bless America". (s.spa.)
Il signor Cocollini -prosit- ribadisca e unisca quello che pensa meglio.
Il video presentato descrive meglio di molte ciarle che razza di paese sia quello su cui invoca (giustamente) benedizioni. I vent'anni passati a esportare democrazia a mezzo missili da crociera, i duemila e più miliardi di dollari finiti in Afghanistan (per lo più per armamenti e corruzione) non hanno certo migliorato un quadro da sempre avviato al distopico. Su Youtube l'utente KimGary ha raccolto con un semplice giro in macchina per le strade di Philadelphia oltre venti minuti di quell'insicurezza e di quel degrado che piacciono tanto agli "occidentalisti" in campagna elettorale.



[*] Il nome dello stato che occupa la penisola italiana è presente nella citazione originale. Come nostro uso ce ne scusiamo con i lettori, specie con quanti avessero appena finito di pranzare.

mercoledì 25 agosto 2021

Christoph Reuter - Il fallimento della missione occidentale in Afghanistan era perfettamente prevedibile



Traduzione da Der Spiegel, 20 agosto 2021.


All'inizio di luglio ho incontrato un importante capo militare talebano e gli ho chiesto quando i suoi uomini sarebbero arrivati a Kabul. Mi rispose "Sono già lì". Il fallimento della missione in Afghanistan e gli sviluppi futuri.

All'inizio di luglio, prima che sull'Afghanistan si abbattesse l'uragano, Kabul era già circondata dai talebani. E da nessuna parte i combattenti islamici erano più vicini alla capitale afghana che sulle rive del bacino di Qargha, una popolare luogo di ritrovo ai margini occidentali della città. La gente diceva che i Talebani si erano radunati nei villaggi dietro le colline vicine. L'ultima linea del fronte, si diceva, era sulla riva del lago artificiale al parco dei divertimenti.
Durante il giorno le famiglie portavano ancora i bambini alle giostre e nei ristoranti, o uscivano sul lago su pedalò a forma di cigno. Una piccola unità di sei uomini delle forze speciali poteva persino godersi un picnic in un padiglione di legno vicino alla riva. Uno di loro doveva restare di guardia alla torretta del suo Humvee blindato, mentre gli altri fumavano narghilè e bevevano bibite colorate.
Il giorno dopo ho incontrato uno dei principali comandanti militari talebani per la zona di Kabul, che mi ha ricevuto nel centro della città in uno stabile di uffici privo di qualsiasi caratteristica di rilievo. Quando gli ho chiesto quanto ci sarebbe voluto ai talebani per arrivare al lago, mi ha risposto: "Non è affatto lontano". Sembrava perfettamente calmo, un emissario della paura rasato di fresco. "Sono già lì, dopo tutto. Sono le guardie di sicurezza dei ristoranti, sono quelli che fanno funzionare le giostre, sono gli addetti alle pulizie. Quando sarà il momento giusto, il posto sarà pieno di talebani".
Sei settimane dopo il nostro incontro, a metà agosto, lo stesso individuo è entrato al palazzo presidenziale con dieci guardie del corpo e il comandante superiore responsabile della conquista di Kabul. Non aveva mentito quando aveva detto che i suoi uomini si erano già infiltrati nel parco del bacino. Quello che aveva omesso di dire, però, era che i talebani si trovavano già allora anche nel cuore della città. Dopo la caduta di Kabul, molti testimoni in vari quartieri della capitale hanno raccontato storie simili. "È iniziato in aprile", ha detto un conoscente di lunga data della parte occidentale della città. "In giro per il quartiere sono comparsi tutto a un tratto sempre più visi sconosciuti. Alcuni avevano la barba, altri no. Alcuni erano ben vestiti, altri indossavano stracci. Avevano sembianti completamente diversi e questo li rendeva difficili da notare, ma tutta la gente del posto se ne rese conto: questi non sono di qui". Si erano infiltrati silenziosamente a Kabul. Facce nuove inziarono a comparire anche nella parte settentrionale e orientale della città, e dicevano a chi glielo chiedeva che erano venute a Kabul perché avevano trovato lavoro o per motivi di lavoro.
Poi la scorsa domenica mattina [il 15 agosto 2021, n.d.t.], "sono usciti dagli edifici con bandiere bianche talebane, alcuni di loro armati di pistola", dice un residente di un quartiere orientale della città. È stata la vittoria finale sull'esercito ameriKKKano e la sua alta tecnologia, la cui sorveglianza aerea si è dimostrata inefficace contro questo esercito di pedoni e di motociclisti che nelle ore successive avrebbe invaso Kabul da dentro e da fuori. Più tardi nello stesso giorno avrebbero attraversato le strade della città in auto della polizia catturate; dall'alto, un'immagine di perfetta confusione.
Com'è potuta succedere una cosa del genere? Come è stato possibile perdere l'Afghanistan per mano dello stesso preciso identico gruppo che era stato sconfitto -anzi distrutto, in realtà- in soli due mesi nel 2001? Per vent'anni gli Stati Uniti -insieme a Germania, Gran Bretagna, Canada e altri paesi- sono rimasti nel paese con una schiacciante superiorità militare e con un numero di effettivi a volte superiore a centotrentamila. L'esercito e la polizia afghani sono stati addestrati ed equipaggiati più e più volte, per un periodo equivalente a un completo cambio generazionale, solo per capitolare alla fine praticamente senza sparare un colpo, davanti a un'offensiva di uomini a piedi. La presa della città è avvenuta nelle prime ore del mattino di domenica scorsa, con i talebani che sono apparsi improvvisamente a Kabul come un esercito fantasma.
Sembra che tutti gli sforzi fatti negli ultimi due decenni -tutte le strade, le scuole, i pozzi e gli edifici che sono stati costruiti, tutto il migliaio di miliardi di dollari abbondante affluito nel paese- non siano stati sufficienti per far passare saldamente la maggioranza degli afghani dalla parte di coloro che hanno sostenuto finanziariamente il paese.
La valanga è cominciata con la perdita di alcuni distretti settentrionali e poi si è abbattuta sull'intero paese, spazzando via l'assetto statale nel giro di poche settimane. I primi distretti a cadere sono stati del genere di cui in pochi in Occidente hanno mai sentito parlare, ma poi furono seguiti da intere province. Giorno dopo giorno, le città hanno aperto le porte all'avanzata: Kunduz, Herat, Mazar-i-Sharif, Kandahar. Più il crollo diventava drammatico più la resistenza si faceva debole, fino a quando Kabul, la capitale prostrata per la paura, si è semplicemente arresa nel giro di poche ore.
Allo shock è seguito il panico. Decine di migliaia di persone si sono precipitate alle mura dell'aeroporto di Kabul nel tentativo disperato di fuggire dalla città e dal paese. I talebani avevano chiuso da tempo la maggior parte dei valichi di frontiera via terra attraverso i quali la gente avrebbe potuto fuggire nei paesi confinanti. Ben presto le recinzioni metalliche dell'aeroporto hanno ceduto. Le guardie sono scomparse e masse di persone si sono fatte strada a forza fino alla pista.
Se mai esistono immagini della caduta di Kabul destinate a rimanere impresse nella memoria collettiva del mondo, sono quelle degli uomini che corrono accanto a un trasporto militare C-17 in lenta accelerazione, aggrappandosi disperatamente ai carrelli del jet che sta rullando. E poi, poco tempo dopo, piccole figure che perdono la presa e cadono verso la morte da centinaia di metri d'altezza.
E poi quelle dei vincitori trionfanti che attraversano Kabul sui pick up, con i kalashnikov levati in aria. I vincitori che entrano nel palazzo presidenziale e si mettono in posa come se fosse sempre stato cosa loro. I vincitori che assicurano agli afghani che non avevano motivo di avere paura, che dovevano continuare con le loro vite quotidiane e non sarebbe successo loro nulla. Tutto quello che dovevano fare, insistevano i talebani, era aderire alle loro regole.
Chi si deve biasimare per questo disastro? Forse il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, come il suo predecessore ha immediatamente strombazzato al mondo? "Passerà alla storia come una delle più grandi sconfitte della storia ameriKKKana" ha detto Trump, sorvolando sul fatto che l'accordo che ha aperto la strada al ritiro degli Stati Uniti è stato firmato da lui e dai talebani nel febbraio 2020.
Altri hanno visto la caduta di Kabul come il "risultato di una grande e organizzata cospirazione di vigliacchi", stando alle invettive pubblicate sul Libro dei Ceffi dopo una precipitosa fuga in elicottero da Atta Mohammad Noor, signore della guerra ed ex governatore di Mazar-e-Sharif. Ashraf Ghani, ormai ex presidente dell'Afghanistan, lo scorso maggio si lamentava in un'intervista con Der Spiegel che esisteva un "sistema organizzato di sostegno" gestito dal Pakistan che stava destabilizzando il suo paese. "I talebani hanno sostegno logistico in Pakistan", ha detto Ghani. "Lì sono i loro centri finanziari, lì i centri di reclutamento".
La lista delle recriminazioni potrebbe andare avanti. Ma le cause di questo fallimento risalgono ai prodromi dell'invasione. Quelli che oggi inveiscono sono stati essi stessi coinvolti in questa débacle, fino ad oggi la più costosa operazione di autoinganno del secolo. Solo comprendendo come si è arrivati a questo disastro si potrà capire che piega potranno prendere gli eventi.
Il termine autoinganno difficilmente viene usato al plurale, ma nel caso dell'Afghanistan bisognerebbe farlo. Le cattive valutazioni da parte dell'Occidente sono iniziate nelle prime fasi dell'intervento, quando Washington pensava che l'esercito sarebbe stato sufficiente per pacificare il paese, e sono andate avanti fino alla fine, con Berlino che continuava ad affermare che ci sarebbe voluto solo un po' più di tempo per invertire la situazione. Un altro assunto fallace era che si potesse edificare e proteggere uno stato se si investiva abbastanza denaro e si intraprendeva abbastanza addestramento. Anche gli afghani hanno colpevolmente ingannato se stessi; il governo e una grossa parte della popolazione per due decenni hanno creduto che gli Stati Uniti non si sarebbero mai ritirati.
Alcune menzogne sono servite a mettere in ombra le vere condizioni del paese, altre erano prodotto dell'ignoranza, ad altre ancora si credeva sul serio. È stata un'illusione fatale e collettiva, finita per costare la vita a un numero a sei cifre di afghani e a più di tremilacinquecento soldati stranieri. Sia pure senza volerlo, questa illusione ha fatto percorrere all'Afghanistan in una deviazione di vent'anni, da un dominio talebano all'altro. Nel frattempo, un'intera generazione è cresciuta nelle città del paese dando per scontato che avrebbero goduto a tempo indeterminato delle libertà garantite dalle potenze straniere.
Queste righe nascono da diciannove anni di esperienza in ripetuti viaggi in Afghanistan, tre anni fra i quali trascorsi come corrispondente a Kabul. E nascono dalla triste constatazione che del prevedibile fallimento di questo piano si era già scritto nel 2009. "Se si osserva la progressione degli ultimi otto anni in Afghanistan, la seguente conclusione è inevitabile: quanto più a lungo è durato l'impegno internazionale, tanto peggiore è diventata la situazione", si sentenziava all'epoca. "Non importa quante migliaia di chilometri di strade sono stati aperti, quante scuole sono state costruite e quanti pozzi sono stati scavati".
Nessuno aveva messo in conto di andare a finire in una situazione del genere. Il fattore scatenante della missione fu lo shock dell'11 settembre 2001. Mentre il fumo si alzava ancora dalle macerie delle Torri Gemelle a New York, in Afghanistan vennero scoperte le menti del più grande attacco terroristico della storia recente. Il leader di al Qaeda Osama Bin Laden e i suoi seguaci avevano sviluppato uno stato all'interno dell'"emirato" controllato dai talebani. L'obiettivo primario di Washington erano la vendetta e la giustizia, non la costruzione di una nazione. Allora il cancelliere tedesco Gerhard Schröder promise "solidarietà illimitata" da parte tedesca.
Erano altri tempi, segnati dai successi e dagli orrori del millennio che si era appena concluso. I tempi delle scosse di assestamento degli entusiasmanti eventi del 1989, quando il blocco orientale riuscì a sfuggire alla morsa di ferro di Mosca e Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria erano tornate alla democrazia. D'altra parte, le atrocità del Ruanda, il massacro di ottocentomila persone con l'ONU che restava a guardare, avevano rafforzato l'idea del "mai più". La missione NATO in Jugoslavia, assai discussa in Germania, era riuscita a fermare i serbi in Kosovo. Il movimento islamista talebano che governava la maggior parte dell'Afghanistan dopo anni di guerra civile aveva rappresentato solo una nota a margine degli orrori che avvenivano altrove.
Questa era la situazione subito dopo l'11 settembre, quando Washington lanciò un ultimatum ai talebani chiedendo loro di arrestare e di estradare bin Laden e il resto dei vertici di al Qaeda, o di affrontare le conseguenze. I Talebani dissero no. Se intendessero davvero dire no oppure se fossero stati propensi a un piano che gli consentisse di salvare la faccia facendosi da parte e permettendo la cattura di Osama e degli altri leader, come alcuni esponenti della leadership talebana avrebbero affermato in seguito, rimane un mistero. La NATO invocò l'articolo 5, quello che prevede il mandato di difesa collettiva. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU approvò all'unanimità la risoluzione 1368, legittimando l'imminente attacco come atto di autodifesa.
L'attacco iniziò il 7 ottobre con missili balistici, aerei da guerra e bombardieri a lungo raggio B-2 che presero di mira Kandahar e altri obiettivi in Afghanistan. L'Alleanza del Nord, che si era unita agli Stati Uniti nella lotta, arrivò a cavallo brandendo i kalashnikov. Kabul cadde senza combattere il 13 novembre e Kandahar, culla del movimento talebano, l'ha seguita il 7 dicembre. Per vincere c'erano voluti due mesi soltanto. All'epoca, durante quel furibondo inverno, né l'elettorato né l'apparato governativo chiesero informazioni sui piani per il futuro o sugli obiettivi della missione. Nel dicembre 2001 si tenne la prima conferenza sull'Afghanistan; un'assemblea di vincitori che in qualche caso sognavano il ritorno di re Mohammed Zahir Shah, deposto nel 1973. Da quella prima conferenza, come da tutte le conferenze che sarebbero seguite, i talebani erano assenti. Nessuno li voleva.
Sono arrivato in Afghanistan nella torrida estate del 2002, subito dopo che l'aviazione ameriKKKana aveva colpito una festa di matrimonio nelle campagne. Almeno questo è quello che raccontarono i sopravvissuti. I portavoce militari statunitensi risposero che i mitraglieri a bordo dell'aereo americano avevano sparato per autodifesa dopo essere stati presi di mira da terra.
Questo suonava così assurdo che ci recammo personalmente sul posto, percorrendo indisturbati le province di Kandahar, Helmand e Uruzgan, la culla dei talebani. Ma non erano più lì. "Sai", disse una sera un afghano intorno al fuoco in un'area di sosta in mezzo ai campi, "anch'io ero con i talebani! Ma adesso sono storia". Il suo tono era laconico e non sembrava particolarmente deluso perché adesso poteva di nuovo darsi alla coltivazione del papavero, cosa che era stata severamente vietata sotto il dominio talebano.
Nel villaggio bombardato nell'Uruzgan fu subito chiaro che la faccenda dell'attacco al matrimonio era andata in modo piuttosto diverso. Gli ameriKKKani non solo avevano attaccato dall'aria, ma erano arrivati con un convoglio di fanteria pesantemente armata. Non era stata affatto autodifesa, era stato un attacco pianificato. I membri di una tribù di Kandahar avevano accusato gli alleati del presidente Hamid Karzai di essere dei talebani.
Se non si potevano sconfiggere gli ameriKKKani, a quanto pareva si potevano comunque usare per i propri scopi; uno schema che si sarebbe ripetuto più e più volte e che avrebbe contribuito al vergognoso fallimento dell'intervento. La grande assemblea dei consigli tribali a Kabul nel giugno 2002 "è stato il momento del disastro", ricorda Thomas Ruttig, che all'epoca era un funzionario tedesco delle Nazioni Unite ma che in seguito ha co-fondato l'Afghanistan Analysts Network. "Il momento in cui il rappresentante speciale ameriKKKano Zalmay Khalilzad ha riportato alla ribalta i signori della guerra". Si trattava degli uomini che avevano distrutto il paese nella precedente guerra civile, ma che avevano aiutato il governo statunitense del presidente George W. Bush nella lotta contro i talebani.
Khalilzad e altri costrinsero il consiglio tribale a includere altri 50 uomini oltre ai rappresentanti eletti; capi delle milizie che avevano governato con la paura e l'intimidazione prima dell'arrivo dei Talebani. Erano uomini come Mohammed "Marshal" Fahim, un capo tagiko accusato di aver perpetrato massacri e rapimenti. E Rashid Dostum, un leader uzbeko che aveva ucciso diverse centinaia di prigionieri talebani e che in seguito avrebbe fatto violentare i propri oppositori con delle bottiglie. Entrambi sarebbero diventati vicepresidenti del paese. I nuovi detentori del potere non scesero a compromessi. Iniziarono immediatamente a vendicarsi dei loro ex nemici e a fare man bassa delle risorse governative.
Miliardi di dollari stanziati per progetti di fabbricati, strade e centrali elettriche sarebbero svaniti negli anni a venire. Le sentenze dei tribunali si potevano comprare e la corruzione dilagante corrodeva lo stato. I contadini, almeno nelle province pashtun, rimasero poveri e tartassati dalle milizie dei nuovi governanti. I combattenti si presentavano sul posto "per cacciare i talebani", ma poi abbattevano i mandorli dei contadini e saccheggiavano i loro villaggi.
I politici ameriKKKani e tedeschi giustificavano il protrarsi in eterno della missione militare sostenendo che "c'erano ancora" i talebani. Ma non era vero. Sono riapparsi lentamente dopo diversi anni di assenza, prima nel sud e poi nel nord. A partire dal 2007, ho passato mesi con un ex mullah per documentare il lento ritorno dei talebani nel suo distretto di Andar, a sud di Kabul. "Il risentimento verso tutto ciò che è straniero, verso gli ameriKKKani, verso i tagiki, verso la polizia, era alimentato incessantemente da concrete ingiustizie, eccessi esorbitanti e sgarri inventati", scrivemmo all'epoca.
Nel nord, i militari tedeschi raccontavano all'epoca meraviglie della tranquillità che regnava nelle province sotto la loro sorveglianza. Quando venne nominato un nuovo capo della polizia che stabilì un regime di terrore a Kunduz pestando i contadini e distruggendo le loro bancarelle quando non pagavano abbastanza per la protezione, le truppe tedesche non si mossero e rimasero a guardare dalla loro collina che dominava la città. Erano lì, specificarono, solo come "Forza internazionale di assistenza alla sicurezza" per il governo dell'Afghanistan. Cose come questa facevano presagire il ritorno dei talebani a Kunduz, e gli islamisti presero il controllo di un villaggio dopo l'altro, finché i tedeschi non osarono nemmeno avventurarsi a sei chilometri dalla loro base. Nel settembre 2009 l'esercito tedesco invocò l'intervento aereo degli Stati Uniti che a Kunduz uccise 91 persone intente a rubare carburante da due autocisterne dirottate. Il comandante tedesco pensava che si trattasse di insorti.
A quel punto, la Germania e gli Stati Uniti avevano investito talmente tanto, sia come capitale finanziario che come capitale politico, che erano diventati ostaggi del loro stesso piano. In mancanza di altri risultati, la comunità internazionale dei volenterosi nel 2009 ha spacciato il semplice svolgimento delle elezioni per un grande trionfo. Ma quando cominciarono ad emergere sempre più prove dei brogli elettorali orchestrati dall'entourage di Karzai, gli occidentali si trovò bloccato in un dilemma irrisolvibile. Se avessero riconosciuto la vittoria fraudolenta di Karzai alle elezioni avrebbero sostenuto un governo illegittimo. Se non l'avessero fatto, avrebbero dovuto cacciare un esecutivo il cui sostegno gli era costato miliardi di dollari.
Cercando una soluzione, Washington passò sopra le rimostranze di Karzai e fece pressioni perché si tenesse un'altra consultazione, che sarebbe stata monitorata da osservatori elettorali delle Nazioni Unite. Quello che successe dopo ha un posto tra gli esempi peggiori dell'opportunismo esibito dal governo degli Stati Uniti e dall'ONU.
All'alba del 28 ottobre tre aggressori assalirono la foresteria dell'ONU a Kabul, colpirono a morte la sorveglianza, si fecero strada fino al cortile e si accinsero a massacrare la trentina di impiegati dell'ONU che si trovavano all'interno. A quel punto trovarono una resistenza che non avevano messo in conto. Louis Maxwell, un ex soldato statunitense ora addetto alla sicurezza, riuscì a tenere a bada gli attaccanti da un tetto per un'ora e mezza. Dalla polizia afghana o dall'esercito non arrivò nessun aiuto, eppure si trattava del pieno centro di Kabul. Una volta che i tre aggressori ebbero fatto detonare le loro cinture esplosive, Maxwell uscì barcollando, mentre altri quattro dipendenti delle Nazioni Unite chiamavano gli altri all'esterno dicendogli che anche loro sarebbero usciti dai propri nascondigli.
Pochi minuti dopo erano tutti morti, i quattro gli avevano sparato da davanti. Maxwell fu colpito mentre era in piedi in mezzo di strada fra due soldati afghani. Nessuno dei due batté ciglio, e alla fine trascinarono il suo corpo nel cortile. Mesi dopo un'indagine interna dell'ONU riuscì a fare qualche passo avanti solo grazie a un video che aveva per caso ritratto l'omicidio di Maxwell, girato da un ufficiale della sicurezza tedesca da un tetto che si trovava a diversi edifici di distanza. Ma tutto questo doveva rimanere segreto.
Nell'estate 2010, un investigatore dell'FBI chiese di incontrarmi a Kabul. Quando gli chiesi cos'era successo in seguito si limitò a scrollare la testa. Non ci sarebbero state altre indagini. Washington, disse, non voleva esporre Karzai. In seguito all'attacco, metà dello staff dell'ONU venne ritirato dal paese e le seconde elezioni furono cancellate. Hamid Karzai ha ottenuto la vittoria che voleva.
Gli ameriKKKani e gli altri alleati della NATO hanno costantemente salvaguardato Karzai da ogni addebito, al pari della sua famiglia corrotta e dei suoi servizi segreti. Gli inglesi, per esempio, volevano concentrarsi nella lotta alla produzione di stupefacenti nel paese. Quando i soldati della forza d'elite britannica SAS si sono imbattuti nei pressi di Kandahar in un gigantesco deposito di oppio che apparteneva al fratellastro del presidente, tutti i diplomatici britannici hanno ricevuto l'ordine di non parlarne. Quando due escursionisti tedeschi furono assassinati sul Salang Pass a nord di Kabul nel 2011 e le prove portarono all'entourage di un killer a contratto per il servizio segreto afghano NDS, la segretezza fu ancora una volta all'ordine del giorno.
Erano i tempi del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e del suo allora vicepresidente, Joe Biden, che ha vissuto in prima persona per otto anni lo svilupparsi del disastro. Poco prima di diventare vicepresidente, Biden si era bruscamente alzato e aveva lasciato con rabbia una cena con Karzai dopo che il presidente afghano, in risposta a delle domande sulla corruzione in Afghanistan, aveva detto a Biden che gli Stati Uniti erano in ultimo responsabili di tutto quello che andava male nel paese.
L'attuale ostinazione con cui Biden insiste su un completo e rapido ritiro dal paese può derivare dalla rabbia che ha provato in quegli anni. Sapeva che la situazione era disastrosa. Ma alla fine è diventata ancora più disastrosa del previsto.
Obama ha cercato di riportare la situazione sotto controllo aumentando costantemente il numero degli effettivi. Nel 2011 c'erano più di centomila soldati statunitensi di stanza in Afghanistan. Potevano vincere ovunque in tutto il paese, ma non ovunque e allo stesso tempo. Purtroppo, più di ogni altra cosa il rapido aumento del numero di attacchi statunitensi, il totale crescente delle loro vittime civili e la loro insormontabile superiorità militare finirono per alimentare la più potente narrazione del loro avversariso: che gli ameriKKKani fossero occupanti infedeli che dovavano essere cacciati.
Questo modo di considerare l'occupazione straniera si è rivelato così utile che è stato utilizzato sia dai talebani che dal governo afghano, sia pure per ragioni opposte. Gli insorti vi trovavano un aiuto per la mobilitazione, chi era al potere vi trovava conforto. L'allora presidente Hamid Karzai, in particolare, trasformò questa narrazione in una sorta di mantra: Gli Stati Uniti, insisteva, non si ritireranno mai. I loro interessi in Afghanistan sono semplicemente troppo grandi: fantastiche risorse naturali, cospirazioni geopolitiche e tutto il resto. Questo gli permetteva di inveire costantemente contro gli occupanti ameriKKKani, facendo pagare il conto a Washington.
Questa presunta impotenza unita a grandi gesti patriottici era all'ordine del giorno a Kabul. Anche quando Donald Trump ha annunciato il suo accordo di ritiro con i Talebani all'inizio del 2020, molti hanno reagito con incredulità. Quando Biden ha annunciato una data concreta per il ritiro in aprile, molti si rifiutavano ancora di credere che gli americani se ne stessero andando. Anche a fine giugno, quando il presidente afghano Ashraf Ghani è volato a Washington, c'era chi nel palazzo presidenziale e nei ministeri sperava ancora che Biden cambiasse idea all'ultimo momento.
Nel frattempo, la presenza massiccia di truppe straniere ha creato dipendenze profonde ben oltre i veri obiettivi della missione. Una di queste è stato il piazzare per oltre dieci anni l'economia afghana su un binario morto. I Provincial Reconstruction Teams (PRT), come venivano chiamati i quartieri generali delle singole forze NATO, volevano comprare la pace nelle province sotto il loro controllo. Appaltarono progetti di costruzione e finanziarono i media locali e le compagnie di sicurezza. Lentamente ma inesorabilmente, le PRT divennero quasi ovunque il più grande datore di lavoro. A Faizabad, nel nord-est, un signore della guerra riceveva ogni mese una somma a cinque cifre per proteggere le caserme locali... dai suoi stessi attacchi.
La corruzione, alimentata dai miliardi di dollari rovesciati sul paese, "è una minaccia per tutti gli sforzi statunitensi e internazionali in Afghanistan", concluse a marzo John Sopko, ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione dell'Afghanistan per quasi dieci anni. I suoi rapporti hanno fornito per molto tempo una panoramica dettagliata sulla scioccante situazione del paese.
Il denaro ha attirato gente avida sia nel governo che nell'esercito, creando una casta che ha resistito con ostinazione a tutti gli sforzi per mettere fine alla corruzione. Anche recentemente a luglio, pur nell'imminenza del crollo, la corruzione ha continuato a peggiorare, ha detto Yama Torabi, il dimissionario fondatore di Integrity Watch Afghanistan e il più noto attivista anti-corruzione del paese. "Tutti hanno cercato di mettere le mani sui soldi, fino all'ultimo momento", dice.
All'inizio di luglio gli Stati Uniti hanno segretamente abbandonato durante la notte le loro gigantesche basi aeree, prima a Kandahar e poi a Bagram, a nord di Kabul. Non hanno nemmeno informato le loro guardie afghane dell'imminente ritiro. La priorità numero 1 degli americani era "la protezione delle forze". I ritiri precipitosi però sono serviti solo a incendiare il crescente risentimento serpeggiante tra gli ex alleati. Quando si sono ritirate da una base delle forze speciali, le truppe statunitensi hanno distrutto quasi tutti i veicoli blindati presenti. "Sarebbero comunque finiti sul mercato nero", ha detto il comandante. Solo un veicolo è stato lasciato intatto.
Certamente non era nelle intenzioni di Washington che il ritiro si svolgesse in circostanze così drammatiche. Esso però ha innescato l'implosione del governo, delle forze armate e in pratica dell'intera macchina statale afghana. "Non abbiamo mai creduto veramente in niente", dice il vecchio capo della milizia del nord Hadji Jamshid, che ha già combattuto contro i talebani venticinque anni fa. "Loro hanno combattuto per qualcosa di sbagliato, ma accidenti, sono pronti a morire per questo. Noi invece no."
A luglio non c'era quasi nessuno nei servizi segreti e tra i militari occidentali che avesse molta fiducia nelle forze di sicurezza afghane. Kabul però, secondo previsioni sempre più pessimistiche, sarebbe rimasta in mano al governo. In giugno a Washington si pensava che Kabul avrebbe resistito per altri sei mesi. Il BND -servizi segreti tedeschi per gli affari esteri- il giorno prima della capitolazione della città prevedeva che avrebbe resistito per novanta giorni. Sabato scorso, un alto funzionario della sicurezza di un'organizzazione internazionale a Kabul aveva detto che la capitale avrebbe resistito per altri diciassette giorni. La costante sorveglianza aerea ameriKKKana sulla capitale con droni e bombardieri B-52, diceva il funzionario, avrebbe impedito ai talebani di attaccare Kabul fino a quando il ritiro degli Stati Uniti fosse stato completato. Ma le cose non sono andate così. A cominciare dalla primavera i talebani sono stati in grado di far entrare clandestinamente migliaia di combattenti nella capitale, apparentemente senza alcuna interferenza da parte delle forze di sicurezza afghane. Durante il nostro incontro di luglio a Kabul, il comandante militare talebano mi ha detto con precisione che i combattenti talebani avevano preso posizione da tempo all'invaso di Qargha. Il giorno della presa di potere, i video girati al parco dei divertimenti mostrano i combattenti che si divertono a guidare gli autoscontri e saltano su un trampolino.
Ma per quanto precise fossero le sue affermazioni sulla presenza dei talebani al parco dei divertimenti, resta poco chiaro cosa i nuovi governanti intendano fare con il potere improvvisamente capitato nelle loro mani. Il comandante ha detto che la leadership talebana era aperta all'idea di un governo di transizione congiunto. Nemmeno i piani alti dei talebani, a quanto pare, si aspettavano che la leadership politica del paese implodesse così improvvisamente e che il presidente Ashraf Ghani lasciasse in volo la città domenica, trovando a quanto sembra rifugio negli Emirati Arabi Uniti. La presa di Kabul è stata "inaspettata", ha detto in un video messaggio il mullah Abdul Ghani Baradar, il cinquantatreenne negoziatore capo del braccio politico dei Talebani.
Chi nel quartetto di leader talebani finirà alla fine al vertice? Nemmeno questo è chiaro. Il mullah Baradar, tornato immediatamente in Afghanistan dal Qatar, ha contribuito a fondare i talebani con il leggendario mullah Omar ed è il più anziano dei quattro. Baradar è stato determinante nel negoziare l'accordo del 2020 con Washington (colloqui a cui il governo afghano non è stato invitato) con cui è stata posta la pietra angolare per la presa del potere da parte dei talebani.
L'autentico "emiro" di alto rango dei Talebani non è ancora apparso in pubblico. Il mullah Haibatullah Akhundzada, che ha assunto la sua attuale posizione quando il suo predecessore è stato ucciso da un attacco condotto con droni statunitensi si pensa sia a Quetta, in Pakistan, dove risiedono numerosi leader talebani.
Restano altri due membri del quartetto al vertice, uno dei quali ha probabilmente guadagnato non poco prestigio negli ultimi tempi. Il leader militare talebano Mullah Mohammad Yakub, che ha circa 30 anni, ha perseguito nelle ultime settimane una strategia militare di attacchi mirati, corruzione a lungo termine e sapienti operazioni di infiltrazione; un approccio che si è rivelato di grande successo. Figlio del fondatore dei talebani -il Mullah Omar- Yakub è stato a lungo considerato troppo giovane, troppo inesperto e troppo egocentrico per pretendere di diventare un successore di suo padre.
In ultimo resta Sirajuddudin Haqqani, comandante della rete del terrore Haqqani, che si pensa mantenga stretti rapporti sia con la leadership di al Qaeda che con i servizi segreti pakistani dell'ISI. È molto conosciuto a Washington: si trova sulla lista dell'FBI dei terroristi più ricercati al mondo mentre la CIA ha sostenuto suo padre quarant'anni fa nella lotta contro gli occupanti sovietici dell'Afghanistan.
Visti i personaggi interessati, è troppo presto per dare una risposta alla domanda fondamentale che ci si pone in Occidente: L'Afghanistan diventerà ancora una volta un terreno di coltura del terrore? Quello che i Talebani vogliono a tutti i costi è il potere sull'Afghanistan. Da questo punto di vista, sono nazionalisti. Gli attacchi terroristici all'estero, però, come hanno imparato a loro danno nel 2001, possono portare ad una rapida perdita del potere. Una lezione che ha probabilmente contribuito a farli diventare un'organizzazione ossessionata dal controllo, in contrasto con la prima volta che hanno governato l'Afghanistan prima dell'invasione guidata dagli Stati Uniti.
Tuttavia non sono in grado di decidere da soli, né possono governare da soli l'intero paese. Negli ultimi mesi i servizi segreti pakistani hanno curato nel nord e nell'est dell'Afghanistan lo sviluppo di gruppi jihadisti che potrebbero trasformarsi in minacce terroristiche per il resto del mondo: Lo Stato Islamico, Jaish-e-Mohammed e altri. La leadership pakistana, da decenni ossessionata dal conflitto con l'India, vorrebbe mantenere l'Afghanistan come una propria dipendenza di retroterra e intende continuare a esercitare pressioni sui talebani.
Insediare Haqqani darebbe probabilmente al Pakistan una leva significativa sulla leadership afghana. Il mullah Baradar, al contrario -che ha trascorso otto anni in carcere in Pakistan ed è stato torturato dopo aver stabilito un contatto non autorizzato con il governo Karzai- sarebbe invece un acerrimo avversario. È stato rilasciato solo nel 2018 perché Washington sperava che sarebbe stato possibile raggiungere un accordo con i talebani se Baradar avesse fatto parte dei negoziati. Una speranza ben riposta.
Questa settimana i radicali islamici vittoriosi hanno assunto un tono più conciliante nelle loro dichiarazioni e nella loro prima conferenza stampa. Naturalmente, hanno insistito, alle ragazze sarà permesso di continuare la loro istruzione scolastica e alle donne sarà permesso di lavorare. Ma tali assicurazioni significano poco; i talebani hanno dimostrato in passato la loro propensione a cambiare rapidamente rotta. Non appena le ultime truppe americane avranno lasciato definitivamente l'aeroporto di Kabul e i talebani avranno consolidato il loro potere, questo atteggiamento conciliante potrebbe essere rapidamente abbandonato.
La moderatrice televisiva Shabnam Dawran, una delle giornaliste più importanti del paese, ha già descritto le sue esperienze con i nuovi governanti in un video: "Oggi volevo andare al lavoro; non ho rinunciato al mio coraggio". Le è stato detto di tornare a casa e che le regole erano cambiate. "La nostra vita corre un grave rischio", dice la Dawran nel video, chiedendo poi aiuto al mondo.
Non è probabile, per il futuro prossimo, che si sviluppi una seria resistenza ai governanti talebani. A dire il vero l'ex vice presidente Amrullah Saleh non ha lasciato il paese come Ashraf Ghani ed è invece tornato a casa nella valle del Panjshir, ultima zona del paese ancora non sotto controllo talebano. Ma Saleh non potrà fare molto da lì. La valle è leggendaria per essere stata luogo di origine di Ahmed Shah Massud, che è stato capace di impedirne la conquista sia all'esercito sovietico che ai talebani. All'epoca Massud poté approfittare di linee logistiche che raggiungevano i paesi vicini. Oggi invece la valle è completamente circondata dai talebani, e non ha nemmeno un aeroporto.
Più pressante, però, potrebbe presto diventare la questione di come i talebani possano governare. Già diversi milioni di afghani dipendono dagli aiuti alimentari del Programma alimentare mondiale. L'Afghanistan occidentale sta attualmente soffrendo la peggiore siccità che abbia visto in un decennio. Le casse dello stato sono vuote e i valori della banca centrale sono in gran parte depositati fuori dal paese, dove sono inaccessibili. Che piaccia o no all'Occidente, se non vengono consegnati aiuti e se non viene fornita assistenza alle strutture sanitarie del paese molte persone moriranno.
Presto la situazione umanitaria potrebbe costringere l'Occidente a fare una cosa che negli ultimi 20 anni ha cercato ad ogni costo di evitare: sostenere la supremazia dei talebani in Afghanistan.


giovedì 19 agosto 2021

Roberto Hamza Piccardo, le gazzette e la caduta di Kabul



Il rapidissimo collasso dello stato fantoccio che gli USA e i volenterosi hanno mantenuto in Afghanistan per vent'anni [*] è stato accolto dalle gazzette "occidentali" con un coro indignato, e per qualche giornonell'agosto 2021 è stata rispolverata la panoplia dell'incompetenza di cui fa sfoggio in questi casi chi non capisce neppure cosa possa aver mai combinato per doversi trovare in una situazione del genere.
A fronte di ogni rovescio "occidentale", specie se dei più prevedibili, in questa sede si è sempre tentati da pensare alla scena di un vecchio film di Mel Brooks in cui una facoltosa protagonista, bersaglio di una gragnuola di proiettili, afferma stizzita "Ma non possono farmi questo; io sono ricca!"
Un certo Francesco Merlo ne ha approfittato per aggiungere al già corposo vaccabolario spregiativo con cui il gazzettaio marchia i reietti (cattocomunisti, pacifinti eccetera) uno italiban e un talebanini.
Chissà se avrà fortuna.
Il comportamento dei gazzettieri ispira tanto maggiore ripugnanza se si pensa che tanta preoccupazione per lo sventurato popolo afghano viene espressa sulle stesse pagine e dagli stessi ben vestiti che hanno contribuito in maniera determinante a far sì che in "occidente" basti fare una scritta su un muro per vedersela con la gendarmeria. Le scritte sul muro -lasciamo perdere i cortei, le occupazioni, gli scontri di piazza- sono senz'altro lodevoli... purché a L'Avana, a Minsk o a Tehran.
Dal 2001 in poi noi persone serie abbiamo sostenuto che aggredire e occupare l'Afghanistan, al pari di tutte le aggressioni, le destabilizzazioni, le occupazioni statunitensi che si sono succedute negli anni successivi, significava dare il via a un'impresa pazzesca. Maggiormente documentate erano le nostre affermazioni, più la feccia gazzettiera mostrava la sicumera arrogante che unisce viltà, incompetenza e servilismo in un miscuglio meraviglioso, i cui propugnatori hanno ricette per tutte le stagioni, non conoscono resipiscenza alcuna e comunque vada sono sempre in tempo a chiedere scusa. Tanto hanno righe perentorie adatte a ogni circostanza della vita, l'aria condizionata funziona e il ristorante sotto la redazione non chiude nemmeno per ferie.
C'è solo da maledire il reddito di cittadinanza che gli impedisce di schierare cameriere diciottenni a due euro l'ora.

Nell'immediato, al piagnisteo collettivo sono sfuggiti in pochissimi. Tra questi Roberto Hamza Piccardo, traduttore e divulgatore del Libro non eccessivamente propenso alla visibilità mediatica, che anche solo per questo merita qualche minuto di attenzione.

Sono passati quarantasei anni e la Storia, cioè la cronaca, ci ha dato un’altra prova che contro i popoli non si vince. Dico la cronaca poiché, la Storia ha bisogno di tempo, documenti, studio e riflessione, deve lasciar decantare i fatti e poi leggerli con maggior serenità e onestà intellettuale.
I talebani, mentre sto scrivendo sono entrati a Kabul mentre la ritiranda coalizione occidentale che sta cercando di mettere in salvo il salvabile, qualche centinaio di collaborazionisti, ma più ancora documenti e prove di un fallimento clamoroso, caricandole in fretta e furia sui capaci aerei della USAF o distruggendole sul posto. Il tutto sotto lo sguardo nervoso di qualche migliaia di marines con l’indice sul grilletto che non vedono l’ora che questa storia finisca per tornarsene a casa.
Nel 1975 erano i vietcong e i regolari nord vietnamiti che avevano preso Saigon (oggi Ho Ci Min Ville) e le immagini della rotta statunitense mi testimoniarono quello che era già stato evidente nel caso algerino di 13 anni prima e ora clamoroso in quello afghano: contro i popoli non si può vincere.
I popoli non hanno alternative: non possono tornarsene a casa, vincono o soccombono e per gente come gli algerini, i vietcong e gli afghani, soccombere era molto peggio che morire.
Qui non si tratta di conDIvidere l’ideologia dei mujahidin algerini, o quella dei vietcong e neppure quella dei talebani anche se con i primi e questi ultimi esiste un robusto tessuto comune: la fede islamica che ci accomuna;  la questione di fondo è che i popoli possono permettersi di pagare un prezzo che i colonizzatori, gli invasori (compresi i collaborazionisti locali) non possono pagare.
Bisognerebbe sterminarli, nel senso letterale del verbo, cioè fare “un deserto e chiamarlo pace” come Tacito fa dire al comandante dei Caledoni (oggi scozzesi) che descrive il modus operandi romano quando arringa le truppe che dovranno scontrarsi con le loro legioni
Non basta decimarlo, un popolo, non basta usare contro di esso la forza e l’organizzazione militare anche più sofisticata, non basta spendere come hanno fatto gli USA e i loro alleati 1300 miliardi di dollari, non basta.
Ora, mentre cominciano a essere pubblicati su media occidentali racconti sulle atrocità dei vincitori che servono più che altro a giustificare il fatto che contro mostri del genere la guerra era stata necessaria, ci auguriamo che il popolo afghano sappia ritrovare, nei suoi tempi e modi, quell’unità d’intenti che li ha visti vincitori da quasi due secoli contro tutti gl’invasori: inglesi, sovietici e infine contro la Coalizione di cui disgraziatamente abbiamo fatto parte anche noi italiani.
E che, come ci ha insegnato la tradizione del Profeta Muhammad (pbls) a cui sostengono di riferirsi, sappiano essere giusti e misericordiosi con quelli del loro popolo che per debolezza o altre circostanze si trovano oggi tra gli sconfitti.


[*] Un rapido calcolo. Lo stato che occupa la penisola italiana ha destinato all'occupazione dell'Afghanistan circa nove miliardi di euro. Ammettiamo che la cifra vada divisa tra sessantatré milioni di contribuenti. Si tratta di circa centoquaranta euro, spalmati in vent'anni. Sette euro l'anno a testa. Una cifra abbordabilissima, chissà che a Roma non stiano già pensando di ripetere l'esperienza.