sabato 24 febbraio 2018

Prato: il diplomato Giovanni Donzelli vuole l'abolizione del reato di tortura. Ce ne ricorderemo alle elezioni!


La competenza di Giovanni Donzelli gli permette di affrontare con sicurezza qualsiasi tema. 
Dal diritto penale ai microchip per cani.


In questa sede il diplomato Giovanni Donzelli è stato più volte dileggiato nel corso degli anni. Un dileggio fondato su basi di buona concretezza -dalla plurilustre frequentazione dell'Universtà di Firenze che non lo ha portato a conseguire alcun titolo accademico fino all'autocertificazione di nullafacenza con tanto di autografo- cui il diplomato ha prestato il fianco con una affannosa ricerca di visibilità mediatica che lo ha portato anche a disconferme fisicamente dolorose.
Nel marzo 2018 nello stato che occupa la penisola italiana è prevista una consultazione elettorale di tipo politico; la "campagna elettorale" è una cosa in corso permanente ed è infarcita esclusivamente di idiozie, piccole cattiverie, schifezze, colpi bassi, ciance, invettive, menzogne pure e semplici e cronaca efferata. In questo nulla di male e nulla di strano, i sudditi del "paese" dove si mangiano spaghetti, si indossano canottiere e si consulta pornografia minorile coltivano con impegno una coscienza politica probabilmente inferiore a quella degli scarafaggi; la classe politica che ne è fedelissimo riflesso e i mass media ai suoi ordini non fanno che assecondarne l'atteggiamento e ci sarebbe senz'altro da sorprendersi se il clima sociale fosse differente.
La mole di sconcezze vomitata ogni giorno dalla "libera informazione" in ogni campo, in ogni sede, su ogni argomento, per qualsiasi circostanza e in ogni occasione ha assunto dimensioni tali che in questa sede abbiamo semplicemente smesso di occuparcene, e non certo da oggi.
Facciamo una minuscola eccezione ad uso delle persone serie, considerando il piccolo "occidentalista" citato in oggetto come un esempio neppure tra i peggiori dell'ambiente della "politica di rappresentanza".
Giovanni Donzelli è noto ai nostri lettori come "Occidentalista" costoso e maldestro. Negli ultimi anni il centro del suo "attivismo" si è spostato da Firenze a Prato, città senz'altro più confacente a un certo modo di intendere la vita e l'"impegno" in politica, e dove soprattutto certe alzate d'ingegno comportano costi potenziali senz'altro minori.
Il "partito" cui Giovanni Donzelli deve fedeltà e retribuzione è capeggiato da una ragazza madre che una destra degna di questo nome destinerebbe alla quiete domestica e alla meditazione sulle proprie colpe. Il sovvertimento di ogni principio che è l'essenza stessa dell'"occidentalismo" consente invece a simili individui di autoattribuirsi meriti e prestigio, e in questo senso il miscuglio di malafede e di incompetenza che il diplomato Donzelli profonde in ogni proprio atto pubblico hanno pieno diritto di cittadinanza.
A Prato, nel corso della campagna elettorale permanente, il diplomato Giovanni Donzelli è andato a curiosare anche dalle parti della "casa circondariale", il legalissimo e disinfettato nome che il linguaggio giuridico riserva oggi alla galera. L'"occidentalismo" politico sguazza perfettamente a proprio agio nella marginalità peggiore e nelle esistenze più squallide e schifose, di cui è al tempo stesso causa e riflesso in un meccanismo che tende almeno in parte ad autoalimentarsi. In un ambiente tanto produttivo il ben vestito Donzelli ha assicurato che  "Oltre a dare dotazioni adeguate e condizioni di sicurezza migliori abolirà immediatamente il reato di tortura che costringe gli agenti a non potersi difendere di fronte ad aggressioni, e per di più a pagarsi gli avvocati in caso di accuse da parte dei detenuti". Tanto più che il "governo", a detta dello stesso ben vestito, " ha recentemente più che raddoppiato gli stipendi per i detenuti che lavorano per l'amministrazione penitenziaria". Una rapida indagine consente di appurare che veramente nel 2015 il "governo" ha raddoppiato le spese di mantenimento che i prigionieri sono tenuti a rifondere. I prigionieri pagano per stare in carcere 108 euro al mese, come stabilito dalla circolare 3662/6112 e come da decenni fissato dall'articolo 188 di quel "codice penale" con cui Giovanni Donzelli non ha ovviamente alcuna familiarità. Sul raddoppio delle diarie, invece, non abbiamo trovato alcuna conferma in fonti o commentari giuridici. L'unica fonte che afferma qualcosa di simile è un piagnucoloso articolo pubblicato nel 2017 da "Libero", dove si ribadisce il fortunato assunto delle "carceri hotel a cinque stelle" e che è rintracciabile da chiunque sia interessato con un qualunque motore di ricerca. Precisazione per le persone serie: a differnza di "Libero", il cui rapporto con la realtà è ordinariamente nullo, "Il Vernacoliere" di essere una pubblicazione satirica lo porta scritto a chiare lettere sotto la testata.
La nulla familiarità del diplomato Donzelli con la legislazione vigente nello stato da cui percepisce retribuzione ha ovviamente tutte le conseguenze del caso.
Una lettura anche superficiale dell'articolo 613bis del Codice Penale e alla definizione di "tortura" ivi sottintesa permette anche a un neofita del linguaggio giuridico di intuire non pregiudicate le ordinarie misure di cui si avvale l'apparato repressivo.
Il sistema penitenziario dello stato che occupa la penisola italiana suscita negli ambienti seri reazioni concordemente improntate al più esplicito disprezzo, e sarebbe facile sottolinearlo attingendo a fonti che si riconoscono nell'attivismo politico.
Più stimolante invece attenersi a fonti difficilmente tacciabili di corrività filocomunista, come quelle appartenenti alla Confederazione Elvetica.
A nord di Como inizia un territorio che guarda alla penisola italiana con la degnazione e il neanche troppo velato disprezzo che essa fa di tutto per meritarsi, specie quando affida incarichi pubblici o addirittura responsabilità vitali a "occidentalisti" tanto competenti. TicinoNews -che con la realtà deve avere un rapporto molto meno conflittuale delle fonti di cui si avvalgono gli "occidentalisti" c'a'pummarola 'n coppa- indica che la Confederazione non è affatto propensa a lasciar correre su certi comportamenti della gendarmeria cui i donzelli darebbero invece campo libero. Un commentario giuridico pubblicato su diritto.it e firmato dal ticinese Andrea Baiguera Altieri si esprime poi ovviamente in tutt'altro modo sulla condizione dei prigionieri nello stato che occupa la penisola italiana:
In Italia, il Testo dell’ Art. 6 OP viene clamorosamente e scandalosamente violato in tutti i suoi 5 commi a causa della pessima edilizia penitenziaria italica. P.e., il comma 4 Art. 6 OP, relativo alla cella singola durante la custodia cautelare, risulta comico ( rectius : tragico ). Soltanto la Bulgaria, in Europa, possiede, allo stato attuale, locali penitenziari peggiori di quelli italiani. Il comma 1 Art. 6 OP è un insulto alla verità dei fatti, allorquando statuisce che le celle debbono essere ben illuminate, areate, riscaldate e dotate di WC idonei e puliti. La politicizzazione del Diritto Penitenziario italiano impedisce tutt’ oggi di raggiungere, a prescindere dal Testo formale dell’ OP, un pur minimo grado di umanità delle condizioni di vita intra-murarie. L’Italia, dopo la Riforma Margara del 1975, possiede eccellenti potenzialità, mortificate dalle ideologie di Partito.[*]
Ideologie di "partito" che la ciancia politica peninsulare statuisce morte solo quando affrontano il tema della giustizia sociale e della verità, e che per tutto quanto il resto godono invece ottima salute. Al pari del diplomato Donzelli, alla cui perfetta rappresentatività è giusto augurare ogni fortuna.



[*] Lo stato che occupa la penisola italiana è citato nell'originale. Ce ne scusiamo come di consueto con i nostri lettori, spcie con quanti avessero appena finito di pranzare.


domenica 18 febbraio 2018

Alastair Crooke - Il grande accordo di Putin con lo stato sionista: sarà possibile digerirlo?



Traduzione da Strategic Culture, 17 febbraio 2018.

"Lo stato sionista accampa superiorità morale," ha scritto l'esperto di difesa Alex Fishman il mese scorso sul quotidiano ebraico Yedioth Ahronoth, "e si dirige speditamente verso una deliberata guerra; senza giri di parole, è la guerra che è già iniziata in Libano." Nel suo articolo Fishman evidenzia: "La deterrenza in senso classico si ha quando si minaccia un avversario affinché non ti colpisca nel tuo territorio; in questo caso invece lo stato sionista pretende che il nemico si astenga dal compiere qualche atto nel proprio territorio, pena l'essere colpito. Sia da un punto di vista storico sia dal punto di vista del diritto internazionale, le possibilità che questa minaccia venga recepita come concreta e che porti alla cessazione delle attività dell'avversario nel suo stesso territorio sono scarse."
Anche Ben Caspit ha fatto riferimento alla concreta prospettiva di una guerra deliberata; in un editoriale su Haaretz invece -come mostrato dal professor Idan Landau in un blog di notizie dallo stato sionista- si legge: "Il governo dello stato sionista deve comunque ai cittadini spiegazioni dettagliate, pertinenti e persuasive su come mai una fabbrica di missili in Libano abbia cambiato l'equilibrio strategico al punto che è necessario entrare in guerra. Deve presentare delle valutazioni al pubblico: il numero preventivato di perdite, i danni stimati alle infrastrutture civili, il prezzo da pagare per questa guerra, e raffrontarle al pericolo rappresentato dalla costruzione della fabbrica di missili."
In Medio Oriente si vive in tempi pericolosi oggi, sia per il presente che per il medio termine.
La scorsa settimana si è verificato il primo episodio di "cambiamento delle carte in tavola" che ha quasi gettato in guerra la regione: l'abbattimento di uno dei più sofisticati aerei dell'arsenale sionista, uno F16i. Solo che, come ha scritto Amos Harel in questa circostanza, "il Presidente russo Vladimir Putin ha messo fine al confronto tra stato sionista e Iran in Siria, ed entrambe le parti si sono attenute a questa decisione... Sabato pomeriggio, dopo la seconda ondata di bombardamenti... ufficiali superiori sionisti stavano ancora perseguendo una linea intransigente, e sembra che a Gerusalemme si stessero prendendo in considerazione ulteriori azioni militari. La discussione in merito si è chiusa non molto dopo una telefonata tra Putin e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu" (il corsivo è nostro, [N.d.A.]).
Questa dichiarazione ha cambiato le carte in tavola per la seconda volta. Ai bei vecchi tempi, come li ha chiamati Martin Indyk, lo stato sionista si sarebbe rivolto agli USA come per riflesso. Questa volta no. Questa volta lo stato sionista ha chiesto di mediare al Presidente Putin. Sembra che lo stato sionista consideri adesso il signor Putin come la potenza di cui non può fare a meno. E per quanto riguarda lo spazio aereo a nord, è effettivamente così. Come ha scritto Ronen Bergman sul New York Times, "allo stato sionista non sarà più possibile prendere iniziative indiscriminate in Siria"; in secondo luogo, "se qualcuno ancora non se ne fosse accorto, la potenza dominante nella regione è la Russia".
Cosa significa tutto questo? Innanzitutto, non si tratta di un drone che ha oltrepassato o meno la frontiera di quello che lo stato sionista chiama stato sionista e che la Siria chiama invece "Golan occupato". Lasciamo perdere questo punto, o se preferite consideriamolo come un caso di "effetto farfalla" nella teoria del caos, quello in cui due piccole ali finiscono per cambiare il mondo. In definitiva, le multiformi avvisaglie di una guerra incombente scaturite dal successo che lo stato siriano ha avuto nel combattere l'insurrezione jihadista si sono accumulate contro di esso. La vittoria siriana ha mutato l'equilibrio dei poteri in Medio Oriente, e stiamo assistendo alla reazione di certi stati sovrani a fronte di questa sconfitta strategica.
Lo stato sionista si è schierato coi perdenti e intende limitare le perdite; teme i mutamenti in atto nel settore settentrionale della regione e il Primo Ministro Netanyahu ha cercato varie volte di ottenere dal Presidente Putin la garanzia che all'Iran e a Hezbollah non sarebbe stato concesso di conseguire alcun vantaggio strategico in seguito alla vittoria siriana, tale da andare a detrimento dello stato sionista. Ora, sembra chiaro che Putin non ha fornito alcuna garanzia di questo genere. Ha detto a Netanyahu che pur riconoscendo e prendendo atto degli interessi dello stato sionista in materia di sicurezza, anche la Russia aveva i propri interessi. E ha sottolineato che l'Iran era "un partner strategico" della Russia.
In pratica, non esiste alcuna presenza effettiva dell'Iran o di Hezbollah nelle immediate vicinanze dello stato sionista; anzi, sia l'Iran che Hezbollah hanno sostanzialmente ridotto nel complesso la propria presenza in Siria. Ma Netanyahu voleva di più, a quanto pare; e per fare pressione sulla Russia affinché garantisse che la Siria del futuro non avrebbe ospitato alcuna presenza sciita, lo stato sionista ha iniziato a bombardare la Siria praticamente ogni settimana, e a minacciare bellicosamente il Libano col pretesto che l'Iran vi stesse approntando fabbriche di "missili sofisticati". In questo modo ha di fatto detto al Presidente Putin: "se non ci garantisci direttamente e in maniera inoppugnabile che in Siria non ci sono né l'Iran né Hezbollah, noi mettiamo a ferro e fuoco sia il Libano che la Siria."
Insomma, è successo che lo stato sionista ci ha rimesso uno F16, inaspettatamente abbattuto dalla contraerea siriana. Il messaggio è questo: "La stabilità in Siria e in Libano è interesse russo. Noi riconosciamo gli interessi dello stato sionista in materia di sicurezza, ma non intromettetevi nei nostri. Se volete la guerra con l'Iran sono affari vostri, e la Russia non se ne farà coinvolgere; non dimenticatevi però che l'Iran è, e continua ad essere, un nostro partner strategico".
Ed ecco il grande accordo di Putin: la Russia si addosserà una precisa e definita responsabilità nei confronti della sicurezza dello stato sionista, ma non se lo stato sionista intende deliberatamente entrare in guerra contro l'Iran e Hezbollah, o se altrettanto deliberatamente interferisce con la stabilità nel nord del Medio Oriente, Iraq compreso. E basta bombardamenti gratuiti nel nord al fine di mandarne all'aria la situazione. Se poi lo stato sionista vuole la guerra con l'Iran, la Russia se ne terrà lontana.
Lo stato sionista ha assaggiato il bastone del Presidente Putin: cari sionisti, la superiorità aerea nel nord è stata appena punzecchiata dalle difese aeree siriane. E quando i nostri missili antiaerei S400 saranno in postazione la perderete del tutto. Consideratela finita.
Nel caso ci fosse qualche dubbio, si consideri la dichiarazione che il Capo dello Stato Maggiore delle forze aerospaziali russe, il Maggior Generale Sergey Meshcheryakov, ha rilasciato nel 2017: "Oggi in Siria è stato dislocato un sistema di difesa aerea unificato e integrato. Abbiamo assicurato lo scambio di informazioni e di tecnologie fra i sistemi di identificazione aerea siriano e russo. Tutte le informazioni sulla situazione dei cieli partono dalle stazioni radar siriane e arrivano ai punti di controllo dei concentramenti delle forze russe".
Da questo derivano due dati di fatto. Innanzitutto, che i russi sapevano esattamente quello che stava succedendo quando l'F16 sionista si è imbattuto nello sbarramento dei missili antiaerei siriani. Il decano dei corrispondenti sionisti in materia di difesa Alex Fishman ha scritto sul quotidiano ebraico Yediot Ahronot dell'11 febbraio: "uno degli aerei [sionisti] è stato colpito dai due sbarramenti di ventisette missili superficie-aria siriani... un traguardo non da poco per l'esercito siriano, e una cosa imbarazzante per l'aeronautica sionista perché si presumeva che i sistemi di contromisure elettroniche che proteggono l'aereo lo proteggessero dallo sbarramento missilistico... L'aeronautica si troverà a dover procedere con un'accurata inchiesta tecnica e di intelligence per capire se i siriani sono in possesso di sistemi in grado di superare le misure di avvertimento e di disturbo a disposizione dello stato sionista e se i siriano hanno sviluppato nuovbe tecniche di cui l'aeronautica sionista non è a conoscenza. E' stato riferito che i piloti non hanno parlato via radio di alcun allarme indicante un missile nemico diretto verso il loro aereo. All'inizio si pensava che lo avrebbero riferito. Avrebbero potuto esserne preoccupati. Ma esiste anche la più preoccupante possibilità che non sapessero di avere un missile diretto contro, e questo porta alla questione del perché non lo sapevano e si sono accorti della gravità del danno solo dopo essere stati colpiti e sono stati costretti ad eiettarsi."
In secondo luogo, la successiva affermazione dei sionisti secondo cui la Siria era stata punita con la distruzione del 50% del suo sistema di difesa antiaerea va presa con estrema cautela. Si ricordi quanto affermato da Meshcheryakov: si tratta di un sistema russo-siriano unificato e completamente integrato, il che significa che su di esso sventola la bandiera russa. E difatti il portavoce dell'aeronautica sionista si è rimangiato questa prima affrmazione, come risulta qui.
Infine, dopo l'abbattimento dello F16, Putin ha detto allo stato sionista di farla finita con la destabilizzazione della Siria. Non ha detto nulla sul pattugliamento della frontiera meridionale da parte di droni siriani, che è pratica corrente in Siria per il controllo dei gruppi di insorti in azione al sud.
Il messaggio è chiaro. Lo stato sionista può contare su limitate garanzie in materia di sicurezza da parte della Russia, ma non ha più la propria libertà di azione. Senza il dominio dell'aria, che la Russia si è già assicurata, la presunta superiorità aerea sui paesi arabi confinanti che la psiche collettiva dello stato sionista considera da molto tempo assodata ne esce con le ali spuntate.
Ora, un accordo di questo genere può essere assimilato nello stato sionista, dal punto di vista culturale? Occorre aspettare e vedere se i capi dello stato sionista accetteranno l'idea che non dispongono più della superiorità aerea sul Libano e sulla Siria, o se invece la leadership politica sionista, come temono i commentatori qui citati, sceglierà deliberatamente di entrare in guerra nel tentativo di prevenire la perdita totale del dominio dei cieli. Esiste ovviamente anche la possibilità di correre a Washington per cercare di convincere l'AmeriKKKa a far propria la causa della cacciata dell'Iran dal suolo siriano, ma ci si chiede se Putin non abbia già incastrato in anticipo Trump con il suo piano, e senza tanto chiasso. Chissà.
Dal punto di vista delle forze armate sioniste una guerra preventiva per recuperare la superiorità aerea sarebbe fattibile o realistica? Si tratta di una questione dibattuta. Un terzo dei cittadini sionisti è culturalmente ed etnicamente russo, e molti ammirano il Presidente Putin. E in tal caso, lo stato sionista potrebbe contare sul fatto che i russi non userebbero i sofisticati missili antiaerei S400 schierati in Siria per proteggere i militari russi che vi si trovano?
Di per sé neppure le tensioni che ci sono tra stato sionista, Siria e Libano contribuiscono a porre fine all'attuale ridda di rischi che la situazione in Siria comporta. Nel corso dello stesso fine settimana la Turchia ha perso un elicottero e i due uomini di equipaggio, abbattuti ad Anfrin dalle forze curde. In Turchia il risentimento contro lo YPG e il PKK sta salendo, il nazionalismo e il neoottomanismo stanno raggiungendo un picco, e l'AmeriKKKa viene rancorosamente ritratta come un nemico strategico. Il Presidente Erdogan afferma convinto che le forze turche spazzeranno via le forze dello YPG/PKK da Anfrin fino all'Eufrate, ma un generale ameriKKKano dice che i soldati ameriKKKani non si faranno certo da parte per aprire la strada a Erdogan a Manbij, che si trova a metà strada. Chi farà per primo un passo falso? E questa escalation può andare avanti senza che si verifichi una rottura sostanziale nelle relazioni tra USA e Turchia? Erdogan ha già notato che il budget per la difesa del 2019 già contempla uno stanziamento di cinquecentocinquanta milioni di dollari a favore dello YPG. Che cosa intende fare davvero l'AmeriKKKa con un gesto simile?
I vertici delle forze armate statunitensi, tutti occupati a giocare una riedizione della guerra del Vietnam in cui però stavolta l'AmeriKKKa vince -per mostrare che l'esito in Vietnam fu per i militari quello di una sconfitta immeritata- possono accettare di ritirarsi da un'occupazione della Siria che hanno imposto con perentorietà ad est dell'Eufrate, perdendo così altra credibilità? E possono farlo proprio adesso che il ripristino della credibilità e dell'influenza militare statunitense sono il mantra stesso dei generali della Casa Bianca (e di Trump)? O forse questo perseguire il ripristino della propria credibilità degenererà in un tiro al tacchino contro l'Esercito Arabo Siriano o anche della stessa Russia, che considera l'occupazione statunitense in Siria come fattore di intrinseco disturbno della stabilità regionale che essa sta cercando di instaurare?
La competizione a tutto campo tra stati per il futuro della Siria e del Medio Oriente è palese ed evidente. Ma chi si nasconde dietro provocazioni che potrebbero portare a una escalation e gettare abbastanza facilmente l'intera regione in un conflitto? Chi ha fornito il missile portatile che ha abbattuto il cacciabombardiere russo SU25 il cui pilota alla fine ha coraggiosamente preferito, circondato dagli jihadisti, uccidersi con una bomba a mano invece di farsi catturare vivo? Chi ha "agevolato le cose" al gruppo di insorti che ha lanciato il missile? Chi ha fornito ai curdi di Anfrin sofisticati armamenti anticarro che hanno distrutto una ventina di carri armati turchi? Chi ha dato milioni di dollari per le gallerie e i bunker scavati dai curdi di Anfrin? Chi ha pagato l'equipaggiamento delle loro forze armate?
Chi c'era dietro il nugolo di droni muniti di esplosivo mandati ad attaccare la principale base aerea russa a Khmeimim? I droni erano costruiti in modo da sembrare dall'esterno come semplici apparati di fabbricazione casalinga, roba che una forza irregolare potrebbe anche arrangiare in qualche modo, ma le contromisure elettroniche russe sono riuscite a prendere il controllo e a far atterrare sei apparati di questo tipo, e i russi hanno potuto constatare che all'interno si trattava di qualcosa di molto diverso: c'erano contromisure elettroniche sofisticate e sistemi di guida basati su GPS. Insomma, l'aspetto casareccio serviva a mascherare un'essenza davvero sofisticata, verosimilmente frutto del lavoro di un ente statale. Quale? E perché? Qualcuno stava cercando di mettere Russia e Turchia una contro l'altra?
Non si sa. Ma è abbastanza chiaro che la Siria è crogiolo di potenti forze distruttive che potrebbero, di proposito o no, mettere in subbuglio il paese e potenzialmente tutto il Medio Oriente. Come ha scritto l'esperto di questioni di difesa sionista Amos Harel, lo scorso fine settimana "siamo arrivati a un niente dal ritrovarci in guerra".

giovedì 8 febbraio 2018

Alastair Crooke - Gli USA, il Vietnam e le guerre a durata indeterminata


Un elicottero viene gettato fuori bordo dalla USS Blue Ridge a largo delle coste del Vietnam nell'aprile 1975.
Un'immagine simbolo della fine dell'impegno statunitense in Vietnam.

Traduzione da Consortium News, 2 febbraio 2018.

Se lasciamo un attimo da parte l'acredine del Presidente Trump nei confronti di Barack Obama e di tutto il suo operato (con particolare riferimento all'accordo sul nucleare iraniano) e il suo considerevole attaccamento a Benjamin Netanyahu, gran parte di quanto fatto dalla sua amministrazione in politica estera sembra privo di coerenza strategica a chiunque non sia parte in causa: l'aumento del numero di soldati statunitensi in un Afghanistan dove la guerra dura da sedici anni, la realizzazione di uno staterello militarizzato nel nord est della Siria, un piano per dividere il Libano, la collaborazione operativa con l'Arabia Saudita nella guerra in Yemen, e il "togliere di mezzo la questione di Gerusalemme".
Tutte politiche che sembrano concepite all'insegna di una completa indifferenza nei confronti del probabile fallimento e della conseguente umiliazione.
Adesso, uno storico militare che ha prestato servizio con le truppe statunintensi in Iraq ci viene a spiegare, e in modo convincente, che se non troviamo coerente questo insieme di cose è perché non siamo riusciti ad afferrare l'essenza di quello che c'è alla base di queste scelte. In una parola, ci mostra l'elemento che manca: il Vietnam.
"Sempre presente," scrive Danny Sjursen della guerra del Vietnam, "essa aleggia nel passato e plasma il futuro. Una guerra di cinquant'anni fa, una volta indicata come la più lunga della nostra storia, è viva e vegeta, ed esiste un gruppo di ameriKKKani che la sta ancora combattendo: il Comando Supremo. E dopo quasi cinquant'anni la sta ancora perdendo, e sta ancora incolpandone qualcun altro."
Un coinvolgimento durato più di vent'anni, a partire dall'inizio degli anni Cinquanta per finire alla metà dei Settanta, nel cui momento culminante c'erano sul terreno cinquecentomila soldati statunitensi; eppure, al punto debole di base non fu mai posto rimedio. Il governo di Saigon sostenuto dagli USA era semplicemente incapace di stare in piedi senza il sostegno ameriKKKano, e finì per crollare sotto il peso di un'invasione convenzionale nordvietnamita nell'aprile del 1975.
"Il fatto è," scrive Sjursen, "che la maggioranza degli storici... concorda con le grandi linee di questa narrativa; la maggioranza degli ufficiali superiori ameriKKKani invece no. Anzi, loro la guerra del Vietnam la stanno ancora combattendo."
Molti degli alti quadri in servizio hanno iniziato la carriiera quando il prestigio delle forze armate era al suo minimo assoluto. Sono invecchiati credendo che il fallimento in Vietnam fosse dovuto alla codardia dei politici di Washington, o al fatto che il comando supremo era troppo debole per imporre con efficacia la propria autorità. Nessuna delle analisi militari svolte dalla generazione di ufficiali del dopoguerra ha mai affrontato l'interrogativo essenziale, "se la guerra in Vietnam si poteva vincere, se era una guerra necessaria, se era una mossa avveduta" fin dal principio.
Nossignore. Secondo loro la guerra poteva essere vinta, e sarebbe stata vinta se solo la si fosse affrontata nella maniera giusta.
Ecco perché ci troviamo con questa guerra a tempo indeterminato, che è stata appositamente ideata per fornire prova delle due più importanti tesi degli ambienti militari sulle questioni che, se affrontate correttamente in Vietnam invece di essere ignorate, avrebbero portato ad una "vittoria" ameriKKKana.
Questa operazione di revisionismo storico è iniziata nel 1986 con uno scritto di David Petraeus sulla rivista militare Parameters. Petraeus sosteneva che l'esercito degli Stati Uniti non era preparato per combattere in conflitti a bassa intensità come quello vietnamita, e che "non era qualche Vietnam in meno quello di cui il paese aveva bisogno, ma di combatterli meglio. La prossima volta", era la sua fatalistica conclusione, l'esercito dovrebbe impegnarsi molto di più nell'organizzazione di forze antiguerriglia e nell'adottare quegli equipaggiamenti, quelle tattiche e quelle dottrine che consentono di vincere conflitti del genere."
Fu un certo colonnello Harry Summers a inaugurare un filone di analisi militari orientate in senso clausewitziano, con alla base ipotesi di ampia portata, sul come "vincere" nella prossima occasione. A suo dire "sono stati i responsabili civili della linea politica a perdere la guerra, perché si sono concentrati senza speranza sull'insurrezione nel Vietnam del Sud invece di pensare alla capitale del Nord, Hanoi; più soldati, più aggressività, anche l'invasione vera e propria dei santuari comunisti in Laos, in Cambogia e nel Vietnam del Nord avrebbero portato alla vittoria."
H. R. McMaster (attualmente Consigliere per la Sicurezza Nazionale) in Dereliction of Duty uscito nel 1997 additava invece come responsabile lo Stato Maggiore Congiunto, che avrebbe mancato di onestà nel consigliare il Presidente Johnson in merito a quanto era necessario per "vincere", ed era d'accordo con Summers sul fatto che la "vittoria" richiedeva una strategia offensiva più decisa: un'invasione a tuttto campo del Vietnam del Nord, oppure un suo incessante bombardamento a tappeto.
In questo senso anch'egli era un clausewitziano di quelli propensi a fare le cose in grande, e possiamo identificare qualche elemento di questa prima forma mentis nel tentativo che McMaster ha fatto, ad aprile 2017, di convincere il Presidente Trump a dislocare in Afghanistan centocinquantamila soldati, per una impennata nello stile di Petraeus. Si ricorderà anche che McMaster pare sia sostenitore di un approccio più aggressivo -con il ricorso alle armi- nei confronti della Corea del Nord.
L'altro argomento, quello della mancanza in Vietnam di un atteggiamento centrato sull'antiguerriglia, è stato dapprincipio adottato dal colonnello Krepinevich come la spiegazione complessiva del fallimento dei militari statunitensi in Vietnam. La dottrina antiguerriglia definitiva, il Field Service Manual 3-24 - Operazioni Antiguerriglia, ha comunque la supervisione di David Petraeus, che vi ha lavorato con un altro funzionario, il luogotenente generale James Mattis attualmente Segretario alla Difesa.
Petraeus sarebbe "risaputamente tornato in Iraq nel 2007," nota Engelhardt, "con quel manuale in mano e cinque brigate, ventimilia soldati statunitensi, per quello che sarebbe stato chiamato l'impennata o la nuova marcia in avanti; un tentativo di salvare l'amministrazione Bush da un'occupazione condotta in modo disastroso."
"Queste interpretazioni revisioniste dell'esperienza in Vietnam avrebbero portato in Iraq e in Afghanistan a conseguenze tragiche, una volta percolate lungo l'intera scala gerarchica del corpo ufficiali," pensa Sjursen. "Tutti questi ricordi errati, tutte queste presunte lezioni tratte dall'esperienza vietnamita permeano oggi di sé l'approccio statunitense alle guerre in Medio Oriente e in Africa, fatto di "impennate" e di "consigli ed assistenza".
Entrambe le scuole di pensiero di orientamento revisionista sul conto del Vietnam sono rappresentate nell'amministrazione Trump, e dirigono la sua versione di strategia globale. Ci sono quelli che vogliono mano più libera nel fare la guerra di quanta ne abbiano avuta in Vietnam, ed esiste anche una compagine impegnata anima e cuore, formata da funzionari che hanno attraversato i mandati di tre presidenti effettuando missioni influenzate da un approccio antiguerriglia in più di due terzi dei paesi del mondo. "I leader di oggi neppure si curano di fingere che le guerre successive all'Undici Settembre avranno mai fine," nota Sjursen.
In un'intervista del giugno 2017 Petraeus ha descritto il conflitto Afghano usando il vocabolo "generazionale", levando così lo spettro di un impegno lungo decenni. Al News Hour della PBS, Petraeus ha detto:
"Ma questa [guerra in Afghanistan] è una lotta generazionale. Non è di quelle che si vince nel giro di qualche anno. Non è che conquisteremo una cima, pianteremo una bandiera [e] torneremo a casa a fare la sfilata della vittoria. Abbiamo bisogno di rimanere sul posto per un lungo periodo, ma di farlo, anche questo, in maniera sostenibile. Siamo rimasti in Corea per più di sessantacinque anni perché per questo esiste un interesse nazionale importante. Siamo rimasti per molto tempo in Europa e ci siamo ancora, certamente; ci siamo con ancora più convinzione, date le iniziative aggressive della Russia. Sono convinto che sia questo il modo con cui dobbiamo affrontare la questione."
L'analisi di Sjursen aiuta a spiegare quelle che altrimenti parrebbero azioni sconsiderate da parte dell'appparato militare statunitense, per esempio l'occupazione sul campo -ovvero illegale- di un angolo della Siria... grande quanto il quaranta per cento del paese. Sembrerebbe che la guerra con la Russia e con l'Iran sia a tempo indeterminato anch'essa, una guerra destinata a durare per generazioni. Lo stesso vale per quella con la Cina, ma quello è un fronte sostanzialmente finanziario.
Nel maggio 2016 McMaster disse al Center for Strategic and International Studies: "Per indurre deterrenza in un paese forte... occorre giocare d'anticipo, occorre essere in grado di prospettare un alto prezzo per chi non si adegua, e assumere nei confronti della cosa un atteggiamento coerente con una deterrenza basata sulla negazione, infondendo nel nemico la convinzione che non ci sia modo di arrivare ai propri obiettivi a costi ragionevoli."
Forse, l'annessione da parte dell'AmeriKKKa del nord est della Siria serve proprio a questo: a prospettare un prezzo alto, a una deterrenza fondata sulla negazione del suolo siriano alle forze della Repubblica Islamica dell'Iran.
All'Europa potrebbe piacere qualche riflessione su quanto detto da McMaster. Perché se gli USA sono coinvolti nei confronti dell'Iran in operazioni in cui ha parte l'antiguerriglia e di cui si prospetta una durata "generazionale", gli europei stanno combattendo la guerra sbagliata: cercando di compiacere Trump mettendo in piedi un gruppo di lavoro con gli ameriKKKani per vedere come migliorare gli accordi sul nucleare, o affrontare colloqui sui missili balistici con l'Iran, probabilmente non porterà a nulla; rientrerà semplicemente in quello che McMaster ha descritto come la necessità, per gli USA, di operare con efficacia sul "campo di battaglia della percezione e dell'informazione".
Insomma, gli europei saranno collusi alle operazioni antiguerriglia che gli USA metteranno a segno contro l'Iran.
Quello che è meno chiaro, su quello che sta accadendo nella politica estera statunitense, è questo: durante l'iniziativa del 2016 McMaster disse che l'"invasione" russa dell'Ucraina e l'"annessione" della Crimea avevano messo la parola fine al periodo del dopo guerra fredda, ma che non si trattava di nuovi sviluppi "per quanto riguarda l'aggressività dei russi."
"Ovviamente quella che la Russia sta impiegando è una strategia sofisticata, e stiamo preparando a questo riguardo una ricerca con vari collaboratori; è una strategia che si avvale delle forze convenzionali come copertura per azioni non convenzionali, ma è anche una campagna molto più sofisticata che contempla l'utilizzo della delinquenza e del crimine organizzato e la concreta operazione sul campo della percezione e dell'informazione, specialmente come parte di un più ampio sforzo di diffondere il dubbio e le teorie cospirative in seno alla nostra alleanza," ha specificato McMaster.
"Questo impegno," ha proseguito, "non ha in realtà scopi difensivi, ma scopi offensivi; far collassare la sicurezza, l'ordine economico e politico in Europa come sono emersi dalla seconda guerra mondiale e sicuramente dal dopo guerra fredda, per sostituirli con qualcosa di più in linea con gli interessi russi."
Francamente, qui siamo a livelli di psicosi. Viene in mente I demoni di Fëdor Dostoevskij, in cui dei rivoluzionari preoccupati per l'anima della Russia (ovvero dell'AmeriKKKa) si convincono che se le minacce verso di essa non verranno sconfitte da una vigorosa ripresa di uno schietto nazionalismo, sarebbe finita col soccombere. L'opera è uno studio sulla frammentazione della psiche umana che porta un gruppo a considerare che il mondo intero cospiri contro di esso, per distruggere quello che esso ritiene la vera anima della propria patria.
Nella visione di McMaster l'AmeriKKKa rappresenta la psiche fragile e minacciata, sotto un malvagio attacco che arriva da ogni parte. Pare non esservi alcuna comprensione del fatto che questi timori potrebbero in larga parte non essere altro che proiezioni della propria stessa psiche, come nell'analisi di Dostoevskij, o del fatto che le iniziative militari ameriKKKane potrebbero non aver fatto altro che alimentare proprio gli antagonismi che McMaster identifica adesso come minacciosi per sé e per il suo paese, o del fatto che la dissoluzione dell'ordine mondiale plasmato dall'AmeriKKKa o del dominio ameriKKKano sul sistema finanziario mondiale possono non essere altro che la rappresentazione del mutamento di grandi dinamiche sottostanti che sussistono in quanto tali e non hanno connessione diretta con la Russia.

domenica 4 febbraio 2018

Alastair Crooke - Gli errori di calcolo dello stato sionista potrebbero costituire il prodromo di una guerra su scala ancora più vasta



Traduzione da Consortium News, 29 gennaio 2018.

La scorsa settimana i leader politici dello stato sionista erano in brodo di giuggiole mentre il vicepresidente Mike Pence asseriva che, come cristiano sionista, era più sionista dei sionisti che siedono alla Knesset (a fare ovvia eccezione, i deputati arabi scacciati, si veda qui). Ci si potrebbe però domandare cosa stessero pensando i più sobri personaggi nei ranghi degli organismi di sicurezza dello stato intanto che ascoltavano il discorso di Pence alla Knesset, infarcito di citazioni bibliche e di attestazioni della sua "ammirazione verso il Popolo del Libro".
Magari si stavano chiedendo fino a che punto sarebbero stati in grado di spingersi nell'influenzare Pence e il suo padrone Donald Trump perché ricorressero al potere militare degli USA per portare avanti gli interessi dello stato sionista.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, per mezzo degli intermediari della famiglia Trump -Jared Kushner e gli avvocati di famiglia- ha sicuramente acquisito una certa influenza a Washington. Il panorama mediorientale è considerevolmente cambiato nel corso degli ultimi dodici mesi, ma il problema è proprio la natura di questo cambiamento. Quanti di questi cambiamenti sono andati verso gli interessi della sicurezza dello stato sionista o degli USA?
Quando il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) ha dato il via lo scorso giugno al colpo di stato che avrebbe alla fin fine portato questo trentunenne ad assumere il potere assoluto, il Presidente Trump se ne prese come al solito tutto il merito. "Abbiamo messo in cima il nostro uomo!" ebbe a vantarsi con gli amici secondo Michael Wolff, che ne parla nel suo Fire and Fury. E Trump aveva ragione. Beh, in parte.
L'uomo è arrivato in cima, ma a fare il grosso del lavoro perché la consolidata preferenza statunitense verso il successore al trono principe bin Naif cambiasse di verso sono stati Netanyahu -che manovrava dietro le quinte- e l'uomo di Mohammed bin Zayed (MbZ) a Washington, l'ambsciatore degli Emirati Arabi Uniti Youssef al Otaiba. E soprattutto è stato MbZ ad avvertire MbS che per diventare principe ereditario era condizione necessaria e sufficiente godere del sostegno dello stato sionista. Netanyahu e lo stato sionista non possono respingere una certa quale responsabilità per le condizioni in cui si trova adesso il regno.
E i sionisti, che hanno un atteggiamento solitamente più assennato, sono sempre a congratularsi con se stessi per il loro "uomo nuovo al comando"? E' lecito dubitarne perché l'Arabia Saudita si sta trasformando in un ordigno a orologeria fatto di rancori interni, familiari e tribali, e gli Emirati alla sua periferia si stanno chiedendo cosa succederà in questa nuova epoca in cui l'Arabia Saudita mostra in politica estera un attivismo sovraeccitato, o quale futuro li aspetta nel caso la bomba saudita dovesse esplodere ("Niente di bello", è la loro probabile conclusione.)
Inoltre, per quanto riguarda il secondo essenziale tratto dell'influenza dello stato sionista sull'amministrazione statunitense, basta prendere in considerazione i curdi. Il Ministro della Giustizia dello stato sionista Ayelet Shaked ha detto subito prima del referendum sull'indipendenza di Massud Barzani che "la fondazione dello stato del Curdistan è interesse sostanziale dello stato sionista e dei paesi occidentali". Ha poi aggiunto "credo che sia giunto il momento che gli USA sostengano questo processo". Anche Netanyahu ha sostenuto l'iniziativa curda, e sembra che abbia esortato Barzani ad andare avanti, nonostante le voci contrarie degli stessi curdi e di tutti i paesi confinanti. Un piano che non ha funzionato molto bene.
Innanzitutto Barzani ha fatto fiasco: la sua iniziativa è andata in fumo in ventiquattro ore costringendo a ricorrere al piano B, uno staterello curdo nella Siria settentrionale che sta anch'esso vacillando. Lo stato sionista non è riuscito ad ottenere le zone cuscinetto che avrebbe voluto a ridosso della linea armistiziale del Golan o alla frontiera tra Iraq e Siria. Non è riuscito neppure a tenere chiusa quella frontiera, per cui ha fatto sì che degli USA condiscendenti impiantassero una zona curda nel nord est della Siria. L'obiettivo è quello di mantenere la Siria in condizioni di debolezza, negando al governo centrale risorse petrolifere e di gas naturale e mantenendo il paese diviso e in condizioni di tensione oltre che quello di mantenere aperti i collegamenti fra il "progetto di stato" in miniatura nel nord della Siria e le zone curde dell'Iraq settentrionale.
Il "progetto" sionista per i curdi è molto concreto e di lunga data. Fu formalizzato con molta chiarezza nel 1982 nel cosiddetto piano Oded Yinon, in cui si prospettava la frammentazione del Medio Oriente secondo le logiche della divisione settaria. Quando il Ministro Shaked ha invocato uno stato curdo, dicendo che avrebbe fatto parte integrante degli sforzi dello stato sionista volti a riplasmare la regione, molto probabilmente lo fa fatto tenendo presente il piano Yinon, in cui si prospettava la frammentazione dell'Iraq in stati distinti.
Ma ancora una volta, e nonostante il fallimento di Barzani, ci si è spinti troppo in là. Mosca e Damasco hanno offerto ai curdi un compromesso che consentirebbe loro un certo grado di autonomia, ma insiste sulla tutela della sovranità statale in tutta la Siria. I curdi hanno di forza rifiutato, a quanto pare credendo che Washington li sostenesse. Anche il Centcom statunitense si è esposto troppo: ha fornito ai curdi armi anticarro avanzate, e anche missili antiaerei spallabili.
I turchi ovviamente hanno avuto quello che volevano. Armamenti del genere in mano curda cambiano l'intero equilibrio strategico. Quelle armi non hanno nulla a che fare con lo spingere il Presidente Assad a consentire modifiche alla costituzione siriana: questa versione dei fatti non è plausibile. La fornitura di queste armi serve a potenziare i curdi nel senso previsto dallo Oded Yinon, non solo in Siria e in Iraq, ma come un cuneo in grado di indebolire e frantumare anche la Turchia. Non c'è da meravigliarsi che i curdi di Anfrin si mostrassero così sicuri di se stessi. E non sorprende che esperti osservatori turchi come Ibrahim Karagul (un editorialista importante, vicino a Erdogan) abbiano chiaramente detto che dietro la volontà di mandare in pezzi lo stato turco c'è la mano dello stato sionista.
Che risultati si sono raggiunti, allora? Ormai ad Ankara è passata di brutto, e probabilmente senza rimedio, qualsiasi infatuazione nei confronti di Washington. Damasco sta riprendendo con calma Idlib da cui sono spariti i gruppi dell'opposizione armata, mandati d'imperio da Ankara a dare una mano ad Anfrin. Il Presidente Assad soffre di meno pressioni e la Turchia si è orientata ancor più deliberatamente verso l'asse Russia - Iran - Iraq. Washington si sta pentendo di aver suscitato la rabbia dei turchi, ma che altro si aspettava? Era dalla conferenza stampa del 19 maggio tenuta dal generale Mattis che si sapeva come sarebbe finita.
Ed ecco il terzo importante campo dell'influenza di Netanyahu sulla politica statunitense: l'incoraggiamento per Trump affinché affossi l'accordo sul nucleare iraniano. In questo, ad essere sinceri, Bibi ha sfondato una porta aperta: sembra proprio che il suo desiderio possa trasformarsi in realtà. Pence ha detto che Trump rifiuterà di firmare l'alleviamento della sanzioni statunitensi il prossimo maggio. Ma come oggi Washington deve pentirsi della reazione turca alle proprie iniziative in Curdistan, così è probabile che lo stato sionista dovrà pentirsi di aver affossato l'accordo. Davvero la leadership sionista crede che il minuscolo Mohammed bin Salman, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti avranno la meglio sull'Iran e sui suoi alleati? E le forze armate sioniste davvero credono nel pieno sostegno ameriKKKano, nel caso si arrivasse ad un conflitto regionale?
Infine, c'è la questione dell'"accordo del secolo". Ecco, spedire Pence a minacciare la Giordania, l'Egitto e i palestinesi di azzerare loro i finanziamenti completa un quadro in cui lo stato sionista è intento a tracciare una linea molto stretta e molto di parte per il sostegno ameriKKKano e in genere mondiale. Una linea che contempla Jared Kushner -il genero di Trump- David Friedman -il suo specialista in questioni di bancarotta- e Jason Gleenblatt -un avvocato specializzato in questioni immobiliari, ex capo dell'ufficio legale al lavoro per varie società di Trump.
Lo stesso Haim Saban, fondatore del Saban Center alla Brookings e sionista acceso, ha fatto notare il mese scorso a Kushner (secondo quanto scrive lo American Lawyer):
"Un pugno di ebrei ortodossi che non hanno alcuna concezione di alcunché", è la definizione della compagine di Kushner data dall'uomo d'affari sionista-statunitense Haim Saban nel corso di un question time al forum della Brookings Institution a Washington nel corso di questa settimana.
"Della squadra fanno parte un imprenditore, che sei tu, un avvocato immobiliarista e uno specializzato in questioni di bancarotta. Non so come tu abbia fatto a reggere per otto mesi con una formazione del genere. Non c'è un solo macher di Medio Oriente in questo gruppo," ha detto Saban usando il termine in yiddish per pezzo grosso.
Kushner, oratore principale della giornata, ha risposto che la squadra, pur "non convenzionale", era "assolutamente competente". Poi si è messo a descrivere Friedman come "uno dei massimi esperti legali di questioni di bancarotta, amico intimo mio e del Presidente."
Haim [Saban] ha rilevato che in effetti la situazione in Medio Oriente non è mai stata tanto alla bancarotta come oggi."
Magari Netanyahu giungerà a pensare che nel tracciare una linea tanto stretta è finito col mettere lo stato sionista in una posizione precaria. Può anche compiacersi per come Trump e Pence stanno umiliando i palestinesi oggi come oggi, ma catalizzando la politica estera ameriKKKana in senso profondamente contrario alla regione nel suo complesso -non solo all'Iran, alla Siria, al Libano e all'Iraq, ma al punto di minacciare anche paesi interlocutori come la Giordania e l'Egitto- il Primo Ministro sionista non fa che andare verso una prossima crisi: lo stato sionista può ritrovarsi isolato e senza amici. Persino gli Stati del Golfo stanno cambiando orientamento -o ricollocandosi, se si preferisce- a fronte della profonda incertezza che domina in Arabia Saudita.
L'AmeriKKKa di oggi è profondamente polarizzata: entrambi i poli si oppongono in maniera riflessa e denigrano a vicenda in modo instancabile i rispettivi punti di vista su ogni questione di politica estera e di politica interna. Anche nel più ampio filone del nazionalismo culturale oggi in vista in AmeriKKKa e in Europa la ristretta compagine che Trump ha messo a occuparsi di Medio Oriente non è neppure rappresentativa della cultura della "destra alternativa" in senso generale, quella che in fin dei conti forma la base di Trump. Prova di questo, dato l'insistere della destra alternativa sulle condivise radici giudaico-cristiane, è il fatto che la destra alternativa considera i propri fondamenti culturali in modo ancor più ristretto. Il sostegno a tutto campo su cui lo stato sionista pensa di poter contare potrebbe rivelarsi molto evanescente.
A Washington in generale saltano agli occhi gli errori di valutazione; le conseguenze si vedono nei messaggi ondivaghi che arrivano dall'Amministrazione e nel fatto che una macchina statale unita si frammenta in feudi ministeriali litigiosi, che la Casa Bianca non sembra in grado di controllare (si veda qui la questione della Turchia).
Il Medio Oriente -e non solo il Medio Oriente- ha appena evitato un serio conflitto nel 2017; nel 2018 potremmo non essere altrettanto fortunati. Trump viene considerato il miglior amico dello stato sionista, ma lo è davvero? Il futuro dello stato sionista, a un anno dal suo insediamento, si presenta molto meno certo. Il panorama è diventato fosco. Lo stato sionista ha mal giudicato gli eventi in Siria, ha mal giudicato le pedine di cui disponeva nel paese, e probabilmente scoprirà di aver mal giudicato anche Mohammed bin Salman. Adesso, ecco un altro errore di calcolo, stavolta a proposito della Turchia. Il prossimo errore può ben farlo sul conto dell'Iran.