martedì 26 marzo 2024

Alastair Crooke - L'Unione Europea, un pallone sgonfio nella geopolitica. Il gioco psicologico di Macron per tenerla in piedi

 


Traduzione da Strategic Culture, 24 marzo 2024.

Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha invitato l'Europa a passare a una "economia di guerra". Egli giustifica questa richiesta con l'immediato sostegno da fornire all'Ucraina, ma soprattutto come la necessità di rilanciare l'economia europea, che si è arenata, concentrandosi sull'industria della difesa.
Gli appelli risuonano in tutta Europa: "Siamo in un'epoca prebellica", afferma il premier polacco Donald Tusk. Macron, dopo aver più volte ventilato l'ipotesi in modo ambiguo, afferma: "Forse a un certo punto -non che io lo voglia- dovremo procedere con operazioni sul terreno per contrastare le forze russe [ovvero all'invio di truppe francesi in Ucraina]".
Cosa ha spaventato così tanto gli europei? Sappiamo che il briefing dei servizi segreti francesi di cui Macron è stato messo al corrente nei giorni scorsi è stato disastroso; sembra che lo abbia spinto a fare un primo passo verso un intervento militare diretto della Francia in Ucraina. I servizi segreti francesi hanno avvertito che il crollo del fronte e la disintegrazione delle forze armate ucraine come forza militare efficiente potrebbero essere imminenti.
Macron ha giocato d'astuzia: potrebbe inviare truppe? In un primo momento sembrava proprio di sì. Poi questa eventualità si è fatta incerta in modo frustrante, pur rimanendo forse sul tavolo. C'è stato un momento di assoluta confusione. Nessuno sapeva nulla di sicuro perché il Presidente è una persona volubile e il generale De Gaulle ha lasciato in eredità ai suoi successori poteri quasi regali. Quindi sì, dal punto di vista costituzionale Macron poteva farlo.
L'opinione generale in Europa era che Macron stesse facendo giochi mentali complicati, in primo luogo con il popolo francese e in secondo luogo con la Russia. Tuttavia, sembra che la sverzata di Macron possa avere una certa concretezza: Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito francese ha dichiarato di avere ventimila uomini pronti ad essere schierati in trenta giorni. E il capo dell'agenzia di intelligence russa SVR Naryshkin ha stimato, più modestamente, che la Francia sembra si stia preparando a inviare in Ucraina un contingente che dapprincipio sarà di circa duemila uomini.
Occorre essere chiari su una cosa. Anche una divisione di ventimila uomini secondo gli standard della teoria militare classica dovrebbe essere in grado di tenere al massimo un fronte di dieci chilometri. L'arrivo di duemila o di ventimila ventimila soldati francesi non cambierebbe nulla dal punto di vista strategico; non fermerebbe il rullo compressore russo, molto più massiccio, che avanza verso ovest. A che gioco sta giocando Macron?
È tutto un bluff, forse?
Probabilmente Macron sta facendo la voce grossa perché intende presentarsi come l'uomo forte dell'Europa, specie agli occhi del suo elettorato francese.v Il suo atteggiamento si inserisce tuttavia in una congiunzione di eventi che per quella che potremmo definire la Unione Europea in geopolitica è più significativa.
Siamo espliciti: è stata fatta chiarezza, sono state fugate le ombre da uno spazio che fino a ora ne abbondava. Dopo la schiacciante vittoria di Putin alle elezioni, con un'affluenza record, è ormai chiaro che il Presidente Putin è al suo posto e che vi rimarrà. Tutte le ambiguità occidentali sul rovesciamento del governo a Mosca hanno rivelato la loro inconsistenza alla luce degli eventi.
Da alcune parti in Europa si sente sbuffare dalla rabbia. Ma smetteranno. Non c'è altra scelta. La realtà, come scrive il quotidiano Marianne citando un alto ufficiale francese che si esprimeva in termini derisori circa l'atteggiamento di Macron in Ucraina, è che "non dobbiamo commettere errori, davanti ai russi; siamo un esercito di cheerleader"; l'invio di truppe francesi sul fronte ucraino sarebbe "non ragionevole", semplicemente.
All'Eliseo, un consigliere rimasto anonimo ha sostenuto che Macron "voleva mandare un segnale forte... (con) espressioni calibrate al millimetro".
Ciò che più addolora i sempre speranzosi neocon dell'Unione Europea è che la netta vittoria elettorale di Putin coincide quasi perfettamente con una débacle dell'Unione Europea (e della NATO) in Ucraina. Non c'è solo l'implosione a cascata delle forze armate ucraine; c'è il fatto che la ritirata sta accelerando, e che l'Ucraina sta cercando di ritirarsi su un terreno inadatto e quasi indifendibile.
Una prospettiva cupa, per l'Unione Europea, in cui arriva un secondo elemento chiarificatore. Gli Stati Uniti stanno lentamente ma inesorabilmente voltando le spalle a Kiev in termini di armi e di finanziamenti, lasciando l'impotenza Europa allo sguardo di tutto il mondo.
L'Unione Europea non può sostituire l'appoggio degli Stati Uniti. Ma la cosa più dolorosa per certuni è che il ritiro degli Stati Uniti rappresenta un pugno nello stomaco per gran parte della leadership di Bruxelles, che si era gettata ai piedi dell'amministrazione Biden con una gioia quasi indecente, al momento dell'avvicendamento a Trump. Avevano sfruttato il momento per proclamare il consolidamento di una Unione Europea filoatlantica e favorevole alla NATO.
Ora, come scrive centrando perfettamente il punto l'ex diplomatico indiano MK Bhadrakumar, "la Francia [è] in gran montura, ma senza un posto dove andare a servirsene":
Sin dalla sua ignominiosa sconfitta nelle guerre napoleoniche, la Francia è intrappolata nella situazione dei Paesi che si trovano schiacciati tra le grandi potenze. Dopo la seconda guerra mondiale la Francia ha cercato di arginare questa situazione creando un asse con la Germania in Europa.
La Gran Bretagna si è adattata a un ruolo di potenza subalterna, mettendosi a livello mondiale in scia con il potere statunitense. La Francia invece non ha mai rinunciato a riconquistare la gloria di potenza globale. E continua a impegnarsi in questo senso.
L'angoscia dei francesi è comprensibile, poiché i cinque secoli di dominio occidentale nell'ordine mondiale stanno per finire. Questa situazione condanna la Francia a una condizione diplomatica che si presenta costantemente in uno stato di animazione sospesa, intervallata da improvvisi attacchi di attivismo.
I problemi, per le esaltate aspirazioni dell'Unione Europea come potenza globale, sono tre. In primo luogo, l'asse franco-tedesco si è dissolto, in quanto la Germania si è orientata verso gli Stati Uniti come nuova fonte di dogmatismo in politica estera. In secondo luogo, il peso della Francia è ulteriormente diminuito negli affari europei dopo che Scholtz ha abbracciato la Polonia (e non la Francia) come proprio paese privilegiato. In terzo luogo, le relazioni personali di Macron con il Cancelliere Scholz sono ai livelli minimi.
L'altro problema per il progetto geopolitico dell'Unione Europea è che aderire alle guerre finanziarie di Washington contro la Russia e la Cina ha fatto sì che "negli ultimi 15 anni gli Stati Uniti abbiano superato largamente l'Unione Europea e il Regno Unito messi insieme". Nel 2008, l'economia dell'Unione Europea era un po' più grande di quella statunitense... Oggi l'economia statunitense è più grande di quasi un terzo. [Ed] è più grande del 50% di quella dell'Unione Europea se non si considera il Regno Unito".
In altre parole, essere alleata degli USA nella loro scellerata guerra per procura in Ucraina è costato -e sta costando- caro all'Europa. Eurointelligence riferisce che un sondaggio condotto tra le piccole e medie imprese tedesche ha rilevato un radicale riorientamento sfavorevole all'Unione Europea. Su un campione di mille piccole e medie imprese, il 90% si è dichiarato in varia misura insoddisfatto dell'Unione Europea, cosa che sta spingendo molte di esse a trasferirsi dall'Europa agli Stati Uniti.
In parole povere, gli sforzi per costruire e per tenere in piedi l'idea di una "Europa geopolitica" stanno finendo in una disfatta. Il tenore di vita si sta abbassando e la promiscuità normativa di Bruxelles e gli alti costi energetici stanno portando alla deindustrializzazione e all'impoverimento dell'Europa.
In un'intervista concessa alla fine del 2019 alla rivista The Economist, Macron ha dichiarato che l'Europa si trovava "sull'orlo di un precipizio" e che doveva iniziare a pensare a se stessa come a una potenza geopolitica, per evitare di "non avere più il controllo del proprio destino". L'osservazione di Macron precede di 3 anni la guerra in Ucraina. Oggi, i timori di Macron sono realtà.
Passiamo adesso alle iniziative che l'Unione Europea intende prendere per far fronte a questa crisi. Il Presidente del Consiglio europeo Michel dice di voler raddoppiare gli acquisti di armi da produttori europei entro il 2030; di voler utilizzare i profitti dei beni russi congelati per finanziare l'acquisto di armi per l'Ucraina; di facilitare l'accesso alle risorse finanziarie per l'industria europea della difesa, anche emettendo un'obbligazione europea per la difesa e facendo in modo che la Banca europea per gli investimenti aggiunga gli scopi di difesa ai criteri con cui concede prestiti.
Michel vende tutto questo all'opinione pubblica come un modo per creare posti di lavoro e crescita. In realtà, però, l'UE sta cercando di creare un nuovo fondo cassa per sostituire gli acquisti di titoli sovrani degli Stati dell'UE da parte della BCE, un comportamento che l'impennata dei tassi d'interesse negli Stati Uniti ha di fatto eliminato.
Chiamare in causa l'industria della difesa è un mezzo per creare ulteriori flussi di cassa. Le varie "transizioni" ipotizzate dall'Unione Europea ( la transizione climatica, quella ecologia e quella tecnologica) richiedevano chiaramente mastodontiche emissioni di denaro. Una cosa a malapena gestibile quando i progetti potevano essere finanziati a tassi di interesse zero.
Ora l'esplosione del debito degli Stati dell'Unione Europea per le spese connesse alla pandemia e alle varie transizioni minaccia di portare l'intera "rivoluzione" geopolitica alla crisi finanziaria. Una crisi finanziaria che è effettivamente in corso.
La questione della difesa, spera Michael, può essere ammannita al pubblico come una nuova "transizione" da finanziare con mezzi non ortodossi. Wolfgang Münchau di EuroIntellignce, tuttavia, scrive delle "rosee prospettive dell'economia di guerra di Michel" - che vuole un'Europa geopolitica, e conclude la sua lettera con il noto adagio della guerra fredda per cui "se vuoi la pace devi prepararti alla guerra".
Le armi dell'economia di guerra di Michel sono lì a parlare al posto dei nostri fallimenti diplomatici? Qual è il nostro contributo storico a questo conflitto? Non dovremmo forse partire da questo? Il linguaggio usato da Michel è drammatico e pericoloso. Alcuni dei nostri cittadini più anziani ricordano ancora cosa significa vivere in un'economia di guerra. Il linguaggio disinvolto di Michel è irrispettoso.
Eurointelligence non è una voce critica isolata. La mossa di Macron ha diviso l'Europa, con una maggioranza fermamente contraria all'invio di truppe in Ucraina, cosa che comporterebbe una camminata da sonnambuli verso la guerra. Natacha Polony, redattrice di Marianne, ha scritto:
Non si tratta più di Emmanuel Macron o dei suoi atteggiamenti da capetto virile. Non si tratta più nemmeno della Francia o del suo indebolimento a causa di élite cieche e irresponsabili. Si tratta di sapere se accetteremo generalmente di camminare come sonnambuli verso la guerra. Una guerra di cui nessuno può dire che sarà controllata o limitata. Si tratta di capire se accetteremo di mandare i nostri figli a morire perché gli Stati Uniti hanno insistito per installare basi ai confini della Russia.
La questione più grande riguarda l'intera strategia geopolitica della Von der Leyen e di Macron", secondo cui l'Unione Europea deve pensare a se stessa come a una potenza geopolitica. È il perseguimento di questa chimera geopoliticam che è in gran parte un progetto egoistico, ad aver paradossalmente portato l'Unione Europea proprio sull'orlo della crisi.
La maggioranza degli europei desidera davvero essere una potenza geopolitica, se questo impone la cessione di ciò che resta della sovranità e dell'autonomia nazionale (e della supervisione parlamentare) al piano sovranazionale, ai tecnocrati di Bruxelles? Forse gli europei sono contenti che l'Unione Europea rimanga un blocco commerciale.
Allora perché Macron sta facendo tutto questo? Nessuno lo sa con certezza, ma il presidente francese sembra convinto di giocare con Mosca una complicata partita di psicodeterrenza, caratterizzata da una profonda ambiguità. In altre parole, la sua è solo un'altra operazione di guerra psicologica.
È possibile, tuttavia, che egli pensi che la sua ambigua e ondivaga minaccia di un dispiegamento europeo in Ucraina possa dare a Kiev un'arma negoziale sufficiente a convincere la Russia ad accettare che la "nuova Ucraina" rimanga nella sfera occidentale e persino nella NATO. In questo caso Macron affermerà di essere stato il "salvatore" dell'Ucraina.
Se così fosse, si tratterebbe di un'illusione. Il Presidente Putin, forte della sua recente vittoria elettorale, ha spazzato tranquillamente via l'offensiva psicologica di Macron: "La truppe francesi, in qualsiasi modo dispiegate, verrebbero considerate degli invasori e degli obiettivi legittimi per le nostre armi", ha chiarito Putin.

sabato 23 marzo 2024

Michael Lupino in arte "Welcome to Florence": insicurezza e degrado a Firenze

 

Nelle notti d'inverno fa freddo.
In quella del 16 gennaio 2024 a Firenze le persone serie -operatori sociosanitari, tecnici informatici, traduttori, portalettere, impiegati amministrativi- erano in buon numero a dormire perché la mattina dopo c'era da lavorare.
Le gazzette fiorentine del 23 marzo 2024 invece ci raccontano la storia del giovane Michael Lupino e di come l'ha passata lui, la notte del 16 gennaio.
Per questo genere di cose le gazzette attingono per lo più a documenti forniti ogni giorno dalla gendarmeria, ed è difficile che questo caso costituisca un'eccezione. Quella notte Michael (ancorché Lupino) si è fatto notare (qui su Archive) davanti a una balera con mescita di cui la gendarmeria si è occupata varie volte, e non sempre per segnalarne i frequentatori per una onorificenza al valore civile. Nel mezzo di un concitato scambio di vedute, a Michael (pur Lupino) sarebbe uscito di bocca anche un "lei non sa chi sono io", come nelle barzellette.
Tempo dopo e con tutta calma la gendarmeria avrebbe rilevato che Michael Lupino "non risulta svolgere alcuna attività lavorativa" e che in passato è stato "reiteratamente deferito all'autorità giudiziaria per resistenza e oltraggio, furto, ricettazione, lesioni personali, detenzione ai fini di spaccio". Sarebbe stato anche sanzionato per "uso personale di sostanze stupefacenti nonché per violazione delle misure anti-Covid", e il capo della gendarmeria a Firenze lo considera animato da "una totale mancanza di regole" e da una "spiccata pericolosità sociale".
Michael deve davvero tenerci, a fare le cose per bene.
E ci tiene anche la gendarmeria. Che non solo lo ha oberato di stramulte, ma lo ha anche invitato a non farsi vedere in giro per Firenze per quattro anni. Secondo loro quello che ha da fare (cioè nulla) può benissimo andare a farlo da un'altra parte.
Fin qui i fatti.
Di per sé nulla che farebbe venire voglia di infierire; ogni giorno il gazzettificio lorda il mondo con centinaia di episodi del genere.
Solo che Michael Lupino non è un Lupino qualsiasi.
E nemmeno un Michael qualunque.
Michael Lupino "gestisce la pagina social".
Oh, quella notte di gennaio ci ha insistito molto, su questo.
Giù la testa, inchiniamoci.
Al momento in cui scriviamo esiste effettivamente sul Libro dei Ceffi una autoschedatura a nome di un "Michael Lupino" di Firenze. Non viene aggiornata da anni e presenta contenuti perfettamente in linea con le res gestae fin qui ricordate e con la sostanziale pochezza di chi decide di mettere a parte dei propri miserabili affari un miliardo e rotti di potenziali spettatori.
Il 23 marzo si viene a sapere proprio dalle gazzette (qui in PDF) che la "pagina social" di cui Michael Lupino dice di essere il "gestore" corrisponde a un certo numero di account -"Welcome to Florence" e simili- che figurano su varie piattaforme informatiche per l'autoschedatura di massa, dal Libro dei Ceffi a Instagram.
Con centinaia di migliaia di utenti.
I contenuti sono quelli cui attingono gazzette e micropolitici in campagna elettorale permanente. Deiezioni canine, tipi estrosi, risse, marginalità estrema, liti condominiali, mucchi di spazzatura, umanità sofferente esibita allo scherno senza possibilità di replica. Pare di capire che lo "Welcome to Florence" stia a indicare che secondo Michael Lupino di tanto si compendierebbe la vita associata della città.
Nello stato che occupa la penisola italiana, specie a livello locale, le campagne elettorali della feccia "occidentalista" sono costruite per intero partendo da contenuti di questo genere. L'idea è quella di attribuire alle amministrazioni invise la responsabilità diretta di tutto quanto, arrostitori di gatti compresi (qui su Archive).
È proprio partendo da contenuti di questo genere che vengono alimentate le gazzette con i comunicati stampa e che vengono auspicati, avallati e tradotti operazionalmente da decenni i giridivite, le tolleranzezzèro, le strette e le svolte che nel "paese" dove mangiano spaghetti e più in generale in tutte le realtà dell'epoca contemporanea hanno reso sospetta e sanzionabile qualsiasi condotta esuli da ben determinati e definiti comportamenti di consumo.
Michael Lupino ha avuto un saggio -nemmeno fra i più severi- delle stesse "leggi" e dello stesso sistema repressivo che quelli come lui hanno contribuito a costruire.
Se fosse stato meno melaninodeficiente sarebbe finito schedato su un account analogo per molto meno che per una piazzata notturna davanti a una balera. Sui commenti che avrebbe raccolto, per lo più da parte di individui del suo livello, è caritatevole non trarre conclusioni. Trovarsi con le carte in regola per rientrare nel bacino elettorale "occidentalista" gli è invece valso ampio diritto di replica su una gazzettina on line, accomodante al punto da non schernirlo per essersi paragonato all'Alighieri e da non porgli domande imbarazzanti su come faccia a frequentare mescite e balere, stanti le dubbie fonti di reddito su cui può fare conto.
Per tacere dell'utilità che la pretesa di "raccontare Firenze" da parte di un elemento del genere potrebbe mai avere per l'amministrazione.

giovedì 21 marzo 2024

Alastair Crooke - La tumultuosa innovazione militare della Resistenza può essere determinante per il destino dello stato sionista

 

Traduzione da Strategic Culture, 18 marzo 2024.

Se ripenso a quanto andavo scrivendo nel 2012 nel bel mezzo della cosiddetta Primavera araba e delle sue conseguenze, è sorprendente quanto la regione sia cambiata. Ha fatto praticamente una virata di centoottanta gradi.
All'epoca sostenevo che
Il "risveglio" della Primavera araba sta prendendo una piega molto diversa rispetto all'entusiasmo carico di promesse con cui era stato accolto al suo inizio. Nata dapprincipio da una spinta popolare di ampia portata, essa sta cambiando di senso venendo sempre più intesa -e temuta- come una nascente "rivoluzione culturale" controrivoluzionaria; una reinculturazione della regione all'insegna di un canone prescrittivo che sta facendo venire meno le alte aspettative iniziali...
Quell'anelito popolare associato al "risveglio" è stato ora convogliato e assorbito in tre grandi progetti politici connessi a questo impulso per riaffermare [la supremazia sunnita]: un progetto dei Fratelli Musulmani, un progetto saudita-qatariota-salafita e un progetto [jihadista radicale].
Nessuno conosce veramente se la natura del [primo progetto], quello della Fratellanza, sia quella di un piano settario o se sia veramente di massa... Ciò che è chiaro, tuttavia, è che il tono della Fratellanza ovunque è sempre più quello delle espressioni di risentimento del settarismo militante. Il progetto congiunto saudita-salafita è stato concepito come diretto contrasto al progetto dei Fratelli Musulmani - e [il terzo] è il radicalismo sunnita intransigente [il wahhabismo], finanziato e armato dall'Arabia Saudita e dal Qatar, che mira non a contenere ma piuttosto a sostituire il sunnismo tradizionale con la cultura del salafismo, cioè a cercare di infondere lo spirito salafita nell'Islam sunnita tradizionale.
Tutti questi piani, pur presentandosi come sovrapponibili in alcune parti, sono fondamentalmente in competizione tra loro. E [sono] in corso in Yemen, Iraq, Siria, Libano, Egitto, Nord Africa, Sahel, Nigeria e Corno d'Africa.
[Non c'è da sorprendersi se] ...gli iraniani interpretano sempre di più lo stato d'animo dell'Arabia Saudita come animato da uno schietto bellicismo, e le dichiarazioni dal Golfo hanno spesso un tocco di isteria e di aggressività: un recente editoriale del quotidiano saudita al-Hayat affermava: "Il clima nel CCG [Consiglio di Cooperazione del Golfo] indica che tutto lascia presagire un confronto CCG-iraniano-russo sul suolo siriano, simile a quello che ebbe luogo in Afghanistan durante la Guerra Fredda". Di sicuro è stata presa la decisione di rovesciare il governo siriano, in quanto esso è vitale per l'influenza regionale e per l'egemonia della Repubblica Islamica dell'Iran".
All'epoca così stavano le cose. Oggi il panorama è molto diverso: I Fratelli Musulmani sono diventati l'ombra di se stessi; l'Arabia Saudita ha effettivamente smesso di tenere in agenda il jihadismo salafita e si concentra più che altro sul turismo, e il Regno è adesso giunto -grazie alla mediazione cinese- a un accordo di pace con l'Iran. Come ho scritto nel 2012,
il mutamento culturale che portasse a reinventare una politica musulmana sunnita di più ampio respiro è sempre stato un sogno statunitense, e risale al documento politico "Clean Break" di Richard Perle del 1996: un rapporto commissionato dall'allora primo ministro sionista Netanyahu. Il suo fondamento risale alla politica britannica del secondo dopoguerra, che prevedeva il trapianto nel Golfo di solide famiglie di notabili dell'epoca ottomana per costituire una classe dirigente filobritannica al servizio degli interessi petroliferi occidentali.
Ma guardate invece cosa è successo; una piccola rivoluzione. L'Iran è tornato sulla scena e si è saldamente affermato come potenza regionale. Adesso è il partner strategico di Russia e Cina. Gli Stati del Golfo sono oggi più preoccupati dagli affari e dalla tecnologia che dalla giurisprudenza islamica. La Siria, presa di mira dall'Occidente e retrocessa a paria regionale, è stata riaccolta con i massimi onori negli ambienti della Lega Araba, ed è in procinto di tornare a riprendere in Medio Oriente il ruolo di un tempo.
L'aspetto interessante è che già allora erano evidenti le avvisaglie dell'imminente conflitto tra stato sionista e palestinesi; come ho scritto nel 2012,
Negli ultimi anni abbiamo sentito i sionisti insistere per il riconoscimento del loro come di uno Stato nazionale specificamente ebraico, piuttosto che di uno stato sionista in sé. Uno Stato ebraico che, in linea di principio, rimarrebbe aperto a qualsiasi ebreo che volesse tornarvi; la creazione di una "umma ebraica", per così dire.
Ora, sembra che almeno nella parte occidentale del Medio Oriente esista una tendenza speculare che chiede la rifondazione di uno stato sunnita più ampio, che rappresenti la chiusura dei conti con gli ultimi resti dell'era coloniale. Vedremo intensificarsi la contesa come una lotta primordiale tra simboli religiosi ebraici e islamici tra al-Aqsa e il Monte del Tempio?
Sembra che sia lo stato sionista che i territori che lo circondano stiano ricorrendo in misura sempre crescente a un linguaggio che li porta lontano dai concetti di fondo, in gran parte laici, con cui questo conflitto è stato tradizionalmente rappresentato. Quali saranno le conseguenze se il conflitto, per sua stessa logica, diventerà uno scontro tra poli religiosi?
Cosa ha determinato questa virata di centoottanta gradi? Sicuramente un primo fattore è stato il limitato intervento della Russia in Siria allo scopo di evitare un'avanzata degli jihadisti. Il secondo è stato l'arrivo sulla scena della Cina come partner commerciale davvero gigantesco -e anche come presumibile mediatore- proprio quando gli Stati Uniti hanno iniziato il loro ritiro dalla regione almeno nel senso di un affievolirsi dell'attenzione, se non (ancora) di allontanamento fisico sostanziale. Il ritiro dei militari statunitensi da Iraq e Siria, in ogni caso, sembra più una questione di quando piuttosto che di se. Tutti stanno aspettando che succeda.
In parole povere, abbiamo assistito al cambiamento in uno di quelli che Mackinder avrebbe definito un perno geografico della storia: Russia e Cina -con l'Iran- stanno lentamente prendendo il controllo del cuore dell'Asia sia a livello istituzionale che economico, mentre il punto di gravitazione dell'Occidente se ne allontana.
Il mondo sunnita marcia ineluttabilmente e con cautela verso i BRICS. In effetti, il Golfo si trova in grave difficoltà a causa dei cosiddetti "Accordi di Abramo" che lo hanno legato al settore tecnologico dello stato sionista, che a sua volta sta facendo confluire verso i paesi del Golfo una notevole quantità di denaro gratuito da parte di Wall Street.
Il "sospetto genocidio" -come lo chiama la Corte internazionale di giustizia- dello stato sionista a Gaza sta lentamente inchiodando al cuore il modello di business del Golfo.
Ma un altro fattore chiave è stato dato dalla avveduta diplomazia di cui ha dato prova l'Iran. È facile per chi in Occidente auspica la linea dura contro l'Iran deplorare la politica e l'influenza iraniana nella regione: la Repubblica Islamica in effetti si rivela cocciutamente "non conforme" agli obiettivi degli Stati Uniti e alle ambizioni filosioniste per il Medio Oriente. Ma cos'altro ci si poteva aspettare di diverso da una reazione negativa, dato che l'intero potenziale di fuoco dell'Occidente era a tal punto concentrato sulla Repubblica islamica? Eppure, l'Iran si è comportato con astuzia. NON è entrato in guerra contro gli Stati arabi sunniti in Siria, come si era ipotizzato nel 2012. Piuttosto, ha perseguito compostamente una strategia diplomatica fondata sulla sicurezza condivisa e sui traffici commerciali insieme agli Stati del Golfo. Anche l'Iran è riuscito in qualche modo a liberarsi da gran parte degli effetti delle sanzioni occidentali. Si è unito ai BRICS e alla SCO e ha acquisito una nuova "profondità spaziale" in economia e in politica.
Che piaccia o meno agli Stati Uniti e all'Europa, l'Iran è un attore politico regionale di primo piano e sovrintende, insieme ad altri, alla coalizione di movimenti e fronti di resistenza che grazie a un'accorta diplomazia sono riusciti a operare in stretta collaborazione tra loro.
Questo sviluppo è diventato un'iniziativa strategica fondamentale: i sunniti di Hamas e gli sciiti di Hezbollah si uniscono ad altre formazioni in una lotta di liberazione anticoloniale sotto il simbolo non settario di Al-Aqsa. Al-Aqsa non è né sunnita, né sciita, né dei Fratelli Musulmani, né salafita né wahhabita; rappresenta piuttosto la storia della civiltà islamica. Sì: si tratta anche di un riferimento a suo modo escatologico.
Quest'ultimo sviluppo si è rivelato importante per esorcizzare lo spettro di una guerra totale nella regione (incrociamo le dita...). L'interesse dell'Asse della Resistenza con l'Iran è duplice: In primo luogo, mantenere il potere di calibrare finemente l'intensità del conflitto aumentandone o diminuendone la portata a seconda dei casi; in secondo luogo, mantenerne il più possibile il controllo della escalation.
Il secondo aspetto riguarda la capacità di sopportazione intesa in termini strategici. I movimenti della Resistenza conoscono bene la psiche sionista, pertanto non ammettono reazioni in stile riflesso pavloviano alle provocazioni dello stato sionista. Piuttosto, sono capaci di aspettare e di lasciare che sia proprio lo stato sionista a fornire il pretesto per qualsiasi ulteriore passo avanti nella gradualità dell'escalation. A dare il via all'escalation deve essere lo stato sionista: la Resistenza risponde soltanto. L'attenzione deve concentrarsi sulla psiche politica di Washington.
In terzo luogo, l'Iran può essere sicuro di essersi comportato in modo lungimirante perché ha introdotto un cambiamento sostanziale nella guerra asimmetrica e nella deterrenza nei confronti dello stato sionista e dell'Occidente. Gli Stati Uniti possono dare tutti i segni di insofferenza che vogliono, ma l'Iran ha sempre potuto contare sul fatto che essi conoscono bene i rischi che qualsiasi loro tentativo di rovesciare il tavolo potrebbe comportare.
I realisti in Occidente tendono a credere che la potenza sia una semplice funzione di due grandezze: la popolazione di un paese e il suo prodotto interno lordo. Quindi, data la disparità di potenza aerea e di fuoco, in nessun modo ad esempio Hezbollah potrebbe sperare di tenere testa a uno stato sionista che è molto più ricco e popoloso.
Questo punto cieco è l'alleato silenzioso della Resistenza, perché impedisce alla gran parte dell'Occidente di comprendere questo cambiamento di mentalità militare.
L'Iran e i suoi alleati hanno una visione diversa: ritengono che la potenza di uno Stato si basi su elementi intangibili, piuttosto che su elementi tangibili letterali: la capacità di sopportare sul piano strategico, l'ideologia, la disciplina, l'innovazione e il concetto di leadership militare, definito come la capacità di affascinare gli uomini in modo che seguano il loro comandante anche fino alla morte.
L'Occidente ha (o aveva) un potenziale e una superiorità aerea incontrastati, ma i fronti della Resistenza hanno elaborato un loro modo per tenerle testa, ripartito in due diversi aspetti. Innanzitutto hanno messo in produzione droni a sciame assistiti dall'intelligenza artificiale e missili intelligenti in grado di volare rasoterra. E questa è la loro forza aerea.
Il secondo aspetto prevederebbe naturalmente lo sviluppo di un sistema di difesa aerea ripartito in fasce, secondo lo stile russo. La Resistenza possiede qualcosa di simile? Su questo, tutti svicolano come Fratel Coniglietto.
La strategia di fondo della Resistenza è chiara: l'Occidente ha investito troppo per conseguire la supremazia aerea e una potenza di fuoco schiacciante; dà la priorità a rapide manifestazioni in stile shock and awe, ma si esaurisce rapidamente dopo le prime fasi dello scontro. Raramente esso è in grado di sostenere attacchi ad alta intensità che si protraggano a lungo. In Libano nel 2006 Hezbollah è rimasto in profondità sottoterra mentre l'aeronautica sionista gli imperversava sopra la testa. I danni fisici in superficie sono stati enormi, ma gli effettivi di Hezbollah non ne sono stati intaccati e sono entrati in azione solo in seguito. Poi ci sono stati i trentatré giorni in cui Hezbollah ha continuato a lanciare missili, fino a quando lo stato sionista non ha desistito. Questa capacità di resistere rappresenta il primo pilastro della strategia.
Il secondo punto di forza è dato dal fatto che mentre l'Occidente riesce a resistere solo per brevi periodi, la Resistenza si è addestrata e preparata per un lungo conflitto di logoramento che contempla il ricorso a un bombardamento di missili e di razzi fino al punto in cui la società civile non può più sostenerne l'impatto. Lo scopo della guerra non è necessariamente l'uccisione dei soldati nemici, ma piuttosto arrivare a esaurire l'avversario e a inculcargli il senso della sconfitta.
E che dire del progetto di opposizione?
Nel 2012 ho scritto:
Sembra che sia lo stato sionista che [il mondo islamico] stiano dirigendosi di concerto vereso il ricorso a [narrazioni escatologiche] che li stanno portando lontano dai concetti di fondo, in gran parte laici, con cui questo conflitto è stato tradizionalmente concettualizzato. Quali saranno le conseguenze, dato che in questo modo il conflitto per sua stessa logica diventa uno scontro tra poli religiosi [Al-Aqsa contro il Monte del Tempio]?
Ebbene, l'Occidente è rimasto bloccato nel tentativo di gestire e contenere il conflitto, ricorrendo proprio quei "concetti in gran parte laici" con cui esso è stato concettualizzato e gestito... o non gestito, si potrebbe dire. Così facendo l'Occidente, anche attraverso il sostegno (laico) a una particolare visione escatologica -che guarda caso si sovrappone alla sua- in contrapposizione a un'altra, alimenta inavvertitamente il conflitto.
È troppo tardi per tornare a ragionarne in termini laici; ormai il genio è uscito dalla lampada.

mercoledì 13 marzo 2024

Alastair Crooke - Quando si è fuori dalla realtà. La Casa Bianca davanti al mutato atteggiamento dello stato sionista

 



Traduzione da Strategic Culture, 11 marzo 2024.

Alon Pinkas, un ex diplomatico sionista di alto livello e con saldi collegamenti a Washington, ci dice che una Casa Bianca esasperata ha finalmente detto di "averne abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: quel Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche di Biden per il Medio Oriente e gli Stati Uniti hanno finalmente interiorizzato questo dato di fatto.
Biden non può permettersi che le vicende dello stato sionista compromettano ancora di più la sua campagna elettorale e quindi -come ha chiarito il suo Discorso sullo Stato dell'Unione- raddoppierà la posta sulle sue mal congegnate linee politiche, sia per lo stato sionista che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito al gesto di sfida con cui Netanyahu ha risposto alle raccomandazioni politiche statunitensi, intoccabili come le cose sacre? Ha invitato a Washington Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra sionista, e lo ha impacchettato in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si ritiene possa o debba diventare premier". A quanto pare i funzionari hanno pensato che organizzando un colloquio al di fuori dei consueti protocolli diplomatici si sarebbe potuto "dare il via a una serie di avvenimenti che avrebbe potuto portare a nuove elezioni nello stato sionista", osserva Pinkas, dalle quali sarebbe potuta emergere una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
Chiaramente, l'idea era quella di un primo passo verso un cambio di governo realizzato tramite l'esercizio del cosiddetto soft power.
Il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto durante le primarie del Michigan, in cui il voto di protesta per Gaza ha superato i centomila voti del tipo a favore del partito, ma senza una indicazione di candidato. I sondaggi -soprattutto tra i giovani- lanciano l'allarme per novembre, per lo più proprio a causa di Gaza. I leader democratici iniziano a preoccuparsi.
L'importante commentatore sionista Nahum Barnea scrive che lo stato sionista sta "perdendo l'AmeriKKKa":
Siamo abituati a pensare agli Stati Uniti come a qualcosa di familiare... Riceviamo armi e sostegno internazionale, e gli ebrei danno il loro voto negli Stati chiave e forniscono denaro per le campagne elettorali. Solo che stavolta la situazione è diversa... Dal momento che i voti alle elezioni [presidenziali] vengono conteggiati a livello regionale, solo alcuni Stati... sono davvero decisivi. Come in Florida, [uno] Stato chiave, i voti degli ebrei possono decidere chi andrà alla Casa Bianca, anche i voti dei musulmani in Michigan possono essere decisivi... [Gli attivisti] hanno chiesto agli elettori delle primarie di votare senza indicare un candidato, per protestare contro il sostegno di Biden allo stato sionista... La loro campagna ha avuto un successo superiore alle aspettative: centotrentamila elettori democratici hanno risposto all'appello. Lo schiaffo dato a Biden è riecheggiato in lungo e in largo negli ambienti della politica istituzionale. Non solo ha attestato l'ascesa di una nuova, efficiente e tossica lobby politica, [ma] anche il senso di repulsione che molti statunitensi provano quando vedono le immagini che arrivano da Gaza.
"Biden ama lo stato sionista e teme veramente per la sua sorte", conclude Barnea, "ma non ha intenzione di perdere le elezioni per questo motivo. Questa è una minaccia esistenziale".
Il problema, tuttavia, è il contrario. È la politica degli Stati Uniti ad essere profondamente sbagliata e completamente incongruente con il sentimento della maggioranza dell'opinione pubblica dello stato sionista. Molti cittadini dello stato sionista sono convinti di stare combattendo una lotta per la sopravvivenza e non vogliono devono diventare "carne da macello" (per come la vedono loro) per le strategie elettorali dei democratici statunitensi.
La verità è che è lo stato sionista ad aver rotto con l'amministrazione Biden, non il contrario.
Il piano fondamentale di Biden, che si basa sulla rivitalizzazione dell'apparato di sicurezza palestinese, viene descritto come implausibile persino dallo Washington Post. Gli Stati Uniti hanno tentato di ripristinare il sistema di sicurezza dell'Autorità Nazionale Palestinese con il generale Zinni nel 2002 e poi con Dayton nel 2010. Le iniziative non hanno avuto successo, e per un buon motivo: le forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese sono viste dalla maggior parte dei palestinesi come nient'altro che degli odiati tirapiedi che fanno rispettare l'occupazione sionista. Esse lavorano per l'interesse della sicurezza sionista, non di quella palestinese.
L'altro pilastro della politica statunitense è un ancor più improbabile, de-radicalizzata e anemica "soluzione dei due Stati", affogata dentro una sinfonia regionale di stati arabi di orientamento conservatore chiamata ad agire come supervisore della sicurezza. Questo approccio politico è un riflesso del fatto che la Casa Bianca non è in sintonia con la visione escatologica che ha oggi lo stato sionista. La Casa Bianca non riesce a superare una prospettiva politica che è retaggio di decenni ormai passati e che si era rivelata fallimentare già all'epoca. La Casa Bianca ha fatto quindi ricorso a un vecchio trucco: quello di proiettare tutti i propri fallimenti politici su un leader straniero colpevole di non aver fatto funzionare qualche cosa che funzionare non poteva, e cercare di sostituire quel leader con qualcuno più accondiscendente. Scrive Pinkas:
Una volta che gli Stati Uniti hanno appurato che Netanyahu non sarebbe stato collaborativo e non si sarebbe comportato da alleato sollecito ma anzi si sarebbe mostrato grossolanamente ingrato... e concentrato solo sulla sua sopravvivenza politica dopo la débacle del 7 ottobre, i tempi sono diventati maturi per tentare un nuovo corso politico.
Solo che la politica di Netanyahu -nel bene e nel male- è il riflesso di quello che pensa la maggioranza dei cittadini dello stato sionista. Netanyahu ha i suoi ben noti difetti di personalità ed è molto impopolare nello stato sionista, tuttavia questo non significa che un gran numero di persone non sia d'accordo con il suo programma e con quello del suo governo.
Insomma, ecco che arriva Gantz, sguinzagliato dall'amministrazione Biden come potenziale premier in pectore negli ambienti diplomatici di Washington e Londra.
Solo che la manovra non ha funzionato come previsto. Come scrive Ariel Kahana (in ebraico, su Israel Hayom del 6 marzo):
Gantz ha incontrato tutti i più alti funzionari governativi ad eccezione del presidente Biden, e ha presentato posizioni identiche a quelle che Netanyahu ha presentato durante i colloqui che ha avuto con le stesse personalità nel corso delle ultime settimane".
"Non distruggere Hamas a Rafah significa inviare un camion dei pompieri per spegnere l'80% dell'incendio", ha detto Gantz a Sullivan. Harris e altri funzionari hanno fatto notare che sarebbe impossibile evacuare un milione e duecentomila abitanti di Gaza dall'area di Rafah, un'evacuazione che essi considerano una precondizione essenziale per qualsiasi operazione militare nella zona meridionale della Striscia di Gaza. "Gantz non si è mostrato affatto d'accordo".
Discutendo la questione degli aiuti umanitari sono emerse divergenze anche più gravi. Mentre molti cittadini dello stato sionista hanno accolto furibondi la decisione di permettere la consegna di rifornimenti al nemico perché [lo considerano] un gesto che ha aiutato Hamas, ha prolungato la guerra e ha ritardato il raggiungimento di un accordo sugli ostaggi, gli statunitensi ritengono che lo stato sionista non stia facendo abbastanza. Gli assistenti di Biden hanno persino accusato i funzionari sionisti di mentire sulla quantità di aiuti consegnati e sulla cadenza delle consegne.
Ovviamente la questione degli aiuti è diventata (come è giusto) il tema fondamentale per le prospettive elettorali del Partito Democratico, ma Gantz non intende prenderne atto. Come nota Kahana: "Purtroppo, i più alti funzionari dell'amministrazione statunitense sono fuori dalla realtà anche quando si tratta di altri aspetti della guerra. Credono ancora che l'Autorità Palestinese palestinese debba governare a Gaza, che la pace possa essere raggiunta in futuro attraverso la 'soluzione dei due Stati' e che un accordo per normalizzare i rapporti con l'Arabia Saudita sia a portata di mano. Gantz è stato costretto a smentire questa lettura errata della situazione".
I funzionari dell'amministrazione statunitense hanno quindi ascoltato dalle labbra di Gantz la stessa agenda politica che gli aveva ripetuto Netanyahu negli ultimi mesi. Gantz ha anche avvertito che cercare di metterlo contro Netanyahu era inutile: potrebbe anche avere voglia di sostituire Netanyahu come primo ministro, ma le sue politiche non sarebbero sostanzialmente diverse da quelle dell'attuale governo, ha spiegato.
Ora che i colloqui sono finiti e che Gantz ha detto ciò che ha detto, la Casa Bianca sta facendo i conti con una nuova esperienza: quella dei limiti al potere degli Stati Uniti e all'automatico adeguarsi alla volontà statunitense da parte di altri paesi, fossero pure gli alleati più stretti.
Gli Stati Uniti non possono imporre la loro volontà allo stato sionista, né costringere un "Gruppo di contatto arabo" a formarsi, né obbligare questo presunto gruppo di contatto a sostenere e finanziare le "soluzioni" per lo meno fantasiose che Biden ha per Gaza. È un momento rivelatore per il potere degli Stati Uniti.
Netanyahu è una vecchia volpe, per certe cose a Washington. Si vanta della sua capacità di interpretare bene la politica statunitense. Senza dubbio ha messo in conto il fatto che Biden può anche alzare di un tono o due il registro della retorica, ma si trova comunque legato mani e piedi perché è lui che può determinare la distanza che separa Biden dai generosi finanziatori ebrei in un anno di elezioni.
Lo stesso Netanyahu d'altra parte sembra aver concluso che può tranquillamente ignorare Washington, almeno per i prossimi dieci mesi.
Biden sta cercando disperatamente di arrivare a un cessate il fuoco; ma anche in questo caso -per lo schieramento politico statunitense gli ostaggi sono un tema su cui la va o la spacca- gli Stati Uniti non sono in grado di fare nulla. Si chiede all'ultimo minuto a Hamas di dire quanti ostaggi sono ancora vivi.
Una richiesta del genere può anche sembrare ragionevole a chi non è addentro alla questione, ma gli Stati Uniti sono tenuti a sapere che né Hezbollah né Hamas forniscono senza contropartite la prova che ci sono ostaggi ancora vivi: esiste un prezzo da pagare, in termini di rapporto di scambio tra cadaveri e ostaggi vivi. Esiste una lunga casistica in cui i sionisti hanno chiesto prove analoghe, con richieste finite nel nulla.
Secondo i notiziari lo stato sionista si rifiuta di concordare il ritiro da Gaza; si rifiuta di consentire ai palestinesi del nord di Gaza di tornare alle loro case e si rifiuta di accordarsi per un cessate il fuoco totale.
Sono tutte richieste che vengono direttamente da Hamas, non sono certo una novità. Perché Biden dovrebbe mostrarsi sorpreso o offeso perché vengono ripetute ancora una volta: Sinwar non sta certo giocando al rialzo, come invece sostengono i media occidentali e quelli sionisti. Sorpresa e irritazione nascono piuttosto dal fatto che Washington ha fatto propria una strategia negoziale non realistica.
Secondo il quotidiano Al-Quds, Hamas ha presentato al Cairo "un documento finale non negoziabile". Questo include, tra l'altro, la richiesta di fermare i combattimenti a Gaza per un'intera settimana prima di procedere a un accordo per la liberazione degli ostaggi, e quella di un esplicito impegno da parte dello stato sionista a un ritiro completo dalla Striscia, con tanto di garanzie internazionali.
Hamas chiede inoltre che tutti gli abitanti di Gaza abbiano il diritto incondizionato di tornare alle loro case, nonché l'ingresso dei rifornimenti in tutta la Striscia di Gaza senza alcuna ripartizione di sicurezza fin dal primo giorno di entrata in vigore dell'accordo. Secondo il documento di Hamas, il rilascio degli ostaggi inizierebbe una settimana dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco. Hamas respinge la richiesta dello stato sionista di esiliare e mandare all'estero un qualsiasi suo appartenente o un qualsiasi suo capo. Qualcosa di simile si verificò in occasione del rilascio degli ostaggi dell'assedio alla Chiesa della Natività, dove un certo numero di palestinesi è stato esiliato in paesi dell'Unione Europea; un atto che all'epoca fu molto criticato.
In una clausola separata, Hamas ha dichiarato che né da parte sua né da quella di altre organizzazioni palestinesi saranno forniti elenchi di ostaggi fino a quarantotto ore prima dell'entrata in vigore dell'accordo. L'elenco dei prigionieri di cui Hamas reclama la liberazione è lungo, e comprende i nomi di cinquantastte persone che erano state rilasciate nell'ambito dell'accordo su Gilad Shalit del 2011 e che successivamente erano state arrestate nuovamente. Comprende poi tutti i detenuti in regime di sicurezza[*] di sesso femminile e minori; tutti i detenuti in regime di sicurezza malati e tutti i detenuti ultrasessantenni.
Secondo l'articolo solo dopo il completamento della prima fase inizieranno i negoziati per la fase successiva dell'accordo.
Queste richieste non dovrebbero sorprendere nessuno. Una convinzione fin troppo diffusa tra persone poco esperte vuole che quando ci sono di mezzo degli ostaggi si possa arrivare ad un accordo in modo relativamente facile e veloce con i toni retorici, i mass media e le pressioni diplomatiche. La realtà è diversa. In media occorre più di un anno di tempo per concordare la liberazione di ostaggi.
L'esecutivo di Biden deve cambiare urgentemente il proprio approggio alla questione, e interiorizzare innanzitutto il fatto che è lo stato sionista che si sta staccando dalla stantìa e mal fondata condiscendenza degli Stati Uniti. La maggior parte dei cittadini dello stato sionista è d'accordo con Netanyahu, che il 9 marzo ha ribadito che "questa è una guerra in cui è in gioco l'esistenza, e dobbiamo vincerla".
Come mai lo stato sionista può pensare di fare a meno degli Stati Uniti? Forse perché Netanyahu sa che la conformazione del potere che negli USA (come in Europa) controlla gran parte, se non la maggior parte, del denaro che plasma la politica statunitense e che in particolare contribuisce all'orientamento del Congresso, dipende fortemente dall'esistenza di una causa sionista e dal fatto che essa continui a esistere. Non è quindi lo stato sionista a dipendere in tutto e per tutto dalla conformazione del potere degli Stati Uniti e dalla loro "buona volontà" come Biden presuppone.
La "causa dello stato sionista" conferisce alle strutture della politica interna statunitensi la loro significatività politico, il loro programma e la loro legittimità. Un "no allo stato sionista" toglierebbe loro la terra da sotto i piedi e lascerebbe gli ebrei statunitensi a vivere nell'insicurezza. Netanyahu lo sa, e sa anche che l'esistenza di lo stato sionista, di per sé, consente a Tel Aviv di influire in una certa misura sulla politica statunitense.
A giudicare dal discorso sullo Stato dell'Unione del 9 marzo, l'amministrazione statunitense non è in grado di barcamenarsi nell'attuale impasse con lo stato sionista, e si sta invece incaponendo sui propri logori e banali punti fermi. Servirsi del discorso sullo stato dell'Unione come di un pulpito per imporre il vecchio modo di pensare non rappresenta una strategia. Anche l'idea di costruire un molo a Gaza è una storia vecchia. Non risolve nulla e serve solo a consolidare ulteriormente il controllo sionista sui confini di Gaza e su ogni possibile prospettiva per il dopo occupazione. Cipro prenderà il posto di Rafah, per i controlli di sicurezza dello stato sionista. Un tempo a Gaza c'erano sia un porto che un aeroporto internazionale; ovviamente sono stati entrambi ridotti in macerie da tempo dai bombardamenti sionisti.
La poca o nulla attenzione per il principio di realtà non può essere considerata come un fastidioso accidente cui porre rimedio imponendo a chi si occupa della campagna elettorale di gestire meglio le pubbliche relazioni. I funzionari sionisti e statunitensi vanno dicendo da tempo che la tensione potrebbe salire all'improvviso in concomitanza con l'inizio del Ramadan il 10 marzo. La rete Channel 12 dello stato sionista (in ebraico) riferisce che il capo del servizio di informazioni militare Aman ha avvertito il governo sionista, con un documento riservato, che esiste la possibilità che durante il mese di Ramadan scoppi una guerra a carattere religioso con una prima escalation nei territori palestinesi e poi l'estensione a fronti differenti fino alla sua trasformazione in una guerra regionale.
Questo avvertimento -sostiene Channel 12- è stato il motivo principale alla base della decisione di Netanyahu di non imporre Netanyahu di non imporre restrizioni più dure del solito ai palestinesi che entrano ad Al-Aqsa per le preghiere del Ramadan.
Sì, le cose potrebbero andare peggio, molto peggio, per lo stato sionista.



[*] Secondo Adalah un security prisoner è qualcuno che viene "incarcerato e condannato per aver commesso o perché sospettato di un reato che per la sua natura o per le circostanze in cui è avvenuto viene considerato contrario alla sicurezza, o per motivazioni nazionaliste". In pratica sono classificati in questo modo tutti i prigionieri accusati di atti ostili contro l'occupazione sionista (N.d.T.).

mercoledì 6 marzo 2024

Alastair Crooke - Posizioni insostenibili: aumentano i segnali di allarme per la politica statunitense

 


 Traduzione da Strategic Culture, 4 marzo 2024.

"Le elezioni locali di martedì 27 febbraio sono state un segnale di allarme per lo stato sionista. I partiti ultraortodossi, i gruppi sionisti religiosi e i partiti di estrema destra e razzisti, presenti in forma organizzata in poche collettività, hanno ottenuto incrementi di suffragi sproporzionati rispetto alle reali dimensioni dei gruppi che rappresentano. Al contrario il campo democratico [in gran parte laico, liberale e ashkenazita], che per quasi un anno ha partecipato settimanalmente a gigantesche manifestazioni in Kaplan Street a Tel Aviv e in decine di località in tutto il paese, nella maggior parte dei casi non è riuscito a tradurre la rabbia in un incremento di consenso elettorale a livello di amministrazioni locali".
"Un'altra conclusione da trarre dalle elezioni", continua l'editoriale di Haaretz, "è la crescente somiglianza tra il partito di governo Likud e [il partito di Ben Gvir] l'estrema destra Otzma Yehudit, Supremazia ebraica. A Tel Aviv, i due partiti si sono presentati insieme; una scelta inimmaginabile nel Likud di prima che arrivasse Benjamin Netanyahu... Possiamo dedurre da questo che il Likud sta cambiando: Meir Kahane [fondatore della destra radicale ebraica e del partito Kach] ha sconfitto Ze'ev Jabotinsky; la supremazia ebraica e il trasferimento forzato della popolazione hanno sostituito la libertà".
In parole povere, lo stato sionista si sta spostando sempre più a destra.
Un altro segnale di allarme: nelle primarie democratiche (virtualmente) senza vero scontro, negli Stati Uniti,
una coalizione di gruppi pro-palestinesi aveva fissato un modesto obiettivo di diecimila voti generici -ovvero senza espressione di appoggio per un candidato specifico- pari al margine di vittoria di Trump in Michigan nel 2016 per cercare di far capire che la frustrazione degli elettori per l'appoggio di Biden alla campagna militare di lo stato sionista poteva costargli le elezioni di novembre... Questi voti generici però hanno superato l'obiettivo dei diecimila e sono arrivati a quasi centoquattromila voti, circa il 13% del totale. Biden ha ottenuto più dell'80% dei voti, ma il numero di voti non impegnati è stato sufficiente per inviare due delegati "non impegnati" alla convention nazionale del Partito Democratico ad agosto.
"Il pericolo maggiore per il Presidente non è che troppe persone abbiano espresso un voto generico", ha dichiarato l'ex rappresentante Andy Levin (democratico per il Michigan) che ha appoggiato l'iniziativa. "Il pericolo maggiore è che non recepisca il messaggio".
Un terzo segnale d'allarme: con il piano che prevede per Gaza una volta cessate le operazioni militari, Netanyahu ha virtualmente dichiarato guerra a Biden e alla sua campagna per la rielezione:
Lungi dal muoversi verso [la] soluzione a due Stati promossa da Biden, Netanyahu intende procedere a un'occupazione ancora più vasta e illimitata nel tempo non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania e in tutte le altre aree che altrimenti potrebbero costituire uno Stato palestinese indipendente. In effetti, Netanyahu chiede la conquista totale da parte dello stato sionista di quanto rimane della Palestina; l'esatto contrario di ciò che vorrebbero Biden e il resto del mondo.
In parole povere: Netanyahu sta mettendo Biden tra l'incudine e il martello, e il diavolo sa che per una potenziale rielezione Biden dipende moltissimo non solo dal voto ebraico, ma soprattutto dal denaro ebraico. Netanyahu pare convinto di avere un margine di manovra sufficiente per ignorare Biden e, per i prossimi otto mesi circa, perseguire senza ostacoli la sua ambizione: prendere il controllo della "Grande Israele" fino al fiume Litani nel Libano meridionale, e consolidare l'ebraicizzazione di Gerusalemme.
Persino Tom Friedman del New York Times comincia a mostrare qualche segno di panico:
Mi era sembrato, almeno all'inizio, che il mondo fosse pronto ad accettare che ci sarebbero state significative vittime civili se lo stato sionista avesse voluto sradicare Hamas e salvare gli ostaggi... Ma adesso ci ritroviamo in una situazione irriferibile, con migliaia di vittime civili e un piano di pace da parte di Netanyahu che prefigura solo un'occupazione senza fine... Quindi ci sono sempre più persone cui l'intera operazione dello stato sionista a Gaza comincia a sembrare un macello il cui unico obiettivo è quello di ridurre la popolazione in modo che lo stato sionista possa controllarla più facilmente... E questo, ripeto, metterà l'amministrazione Biden in una posizione sempre più insostenibile.
Il panico sta montando anche per quanto riguarda l'Ucraina: i leader europei sono stati convocati con un preavviso di ventiquattro ore all'Eliseo perché andassero a sentire il Presidente Macron asserire che la situazione sul terreno in Ucraina era così critica e la posta in gioco per l'Europa così alta che "ci troviamo a un punto critico del conflitto, in cui dobbiamo prendere l'iniziativa: siamo determinati a fare tutto il necessario per tutto il tempo necessario".
Macron ha sottolineato i crescenti dubbi sulla disponibilità degli USA a continuare con il sostegno a Kiev e ha messo in guardia verso una potenziale nuova offensiva russa, paventando attacchi brutali pianificati per "scioccare" gli ucraini e i loro alleati. "Siamo convinti che la sconfitta della Russia sia essenziale per la sicurezza e la stabilità dell'Europa"... "L'Europa è in gioco".
Macron ha portato esplicitamente avanti un'operazione di facciata per strappare la leadership della difesa e della sicurezza in Europa alla Germania, che sta costruendo un asse militare legato agli Stati Uniti in alleanza con la Polonia, i Paesi baltici e la presidente della Commissione europea, l'ex ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen, e per avocarla nuovamente alla Francia.
In ogni caso, l'uscita di Macron è finita in un fiasco completo. La sua richiesta è stata immediatamente sconfessata sia in Francia che da altri leader europei. Nessuno dei convocati da Macron si è trovato d'accordo con lui, tranne forse gli olandesi. Dietro la precipitosa messa in scena dell'Eliseo, tuttavia, si nasconde un obiettivo più serio: quello di centralizzare ulteriormente il controllo dell'UE attraverso la costruzione di una difesa comune.
Per finanziare questa difesa unificata europea la Commissione sta cercando di dare il via all'emissione di obbligazioni unitarie dell'UE e a un meccanismo di tassazione centralizzato, entrambi vietati dai Trattati dell'Unione Europea. Dietro la narrazione allarmistica sull'intenzione russa di invadere l'Europa si celano intenti come questi.
A parte questo, in Europa la disperazione e la colpevolizzazione per la débacle ucraina stanno prendendo piede sul serio: il Cancelliere Scholtz, nel difendere la decisione di Berlino di non fornire missili Taurus a lungo raggio a Kiev, si è tolto d'impaccio mettendo in grave imbarazzo Francia e Regno Unito.
Scholtz ha affermato che fornire missili Taurus avrebbe richiesto l'assistenza di truppe tedesche sul terreno "come fanno i britannici e i francesi, in termini di controllo dei bersagli [missilistici] e di assistenza alla loro acquisizione. I soldati tedeschi non possono in nessun momento e in nessun luogo essere collegati agli obiettivi che questo sistema [a lungo raggio] raggiunge", ha insistito Scholz.
Inutile dire che la sua esplicita ammissione del fatto che in Ucraina si trovano truppe europee già presenti sul terreno ha scatenato un putiferio, in Europa.
Il fatto, a lungo sospettato, ha adesso una conferma ufficiale.
Ma cos'è che ha provocato un'ondata di isteria ancora più forte in Europa, al di là dei teatrini di Macron?
Molto probabilmente due cose. In primo luogo l'abbandono di Avdiivka da parte delle forze ucraine, cui è seguito l'improvviso shock di rendersi conto che non ci sono vere linee difensive ucraine dietro Avdiivka, ma solo alcune frazioni e poi campi aperti.
In secondo luogo, l'epico reportage del New York Times intitolato The Spy War: how the CIA secretly helps Ukraine fight Putin ("La guerra delle spie: come la CIA aiuta segretamente l'Ucraina a combattere Putin") di Adam Entous e Mitchell Schwirtz, che descrive un decennio di cooperazione tra CIA e Ucraina e ricorda a tutti che gli Stati Uniti potrebbero tagliare i ponti con Kiev molto presto... a meno che non venga approvata la legge sugli stanziamenti.
Adam Entous è stato anche coautore di un articolo del 2017 dello Washington Post intitolato Obama's secret struggle to punish Russia or Putin's elections assault ("La segreta contesa di Obama per punire la Russia per le interferenze elettorali di Putin") che, come nota Matt Taibbi, raccontava la storia da film di come John Brennan [allora capo della CIA] avesse consegnato a Barack Obama l'equivalente spionistico di una bomba, proveniente da una fonte preziosa "nel profondo del governo russo".
L'avvincente racconto rivelava come la CIA non solo fosse venuta a conoscenza del coinvolgimento diretto di Vladimir Putin in una campagna per "danneggiare" Hillary Clinton e "favorire l'elezione del suo avversario Donald Trump", ma avesse riferito in anteprima al Presidente questa notizia segreta... prima di raccontarla al mondo intero, ovviamente).
Si trattava, ovviamente, di un'assurdità: era la narrazione di base per quello che sarebbe diventato il Russiagate.
Il reportage del New York Times su ricordato mostra una narrativa revisionista sull'Ucraina piena di affermazioni discutibili, che si ripercuotono sulla CIA e in particolare sul ruolo di John Brennan; il testo probabilmente è stato interpretato dai servizi segreti occidentali come una lettera di addio nell'imminenza di un divorzio. La CIA si sta preparando a lasciare l'Ucraina.
Come ci si può aspettare in qualsiasi lettera del genere, vi si indora la pillola in modo da scagionare l'autore da ogni colpa e responsabilità legale (per omicidio ed assassinio): "Un sottile leitmotiv permea di sé tutto il testo: la civile AmeriKKKa non fa che implorare gli ucraini di smetterla di commettere atrocità".
Con l'intensificarsi della collaborazione "dopo il 2016", riporta il Times, gli ucraini "hanno iniziato a praticare omicidi e altre operazioni letali, violando termini che la Casa Bianca pensava fossero stati accettati". Gli statunitensi erano "infuriati" e "hanno minacciato di togliere il loro sostegno", ma non lo hanno mai fatto, nota Taibbi.
Non si sa se il Presidente della Camera Johnson continuerà su questa linea rifiutandosi di portare in aula la legge sugli aiuti per l'estero che prevede sessanta miliardi di dollari per Kiev, o se invece non sarà in grado di perseverare.
Tuttavia, la questione è ormai all'ordine del giorno, come ha osservato il leader della minoranza al Senato McConnell, annunciando il suo prossimo ritiro da capogruppo: "La politica è cambiata, me ne rendo conto", ha detto.
La base del Partito Repubblicano non è favorevole alla concessione di ulteriori fondi all'Ucraina: le prospettive che il provvedimento passi sono scarse o nulle.
Il punto che chiaramente spaventa i servizi di intelligence europei è che gran parte dei successi ottenuti dall'Ucraina deriva da un fattore chiave: la supremazia occidentale nei campi dell'intelligence, della sorveglianza e della ricognizione. Gli armamenti della NATO hanno deluso, la dottrina militare della NATO è stata criticata dalle forze ucraine, ma intelligence sorveglianza e ricognizione sono state fondamentali.
Il reportage del New York Times è chiaro: "...un passaggio discreto scende in un bunker sotterraneo dove squadre di soldati ucraini tracciano i satelliti spia russi e origliano le conversazioni tra comandanti russi...". Si tratta di soldati ucraini o di tecnici della NATO?
Quando la CIA se ne andrà a causa dei tagli ai fondi, non sarà solo il suo personale ad andarsene. La CIA non lascerà dietro di sé attrezzature sensibili e apparecchiature di intercettazione destinate a cadere nelle mani dei russi per essere sottoposte ad autopsie forensi. Qualcosa di simile è già successo? Quei bunker segreti si trovavano forse ad Avdiika? Stanno per trapelare dettagli delicati?
In ogni caso, l'"assistenza" dell'intelligence europea all'Ucraina sarà depauperata al massimo dal ritiro di personale e attrezzature da parte della CIA. In tal caso, cosa potranno fare gli europei? Possono effettuare ricognizioni aeree; possono utilizzare i satelliti della NATO, ma non in modo capillare.
E poi gli ucraini, inferociti e abbandonati, non potrebbero inventarsi una narrazione tutta loro? Il capo dei servizi segreti ucraini Kirill Budanov ha appena sabotato la narrazione occidentale per cui è stato Putin a uccidere Navalny: interrogato su questa morte, Budanov ha detto: "Forse vi deluderò, ma sappiamo che è morto per un coagulo di sangue. È più o meno confermato. Non è una notizia presa da Internet".
Budanov ha smentito anche altre versioni statunitensi: la settimana scorsa la Reuters ha citato sei fonti sicure che "l'Iran ha fornito alla Russia un gran numero di potenti missili balistici di superficie". Budanov ha risposto dicendo che di missili iraniani "qui non ce ne sono" e che tali informazioni "non corrispondono alla realtà". Ha anche smentito le dichiarazioni sui missili nordocoreani che la Russia avrebbe schierato, secondo un'altra storia statunitense degli ultimi tempi: "Sono stati utilizzati alcuni missili nordcoreani", ha detto, "ma le affermazioni circa un loro utilizzo massiccio non corrispondono al vero".
Qui sta l'elemento essenziale del pezzo del New York Times: il timore di ricadute da parte di funzionari ucraini delusi. "Soprattutto in un anno di elezioni, qualsiasi guerra di parole tra ex alleati potrebbe diventare spiacevole in un batter d'occhio".
E con questo, Biden è avvisato. Forse già troppo tardi?