martedì 21 novembre 2023

Alastair Crooke - Lo scorpione Netanyahu pungerà la rana statunitense?


Traduzione da Strategic Culture, 20 novembre 2023.


Dunque, c'è uno scorpione che ha bisogno che una rana gli dia un passaggio sulla schiena per attraversare un fiume gonfio d'acqua. La rana non si fida dello scorpione, ma sia pure di malavoglia acconsente. Mentre attraversano lo scorpione fatalmente la punge, e finiscono col morire tutti e due.
Questo antico racconto serve a mostrare quale sia l'essenza di una tragedia. Nella tragedia greca la crisi che è al cuore di ogni narrazione tragica non nasce dal puro caso. Nella letteratura greca l'idea è che in una tragedia qualcosa succede perché deve succedere, perché è nella natura dei protagonisti, perché sono gli attori coinvolti a farlo succedere. E non hanno altra scelta, perché quella è la loro natura.
La storia è stata raccontata da un ex diplomatico sionista di alto livello, molto esperto di politica statunitense.
Nella sua versione della favoletta della rana ci sono i leader sionisti che stanno cercando di respingere disperatamente la responsabilità per la disfatta del 7 ottobre: l'esecutivo sta cercando alacremente di presentare la crisi non come un disastro con dei colpevoli, ma come un'opportunità dalla portata epica, e come tale di presentarla al pubblico.
La chimerica eventualità che si vuole presentare rimanda all'ideologia sionista dei primi tempi. Lo stato sionista può far diventare il disastro di Gaza, secondo quanto detto dal ministro delle finanze Smotrich, l'occasione per risolvere definitivamente e unilateralmente la contraddizione intrinseca alle aspirazioni ebraiche e a quelle palestinesi, mettendo fine all'illusione che siano possibili un compromesso, una riconciliazione o una spartizione di un qualche genere.
E questo può rappresentare la puntura dello scorpione. L'esecutivo sionista scommette tutto su una strategia irta di rischi, su una nuova Nakba che potrebbe trascinare lo stato sionista in un conflitto di vaste proporizioni, ma al tempo stesso butta anche a mare quanto resta del prestigio dell'Occidente.
Ovviamente, come rimarca l'ex diplomatico sionista, questo piano riflette essenzialmente le ambizioni personali di un Netanyahu che sta manovrando per mettere a tacere le critiche e per restare al potere il più a lungo possibile. Soprattutto, egli spera che questo gli permetterà di diluire il biasimo, allontanando dalla sua persona ogni responsabilità e ogni colpevolezza. Meglio ancora, "questo può collocare Gaza in un contesto epico e storico, può farne un evento che potrebbe trasformare lui Primo Ministro nel condottiero di una guerra di fondazione all'insegna della grandezza e della gloria".
Una cosa inverosimile? Non è detto.
Netanyahu starà anche dibattendosi per sopravvivere politicamente, ma è capace di crederci davvero.
Nel suo libro Going to the Wars, lo storico Max Hastings scrive che negli anni '70 Netanyahu gli disse: "Nella prossima guerra, se saremo bravi, avremo la possibilità di estromettere tutti gli arabi... Potremo liberare la Cisgiordania, sistemare Gerusalemme".
A cosa pensa il governo sionista quando pensa alla "prossima guerra"? Pensa a Hezbollah. Come ha detto di recente un ministro, "dopo Hamas, ci occuperemo di Hezbollah".
Secondo l'ex diplomatico sionista è proprio questa concomitanza di una lunga guerra a Gaza (secondo le linee stabilite nel 2006) e di una leadership che sembra proprio intenzionata a provocare Hezbollah perché si verifichi una escalation a far suonare l'allarme alla Casa Bianca.
Nella guerra del 2006 con Hezbollah, l'intero sobborgo urbano di Beirut chiamato Dahiya venne raso al suolo. Il generale Eizenkot (che ha comandato le forze dello stato sionista durante quella guerra ed è ora membro del "gabinetto di guerra" di Netanyahu) ha dichiarato nel 2008: "Quello che è successo nel quartiere Dahiya di Beirut nel 2006 accadrà in ogni villaggio da cui si spara contro lo stato sionista... Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi civili, sono basi militari... Questa non è una raccomandazione. È un piano. Ed è stato approvato". Ecco il perché di quanto sta accadendo a Gaza.
Non è probabile che il gabinetto di guerra voglia provocare un'invasione su larga scala dello stato sionista da parte di Hezbollah, cosa che rappresenterebbe una minaccia esistenziale; ma Netanyahu e il gabinetto potrebbero desiderare che lo scambio di colpi in essere al confine settentrionale si intensifichi fino al punto in cui gli Stati Uniti si sentano costretti a far piovere qualche colpo di avvertimento sulle infrastrutture militari di Hezbollah.
Le forze armate sioniste già colpiscono i civili quaranta chilometri oltre la frontiera libanese: la scorsa settimana un missile sionista ha incenerito l'auto su cui viaggiavano nonna e tre nipoti. Le preoccupazioni degli USA in merito a una escalation sono fondate.
È questo che preoccupa la Casa Bianca, dice il diplomatico. L'Iran conferma di aver ricevuto non meno di tre messaggi statunitensi in un giorno solo, in cui si faceva sapere a Tehran che gli Stati Uniti non vogliono una guerra con l'Iran. E un inviato statunitense, Amos Hochstein, ha girato tutta Beirut ripetendo che Hezbollah non deve alzare il livello dello scontro in risposta agli attacchi oltre frontiera da parte dello stato sionista.
La riluttanza di Netanyahu a esprimere una qualsiasi idea sul futuro di Gaza e i rilevanti e minacciosi sviluppi verso una escalation in Libano stanno creando una spaccatura tra la politica statunitense e quella dello stato sionista, al punto che alcune personalità dell'amministrazione Biden e nel Congresso stanno iniziando a pensare che Netanyahu stia cercando di trascinare gli USA in una guerra con l'Iran".
"Netanyahu non è interessato a un secondo fronte a nord con Hezbollah", ha dichiarato l'ex funzionario, aggiungendo però che "[Alla Casa Bianca] credono che un attacco statunitense successivo alle provocazioni dell'Iran potrebbe trasformare l'abissale débacle di Netanyahu in una sorta di trionfo strategico".
"Questa è la stessa logica contorta che lo ha guidato quando ha incoraggiato la sua anima gemella, l'allora presidente Donald Trump, a ritirarsi unilateralmente dall'accordo sul nucleare iraniano nel maggio 2018. La stessa logica era alla base della sua audizione al Congresso nel 2002, in cui incoraggiò gli USA a invadere l'Iraq, perché questo avrebbe 'stabilizzato la regione' e 'prodotto ripercussioni' sull'Iran.
I timori degli USA vanno all'essenza della tragedia, al fatto che essa "deve accadere": la rana ha accettato con molta riluttanza di portare lo scorpione oltre il passaggio del fiume, ma vuole essere rassicurata sul fatto che lo scorpione, data la sua natura, non punga il proprio benefattore.
Proprio allo stesso modo l'esecutivo di Biden non si fida di Netanyahu. Non vuole essere punto, cioè non vuole essere trascinato nel pantano di una guerra con l'Iran.
Il colpo di pungiglione ha tutti i crismi dell concretezza: Il governo Netanyahu sta gradualmente e deliberatamente preparando il terreno per intrappolare l'amministrazione Biden, manovrando in modo che Washington abbia poca altra scelta se non quella di unirsi allo stato sionista, se la guerra dovesse allargarsi.
Come in tutte le tragedie classiche, l'epilogo si verifica perché sono gli attori coinvolti a farlo succedere; non hanno altra scelta che farlo accadere, perché questa è la loro natura. "Non solo il premier dello stato sionista respinge qualsiasi idea o richiesta proveniente da Washington; Netanyahu vuole esplicitamente che la guerra di Gaza vada avanti all'infinito senza alcun corollario politico", racconta l'ex funzionario.
Si consideri anche il fatto che Jake Sullivan ha definito esplicitamente le indicazioni degli Stati Uniti: nessuna rioccupazione di Gaza, nessun trasferimento della popolazione, nessuna riduzione del suo territorio, nessuna disconnessione politica con le autorità della Cisgiordania, nessun processo decisionale alternativo se non quello palestinese e nessun ritorno allo status quo ante.
Netanyahu ha rifiutato in blocco tutte queste indicazioni con una sola frase: lo stato sionista -ha detto- avrebbe supervisionato e mantenuto "la responsabilità generale della sicurezza" a Gaza per un periodo di tempo indefinito. In un colpo solo ha buttato all'aria la conclusione suggerita dagli Stati Uniti, lasciandola penzolare al freddo di un sentimento globale e di una opinione pubblica interna sempre più indifferente, mentre la sabbia nella clessidra sta finendo.
È evidente quale sia l'esito finale cui punta Smotrich: Netanyahu sta costruendo sostegno popolare sul piano interno verso un nuovo silenzioso ultimatum per Gaza: "emigrazione o annientamento". Questo è anatema per il governo Biden: decenni di diplomazia statunitense in Medio Oriente finiti giù per il tubo di scarico.
Washington osserva con crescente disagio l'"escalation militare orizzontale" nella regione e si chiede se lo stato sionista sopravviverà a questo cappio sempre più stretto. Tuttavia il tempo e i mezzi su cui gli Stati Uniti possono contare per mettere un freno allo stato sionista sono limitati.
L'immediato sostegno che Biden ha concesso allo stato sionista sta creando scompiglio in patria e comporta un prezzo politico che, a un anno dalle elezioni, ha delle conseguenze. Forse era nella natura di Biden credere di poter abbracciare lo stato sionista perché rispettasse gli interessi degli Stati Uniti. Tuttavia la cosa non sta funzionando, e Biden si ritrova bloccato con uno scorpione sulla schiena.
Qualcuno pensa che ci sia una soluzione semplice: basta minacciare di interrompere il flusso di munizioni e di fondi diretto verso lo stato sionista. Sembra una cosa facile e rappresenterebbe una minaccia convincente, ma per arrivare a questo Biden dovrebbe mettersi a tu per tu con una lobby onnipotente e con gli appoggi su cui conta nel Congresso. Un confronto da cui non è probabile che uscirebbe vincitore perché il Congresso è solidamente schierato con lo stato sionista.
Qualcun altro pensa che una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU potrebbe imporre "un freno all'incubo di Gaza". Solo che nello stato sionista vige una lunga tradizione nell'ignorare risoluzioni del genere; fra il 1967 e il 1989 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato 131 risoluzioni direttamente rivolte al conflitto tra stato sionista e paesi arabi, la maggior parte delle quali ha avuto poca o nessuna efficacia. Il 15 novembre 2023 ne è stata approvata una che è un invito a stabilire tregue umanitarie. Gli USA si sono astenuti ed è più che probabile che la risoluzione verrà ignorata.
Un appello a livello mondiale per una soluzione basata su due Stati potrebbe forse avere un esito migliore? Finora non è stato così. Sì, in teoria il Consiglio di Sicurezza dell'ONU può imporre una risoluzione, ma il Congresso degli Stati Uniti darebbe di matto se lo facesse, e minaccerebbe di usare la forza contro chiunque tentasse di attuarla.
Tuttavia, a ben vedere, la retorica dei due Stati non coglie il punto: non è solo il mondo islamico a vedere la popolazione virare verso la rabbia, ma anche lo stato sionista. I cittadini dello stato sionista sono coinvolti e furibondi e a stragrande maggioranza approvano l'annientamento di Gaza.
La contestualizzazione in termini assolutamente manichei che Netanyahu fa della guerra di Gaza -luce contro oscurità, civiltà contro barbarie, Gaza come sede del Male, tutti gli abitanti complici del Male Hamas, palestinesi come non umani- tutto questo nello stato sionista riaccende gli spiriti e i ricordi di una ideologia da 1948.
E questo fenomeno non è limitato alla destra: il sentimento popolare nello stato sionista sta cambiando orientamento, passando da liberale e laico a biblico ed escatologico.
Il presidente del comitato esecutivo di B'Tselem Orly Noy ha scritto un articolo -Il pubblico dello stato sionista ha abbracciato la dottrina Smotrich- che sottolinea come l'interiorizzazione del "Piano decisivo" di Smotrich si manifesti nel sostegno popolare a una politica che per la popolazione di Gaza prevede l'emigrazione o l'annientamento.
Sei anni fa Bezalel Smotrich, allora giovane deputato alla Knesset al suo primo mandato, pubblicò quello che pensava su come porre termine al conflitto tra stato sionista e Palestina... Invece di andare avanti con l'illusione che sia possibile arrivare a un accordo politico, la questione deve essere risolta unilateralmente e in maniera definitiva. [La soluzione proposta da Smotrich era quella di offrire] "ai tre milioni di residenti palestinesi una scelta: rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in condizioni di inferiorità, oppure emigrare all'estero. Se invece sceglieranno di imbracciare le armi contro lo stato sionista, saranno considerati terroristi e l'esercito si metterà a "uccidere coloro che devono essere uccisi". Quando gli è stato chiesto, durante un incontro in cui presentava il suo piano a personalità del sionismo religioso, se intendeva uccidere anche le famiglie, le donne e i bambini, Smotrich ha risposto: "In guerra come alla guerra".
Orly Noy sostiene che questo modo di pensare non sia limitato all'esecutivo dominato dalla destra; pensa che sia diventato quello dominante. I media e il discorso politico nello stato sionista mostrano che quando si tratta dell'attacco a Gaza oggi in corso, ampi settori del pubblico hanno completamente interiorizzato la logica del pensiero di Smotrich.
Di fatto l'opinione pubblica nello stato sionista, per quanto riguarda una Gaza in cui le idee di Smotrich vengono messe in pratica con una crudeltà che forse nemmeno lui aveva previsto, si trova ora a essere ancora più estrema di quanto previsto nel suo piano. Questo perché in pratica lo stato sionista sta eliminando dall'agenda la prima possibilità, quella di un'esistenza de-palestinizzata e in condizioni di inferiorità, che fino al 7 ottobre era l'opzione scelta dalla maggior parte del pubblico.
Come conseguenza dell'adozione del pensiero di Smotrich da parte dell'opinione pubblica, lo stato sionista nel suo complesso sta sviluppando una allergia radicale all'esistenza di una qualsiasi forma di stato palestinese. Secondo Orly Noy l'opinione pubblica è arrivata al punto di considerare il rifiuto dei palestinesi di sottomettersi alla potenza militare sionista come una minaccia esistenziale di per sé e come una ragione sufficiente per cacciarli.

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