martedì 26 dicembre 2023

Alastair Crooke - Netanyahu superato dal furbo Biden? No, è Biden quello che viene preso in giro

Traduzione da Strategic Culture,25 dicembre 2023.

Quando un ospite gli ha detto che Netanyahu sta trascinando gli Stati Uniti in una guerra di civiltà e che Netanyahu dà la colpa a lui lamentandosi che la Casa Bianca vuole impedire allo stato sionista di affrontare il problema alla radice con tutti quei discorsi su Gaza e sul "giorno dopo", Biden ha sorriso e ha risposto "Lo so".
In pratica, Netanyahu sta semplicemente mettendo in atto una classica manovra di aggiramento, cercando di eludere Biden con la scusa del conflitto più grave che in atto con l'Iran: "Perché mi tormenti con Gaza quando c'è una guerra grossissima in corso", suggerisce un Bibi esasperato?
"Questa non è solo la 'nostra guerra', ma per molti versi anche la vostra... È una battaglia contro l'asse iraniano... che ora minaccia di chiudere lo stretto marittimo di Bab Al-Mandeb... È l'interesse... dell'intero mondo civile", ha detto Netanyahu senza tanti giri di parole.
La reazione di Biden è un sorriso compiaciuto che lascia intendere che egli pensa di poter superare Netanyahu ("la volpe"). Questo è l'approccio di Biden: mira a disinnescare le accuse di Netanyahu -per cui gli USA gli starebbero facendo ostruzionismo- per mezzo di una serie di incontri ad alto livello che ribadiscono il suo incondizionato sostegno allo stato sionista, e ad anticipare Bibi insistendo sul fatto che lui (Biden) si occuperà delle questioni non legate a Gaza (Hezbollah, Yemen...).
Insomma, gli Stati Uniti stanno mettendo insieme una forza navale per affrontare AnsarUllah nello Yemen; l'amministrazione Biden agirà per sanzionare i coloni violenti in Cisgiordania, sta ammonendo Baghdad di tenere a freno lo Hashad al Sha'abi, e i suoi inviati a Beirut stanno cercando di negoziare un "accordo diplomatico" che includa il ritiro delle Forze Radwan di Hezbollah dall'altro lato del fiume Litani nel sud del Libano, e che affronti anche le dispute di confine irrisolte tra stato sionista e Libano.
Biden si vanta di essere un attore di politica estera di grande esperienza e si ritiene troppo astuto per i trucchi di Bibi. Ma forse Netanyahu, pur con tutti i suoi difetti, capisce meglio la regione.
È chiaro che Biden viene davvero preso in giro. Anche se non lo riconosce.
Netanyahu sa che Hezbollah non disarmerà mai ritirandosi a nord del Litani. Lo sa e quindi può aspettare il fallimento diplomatico di Biden, prima di dire che i circa settantamila cittadini dello stato sionista sfollati dalle città del nord dopo il 7 ottobre devono "tornare a casa" e che se gli Stati Uniti non possono allontanare Hezbollah dal confine, allora lo farà lo stato sionista.
Netanyahu sta usando l'iniziativa diplomatica libanese di Biden per costruire una giustificazione ad uso degli europei per un'operazione sionista in programma da qui a poche settimane per allontanare Hezbollah dal confine. Un'operazione dello stato sionista contro Hezbollah è in programma fin dall'inizio della guerra a Gaza.
Netanyahu sa anche che il controllo sulle violenze dei coloni in Cisgiordania non spetta a lui e che è nelle mani dei suoi colleghi, i ministri Ben Gvir e Smotrich. Né lui né Biden possono imporre loro nulla: da mesi stanno aumentando silenziosamente la stretta sui palestinesi della Cisgiordania. Infine, Netanyahu conosce gli Houthi: non si lasceranno scoraggiare dalla flottiglia di Biden. Anzi, si divertiranno ad attirare l'Occidente in un pantano nel Mar Rosso.
Che piaccia o no, la tattica di Biden di contenere e prevenire l'escalation regionale imponendo il ruolo da protagonista degli Stati Uniti al posto dello stato sionista sta chiaramente trascinando gli USA in un conflitto ancora più profondo. Biden crede forse che gli Houthi si ritireranno tranquillamente perché la Gerald Ford è ancorata al largo di Bab Al-Mandeb, o che Hezbollah accetterà le istruzioni di Amos Hochstein?
Il secondo aspetto per cui Biden si trova surclassato è il fatto che egli considera il problema dello stato sionista come impersonato dal solo Bibi, che starebbe indulgendo in una politica personalistica. Certo, è vero che il premier dello stato sionista sta plasmando la politica del paese in base alle proprie esigenze di sopravvivenza; tuttavia ci si trattenga un attimo a considerare ciò che il presidente Herzog ha detto martedì durante una intervista richiesta dallo Atlantic Council, uno importante think tank con sede a Washington.
Prima della guerra, Herzog è stato a lungo considerato dallo establishment della politica estera di Washington come una colomba, e senz'altro di sinistra rispetto a Netanyahu.
Nella suddetta intervista Herzog ha affermato che "Intendiamo conquistare l'intera Striscia di Gaza e cambiare il corso della storia". Ha affermato che l'attuale conflitto è uno scontro tra "civiltà differenti" e ha definito Hamas (in termini puramente manichei) una "forza del male", aggiungendo che lo stato sionista non avrebbe più tollerato che Gaza fosse una "base per un Iran che sta spingendo tutti nell'abisso delle stragi e della guerra".
Non c'è molta differenza tra lui e il Primo Ministro, quindi.
La convergenza tra Herzog e Bibi riflette forse un cambiamento più sostanziale in atto nello stato sionista, un cambiamento strategico che va ben oltre l'ossessione personale di Biden per Bibi: il New York Times e lo Jerusalem Post riferiscono che dopo il 7 ottobre il 36% dei cittadini dello stato sionista si è spostato decisamente a destra su una serie di questioni politiche, tra cui il sostegno ai coloni in Cisgiordania, l'appoggio a politici di estrema destra e persino gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Sebbene l'opinione pubblica nei confronti dello stesso Netanyahu stia mostrandosi dubbiosa, non si prevede che il suo governo cada. E anche se dovesse succedere, è essenziale capire che l'appoggio per le politiche sostenute dal governo di destra radicale di Netanyahu sta crescendo, e sta crescendo rapidamente.
La destra dello stato sionista predica in genere il controllo della Cisgiordania e di Gaza, e in molti a destra si oppongono al principio che prevede l'esistenza di uno stato palestinese accanto a uno stato sionista. Lo si capisce da molte delle politiche dell'attuale governo, che ha lavorato per espandere gli insediamenti in Cisgiordania e per rendere Gaza invivibile per i palestinesi.
Al lato opposto dello spettro si trova la sinistra dello stato sionista. Lo Jerusalem Post osserva che la sinistra è ampiamente convinta del fatto che lo stato sionista stia "occupando" la Cisgiordania e che si possa giungere alla fine del conflitto solo mettendo termine all'occupazione e consentendo una soluzione basata su due stati. Ma nessuno è esplicito su dove dovrebbe situarsi questo secondo stato, uno stato palestinese. Dal punto di vista legale si tratterebbe di Gaza, Cisgiordania e parte di Gerusalemme. Ma chi potrebbe imporre queste condizioni? Chi espellerebbe i coloni dalla Cisgiordania?
Per molti nello stato sionista la situazione degli ultimi trent'anni, con uno stato di occupazione e una segregazione in stile apartheid rapppresentava il tipo praticabile di una soluzione basata su due stati: solo che i suoi pilastri -la separazione strutturale, l'imposizione con la forza militare e la deterrenza- che per molti nello stato sionista sembravano promettere la "tranquillità" in cui molti confidavano sono andati in pezzi il 7 ottobre.
"Il trauma seguito al 7 ottobre ha mutato aspetto alla società dello stato sionista; l'ha costretta a mettere in discussione principi fondamentali come l'essere o meno al sicuro a casa propria", ha detto l'editorialista Tal Schneider:
"Ora chiedono di più: più militari, più protezione, più politica intransigente".
"Molte persone di destra", scrive Ariella Marsden sullo Jerusalem Post, "e una minoranza di persone di sinistra, hanno visto il 7 ottobre come la riprova del fatto che la pace con i palestinesi è impossibile". Non sorprende che si stia pensando a cacciare la popolazione; un proposito che si intona con l'idea della "nuova guerra d'indipendenza" cara a Netanyahu.
In breve, Biden può anche credere che la sua lunga esperienza gli permetta di mettersi dalla "parte giusta" nel giudicare gli eventi. La sua esperienza, tuttavia, appartiene a un'altra epoca. La politica dello stato sionista che gli era familiare non esiste più: il vecchio paradigma del suo modus vivendi con i palestinesi non ha più agibilità. La demografia non spinge più verso il concedere uno stato ai palestinesi, ma piuttosto verso il ripulire il paese da tutte le "popolazioni ostili".
Nello stato sionista, adesso, ci si sta adoperando per arrivare a questa nuova soluzione.
E proprio come la resistenza di Hamas ha indicato nuovi modi di fare la guerra, così la "lunga esperienza" di Biden, esemplificata dall'invio di portaerei e navi risalenti agli anni Sessanta a incrociare al largo in un'epoca di droni agili e intelligenti spesso non tracciabili e di missili guidati, sta a testimoniare qualcosa di altrettanto superato.
Gli Stati Uniti sono oggi direttamente impegnati nello Yemen, in Libano, in Cisgiordania, in Iraq e in Siria. E man mano che il conflitto si espande gli Stati Uniti ne saranno ritenuti almeno in parte responsabili: avete deliberatamente lasciato che a Gaza si arrivasse alla rottura? Adesso i cocci sono vostri. E saranno vostri anche i cocci di tutto quant'altro dovesse andare in pezzi.
Due milioni di abitanti di Gaza diventeranno tutti profughi e saranno privi di un governo in grado di esercitare funzioni minime e di fornire servizi di base. Netanyahu lo capisce? Certamente. Alla stragrande maggioranza dei cittadini dello stato sionista la cosa interessa? No. Ma al resto del mondo sì. E il resto del mondo vede una macchia scura che si sta espandendo sulla mappa, e che si riversa sull'Occidente.
E la flottiglia statunitense nel Mar Rosso, l'impegno della diplomazia in Libano, le telefonate frenetiche perché la Cina aiuti a tenere a freno l'Iran e gli sforzi con Baghdad, basteranno a porre fine al piano dell'Asse?
No. La Resistenza pretende di vedere annaspare gli USA, e di vedere lo stato sionista soffocato dalla rabbia che la invita a salire altri gradini nella escalation di un conflitto sempre più ampio e diffuso.

venerdì 22 dicembre 2023

Firenze. Il ricco Marco Carrai e il sionismo di complemento nel dicembre 2023


Marco Carrai è ricco, si mostra solitamente ben vestito e ricopre una serie di cariche discretamente retribuite.
Esiste un curriculum pessimamente redatto (tra ricchi possono anche permetterselo) che elenca molte di queste cariche e nessun titolo accademico. Tace a riguardo anche il sito dell'Università di Firenze.
Il signor Carrai avrebbe avuto tutte le carte in regola per conoscere da vicino gli agi che il liberismo e la meritocrazia riservano anche a chi ha curato la propria formazione molto più di lui. Per cui è lecito ipotizzare che ricchezza, abbigliamento raffinato e accesso a consessi dal nome altisonante non li debba per intero a una giovinezza passata chino sui libri o facendo esercizio di pazienza sui treni del pendolarismo.
Fra le cariche che ricopre c'è anche quella di console onorario[*] dello stato sionista. Quello del sionismo di complemento è peraltro un campo in cui si fa notare da almeno quindici anni.
Nel dicembre 2023 lo stato sionista è impegnato da un paio di mesi in una rappresaglia che sta comportando la sostanziale distruzione del territorio di Gaza; Marco Carrai è impegnato da altrettanto tempo nel fare largo a gomitate alle istanze che ha il dovere di rappresentare.
Solo che a Firenze lo stato sionista non è molto popolare neppure in via Farini, e vi abbondano per giunta le persone serie che non si fanno alcun problema a ricordare (gratis) al ben vestito Carrai l'impopolarità delle istanze che sostiene.
Si riporta qui senza correzioni un volantino diffuso in città, che ha contrariato non poco il ricco Marco Carrai. Fra i pregi che presenta c'è anche quello di non ricorrere al linguaggio inclusivo.


Fondazione Meyer: il diritto alle cure vale anche per i bambini palestinesi?

Una strage senza tregua di cui è difficile ancora calcolare le dimensioni sta travolgendo la Palestina.
Dopo 2 mesi si contano più di 10.000 bambini uccisi a Gaza, oltre alle migliaia che hanno subito - e stanno subendo - mutilazioni e ferite.
Gli ospedali sono saturi e alcuni ormai fuori servizio; è stata tagliata l’elettricità e i generatori hanno finito il carburante.
Manca l’acqua e non si può sterilizzare; mancano farmaci e antidolorifici.
I pazienti subiscono amputazioni e interventi senza anestesia sul pavimento delle corsie: gli ospedali sono incapaci di contenere il massacro in atto. Gli operatori della sanità mettono a repentaglio la propria vita per assistere i feriti in circostanze apocalittiche. Nel frattempo gli attacchi dell’esercito israeliano contro strutture ospedaliere e ambulanze sono sistematici: è in atto una aggressione pianificata contro chi pratica la professione medica. Si contano 364 attacchi a strutture sanitarie. 250 operatori uccisi. 190 ambulanze bombardate. Non solo: gli ordini di evacuazione dati da Israele condannano a morte malati e feriti, donne partorienti, bambini che per sopravvivere devono stare nelle incubatrici.
In mezzo all’angoscia che questo genocidio ci crea siamo allarmati da un altro avvenimento di questo nefasto ottobre: la nomina del nuovo presidente della Fondazione Meyer, Marco Carrai, Console onorario di Israele.

Chi è Marco Carrai?

Uno dei tanti uomini di potere italiani, conosciuto come “l’uomo ombra” di Renzi, con le mani in pasta un po’ ovunque ma che non ha nulla a che vedere con la medicina e la sua etica.
Presidente di Toscana Aeroporti dal 2015, Carrai è sostenitore per tornaconto personale del nuovo aeroporto di Peretola - di cui anche la recente alluvione ha mostrato tutte le possibili criticità. È inoltre membro dei consigli di amministrazione di varie aziende (recentemente anche delle acciaierie di Piombino, dove sono in ballo enormi interessi economici).
È membro del CdA della Fondazione Ente cassa di risparmio di Firenze (altri interessi!) ed è indagato per l’ipotesi di reato di “finanziamento illecito ai partiti” nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Dal 2019 ricopre anche il ruolo di console onorario di Israele per la Toscana, l’Emilia Romagna e la Lombardia. Come è possibile che una fondazione che si occupa di sviluppare le migliori cure per i bambini sia presieduta dal console di un paese che sta bombardando ospedali e attuando un genocidio di massa? Crediamo che queste ipocrisie non siano tollerabili e che un tale incarico, finalizzato all’accesso alle migliori cure per tutti i bambini, non possa essere ricoperto da persone che si occupano solo di business e di alleanze con chi rappresenta maggior potere e ricchezza. Se si danno incarichi istituzionali a loschi individui come Carrai significa che ci sono complicità in alto! Chiediamo a gran voce l’esonero immediato di Marco Carrai dalla fondazione Meyer: nessun sostegno a chi si rende complice del genocidio del popolo palestinese.

Basta col massacro di civili e bambini!
Boicottiamo Israele e la sua economia di guerra!
Vi invitiamo a partecipare:
- Venerdì 22 dicembre, ore 10-12: volantinaggio al N.I.C. di Careggi
- Sabato 23 dic. ore 15.30: flash mob di fronte all’ospedale pediatrico Meyer

Operatori sanitari per la Palestina
CUB Firenze
Comitato “Io non ci sto”, FI
CPA-FI Sud
Firenze per la Palestina
Casa dei diritti dei popoli
Comunità palestinese


[*] Neanche console. Console onorario. "Neanche cuoco: sottocuoco...!" (cit.) 

martedì 19 dicembre 2023

Alastair Crooke - Gaza. L'Asse della Resistenza può mettersi tranquillamente ad aspettare e lasciare che sia Netanyahu a muoversi... e a commettere errori



Gaza. Nella piccola stanza poco illuminata la prima cosa che si notava era quella sedia a rotelle da museo. Solo dopo si distingueva la figura accartocciata e coperta del paraplegico che la occupava.
All'improvviso, dalla sedia a rotelle sembrò venire uno stridio acuto; l'apparecchio acustico del suo occupante era impazzito e avrebbe continuato a strepitare a intervalli regolari durante tutto il tempo della mia visita. Mi chiesi quanto potesse sentire l'occupante della sedia, con un apparecchio acustico così mal regolato.
Durante la conversazione mi resi conto che, disabile o meno, la sua mente era più acuta di un coltello. Era duro come il ferro, animato da un sobrio umorismo e dagli occhi sempre vivaci. Era chiaro che si stava divertendo, tranne quando lottava con i fischi e gli strepiti del suo apparecchio acustico. Come era possibile che da una figura tanto esile promanasse un tale carisma?
Quest'uomo sulla sedia a rotelle e con l'auricolare sgangherato -lo sceicco Ahmad Yassin- era il fondatore di Hamas.
Alla fine, quello che mi disse quella mattina è quello che ha stravolto il mondo islamico di oggi.
Mi disse: "Hamas non è un movimento islamico. È un movimento di liberazione e chiunque, sia egli cristiano o buddista" -persino io, quindi- "potrebbe unirsi a esso. Siamo tutti benvenuti".
Perché questa semplice espressione si sarebbe rivelata tanto significativa e collegata agli eventi di oggi?
Beh, il clima di Gaza a quel tempo (2000-2002) era prevalentemente quello dell'islamismo ideologico. I Fratelli Musulmani egiziani vi erano profondamente radicati. Non si trattava di un movimento di resistenza in sé; era capace di ricorrere alla violenza, ma il suo obiettivo principale erano le opere sociali e una pratica governativa scevra dalla corruzione. Voleva dimostrare fino a che punto arrivassero le sue competenze in materia di governo.
Il commento di Yassin era rivoluzionario perché il concetto di liberazione era prevalente rispetto ai dogmi e alle varie "scuole" dell'Islam politico. Alla fin fine lo "Hamas di Gaza" avrebbe preso questa forma, in contrasto con quelli che per convenzione si intendono come i vertici del movimento che se ne stanno a Doha. Sinwar e Dief sono "figli di Yassin".
Per farla breve poco tempo dopo Yassin, mentre attraversava la strada con la sedia a rotelle per recarsi alla moschea adiacente durante la preghiera del venerdì, è stato fatto a pezzi da un missile dello stato sionista appena uscito da casa.
L'ala dei Fratelli Musulmani di Hamas ha avuto la possibilità di dimostrare quanto fosse competente a governare: ha vinto con ampio suffragio le elezioni del 2006 dell'Autorità Palestinese a Gaza e ha conquistato la maggioranza dei seggi, alcuni anche in Cisgiordania.
Il presidente Bush e Condoleeza Rice restarono inorriditi. Avevano appoggiato l'iniziativa di tenere le elezioni... e guarda cosa va a succedere. Così il premier Blair e il presidente Bush misero a punto un piano segreto per reagire, senza metterne al corrente l'Unione Europea: i leader di Hamas e le ONG del movimento che facevano attività sociale dovevano essere eliminati. Inoltre, l'Autorità Palestinese avrebbe dovuto reprimere tutte le attività di Hamas, in stretta collaborazione con lo stato sionista.
Secondo questo piano la Cisgiordania sarebbe stata destinataria di ingenti aiuti finanziari per costruire un prospero stato di tipo occidentale all'insegna dei consumi e della sicurezza, mentre Gaza sarebbe stata ridotta di proposito alla fame. Sarebbe stata costretta a cuocere nel suo brodo, stretta d'assedio per sedici anni. Avrebbe stagnato nella povertà.
Dallo stato sionista hanno fornito una base empirica al piano di Blair, calcolando esattamente quante calorie a testa, quanto carburante e gas sarebbero potuti entrare a Gaza in modo da mantenervi un livello di vita di pura sussistenza. Dopo questa iniziativa di Blair e Bush, i palestinesi sono rimasti irrimediabilmente divisi, e un progetto politico non è nemmeno lontanamente possibile. Come scrive Tareq Baconi su Foreign Policy:
"Hamas si trovava bloccato... in una situazione in cui l'equilibrio era determinato dalla violenza, in cui la forza militare si affermava come mezzo per negoziare concessioni tra Hamas e stato sionista. [Hamas ha usato] missili e altre tattiche per costringere lo stato sionista ad alleviare le restrizioni sul blocco, mentre [lo stato sionista] ha risposto con forza schiacciante per imporre la propria deterrenza e garantire la "calma" nelle aree intorno alla Striscia di Gaza. Il ricorso alla violenza ha permesso ad entrambe le entità di operare im un quadro in cui Hamas ha potuto mantenere il suo ruolo di autorità di governo a Gaza anche se sottoposto a un blocco che è di fatto una violenza strutturale quotidiana contro i palestinesi".
È questo paradigma della Gaza sotto assedio che si è infranto il 7 ottobre:
"Il mutamento di strategia ha comportato il passaggio da un limitato ricorso al lancio di razzi per negoziare con lo stato sionista a un'offensiva militare a tutto campo volta a spezzare in modo particolare il suo accerchiamento e a disconfermare la convinzione sionista di poter imporre impunemente un sistema di apartheid".
Hamas ha cambiato fisionomia. Adesso è il "movimento di liberazione", la liberazione di tutti coloro che vivono sotto l'occupazione, che lo sceicco Yassin aveva vaticinato. Ancora una volta, alla maniera di Yassin, si focalizza su un Islam non ideologico simboleggiato dall'icona civile della moschea di Al-Aqsa, che non è né palestinese, né sciita, né sunnita, né wahhabita, né dei Fratelli Musulmani, né salafita. Ed è proprio questo, il posizionarsi di Hamas tra i movimenti di liberazione, che si accorda direttamente con la nuova "spinta indipendentista" globale a cui stiamo assistendo oggi e che forse spiega gli enormi cortei a sostegno di Gaza in tutto il Sud del mondo, così come in Europa e negli Stati Uniti. La rappresaglia inflitta ai civili di Gaza ha quell'immancabile tocco di colonialismo vecchia maniera che viene accolto con compartecipata rabbia su un vastissimo spazio.
Il calcolo di Hamas è che la sua resilienza militare unita alla forte pressione internazionale derivante dai massacri a Gaza potrebbero alla fine costringere lo stato sionista a negoziare, e a raggiungere in conclusione un (costoso, del tipo "tutto in cambio di tutti") accordo sugli ostaggi con il movimento palestinese, e imporre anche un mutamento di paradigma nel contesto politico degli infiniti "colloqui di pace" con lo stato sionista. In breve, la scommessa di Hamas è che la sua resilienza militare durerà probabilmente quanto basta perché si manifesti l'impazienza della Casa Bianca di porre rapidamente fine all'episodio della guerra a Gaza. Questo approccio sottolinea come Hamas e i suoi alleati nell'Asse della Resistenza dispongano di una strategia in cui i passi successivi della escalation sono coordinati e procedono secondo consenso, evitando reazioni impulsive agli eventi che potrebbero far precipitare la regione in una guerra totale; un esito distruttivo cui nessuno dei protagonisti dell'Asse desidera arrivare.
In definitiva l'attento calcolo dell'Asse si basa sull'assunto che lo stato sionista commetta errori prevedibili che consentano una graduale ascesa a livello regionale nel logoramento delle sue capacità militari. La reazione forsennata del governo dello stato sionista agli avvenimenti del 7 ottobre rientrava nel calcolo; ci si aspettava che lo stato sionista avrebbe fallito nello sconfiggere Hamas a Gaza, così come erano esiti attesi l'escalation dei coloni in Cisgiordania e il passaggio all'azione dello stato sionista per cercare di cambiare lo status quo rispetto a Hezbollah. Anche questo era stato messo in conto, gli abitanti del nord dello stato sionista non accetteranno di tornare alle loro case senza un cambiamento dello status quo nel sud del Libano.
Tutte queste ipotizzate escalation da parte dello stato sionista potrebbero tradursi in realtà come forma di "distrazione rispetto ai fatti di Gaza" concertata da Netanyahu, in quanto l'opinione pubblica dello stato sionista comincia a dubitare che Hamas sia vicino alla sconfitta, e anche a dubitare che bombardare i civili palestinesi rappresenti un modo per fare pressione su Hamas affinché compia altri rilasci, come sostiene il governo, o piuttosto non possa mettere a rischio la vita di altri ostaggi.
Anche se le forze dell'IDF dovessero continuare a operare a Gaza ancora per qualche settimana, scrive l'editorialista di questioni militari di Haaretz Amos Harel,
"rischierebbero di non soddisfare le aspettative dell'opinione pubblica, dal momento che la leadership politica ha promesso di eliminare Hamas, liberare tutti gli ostaggi, ricostruire tutte le comunità di confine devastate e rimuovere la minaccia alla sicurezza. Si tratta di obiettivi ambiziosi, ed è già chiaro che alcuni di essi non saranno raggiunti...".
I leader di Hamas al contrario sono consapevoli che i membri dell'attuale esecutivo (Levin, Smotrich e Ben Gvir) sono andati dicendo per anni che avrebbe potuto essere necessaria una crisi vera e propria -o una guerra- per attuare il piano di pulizia della Cisgiordania dalla popolazione palestinese che vogliono realizzare per instaurare lo stato sionista sulla biblica "Terra di Israele".
È quindi inverosimile che l'Asse della Resistenza fondi il suo piano sugli errori strategici dello stato sionista? Forse non è così inverosimile come alcuni potrebbero pensare.
Netanyahu deve continuare con la guerra -ne va della sua stessa sopravvivenza- perché la fine degli scontri potrebbe essere un disastro per lui e per la sua famiglia. Netanyahu è quindi nel bel mezzo di una campagna. Non è una campagna elettorale, perché non ha alcuna possibilità di sopravvivere a delle elezioni. Al contrario, si tratta di una "campagna per la sopravvivenza" con due obiettivi: rimanere aggrappato al suo seggio per altri due anni (cosa fattibile, dato che la possibilità di defezioni dal governo è tutt'altro che assicurata), e in secondo luogo preservare, o addirittura rafforzare, la servile ammirazione tributatagli dalla sua base.
Solo io, Netanyahu, posso impedire la nascita di uno Stato palestinese a Gaza, in Giudea o in Samaria": "Non lo permetterò". "Non ci sarà mai" uno Stato palestinese. Solo io posso gestire le relazioni con Biden. Solo io so come manipolare la psiche statunitense".
"Io sto facendo tutto questo"... non solo per la storia ebraica, ma anche per la civiltà occidentale.
"Ma a cosa serve una lunga guerra", si chiede il corrispondente e commentatore di Haaretz B. Michael,
"se alla fine, o anche mentre è ancora in corso, la 'base' se ne annoia, diventa indifferente e si mostra delusa? Non è una base di questo genere quella che si precipiterà nella cabina elettorale con la scheda giusta tra i denti. Quella base vuole azione. Quella base vuole sangue. Quella base vuole odiare, provare rabbia, sentirsi offesa, vendicarsi. Scaricare sull'altro tutto ciò che la fa arrabbiare".
"Questo è l'unico modo per capire l'ostinazione con cui [Netanyahu] evade da qualsiasi seria discussione su una politica di uscita dalla guerra. Solo così si possono comprendere le promesse infondate su un controllo permanente di Gaza". La base è estasiata, le sue speranze si stanno avverando: "Stiamo davvero attaccando gli arabi e buttandoli in mare. Ed è tutto merito di Bibi".
"Non c'è una goccia di logica nel bombardare a tappeto Gaza. Né una goccia di vantaggio verrà dall'uccisione di altri palestinesi... l'iniziativa è una palese follia e un imbarazzante condiscendere alla base, che dal suo leader non vuole delusioni neanche minime. Che ne sarà degli ostaggi? Ah, è più importante la base".
Israele ha già visto qualcosa di simile in passato, in particolare con la Nakba del 1948. La pretesa arrogante che quella volta si sarebbe davvero chiuso: i palestinesi espulsi, le loro proprietà saccheggiate ed espropriate. "Fine della storia", si credeva, e "problema risolto".
No, il problema non è mai stato risolto. Da qui il 7 ottobre.
Il Primo Ministro e il suo esecutivo sono in "campagna elettorale" per sfruttare e amplificare il trauma che la base ha sofferto il 7 ottobre e per plasmarlo in base alle loro esigenze elettorali.
Netanyahu ha ripetuto un unico messaggio: "Non smetteremo di combattere". Dal suo punto di vista, la guerra deve continuare per sempre:
"La visione di Ben-Gvir di Bezalel Smotrich e compagnia sta prendendo forma. E l'arrivo del messia deve essere dietro l'angolo. Ed è tutto merito di Bibi. Urrà per Bibi!".
La Resistenza vede e comprende tutto questo: come fa lo stato sionista a uscire da questa situazione? Rovesciando Bibi? Non basterà. È troppo tardi. Il tappo è stato tolto; i geni e i demoni sono usciti. Se il fronte della Resistenza mantiene la coordinazione, procede di concerto ed evita qualsiasi reazione pavloviana agli eventi che potrebbe far precipitare la regione in una guerra totale, allora i suoi protagonisti "possono mettersi tranquillamente ad aspettare e lasciare che sia (Netanyahu) a muoversi" ...e a commettere errori (Sun Tzu).

martedì 12 dicembre 2023

Alastair Crooke - Considerazioni strategiche da Mosca

 


Traduzione da Strategic Culture, 11 dicembre 2023.


Le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono ai minimi storici e la situazione è peggiore di quanto si possa immaginare. Gli Stati Uniti si relazionano con gli alti funzionari russi trattandoli con ogni evidenza come dei nemici. Tanto per dare un'idea, se uno di questi chiedesse "Cosa volete da me?" potrebbe sentirsi rispondere "Vorrei che tu crepassi".
I toni tesi e la mancanza di uno scambio autentico sono peggiori rispetto ai tempi della Guerra Fredda, quando i canali di comunicazione rimanevano aperti. Questa lacuna è aggravata dalla diffusa assenza di senso politico tra i leader europei, con cui non è stato possibile intavolare una discussione su temi concreti.
I funzionari russi capiscono che si tratta di una situazione rischiosa, ma non sanno come mettervi rimedio. Anche i toni del discorso sono scaduti dall'ostilità pura e semplice alla meschinità; gli Stati Uniti ad esempio potrebbero impedire l'accesso agli operai che entrano nella missione russa all'ONU per riparare le finestre rotte. Mosca, a malincuore, si ritrova con poche alternative se non quella di rispondere in modo altrettanto meschino; in questo modo si innesca una spirale discendente. Riconosce che la "guerra dell'informazione" -apertamente snobbata- è interamente dominata dai media occidentali, il che inasprisce ulteriormente l'atmosfera. Anche se gli sporadici media alternativi occidentali esistono e stanno guadagnando portata ed importanza, non sono facilmente coinvolgibili dal momento che tendono a essere tanto vari quanto a correre per conto proprio. Essere etichettato come "complice di Putin" comporta uno stigma per qualsiasi fornitore autonomo di notizie e può distruggerne la credibilità in un colpo solo.
In Russia si ritiene che l'Occidente si trovi attualmente in condizioni di "falsa normalità"; un interludio -in vista del 2024- nella guerra culturale che sta conducendo. I russi, tuttavia, vi percepiscono alcuni evidenti parallelismi rispetto alla loro esperienza di radicale polarizzazione civile dei tempi in cui la Nomenklatura sovietica esigeva la conformità alla "linea" del Partito sotto pena di sanzioni.
Mosca è aperta al dialogo con l'Occidente, ma gli interlocutori finora hanno rappresentato solo se stessi e non avevano nessun mandato. Questa esperienza ha portato i russi a concludere che non ha molto senso sbattere la testa contro il muro di mattoni rappresentato da una leadership occidentale guidata dall'ideologia; i difensori dell'ideologia occidentale reagiscono ai valori russi come un toro reagisce a un drappo rosso. Tuttavia non è chiaro se, quando sarà il momento, a Washington si potrà trovare qualche interlocutore dotato del potere -e della possibilità di impegnarsi- al punto di alzare il telefono.
L'inimicizia che l'Occidente proietta contro la Russia vi viene percepita come un aspetto positivo oltre che come un grave rischio data l'assenza di trattati sull'uso e sul dispiegamento degli armamenti. In Russia gli interlocutori sottolineano come il disprezzo occidentale nei confronti dei russi -un disprezzo che va oltre l'inimicizia esplicita- abbia finalmente permesso alla Russia di superare l'europeizzazione iniziata da Pietro il Grande. Essa viene oggi considerata come una deviazione dal vero destino della Russia, anche se deve essere inquadrata nel contesto dell'ascesa e dell'affermazione dello Stato nazionale europeo a seguito degli accordi di Westfalia.
L'ostilità mostrata dagli europei nei confronti del popolo russo, e non solo del governo, ha spinto la Russia a tornare ad essere se stessa, con suo grande beneficio.
Tuttavia questo cambiamento genera una certa tensione: È evidente che i "falchi" occidentali tengono sempre d'occhio lo scenario russo, per individuare qualche ospite all'interno del corpo politico da usare come incubatore per le spore di quel loro Nuovo Ordine Morale di cui hanno fatto l'arma con cui fessurare e frammentare la società russa. È inevitabile quindi che un esplicito attaccamento alla cultura occidentale susciti una certa cautela nella "corrente patriottica" mainstream. I russi che -soprattutto a Mosca e a San Pietroburgo- si orientano verso la cultura europea avvertono una certa tensione. Non sono né carne né pesce, la Russia si sta muovendo verso una nuova identità e un nuovo "modo di essere", e lascia indietro gli europeisti a contemplare i loro punti di riferimento che si allontanano. In generale questo cambiamento viene considerato inevitabile e ha portato a un vero e proprio rinascimento russo e a un diffuso senso di fiducia. La rinascita della religione, ci è stato riferito, è un fenomeno che si è innescato spontaneamente con la riapertura delle chiese dopo la fine del comunismo. Ne sono state costruite molte di nuove, e circa il 75% dei russi oggi si dichiara ortodosso. In un certo senso questa rinascita del cristianesimo ortodosso possiede un che di escatologico, in parte dovuto al suo porsi come antagonista all'"ordine basato sul dominio", per dirla con un nostro interlocutore. In particolare, pochi tra quanti abbiamo interpellato hanno mostrato nostaglia per i "liberali russi" laici, che la Russia l'hanno lasciata: "una liberazione", dicono, anche se alcuni di essi stanno tornando.
Esiste una sorta di processo di ripulitura della società dalla "occidentalizzazione" dei secoli precedenti, in cui sono inevitabili le contraddizioni: la cultura europea, almeno in termini di filosofia e di arte, è stata ed è una componente integrante della vita intellettuale russa e non è destinata a scomparire.


L'ambito politico

Non è facile far capire in che modo il concetto di una vittoria "assoluta" della Russia in Ucraina si è fuso con quello di questa rinascita, dando origine al nuovo senso di sé della Russia. La vittoria in Ucraina è stata in qualche modo assimilata a un destino metafisico, come a un qualcosa di sicuro il cui adempimento è in corso. I vertici militari russi sono -comprensibilmente- muti riguardo ai probabili esiti strutturali e istituzionali. I discorsi che si fanno nei talk show televisivi vertono più sulle faide e  sugli scismi che dilaniano Kiev piuttosto che sui dettagli delle operazioni sul campo di battaglia come in passato. 
Vige la convinzione che la NATO sia stata completamente sconfitta in Ucraina. La portata e la vastità del fallimento della NATO  sono stati forse una sorpresa in Russia, ma vengono considerate come una riprova della capacità di adattamento e dell'innovazione tecnologica russa nell'integrazione e nella comunicazione tra le varie armi. Una traduzione del concetto di "vittoria assoluta" può essere quello per cui "in nessun modo" Mosca permetterà che l'Ucraina diventi di nuovo una minaccia per la sicurezza russa.
I funzionari russi pensano che sia la guerra in Ucraina che quelle che interessano lo stato sionista in Medio Oriente contribuiscano a dividere l'Occidente in aree separate e conflittuali e a farlo dirigere verso la frammentazione e una probabile condizione di instabilità. Gli Stati Uniti si stanno ritrovando ad affrontare battute d'arresto e sfide che metteranno ulteriormente allo scoperto la loro perdita di deterrenza, esacerbandone ulteriormente l'apprensione per la propria sicurezza.
Mosca è consapevole di quanto sia cambiato il clima politico nello stato sionista con il governo radicale insediatosi dopo le ultime elezioni, e anche delle limitazioni che questo comporta per le iniziative politiche degli stati occidentali. Osserva con attenzione i piani dello stato sionista per quanto riguarda il Libano meridionale. La Russia si sta coordinando con altri stati per evitare che la situazioni degeneri in un conflitto di vasta portata. La visita del Presidente Raisi a Mosca la scorsa settimana sarebbe stata incentrata sull'accordo strategico globale in fase di negoziazione e (secondo quanto riferito) avrebbe incluso la firma di un documento per contrastare le sanzioni occidentali imposte a entrambi gli stati.
In termini di ordine globale emergente, Mosca assumerà la presidenza dei BRICS nel gennaio 2024. Si tratta di un'enorme opportunità per affermare il mondo multipolare dei BRICS in un momento di ampio consenso geopolitico nel Sud globale, ma anche di una sfida. Mosca si rende conto che questa presidenza offre una serie di occasioni, ma è ben consapevole che gli stati dei BRICS sono tutt'altro che omogenei. Per quanto riguarda le guerre dello stato sionista, la Russia dispone di un'influente lobby ebraica e di una diaspora russa nello stato sionista in grado di  imporre al Presidente il rispetto di alcuni doveri costituzionali. Probabilmente la Russia si muoverà con cautela in merito al conflitto tra stato sionista e palestinesi, per mantenere la coesione dei BRICS.
Nel corso della presidenza russa dei BRICS si affermeranno alcune importanti innovazioni in campo economico e finanziario.
Per quanto riguarda il "problema UE" della Russia, in contrapposizione al cosiddetto "problema Russia" dell'Europa, l'UE e la NATO (dopo Maidan) hanno edificato l'esercito ucraino fino a farlo diventare uno degli eserciti più grandi e meglio dotati di equipaggiamento NATO in Europa. Dopo che la proposta di un accordo tra Ucraina e Russia è stata bloccata da Boris Johnson e da Blinken nel marzo 2022 e mentre diventava sicuro che non si sarebbe potuto evitare un conflitto lungo e intenso, la Russia si è mobilitata e ha approntato le proprie catene logistiche.
I leader dell'UE adesso stanno "chiudendo il cerchio" agitando questa espansione militare russa -essa stessa una reazione all'intensificarsi della presenza della NATO in Ucraina- come prova dell'esistenza di un piano russo per invadere l'Europa continentale. In quello che sembra uno sforzo coordinato, i media mainstream occidentali stanno cercando qualsiasi cosa che possa anche solo lontanamente assomigliare a una prova di presunti piani della Russia contro l'Europa.
Lo spettro dell'imperialismo russo viene evocato per incutere timore alla popolazione europea e per sostenere che l'Europa deve dirottare risorse alla preparazione logistica per una guerra con la Russia considerata prossima. Questo rappresenta un altro colpo di scena di quella viziosa spirale bellicista al ribasso, che si preannuncia negativa per l'Europa. Per l'Europa non esisteva alcun problema russo, prima che i neoconservatori non approfittassero della crepa del Maidan per indebolire la Russia.


martedì 28 novembre 2023

Alastair Crooke - Gaza. Il cappello a cilindro del mago e i pannicelli caldi delle illusioni



Traduzione da Strategic Culture, 27 novembre 2023.

Il mago entra in scena avvolto dal suo mantello nero. Arrivato in mezzo al palco mostra a tutti il suo cappello: è vuoto. Lo picchietta leggermente per dimostrarne la solidità. Il mago prende alcuni oggetti e li mette nel cappello. Ci mette il sequestro da parte di AnsarAllah di una nave di proprietà sionista (la situazione è "monitorata"); ci mette gli attacchi iracheni alle basi statunitensi (il mainstream ci ha fatto a malapena caso); ci mette anche i mille missili lanciati da Hezbollah nel nord dello stato sionista; ci mette la guerra in Cisgiordania. Il mago si rivolge di nuovo al pubblico: il cappello è sempre vuoto. Il pubblico sa che quegli oggetti possiedono una realtà fisica, ma in qualche modo sono stati magicamente offuscati.
È in questo modo che il mainstream occidentale mantiene la deterrenza, minimizzando il fatto che c'è una guerra in corso tramite quello che Malcom Kyeyune chiama "un simulacro di pace", in cui si sminuisce senza chiasso un conflitto e si ricorre in silenzio -parafrasando Kyeyune- a una "domanda molto postmoderna": qual è esattamente il significato di "non combattente" civile?
Un aspetto di questo presentare il conflitto in modo attutito è lo scambio di ostaggi che è stato concordato. Una cosa reale, che allo stesso tempo puntella l'infondata convinzione per cui una volta annientato Hamas e liberati gli ostaggi si possa far entrare il problema di due milioni e trecentomila palestinesi nel cappello del mago, facendolo scomparire dalla vista. Alcuni sperano sinceramente e senza secondi fini che una volta cessati i combattimenti essi non riprendano, e che la fine dei bombardamenti a Gaza possa aprire uno spiraglio a una qualche "soluzione" politica, sempre che questa tregua possa essere prorogata sine die. Soluzione in questo caso non è altro che una parola educata per definire il tentativo di corruzione della UE nei confronti di Egitto e Giordania.
Secondo quanto riferito il Presidente della UE Ursula von der Leyen ha visitato Egitto e stato sionista offrendo denaro (dieci miliardi di dollari per l'Egitto e cinque miliardi di dollari per la Giordania) in cambio della diaspora degli abitanti della Striscia di Gaza in altre regioni; di fatto, per facilitare l'evacuazione della popolazione palestinese dalla Striscia in linea con l'obiettivo dello stato sionista, che a Gaza è quello di fare pulizia etnica.
Tuttavia il tweet dell'ex ministro Ayalet Shaked
"Dopo aver trasformato Khan Yunis in un campo di calcio, dobbiamo dire a ciascun paese di prendersene una parte: due milioni, e abbiamo bisogno che se ne vadano tutti. Ecco la soluzione a Gaza"
non è che una delle considerazioni con cui gli alti gradi della politica e della sicurezza sioniste esaltano quella che lo stato sionista è sempre più propenso a considerare come la "soluzione" per Gaza. Comportandosi in modo così esplicito, la Shaked ha probabilmente affondato l'iniziativa della Von der Leyen: nessuno stato arabo vuole essere complice di una nuova Nakba.
Una hudna, una tregua, ha inevitabilmente un carattere molto precario. Nei combattimenti del 2014 quando le forze armate dello stato sionista hanno iniziato a rastrellare Gaza dopo l'inizio del cessate il fuoco, il risultato fu una ripresa degli scontri e la fine della tregua. I combattimenti proseguirono per un mese.
Due lezioni fondamentali che ho imparato cercando di concordare tregue per conto della UE durante la Seconda Intifada sono state che una tregua è solo una tregua -entrambe le parti la usano per riposizionarsi per i successivi scontri- e che la fine degli scontri in una località circoscritta non diffonde la de-escalation in un'altra località geograficamente distinta; al contrario invece un'esplosione di violenza eclatante è contagiosa come un virus e si diffonde immediatamente.
L'attuale scambio di ostaggi è incentrato su Gaza. Ma lo stato sionista ha tre fronti di conflitto aperti: Gaza, il confine settentrionale con il Libano e la Cisgiordania. Un incidente su uno qualsiasi dei tre fronti potrebbe essere sufficiente a far crollare la fiducia nelle intese per Gaza e a scatenare nuovamente l'aggressione sionista contro la Striscia.
Alla vigilia della tregua ad esempio le forze israeliane hanno bombardato pesantemente sia la Siria che il Libano. Sette combattenti di Hezbollah sono rimasti uccisi.
Il punto, detto chiaramente, è che i precedenti storici in cui una hudna si è tradotta in progressi sul piano politico non sono poi così numerosi. Il rilascio di un ostaggio, di per sé, non risolve nulla. Il problema della crisi attuale è molto più profondo. Quando in illo tempore la Gran Bretagna promise agli ebrei una patria, le potenze occidentali promisero anche ai palestinesi un loro Stato, nel 1947. Ma non hanno mai tradotto le loro promesse in realtà. Una lacuna che sta raggiungendo il culmine con uno scontro frontale.
L'ambizione del governo sionista di creare uno stato ebraico nelle terre bibliche di Israele mira semplicemente a bloccare la nascita di un qualsiasi stato palestinese, sia in una parte di Gerusalemme sia altrove nella Palestina storica. In questo contesto, le azioni di Hamas avevano proprio lo scopo di rompere questa impasse e l'infinito trascinarsi di "negoziati" infruttuosi.
Non sorprende che il Ministro della Difesa sionista abbia già annunciato l'intenzione di riprendere i combattimenti subito dopo la fine del cessate il fuoco. I funzionari israeliani hanno detto alle loro controparti statunitensi che prevedono ancora diverse settimane di operazioni nel nord della Striscia, prima di spostare l'attenzione verso il sud.
Finora, l'esercito sionista ha operato in aree vicine alla costa di Gaza e in luoghi, come il wadi a sud di Gaza City, dove il sottosuolo non facilita la costruzione di tunnel. In queste zone Hamas non dispone quindi di significative capacità di difesa. Se l'azione militare dovesse riprendere, è probabile che l'esercito sionista si allontani dalla costa settentrionale per dirigersi verso il centro di Gaza City, permettendo a Hamas di manovrare più facilmente e di infliggere maggiori perdite all'esercito sionista e ai suoi mezzi corazzati. In questo senso -con tanti saluti alle illusioni- la guerra è appena iniziata.
Il Primo Ministro Netanyahu è stato descritto sia nello stato sionista che dal mainstream occidentale come un cadavere politico. Comunque sia, Netanyahu ha la sua strategia: ha sfidato apertamente l'amministrazione Biden su ogni questione legata alla guerra, tranne che sull'eliminazione di Hamas. Durante la conferenza stampa di domenica 26 novembre, Netanyahu ha parlato di una "Iron Dome diplomatica", affermando che non avrebbe ceduto alle "pressioni sempre più pesanti... esercitate contro di noi nelle ultime settimane... Respingo queste pressioni e dico al mondo: Continueremo a combattere fino alla vittoria, fino a quando non avremo distrutto Hamas e riportato a casa i nostri ostaggi".
Yonatan Freeman, della Hebrew University, percepisce l'azzardo insito nelle vaghe dichiarazioni di Netanyahu: sfida l'amministrazione Biden, ma si preoccupa di lasciare un sufficiente "margine di manovra" in modo da poter sempre incolpare Biden, ogni volta che viene "costretto" dagli USA a fare marcia indietro.
La strategia dell'esecutivo sionista quindi si basa sulla impegnativa scommessa per cui l'opinione pubblica israeliana reggerà, nonostante l'alta disapprovazione per la persona di Netayahu, a causa dello schiacciante sostegno pubblico esistente verso i due obiettivi dichiarati dal governo di guerra: distruggere il "regime di Hamas" e le sue capacità, e liberare tutti gli ostaggi sionisti.
Alla base della scommessa c'è la convinzione che il sentimento dell'opinione pubblica, incanalato dall'esecutivo sionista col ricorso a termini assolutamente manichei (luce contro oscurità; civiltà contro barbarie; a Gaza sono tutti complici del Male Hamas), finirà per suscitare un'ondata di consensi per l'ulteriore mossa che prevede di togliere una volta per tutte di mezzo questa buffonata dello stato palestinese. Si sta preparando il terreno per una lunga guerra contro il Male cosmico.
La "soluzione", come sottolineano il ministro della Sicurezza nazionale Smotrich e i suoi alleati, consiste nell'offrire ai palestinesi una scelta: "rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in condizioni di minorità", oppure emigrare all'estero. In parole povere, la "soluzione" è la cacciata dalle terre della Grande Israele di tutti i palestinesi che non facciano atto di sottomissione. Passiamo ora alle prospettive dei contendenti.
L'Asse unito che sostiene i palestinesi osserva che lo stato sionista continua ad attenersi all'iniziale proposito di distruggere Gaza fino al punto di non lasciare niente, nessuna infrastruttura civile che permetterebbe ai cittadini di Gaza di vivere, se anche solo tentassero di tornare alle loro case distrutte.
Biden ha pienamente sostenuto questo obiettivo, dato che il suo portavoce ha dichiarato:
"Riteniamo che abbiano il diritto di [intraprendere ulteriori operazioni di combattimento a Gaza]; ma [tali azioni]... dovrebbero includere maggiori e più efficaci protezioni per la vita dei civili".
Hasan Illaik, esperto osservatore della sicurezza regionale, asserisce:
I funzionari dell'Asse ritengono inoltre che le dichiarazioni concilianti degli Stati Uniti, che a volte fanno pensare che sia imminente una fase di deescalation, non siano altro che uno sforzo per consolidare un'immagine pubblica pesantemente danneggiata dal sostegno incondizionato che essi hanno fornito all'incessante massacro di palestinesi a Gaza da parte dello stato sionista.
Insomma, lo stato sionista può contare sull'amministrazione Biden e su alcuni leader della UE: sta vincendo? Tom Friedman conosce bene l'esecutivo Biden, e ha scritto sul New York Times del 9 novembre dopo aver visto lo stato sionista e la Cisgiordania: "Ora capisco perché sono cambiate tante cose. Mi è chiarissimo che lo stato sionista è davvero in pericolo, più che in qualsiasi altro momento dalla sua guerra d'indipendenza nel 1948". Inverosimile? Forse no.
Nel 2012, lo scrittore statunitense Michael Greer ha scritto che lo stato sionista è stato fondato in un momento particolarmente propizio, nonostante fosse circondato da vicini ostili:
Varie tra le principali potenze occidentali sostennero il nuovo stato con significativi aiuti finanziari e militari; di importanza almeno pari furono gli appartenenti alla comunità religiosa responsabile della creazione del nuovo stato rimasti in quelle stesse nazioni occidentali, che si impegnarono in vigorosi sforzi per raccogliere fondi destinati a sostenere il nuovo stato e in altrettanto vigorosi sforzi politici per garantire il perdurare o l'aumento del sostegno governativo esistente.
Le risorse così ottenute dal nuovo stato gli conferirono un sostanziale vantaggio militare nei confronti dei suoi vicini ostili, e la sua esistenza divenne un fatto abbastanza compiuto da indurre alcuni dei suoi vicini a rinunciare a un atteggiamento esclusivamente conflittuale. Tuttavia la sopravvivenza dello stato dipendeva da tre cose. La prima, e di gran lunga la più cruciale, era il continuo flusso di aiuti da parte delle potenze occidentali per mantenere un apparato militare molto più grande di quanto le risorse economiche e naturali del territorio in questione avrebbero permesso. La seconda erano la continua frammentazione e la debolezza relativa degli stati circostanti. La terza era il mantenimento della pace sul fronte interno, con il consenso collettivo attorno ad una ben precisa scala delle priorità, in modo da poter rispondere con tutta la forza alle minacce provenienti dall'esterno invece di sperperare risorse limitate in schermaglie al proprio interno o in progetti magari popolari, ma che non contribuivano in alcun modo alla sua sopravvivenza.
"Nel lungo periodo, nessuna di queste tre condizioni potrà essere soddisfatta a tempo indeterminato... Quando questi consolidati modelli di sostegno si romperanno, lo stato sionista potrebbe trovarsi con le spalle al muro". La settimana scorsa, un importante commentatore sionista ha osservato che:
Si potrebbe pensare che una visita presidenziale, un discorso presidenziale, tre visite del Segretario di Stato, due visite del Segretario alla Difesa, l'invio di due gruppi di portaerei, di un sottomarino nucleare e di un'unità del corpo dei Marines, oltre all'impegno di 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari d'emergenza, siano la testimonianza del sostegno incrollabile che gli Stati Uniti stanno portando allo stato sionista. Ripensateci.
Sotto il pieno e solido sostegno dell'amministrazione Biden, ci sono correnti pericolose e insidiose che stanno intaccando e inquinando il consenso che l'opinione pubblica degli Stati Uniti mostra nei confronti dello stato sionista. I sondaggi pubblicati la scorsa settimana contengono dati fra i più allarmanti e significativi: il sostegno pubblico allo stato sionista sta crollando, soprattutto nella fascia d'età compresa tra i 18 e i 34 anni. Un altro sondaggio mostra che il 36% dei cittadini statunitensi si dichiara contrario a ulteriori finanziamenti per l'Ucraina e per lo stato sionista: ad approvare il finanziamento per lo stato sionista è stato solo il 14%.
Ciò che è davvero notevole è che a guidare la nuova narrazione sono i giovani delle generazioni Z, Y e Alpha. Sfruttando i social media e parlando direttamente ai rispettivi gruppi di pari, hanno fatto conoscere al mondo la tragedia dei palestinesi. Molti avevano una conoscenza limitata della questione, ma il loro senso di giustizia senza filtri ha alimentato la loro rabbia collettiva contro la pulizia etnica della Palestina da parte dello stato sionista.
Anche la seconda e la terza condizione sottolineate da Greer come essenziali per la sopravvivenza dello stato sionista stanno incancrenendo, mentre le placche tettoniche globali si muovono: Le potenze non occidentali non si stanno schierando con lo stato sionista. Si stanno coalizzando per opporsi all'intento dell'esecutivo sionista di farla finita una volta per tutte anche con l'idea di uno stato palestinese. Oggi lo stato sionista è aspramente diviso su quale debba essere il suo futuro, su cosa sia che costituisce esattamente "Israele" e persino sulla questione postmoderna di "cosa significhi essere ebrei".




venerdì 24 novembre 2023

Giù nella Valle. Elogio e difesa di Paolo Cognetti

 

Paolo Cognetti ha ambientato in Valsesia una sua personale versione letteraria di Nebraska di Bruce Springsteen.
Stando alla "libera informazione", alla Lega e agli "occidentalisti" valsesiani questo Giù nella valle non è piaciuto: guai a chi ritrae i territori da loro amministrati in toni meno che oleografici.
Alcolismo, bracconaggio, emigrazione, risse, solitudini abissali, liti tra vicini o anche fra parenti per un maso, per una recinzione, per un metro di bosco? Tutte realtà familiari a chi conosca la vita nei borghi di montagna e tutti con puntuali riscontri nel reale.
Ma pretendono che si vada a cercarli altrove, preferibilmente lontano, magari dall'altra parte del mondo.
Ecco: l'ideale sarebbe qualche pietraia afghana, di quelle da redimere con la democrazia da esportazione.
Ovunque, ma non lì.
E quel Cognetti pensi bene a limitarsi a elogiare gli impianti sciistici all'avanguardia, la mocetta e la polenta concia, che ci basta un messaggio a certi nostri collaboratori specializzati in calzini e da domattina si ritrova islamonazianarcocomunista eterogay su tutte le gazzette della penisola.
Un motivo sufficiente per raccomandare la lettura del libro, cui chi scrive si è dedicato col brio primaverile con cui esamina, elogia e divulga le cose suscettibili di infastidire un certo milieu di ben vestiti.

martedì 21 novembre 2023

Alastair Crooke - Lo scorpione Netanyahu pungerà la rana statunitense?


Traduzione da Strategic Culture, 20 novembre 2023.


Dunque, c'è uno scorpione che ha bisogno che una rana gli dia un passaggio sulla schiena per attraversare un fiume gonfio d'acqua. La rana non si fida dello scorpione, ma sia pure di malavoglia acconsente. Mentre attraversano lo scorpione fatalmente la punge, e finiscono col morire tutti e due.
Questo antico racconto serve a mostrare quale sia l'essenza di una tragedia. Nella tragedia greca la crisi che è al cuore di ogni narrazione tragica non nasce dal puro caso. Nella letteratura greca l'idea è che in una tragedia qualcosa succede perché deve succedere, perché è nella natura dei protagonisti, perché sono gli attori coinvolti a farlo succedere. E non hanno altra scelta, perché quella è la loro natura.
La storia è stata raccontata da un ex diplomatico sionista di alto livello, molto esperto di politica statunitense.
Nella sua versione della favoletta della rana ci sono i leader sionisti che stanno cercando di respingere disperatamente la responsabilità per la disfatta del 7 ottobre: l'esecutivo sta cercando alacremente di presentare la crisi non come un disastro con dei colpevoli, ma come un'opportunità dalla portata epica, e come tale di presentarla al pubblico.
La chimerica eventualità che si vuole presentare rimanda all'ideologia sionista dei primi tempi. Lo stato sionista può far diventare il disastro di Gaza, secondo quanto detto dal ministro delle finanze Smotrich, l'occasione per risolvere definitivamente e unilateralmente la contraddizione intrinseca alle aspirazioni ebraiche e a quelle palestinesi, mettendo fine all'illusione che siano possibili un compromesso, una riconciliazione o una spartizione di un qualche genere.
E questo può rappresentare la puntura dello scorpione. L'esecutivo sionista scommette tutto su una strategia irta di rischi, su una nuova Nakba che potrebbe trascinare lo stato sionista in un conflitto di vaste proporizioni, ma al tempo stesso butta anche a mare quanto resta del prestigio dell'Occidente.
Ovviamente, come rimarca l'ex diplomatico sionista, questo piano riflette essenzialmente le ambizioni personali di un Netanyahu che sta manovrando per mettere a tacere le critiche e per restare al potere il più a lungo possibile. Soprattutto, egli spera che questo gli permetterà di diluire il biasimo, allontanando dalla sua persona ogni responsabilità e ogni colpevolezza. Meglio ancora, "questo può collocare Gaza in un contesto epico e storico, può farne un evento che potrebbe trasformare lui Primo Ministro nel condottiero di una guerra di fondazione all'insegna della grandezza e della gloria".
Una cosa inverosimile? Non è detto.
Netanyahu starà anche dibattendosi per sopravvivere politicamente, ma è capace di crederci davvero.
Nel suo libro Going to the Wars, lo storico Max Hastings scrive che negli anni '70 Netanyahu gli disse: "Nella prossima guerra, se saremo bravi, avremo la possibilità di estromettere tutti gli arabi... Potremo liberare la Cisgiordania, sistemare Gerusalemme".
A cosa pensa il governo sionista quando pensa alla "prossima guerra"? Pensa a Hezbollah. Come ha detto di recente un ministro, "dopo Hamas, ci occuperemo di Hezbollah".
Secondo l'ex diplomatico sionista è proprio questa concomitanza di una lunga guerra a Gaza (secondo le linee stabilite nel 2006) e di una leadership che sembra proprio intenzionata a provocare Hezbollah perché si verifichi una escalation a far suonare l'allarme alla Casa Bianca.
Nella guerra del 2006 con Hezbollah, l'intero sobborgo urbano di Beirut chiamato Dahiya venne raso al suolo. Il generale Eizenkot (che ha comandato le forze dello stato sionista durante quella guerra ed è ora membro del "gabinetto di guerra" di Netanyahu) ha dichiarato nel 2008: "Quello che è successo nel quartiere Dahiya di Beirut nel 2006 accadrà in ogni villaggio da cui si spara contro lo stato sionista... Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi civili, sono basi militari... Questa non è una raccomandazione. È un piano. Ed è stato approvato". Ecco il perché di quanto sta accadendo a Gaza.
Non è probabile che il gabinetto di guerra voglia provocare un'invasione su larga scala dello stato sionista da parte di Hezbollah, cosa che rappresenterebbe una minaccia esistenziale; ma Netanyahu e il gabinetto potrebbero desiderare che lo scambio di colpi in essere al confine settentrionale si intensifichi fino al punto in cui gli Stati Uniti si sentano costretti a far piovere qualche colpo di avvertimento sulle infrastrutture militari di Hezbollah.
Le forze armate sioniste già colpiscono i civili quaranta chilometri oltre la frontiera libanese: la scorsa settimana un missile sionista ha incenerito l'auto su cui viaggiavano nonna e tre nipoti. Le preoccupazioni degli USA in merito a una escalation sono fondate.
È questo che preoccupa la Casa Bianca, dice il diplomatico. L'Iran conferma di aver ricevuto non meno di tre messaggi statunitensi in un giorno solo, in cui si faceva sapere a Tehran che gli Stati Uniti non vogliono una guerra con l'Iran. E un inviato statunitense, Amos Hochstein, ha girato tutta Beirut ripetendo che Hezbollah non deve alzare il livello dello scontro in risposta agli attacchi oltre frontiera da parte dello stato sionista.
La riluttanza di Netanyahu a esprimere una qualsiasi idea sul futuro di Gaza e i rilevanti e minacciosi sviluppi verso una escalation in Libano stanno creando una spaccatura tra la politica statunitense e quella dello stato sionista, al punto che alcune personalità dell'amministrazione Biden e nel Congresso stanno iniziando a pensare che Netanyahu stia cercando di trascinare gli USA in una guerra con l'Iran".
"Netanyahu non è interessato a un secondo fronte a nord con Hezbollah", ha dichiarato l'ex funzionario, aggiungendo però che "[Alla Casa Bianca] credono che un attacco statunitense successivo alle provocazioni dell'Iran potrebbe trasformare l'abissale débacle di Netanyahu in una sorta di trionfo strategico".
"Questa è la stessa logica contorta che lo ha guidato quando ha incoraggiato la sua anima gemella, l'allora presidente Donald Trump, a ritirarsi unilateralmente dall'accordo sul nucleare iraniano nel maggio 2018. La stessa logica era alla base della sua audizione al Congresso nel 2002, in cui incoraggiò gli USA a invadere l'Iraq, perché questo avrebbe 'stabilizzato la regione' e 'prodotto ripercussioni' sull'Iran.
I timori degli USA vanno all'essenza della tragedia, al fatto che essa "deve accadere": la rana ha accettato con molta riluttanza di portare lo scorpione oltre il passaggio del fiume, ma vuole essere rassicurata sul fatto che lo scorpione, data la sua natura, non punga il proprio benefattore.
Proprio allo stesso modo l'esecutivo di Biden non si fida di Netanyahu. Non vuole essere punto, cioè non vuole essere trascinato nel pantano di una guerra con l'Iran.
Il colpo di pungiglione ha tutti i crismi dell concretezza: Il governo Netanyahu sta gradualmente e deliberatamente preparando il terreno per intrappolare l'amministrazione Biden, manovrando in modo che Washington abbia poca altra scelta se non quella di unirsi allo stato sionista, se la guerra dovesse allargarsi.
Come in tutte le tragedie classiche, l'epilogo si verifica perché sono gli attori coinvolti a farlo succedere; non hanno altra scelta che farlo accadere, perché questa è la loro natura. "Non solo il premier dello stato sionista respinge qualsiasi idea o richiesta proveniente da Washington; Netanyahu vuole esplicitamente che la guerra di Gaza vada avanti all'infinito senza alcun corollario politico", racconta l'ex funzionario.
Si consideri anche il fatto che Jake Sullivan ha definito esplicitamente le indicazioni degli Stati Uniti: nessuna rioccupazione di Gaza, nessun trasferimento della popolazione, nessuna riduzione del suo territorio, nessuna disconnessione politica con le autorità della Cisgiordania, nessun processo decisionale alternativo se non quello palestinese e nessun ritorno allo status quo ante.
Netanyahu ha rifiutato in blocco tutte queste indicazioni con una sola frase: lo stato sionista -ha detto- avrebbe supervisionato e mantenuto "la responsabilità generale della sicurezza" a Gaza per un periodo di tempo indefinito. In un colpo solo ha buttato all'aria la conclusione suggerita dagli Stati Uniti, lasciandola penzolare al freddo di un sentimento globale e di una opinione pubblica interna sempre più indifferente, mentre la sabbia nella clessidra sta finendo.
È evidente quale sia l'esito finale cui punta Smotrich: Netanyahu sta costruendo sostegno popolare sul piano interno verso un nuovo silenzioso ultimatum per Gaza: "emigrazione o annientamento". Questo è anatema per il governo Biden: decenni di diplomazia statunitense in Medio Oriente finiti giù per il tubo di scarico.
Washington osserva con crescente disagio l'"escalation militare orizzontale" nella regione e si chiede se lo stato sionista sopravviverà a questo cappio sempre più stretto. Tuttavia il tempo e i mezzi su cui gli Stati Uniti possono contare per mettere un freno allo stato sionista sono limitati.
L'immediato sostegno che Biden ha concesso allo stato sionista sta creando scompiglio in patria e comporta un prezzo politico che, a un anno dalle elezioni, ha delle conseguenze. Forse era nella natura di Biden credere di poter abbracciare lo stato sionista perché rispettasse gli interessi degli Stati Uniti. Tuttavia la cosa non sta funzionando, e Biden si ritrova bloccato con uno scorpione sulla schiena.
Qualcuno pensa che ci sia una soluzione semplice: basta minacciare di interrompere il flusso di munizioni e di fondi diretto verso lo stato sionista. Sembra una cosa facile e rappresenterebbe una minaccia convincente, ma per arrivare a questo Biden dovrebbe mettersi a tu per tu con una lobby onnipotente e con gli appoggi su cui conta nel Congresso. Un confronto da cui non è probabile che uscirebbe vincitore perché il Congresso è solidamente schierato con lo stato sionista.
Qualcun altro pensa che una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU potrebbe imporre "un freno all'incubo di Gaza". Solo che nello stato sionista vige una lunga tradizione nell'ignorare risoluzioni del genere; fra il 1967 e il 1989 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato 131 risoluzioni direttamente rivolte al conflitto tra stato sionista e paesi arabi, la maggior parte delle quali ha avuto poca o nessuna efficacia. Il 15 novembre 2023 ne è stata approvata una che è un invito a stabilire tregue umanitarie. Gli USA si sono astenuti ed è più che probabile che la risoluzione verrà ignorata.
Un appello a livello mondiale per una soluzione basata su due Stati potrebbe forse avere un esito migliore? Finora non è stato così. Sì, in teoria il Consiglio di Sicurezza dell'ONU può imporre una risoluzione, ma il Congresso degli Stati Uniti darebbe di matto se lo facesse, e minaccerebbe di usare la forza contro chiunque tentasse di attuarla.
Tuttavia, a ben vedere, la retorica dei due Stati non coglie il punto: non è solo il mondo islamico a vedere la popolazione virare verso la rabbia, ma anche lo stato sionista. I cittadini dello stato sionista sono coinvolti e furibondi e a stragrande maggioranza approvano l'annientamento di Gaza.
La contestualizzazione in termini assolutamente manichei che Netanyahu fa della guerra di Gaza -luce contro oscurità, civiltà contro barbarie, Gaza come sede del Male, tutti gli abitanti complici del Male Hamas, palestinesi come non umani- tutto questo nello stato sionista riaccende gli spiriti e i ricordi di una ideologia da 1948.
E questo fenomeno non è limitato alla destra: il sentimento popolare nello stato sionista sta cambiando orientamento, passando da liberale e laico a biblico ed escatologico.
Il presidente del comitato esecutivo di B'Tselem Orly Noy ha scritto un articolo -Il pubblico dello stato sionista ha abbracciato la dottrina Smotrich- che sottolinea come l'interiorizzazione del "Piano decisivo" di Smotrich si manifesti nel sostegno popolare a una politica che per la popolazione di Gaza prevede l'emigrazione o l'annientamento.
Sei anni fa Bezalel Smotrich, allora giovane deputato alla Knesset al suo primo mandato, pubblicò quello che pensava su come porre termine al conflitto tra stato sionista e Palestina... Invece di andare avanti con l'illusione che sia possibile arrivare a un accordo politico, la questione deve essere risolta unilateralmente e in maniera definitiva. [La soluzione proposta da Smotrich era quella di offrire] "ai tre milioni di residenti palestinesi una scelta: rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in condizioni di inferiorità, oppure emigrare all'estero. Se invece sceglieranno di imbracciare le armi contro lo stato sionista, saranno considerati terroristi e l'esercito si metterà a "uccidere coloro che devono essere uccisi". Quando gli è stato chiesto, durante un incontro in cui presentava il suo piano a personalità del sionismo religioso, se intendeva uccidere anche le famiglie, le donne e i bambini, Smotrich ha risposto: "In guerra come alla guerra".
Orly Noy sostiene che questo modo di pensare non sia limitato all'esecutivo dominato dalla destra; pensa che sia diventato quello dominante. I media e il discorso politico nello stato sionista mostrano che quando si tratta dell'attacco a Gaza oggi in corso, ampi settori del pubblico hanno completamente interiorizzato la logica del pensiero di Smotrich.
Di fatto l'opinione pubblica nello stato sionista, per quanto riguarda una Gaza in cui le idee di Smotrich vengono messe in pratica con una crudeltà che forse nemmeno lui aveva previsto, si trova ora a essere ancora più estrema di quanto previsto nel suo piano. Questo perché in pratica lo stato sionista sta eliminando dall'agenda la prima possibilità, quella di un'esistenza de-palestinizzata e in condizioni di inferiorità, che fino al 7 ottobre era l'opzione scelta dalla maggior parte del pubblico.
Come conseguenza dell'adozione del pensiero di Smotrich da parte dell'opinione pubblica, lo stato sionista nel suo complesso sta sviluppando una allergia radicale all'esistenza di una qualsiasi forma di stato palestinese. Secondo Orly Noy l'opinione pubblica è arrivata al punto di considerare il rifiuto dei palestinesi di sottomettersi alla potenza militare sionista come una minaccia esistenziale di per sé e come una ragione sufficiente per cacciarli.

lunedì 20 novembre 2023

Oriana Fallaci all'Esselunga con le ossa dei Caprotti



Chi dedica un po' di tempo a confutare gli scritti di Oriana Fallaci, a deriderne gli estimatori e ad asserire briosamente l'esatto contrario di quanto in essi affermato non avrebbe all'apparenza molti motivi per interessarsi a un libro scritto da un ricco e che parla di una famiglia di ricchi lombardi diventati ancora più ricchi grazie ai loro bottegoni.
I motivi invece ci sono.
 Il ricco Bernardo Caprotti figurò nel 2007 come autore di un Falce e carrello in cui descriveva gli incommensurabili danni arrecati alla sua attività dai nemici bottegoni della Coop, considerati diretta filiazione del gulag secondo una narrazione che nella penisola italiana viene ripresa dalla propaganda politica ad ogni campagna elettorale con buona pace di qualsiasi realismo.
 Falce e carrello fu oggetto in Toscana di una diffusione meticolosa e succede ancora oggi di trovarlo a prendere polvere a casa di chi non ha alcuna dimestichezza con la lettura, proprio come i "libri" di Oriana Fallaci, diffusi più o meno negli stessi anni, più o meno ad opera degli stessi soggetti, più o meno con gli stessi obiettivi e più o meno con gli stessi sottintesi.
Nel caso specifico il sottinteso era che nessuno poteva azzardarsi a dissentire da quel ricco, a meno che non volesse vedersi moralmente chiamato in correità coi fuclatori di Katyn da parte di qualche ben vestito con libero accesso alle gazzette.
Di qui l'interesse per un libro in cui del ricco di cui sopra si parla in termini per nulla agiografici, e la relativa recensione.

sabato 18 novembre 2023

Alastair Crooke - L'elefante nella stanza. Le intenzioni di Netanyahu a Gaza


Traduzione da Strategic Culture, 13 novembre 2023.

Nella crisi di Gaza il dato essenziale è che tutti concordano nel mettere la testa sotto la sabbia e nell'ignorare l'elefante nella stanza, ed è abbastanza facile farlo. Si capisce compiutamente la portata di una grave crisi solo quando qualcuno si accorge dell'elefante e dice: "Attenzione, qui c'è un elefante in giro". La situazione oggi è questa, e l'Occidente sta lentamente cominciando a prenderne atto. Una cosa che affascina il resto del mondo e che gli fa cambiare atteggiamento.
Quale sarebbe l'elefante -o gli elefanti- nella stanza? Sarebbe il fatto che le ultime mosse diplomatiche di Blinken in Medio Oriente sono state un fallimento. Nessuno dei leader regionali da lui incontrati, oltre a chiedere fermamente che non avvenisse "alcun trasferimento di popolazione palestinese in Egitto", la "fine di questa follia" -il bombardamento a tappeto di Gaza- e un immediato cessate il fuoco ha voluto dire altro su Gaza. E gli appelli di Biden per una "pausa" - all'inizio calmi, adesso più insistenti- sono stati senza mezzi termini ignorati dal governo sionista. Lo spettro dell'impotenza del Presidente Carter ai tempi della crisi degli ostaggi in Iran incombe sempre più concretamente sullo sfondo.
In sostanza la Casa Bianca non può costringere lo stato sionista ad obbedire; la lobby sionista ha più presa sul Congresso di quanta ne abbia un qualsiasi esecutivo della Casa Bianca, di conseguenza non si intravede alcuna via di uscita dalla crisi. Biden ha voluto l'esecutivo Netanyahu, ora deve sopportarne le conseguenze.
Il Partito Democratico si frammenta dunque nell'impotenza, al di là della semplicistica divisione fra centristi e progressisti. La polarizzazione innescata dalla "posizione di non cessate il fuoco" sta avendo forti effetti destabilizzanti sulla politica sia negli Stati Uniti che in Europa.
Impotenza, quindi, mentre il Medio Oriente si consolida in un forte antagonismo nei confronti di quello che viene percepita come la condiscendenza occidentale verso un massacro di massa di donne, bambini e civili palestinesi. Le cose potrebbero essersi spinte anche troppo avanti perché il riassetto tettonico già in corso possa rallentare. A livello mondiale, i due pesi e le due misure in uso in Occidente sono ormai fin troppo evidenti.
L'elefante grosso è questo: lo stato sionista ha sganciato più di venticinquemila tonnellate di esplosivo dal 7 ottobre (la bomba di Hiroshima del 1945 era equivalente a quindicimila tonnellate). Qual è esattamente l'obiettivo di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra? In apparenza, la precedente operazione militare nel campo di Jabalia aveva come obiettivo un leader di Hamas sospettato di nascondersi sotto il campo, ma perché usare sei bombe da duemila libbre per un "obiettivo" di Hamas in un campo profughi affollato? E perché attaccare anche le cisterne per l'acqua, i pannelli fotovoltaici e gli ingressi degli ospedali, le strade, le scuole e i panifici?
Il pane a Gaza è quasi sparito. Le Nazioni Unite affermano che tutti i panettieri nel nord di Gaza sono stati chiusi in seguito al bombardamento dei forni rimasti. L'acqua pulita è disperatamente scarsa e migliaia di corpi si stanno lentamente decomponendo sotto le macerie. Stanno facendo la loro comparsa malattie ed epidemie, mentre le forniture umanitarie vengono concesse col contagocce, strumento di contrattazione per il rilascio di ulteriori ostaggi...
Il redattore di Haaretz Aluf Benn descrive con molta chiarezza la strategia dello stato sionista:
A Gaza l'espulsione dei residenti palestinesi, la trasformazione delle loro case in cumuli di calcinacci e la limitazione all'ingresso di rifornimenti e carburante sono la 'mossa decisiva' cui si fa ricorso nell'attuale conflitto, a differenza di tutte le precedenti occasioni in cui si è combattuto nella Striscia.
Di cosa stiamo parlando? Chiaramente non si tratta di evitare vittime collaterali tra i civili, quando l'esercito sionista combatte contro Hamas. Non ci sono stati scontri nelle strade di Jabalia, né all'interno e intorno agli ospedali. Come ha detto un soldato, "Tutto quello che abbiamo fatto è stato andare in giro con i nostri veicoli blindati. Gli interventi sul campo verranno più tardi". Quello della "evacuazione umanitaria" è dunque un falso pretesto.
Il grosso delle forze di Hamas è rimasto sottoterra, in attesa del momento giusto per attaccare l'esercito sionista quando si inoltrerà a piedi tra le macerie. Per ora i militari sionisti restano nei loro carri armati. Ma prima o poi dovranno affrontare Hamas sul terreno. Quindi, la lotta con Hamas è appena iniziata.
I soldati sionisti lamentano di riuscire "a malapena a intravedere" i combattenti di Hamas. Ebbene, questo è dovuto al fatto che per le strade non si fanno trovare, se non in numero di uno o due uomini che escono dai tunnel sotterranei per attaccare un ordigno esplosivo a un carro armato o per sparargli contro un razzo. I combattenti di Hamas tornano poi rapidamente nel tunnel da cui sono usciti. Alcuni tunnel sono costruiti solo per questo scopo, come strutture "usa e getta". Non appena il soldato incursore ritorna, il tunnel viene fatto crollare in modo che le forze sioniste non possano entrarvi o seguirlo. E nuovi tunnel dello stesso tipo vengono scavati in continuazione.
Non si troveranno combattenti di Hamas nemmeno negli ospedali civili di Gaza; il loro ospedale si trova nelle loro basi principali, collocate in profondità nel sottosuolo insieme a dormitori, magazzini contenenti rifornimenti per diversi mesi, armerie e attrezzature per scavare nuovi tunnel. E i quadri di Hamas non sono nel sottosuolo dei principali ospedali di Gaza.
Il corrispondente di Haaretz per le questioni di difesa Amos Harel scrive che lo stato sionista sta comprendendo solo adesso quanto siano sofisticate ed estese le strutture sotterranee di Hamas. Ammette anche che i vertici delle forze armate, a differenza degli ambienti governativi, "non stanno parlando di sradicare il seme di Amalek" [un riferimento biblico allo sterminio del popolo di Amalek], cioè di un genocidio. Poi osserva che anche i vertici delle forze armate non hanno certezze in merito a quale sia il loro obiettivo finale.
L'elefante nella stanza per gli abitanti del Medio Oriente -che assistono alla distruzione delle infrastrutture civili in superficie- è dunque: qual è con esattezza lo scopo di questa strage? Hamas è trincerato sotto terra. E l'esercito sionista rivendica molti successi, ma dove sono i corpi dei caduti? Noi non li vediamo. Le bombe quindi devono servire a costringere i civili ad andarsene, a una seconda Nakba.
Quale intento si cela dietro questa cacciata? Secondo Benn, è quello di diffondere la convinzione che non torneranno mai più a casa:
Anche se presto verrà dichiarato un cessate il fuoco su pressione statunitense, lo stato sionista non avrà fretta di ritirarsi e di permettere alla popolazione di tornare nel nord della Striscia. E se dovesse tornare, in cosa tornerebbe? Non vi troverà case, strade, scuole negozi... nulla che si possa considerare un elemento costitutivo di una città dei giorni d'oggi.
Si tratta di una punizione contro la popolazione civile di Gaza, frutto del desiderio di vendetta? O è lo sfogo di una rabbia e di una determinazione escatologiche? Nessuno può dirlo.
L'elefante nella stanza è questo. E dal rendersene conto dipende la questione se anche gli Stati Uniti resteranno macchiati da un crimine. Da questa presa di coscienza dipende la possibilità o meno di trovare un accomodamento diplomatico duraturo, se lo stato sionista sta davvero tornando a giustificare la propria esistenza ricorrendo alle radici bibliche ed escatologiche.
È questo il problema che in futuro toccherà Biden come persona e l'Occidente nel suo complesso. Qualunque sia la tempistica che Biden aveva in mente, in mezzo alla crescente indignazione internazionale il tempo sta venendo meno con rapidità perché il conflitto tra stato sionista e Gaza è ora centrato principalmente sulla crisi umanitaria a Gaza e non più sull'attacco del 7 ottobre.
Può sembrare inverosimile eppure Gaza -con una superficie di soli trecentosessanta chilometri quadrati- sta determinando la geopolitica globale per tutti. Gaza è un lembo di terra da cui dipende in una certa misura anche il futuro.
"Non ci fermeremo", ha detto Netanyahu; "non ci sarà un cessate il fuoco". Mentre alla Casa Bianca una voce interna all'amministrazione ammette che
Stanno assistendo a un deragliamento e non possono farci nulla. Il disastro ferroviario è a Gaza, ma ad esplodere è il Medio Oriente. Sanno di non poter fermare i sionisti in quello che stanno facendo.
Il tempo sta per scadere. E questo è il rovescio della medaglia del paradosso dell'elefante. Ma quanto tempo c'è prima che il tempo finisca? Questa è una domanda irrilevante.
Questo rovescio della medaglia sembra aver causato confusione in Occidente e anche nello stato sionista. Il discorso di domenica 11 novembre di Seyyed Nasrallah ha smorzato il rischio di un allargamento della guerra al di là dello stato sionista, e quindi ha comportato il fatto che ci potrebbe essere più tempo per i tentativi della Casa Bianca di gettare acqua sul fuoco? Oppure ha inviato un messaggio diverso?
Per lo meno ha dato una risposta alla domanda se la terza guerra mondiale stesse per scoppiare. Nasrallah è stato chiaro: nessun membro del Fronte di resistenza unito vuole una guerra regionale totale. Tuttavia, Nasrallah ha sottolineato che "tutte le opzioni rimangono sul tavolo", a seconda di quali saranno le future mosse degli Stati Uniti e dello stato sionista.
Per una piena comprensione di quanto detto da Nasrallah occorre fare caso al contesto specifico. In questa occasione -caso unico- il suo discorso è riflesso di quella che deve essere stata un'ampia consultazione tra tutti i "fronti" dell'asse della resistenza. La forma finale del suo discorso, in altre parole, è stata il risultato di molteplici consultazioni e contributi. Esso non rifletteva quindi la mera posizione di Hezbollah. Per questo motivo è possibile concludere che esiste consenso su una posizione contraria allo scatenare una guerra regionale totale.
Il discorso -basato su contributi eterogenei- era molto ricco di sfumature, il che potrebbe spiegare il perché ne siano state date interpretazioni errate. Come al solito i media erano interessati soltanto all'affermazione fondamentale. Così, "Hezbollah non ha dichiarato guerra" è diventata la pappa pronta facile e veloce da servire.
Il primo punto essenziale del discorso di Seyyed Nasrallah, tuttavia, è che egli ha effettivamente reso Hezbollah il "garante" della sopravvivenza di Hamas, nello specifico identificando Hamas per nome piuttosto che riferendosi alla "resistenza" come entità generica.
Hezbollah si limita quindi per il momento a operazioni (non meglio definite) di limitata portata nelle regioni di confine in Libano, fino a quando la sopravvivenza di Hamas non sarà a rischio. Il Partito ha promesso tuttavia che interverrà direttamente in qualche modo se la sopravvivenza di Hamas dovesse essere minacciata.
Il imite invalicabile che preoccupa la Casa Bianca è questo. Chiaramente l'obiettivo di Netanyahu di estirpare Hamas è in esplicito contrasto con esso, e rischia di portare alla diretta entrata in guerra di Hezbollah. Tuttavia il mutamento strategico sotteso da questa dichiarazione politica fondamentale, emessa a nome dell'intero Asse della resistenza, è il fatto che a diventare l'elemento essenziale di tutti i mali del Medio Oriente è la politica estera statunitense.
Lo stato sionista non viene additato come responsabile della crisi in atto; anzi, esso viene declassato da Nasrallah da attore indipendente a nulla più che un protettorato militare statunitense come altri. In parole povere, Seyyed Nasrallah ha sfidato direttamente non solo l'occupazione della Palestina, ma anche gli Stati Uniti, considerati i principali colpevoli di quanto ha afflitto la regione: dal Libano alla Siria, dall'Iraq alla Palestina. Per certi versi in questo senso Nasrallah ha riecheggiato l'avvertimento del Presidente Putin a Monaco nel 2007, rivolto a un Occidente che stava per ammassare forze della NATO ai confini della Russia. La risposta di Putin all'epoca fu: "Sfida accettata".
Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno inviato ingenti forze navali in tutta la regione per "dissuadere Hezbollah e l'Iran", ma quest'ultimo ha rifiutato di essere dissuaso. Riferendosi alle navi da guerra statunitensi, Nasrallah ha detto: "Abbiamo preparato qualcosa per loro". E nel corso della settimana successiva il Partito ha svelato di possedere missili antinave.
Il punto fondamentale è che uno schieramento coeso di stati e di organizzazioni armate segnala che è in atto una sfida di più ampia portata all'egemonia statunitense. In effetti, anch'esso sta dicendo: "Sfida accettata". La richiesta è chiara: fermare le stragi di civili, fermare i bombardamenti e arrivare a un cessate il fuoco. Niente espulsioni, niente nuova Nakba. In termini specifici, gli Stati Uniti sono stati avvertiti che devono "aspettarsi qualcosa di doloroso" se l'attacco a Gaza non verrà fermato rapidamente. Quanto tempo rimane per arrivare a fermare le armi, sempre che sia possibile? Sulla tempistica non esistono dettagli.
E cosa si intende per "qualcosa di doloroso"? Non è chiaro. Ma guardiamoci intorno: gli Houthi inviano ondate di missili da crociera diretti contro lo stato sionista; alcuni non riescono a raggiungerlo e vengono abbattuti, ma quanti siano non si sa. Le basi statunitensi in Iraq sono regolarmente -in pratica ogni giorno- sotto attacco; molti soldati statunitensi sono stati feriti. E Hezbollah e lo stato sionista si stanno confrontando in ostilità per ora limitate, ai due lati del confine libanese.
Non si tratta di una guerra totale, ma se gli attacchi dello stato sionista contro Gaza continueranno nelle prossime settimane dovremo aspettarci una escalation controllata su diversi fronti. Una escalation che ovviamente a questo controllo rischia di sfuggire.