domenica 30 luglio 2023

Tommaso di Ciaula, una tuta blu contro il pallone


Questo blog in materia di pallone ha una linea editoriale precisa che è stata seguita per tutti questi anni senza grossi tentennamenti.
I più potrebbero pensare che si tratti di un atteggiamento lievemente insofferente, il che non è affatto vero perché questo blog considera quella del pallone una realtà assolutamente intollerabile e vi si rapporta (il meno possibile) con una gamma di atteggiamenti compresa fra il lievemente infastidito e l'assolutamente disgustato.
Tommaso di Ciaula faceva l'operaio metalmeccanico ed è scomparso nel 2021. Pubblicò Tuta blu nel 1978, quando l'ordine di grandezza della putrefazione palloniera era -dicono- minore di quello di adesso, pur essendo i "valori" dell'ambiente già ben definiti, diffusi e tollerati quando non attivamente promossi.
È stato interessante leggere tra le considerazioni di cui si compone quel suo secondo libro i passi qui riportati.
Piccolo avviso. Il registro linguistico e il vocabolario di Tuta blu non sono né quelli dell'alta diplomazia, né quelli di solito utilizzo in questa sede. Pubblicato oggi un libro simile avrebbe levato le ire dei sostenitori del linguaggio inclusivo e della correttezza politica, che avrebbero eccepito su ogni paragrafo e accampato minacciando grane anche legali le ragioni di chissà quale asteriscata fluidità vegana irta di slash. 

La-vo-ra-re. Questi vogliono che mi apro il culo. Certo me lo aprirei, ma almeno la fabbrica si doveva interessare effettivamente di me, dei miei figli, di mia moglie, della nostra salute, invece mi dà quattro soldi e del resto se ne lava le mani. Uno torna a casa e s’invischia in mille ragnatele. Mille e mille cose che non funzionano.
Stasera al termine del telegiornale, dopo tante notizie su tutti i fronti (scandali, omicidi, rapine, stupri, la lira precipita, salgono i prezzi...) arriva il colpo finale, esce quella faccia di minchia del mezzobusto sportivo e ci sbatte in faccia alcuni giornali sportivi con dei titoli che occupano mezza pagina: RIVERA SI È STANCATO, RIVERA SE NE VA, RIVERA SI DIMETTE.
Questa è la vera tragedia nazionale, perché la lira che precipita, gli scandali che si moltiplicano e le fabbriche che chiudono davanti al Rivera che se ne vuole andare diventano un’inezia. Io dico, magari se ne va dalle palle Rivera e tutti quegli scansafatiche come lui, ma se ne debbono andare per sempre questi parassiti, che cazzo mi dà a me Rivera, lui e il Milan, gli arbitri e tutti questi pigghianculo di giornalisti sportivi che alla fine di un telegiornale pieno di sciagure vere, reali, con una faccia da cadaveri, ci annunciano che Rivera ha fatto i capricci, come se fosse finito il mondo. Magari se ne va affanculo, lui gioca e fa i soldi e le ragazze impazziscono per lui, noi operai sfacchiniamo, crepiamo veramente vicino alle macchine e non ci vuol vedere nessuno, non parliamo poi di ragazze. A malapena ci sopportano le nostre mogli, perché stiamo rimbambendo anzitempo.

Oggi al ritorno dalla mensa un gruppo si è attardato a discutere animatamente. Ad un certo punto due tipi sono arrivati quasi alle mani, ormai è chiaro l’oggetto della loro discussione: il pallone! Il bello è che il caporeparto li lasciava fare. Se per caso invece di pallone si parlava di fatti culturali o politici, subito si sarebbe avvicinato e avrebbe zittito mandando ognuno al suo posto di lavoro. Quando vede un gruppo che parla di cose "pericolose", di cose politiche, subito si avvicina e dice con aria interrogativa e di sfida: "ASSEMBLEA"?
Stamattina casino in fabbrica per via dei passaggi di categoria. Quando si parla di soldi l'aria si riscalda. Bolle. Un ex contadino allarmato e meravigliato da tanto casino mi si avvicina e mi dice che è meglio in campagna: qui dentro avvengono cose incomprensibili cose da pazzi, cose brutte che davanti alla grandine o davanti alla siccità sembrano sciocchezze.

Oggi, domenica pomeriggio, il cronista tv attacca tutto eccitato, come se gli avessero messo il diavolicchio in culo, a elencare minuto per minuto i risultati della giornata di calcio. Si agita sulla sedia, si scalda, la voce assume toni drammatici quando apprende che nello stadio X la situazione si è capovolta. A me costui fa soltanto girare le palle, gli faccio una bella pernacchia sul video e spengo con rabbia il televisore.


martedì 25 luglio 2023

Alastair Crooke - Il "Sapete che ore sono?" della controrivoluzione

 


Traduzione da Strategic Culture, 24 luglio 2023.

Gli Stati Uniti e l'Europa sono andati a cacciarsi deliberatamente in trappole allestite da loro stessi. Detto senza infingimenti.
Intrappolato nelle menzogne e negli inganni sorti intorno al retaggio costituito da una asserita superiorità culturale di origine genetica (una cosa che quasi garantisce la vittoria, dicono), l'Occidente sta prendendo coscienza di un disastro in rapido avvicinamento, per il quale non esistono soluzioni facili. L'eccezionalismo culturale e la prospettiva di una chiara "vittoria" sulla Russia stanno rapidamente uscendo dalla scena, ma liberarsi dalle illusioni è una cosa lenta e umiliante.
Il rovescio in arrivo non si concentra solo sul fallimento dell'offensiva ucraina e sulla prova di debolezza data dalla NATO. Comprende molteplici vettori che sono andati sviluppandosi nel corso degli anni e che stanno raggiungendo sincronicamente il loro massimo.
Negli Stati Uniti è iniziata la corsa per una consultazione di portata epocale. I Democratici sono in difficoltà: Il partito ha da tempo voltato le spalle alla classe operaia che costituiva il suo vecchio elettorato, impegnandosi invece a favore di una "classe creativa" urbana in un esaltato progetto di "ingegneria sociale" di risanamento morale a livello mondiale in alleanza con la Silicon Valley e la Nomenklatura inossidabile.
Solo che questo esperimento si è arenato, diventando sempre più estremo e assurdo. E le reazioni sono sempre più forti.
Come era abbastanza facile prevedere, la campagna democratica non sta certo guadagnando terreno. L'amministrazione Biden ha un indice di gradimento basso, bassissimo. Ma la famiglia Biden continua a premere e a insistere sul fatto che Biden deve perseverare con la sua candidatura e non cedere il passo a nessun altro. In ogni caso -che Biden rimanga o no- non c'è una soluzione pronta per l'impasse di un partito che non funziona e che non ha una piattaforma.
Il panorama elettorale è un disastro. Il legalitarismo è come artiglieria pesante, destinata a rompere le difese di Trump e ad allontanarlo dalla competizione; una serie di rivelazioni su illeciti commessi dalla famiglia Biden è destinata invece a logorare e a far implodere la bolla Biden. Anche l'establishment democratico è spaventato dalla manovra di fiancheggiamento della candidatura di R. F. Kennedy, che sta rapidamente prendendo concretezza.
In parole povere, l'ideologia democratica di tipo woke fondata sulla riparazione storica sta dividendo gli Stati Uniti in due nazioni che vivono in uno stesso paese. Due nazioni divise non tanto secondo il rosso o il blu o da appartenenze di classe, ma definite da "modi di essere" inconciliabili. Le vecchie categorie di Sinistra e Destra, Democratici o Repubblicani sono state liquidate da una guerra culturale che di categorie non ne rispetta nessuna perché supera ogni confine di classe e di appartenenza di partito. In effetti, anche le minoranze etniche sono state alienate dagli zeloti che vogliono rendere sessualmente consapevoli i bambini a cinque anni e dall'imposizione dell'agenda trans ai bambini delle scuole.
L'Ucraina è stata come un solvente per il vecchio ordine, ed è diventata una brutta gatta da pelare per il governo Biden, che ha il problema di far passare per una "missione compiuta" l'incombente debacle ucraina. È fattibile, una cosa del genere? Perché la scappatoia del cessate il fuoco e della linea del fronte congelata per Mosca è inaccettabile. In breve, la "guerra di Biden" non può andare avanti in questo modo, ma non può nemmeno diventare qualcosa di diverso senza andare incontro a un esito umiliante. Il mito della potenza ameriKKKana, la competenza della NATO e la reputazione degli armamenti statunitensi sono a rischio.
Anche la narrativa economica per cui "tutto va bene" è pronta, per ragioni in parte non collegate tra loro, a girare in aceto. Il debito -alla fine- sta diventando la spada di Damocle sul collo dell'economia. Il credito è in fase di contrazione. Il mese prossimo il blocco BRICS-SCO compirà i primi passi strategici per staccare dal dollaro qualcosa come una quarantina di paesi. Chi comprerà i 1100 miliardi di dollari di emissioni del Tesoro della Yellen, necessari adesso e anche in futuro per finanziare la spesa pubblica statunitense?
Questi eventi sono apparentemente scollegati, ma in realtà formano un circolo vizioso che si autorafforza. Un ciclo che porta all'equivalente politico della corsa agli sportelli, ovvero al rapido crollo della credibilità stessa degli Stati Uniti.
A fronte di tanti problemi e di nessuna soluzione alcuni settori dell'elettorato stanno adottando uno stato d'animo animato da uno spirito radicale e sempre più iconoclasta. Uno spirito controrivoluzionario, forse. È troppo presto per dire se riuscirà a conquistare la maggioranza, ma potrebbe farlo, perché il radicalismo proviene da due ali: la base del partito repubblicano e il "campo" di Kennedy.
Un settore degli elettori repubblicani divide i leader conservatori in due campi: quelli che "sanno che ore sono" e quelli che non lo sanno. Questo è il tormentone della destra, che è diventato sempre più importante per un'ala significativa del partito che considera gli Stati Uniti come un paese indebolito e corrotto dall'ideologia e che ritiene che non ci sia quasi più nulla da "conservare". Rovesciare l'ordine post-ameriKKKano esistente e reinstaurare nella pratica gli antichi principi dell'AmeriKKKa sono istanze avanzate come una sorta di controrivoluzione e come l'unica strada percorribile.
L'espressione "sapere che ore sono" si riferisce al montante desiderio di una drastica iniziativa radicale, non a pedanti e noiosi dibattiti accademici tra i personaggi più populisti del panorama conservatore. "La premessa è che la lotta contro il potere culturale woke è una questione di vita o di morte, e che le tattiche estreme che scioccherebbero i conservatori della vecchia generazione devono diventare la norma".
Insomma: se un leader non adotta una condotta e delle proposte scioccanti, probabilmente "non sa che ore sono".
La seconda caratteristica chiave di questa mentalità "noi contro di loro" è che qualsiasi consenso politico diventa sospetto ipso facto e finisce quindi sotto tiro. "Quando ci si rende conto di questo, quello che all'inizio sembra un guazzabuglio di idee discordanti acquista un suo senso". La politica sanitaria per il Covid, il disgusto per il 6 gennaio, il bilancio del Pentagono, l'immigrazione, il sostegno all'Ucraina, la promozione della diversità razziale, i diritti dei trans: sono tutti temi che godono di un certo consenso bipartisan tra le élite. Ma per l'ala di Tucker Carlson i repubblicani che fanno propri questi temi "non sanno che ore sono, semplicemente", spiega Politico.
L'aspetto saliente di questa formulazione è che proprio come un incondizionato sostegno alle restrizioni sul Covid era un "indicatore" di "pensiero corretto" in tempo di pandemia, così il sostegno all'Ucraina viene inteso come un "indicatore" di "pensiero corretto" liberale -e di appartenenza all'areale governativo- nell'era post-pandemica.
Questo fa pensare che -già adesso e con l'avvicinarsi delle elezioni- l'Ucraina non sarà più un tema su cui esiste un sostegno da entrambe le parti; l'Ucraina diventerà piuttosto una spada usata contro l'odiato establishment del partito unico, ogni accenno ad un disastro diventerà il fulcro di questa guerra controrivoluzionaria.
Il Partito Repubblicano ritiene che la cultura statunitense sia uscita dai binari: al Congresso all'inizio di luglio si è bloccata l'attività legislativa quando la legge di bilancio per la difesa, un tempo sacrosanta, è diventata bersaglio di emendamenti frutto della guerra culturale sull'aborto, la diversità e il genere, che avrebbero potuto vanificarne l'approvazione.
Il presidente della Camera McCarthy è stato costretto ad accettare la ribellione dell'estrema destra contro la legge di bilancio per la difesa, e a farla passare senza il consueto ampio sostegno bipartisan.
Le misure approvate hanno eliminato i fondi per le iniziative a favore della diversità nelle forze armate e hanno aggiunto restrizioni sull'aborto e sull'assistenza ai transgender per il personale in servizio. I legislatori repubblicani hanno dichiarato di aver agito perché l'ideologia liberale stava indebolendo le forze armate. Ma gli emendamenti introdotti mettono in pericolo il percorso della legge al Senato, che è controllato dai Democratici.
Questo riscaldarsi degli animi da entrambe le parti si riflette nei sondaggi. In uno, circa l'80% dei repubblicani ritiene che il programma democratico "se non viene fermato, distruggerà l'AmeriKKKa per come la conosciamo". Un altro della NBC News dello scorso autunno ha rivelato che circa la stessa percentuale di democratici ha timore del programma repubblicano, affermando che distruggerà il Paese.
Il presidente della Heritage Foundation Kevin Roberts sottolinea il ruolo che Tucker Carlson avrebbe nel 'dire la verità al pubblico ameriKKKano'. Carlson riesce a notare le "crepe nel consenso economico, le crepe nella politica estera e, cosa più importante per me, come alcuni conservatori amano dire: '[sa] che ore sono'".
Carlson rimprovera al Partito Repubblicano, vicino al mondo degli affari, di essersi accodato alle aziende che hanno esternalizzato i posti di lavoro nel settore manifatturiero. Ha portato al vasto pubblico la voce critica dei conservatori sugli interventi per la transizione di genere nei minori. In materia di politica sociale e fiscale, Carlson si è spinto laddove i conservatori più tradizionalisti non sarebbero arrivati. E la sua influenza è stata indiscutibile. "La cosa fondamentale", ha detto Roberts, "è che Tucker pensa di essere portatore di obblighi morali per conto del conservatore medio".
I democratici e altri esponenti del campo liberale, tuttavia, sostengono che la guerra culturale del Partito Repubblicano sia una mera reazione contro la crescente accettazione delle sempre più numerose multiformità della nazione, una accettazione che a loro avviso era attesa da tempo in AmeriKKKa.
"La controrivoluzione ha trasformato la prossima corsa alla Casa Bianca in un appuntamento col destino. Pochissimi parlano di riforma fiscale e tutti parlano di questioni culturali", ha detto un leader repubblicano; "vedono la politica quasi come una questione di vita o di morte". Il candidato presidenziale del Partito Repubblicano Ramaswamy in un discorso di inizio luglio ha notato che il patriottismo, il lavoro duro e altri valori si sono dissipati: "È in queste condizioni che il veleno inizia a riempire il vuoto: cultura woke, transgenderismo, climatismo, covidismo, depressione, ansia, droghe, suicidio".
Insomma, per gli Stati Uniti si prospettano i fuochi d'artificio. In Europa invece sono in pochi a "sapere che ore sono". La guerra culturale ha indebolito, come previsto, il senso di appartenenza collettiva alle diverse culture europee. E la reazione è stata silenziosa. L'Europa rimane in generale torpida e fiacca, e le classi dominanti contano proprio su questo per continuare a sopravvivere.
Il deflaglare dei fuochi artificiali nel cielo politico statunitense avrà quasi certamente ripercussioni anche in Europa. Gli europei condividono la sfiducia verso le élite e la tecnocrazia di Bruxelles secondo lo stesso sentire delle circoscrizioni dei Carlson e dei Kennedy.
Le élite europee disprezzano il popolo. Gli europei comuni sanno che i loro governanti li considerano con disprezzo e sanno che e loro élite sono consapevoli di questo.
Il ferro europeo fonderà al calor bianco dell'economia: una serie di decisioni sbagliate ha ipotecato il futuro economico dell'Europa per gli anni a venire. L'austerità sta arrivando. E l'inflazione sta devastando il tenore di vita dei cittadini e persino la loro stessa sussistenza.
Sono in preparazione fuochi d'artificio anche in Europa, ma con calma; sarebbero anche già iniziati perché i governi stanno cadendo; ma gli Stati Uniti sono l'avanguardia di un cambiamento radicale, poiché l'Occidente sta perdendo la presa sulla metanarrativa della sua "visione", che è l'unico paradigma ammissibile per modellare anche la sua "visione" del mondo. Un mutamento che cambia tutto.

martedì 18 luglio 2023

Alastair Crooke - Il falò delle vanità


Traduzione da Strategic Culture, 17 luglio 2023.


Credere che una narrativa manipolata possa di per sé portare alla vittoria è un atteggiamento arrogante. Si tratta di una fantasia che ha permeato l'Occidente, con sempre maggiore enfasi dal XVII secolo in poi.
Recentemente il Daily Telegraph ha pubblicato un ridicolo video di nove minuti in cui si sostiene che "è la narrativa a vincere la guerra" e che le battute d'arresto sul campo di battaglia sono un fatto accidentale: ciò che conta è avere un filo narrativo unitario articolato, sia verticalmente che orizzontalmente, lungo tutto lo spettro degli attori coinvolti: dal singolo soldato delle forze speciali presente sul terreno fino ai massimi esponenti dei vertici del potere politico. Il succo è che "noi" (l'Occidente) abbiamo costruito una narrativa mentre quella della Russia è "grossolana": "Che vinceremo noi, quindi, è fuori discussione".
Facile sghignazzare, ma possiamo riconoscere in questa pretesa una certa fondatezza, sia pure una fondatezza inventata. La narrativa costituisce ormai per le élite occidentali il mezzo per immaginare il mondo. Che si tratti dell'emergenza pandemica, del clima o dell'Ucraina, tutte le "emergenze" sono ridefinite come "guerre". Tutte "guerre" che devono essere combattute sulla base di una narrativa di vittoria univoca e imposta, a fronte della quale è vietata ogni opinione contraria.
Tanta arroganza ha un difetto ovvio: essa impone di entrare in guerra... contro la realtà. Sulle prime il pubblico rimane confuso, ma via via che le menzogne proliferano e si susseguono le une alle altre, la narrativa perde sempre di più i contatti col reale e un certo sentore di disonestà comincia a levarsi attorno ad essa. Presso il pubblico inizia a farsi strada un certo scetticismo. Le narrative sul perché dell'inflazione, sull'economia più o meno in salute, sul perché è necessario fare la guerra contro la Russia iniziano a sfaldarsi.
Le élite occidentali hanno puntato persino la camicia sul massimo controllo delle "piattaforme mediatiche", sull'assoluto conformismo dei messaggi e sulla spietata repressione delle proteste; sono questi gli strumenti con cui intendono mantenere il potere.
Eppure, contro ogni previsione, il mainstream sul pubblico statunitense sta perdendo presa. I sondaggi mostrano che nei suoi confronti esiste una sempre maggiore sfiducia. Quando su Twitter è apparso il primo show "anti-messaggio" di Tucker Carlson e più di cento milioni di statunitensi (un cittadino su tre) si sono messi ad ascoltarne i toni iconoclastici, si è sentito il rumore delle placche tettoniche che si scontravano. Il punto debole di questo nuovo autoritarismo "liberale" è che i suoi miti narrativi fondamentali possono essere sfatati. Basta poco, e un po' per volta la gente inizia a parlare della realtà.
Ucraina: come si vince una guerra che non si può vincere? La risposta dell'élite è stata proprio una narrativa in cui, a dispetto della realtà, si asserisce con insistenza che l'Ucraina sta vincendo e che la Russia sta "cedendo". Una posizione arrogante, che alla fine viene contraddetta dalle evidenze sul campo. Anche le classi dirigenti occidentali si rendono conto che la loro pretesa che l'offensiva ucraina avesse successo è finita in un fiasco. Alla fine, i fatti militari battono le chiacchiere della politica: una delle due parti è distrutta, i suoi numerosi morti diventano il tragico agente che rovescia il dogma.
"Potremo invitare l'Ucraina ad aderire all'Alleanza quando gli alleati saranno d'accordo e quando vi saranno le condizioni... [tuttavia] a meno che l'Ucraina non vinca questa guerra, non ci sarà nulla da discutere sulla questione del suo ingresso," ha dichiarato Jens Stoltenberg a Vilnius. Così, dopo aver esortato Kiev a gettare altre centinaia di migliaia di uomini in pasto alla morte in nome dell'adesione alla NATO, la NATO stessa volta le spalle al suo protetto. Tutto considerato si trattava di una guerra che fin dall'inizio non poteva essere vinta.
L'arroganza in queste circostanze stava nel fatto che la NATO contrapponeva la sua presunta "superiorità" in termini di dottrina militare e di armamenti alla deprecata rigidità militare -sclerotizzata e di stile sovietico- dei russi.
Ma i dati di fatto militari sul campo hanno smascherato quanta arroganza vi fosse nella dottrina occidentale; le forze ucraine ne sono uscite decimate, le armi della NATO ridotte a rottami fumanti.
È stata la NATO a insistere sul mettere nuovamente in scena la Battaglia del 73° Est, svoltasi nel deserto iracheno e ora portata in Ucraina.
In Iraq le forze corazzate scompaginarono facilmente le formazioni di carri armati iracheni: si tratto di un'azione decisa che mise gli avversari iracheni al tappeto. Ma, come ammette francamente il comandante statunitense di quella battaglia di mezzi corazzati (colonnello Macgregor), si trattò di un esito in gran parte fortuito, a spese di un avversario demotivato. Nonostante questo il "73° Est" è diventato un mito per la NATO, ed è stato trasformato in dottrina generale per le forze ucraine. Una dottrina costruita sulle circostanze uniche verificatesi in Iraq.
Il picco massimo dell'arroganza, il suo vertice, in linea con il video del Daily Telegraph, si ha quando si arriva a imporre la narrativa di una pronosticata "vittoria" occidentale anche nei confronti del mondo politico russo. È una storia vecchia che la Russia sia militarmente debole, politicamente fragile e incline alle fratture. Conor Gallagher ha dimostrato con abbondanza di citazioni che era esattamente la stessa storia ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, e che essa rifletteva un'analoga sottovalutazione occidentale della Russia, unita a una grossolana sopravvalutazione delle proprie capacità.
Il problema principale, con le illusioni, è che per liberarsene (sempre che ci si riesca) occorre molto più tempo di quello concesso dagli eventi. Uno sfasamento che può determinare gli esiti futuri.
Gli uomini di Biden potrebbero avere interesse a supervisionare un ritiro ordinato della NATO dall'Ucraina, in modo da evitare che si arrivi a un'altra debacle come a Kabul.
Per arrivare a questo, gli uomini di Biden hanno bisogno che la Russia accetti un cessate il fuoco. E qui sta il difetto -su cui si è ampiamente sorvolato- di questa strategia: la Russia non ha alcun interesse a congelare la situazione. Ancora una volta, l'ipotesi che Putin accoglierebbe fremente l'offerta occidentale di un cessate il fuoco indica un atteggiamento arrogante: le posizioni dei due avversari non sono congelate nel senso elementare del vocabolo, ovvero in un conflitto in cui nessuna delle due parti è riuscita a prevalere sull'altra e si è arrivati allo stallo.
In parole povere, mentre l'Ucraina è strutturalmente sull'orlo dell'implosione, la Russia al contrario ha pieno controllo della propria intatta potenza. Dispone di forze ingenti e fresche, domina lo spazio aereo e ha quasi il dominio dello spazio elettromagnetico. Ma l'obiezione più sostanziale nei confronti di un cessate il fuoco è che Mosca vuole che l'attuale esecutivo di Kiev se ne vada e che le armi della NATO escano dal campo di battaglia.
Ecco quindi il problema: per Biden ci sono le elezioni, quindi sarebbe opportuno che la campagna democratica si chiudesse senza scosse. La guerra in Ucraina ha messo in luce troppe carenze logistiche, da parte statunitense. Ma anche la Russia ha i suoi interessi.
L'Europa più di tutti è ancora alle prese con le illusioni, fin dal momento in cui si è gettata senza riserve dalla parte di Biden. La narrativa sull'Ucraina si è spezzata a Vilnius. Ma l'amor proprio di alcuni leader dell'Unione Europea li mette in conflitto con la realtà. Vogliono continuare ad alimentare il tritacarne ucraino, a ostinarsi nella fantasia di una vittoria completa. "Non esiste altra strada che quella di una vittoria totale e di liberarsi di Putin... Dobbiamo assumercene ogni rischio. No, non esiste compromesso possibile; nessuno".
La classe politica dell'Unione Europea ha preso così tante decisioni disastrose in ossequio alla strategia statunitense -decisioni che vanno direttamente contro gli interessi economici e di sicurezza degli europei- che nutre molti timori.
Se la reazione di alcuni di questi leader sembra sproporzionata e irrealistica ("Non esiste altra strada che quella di una vittoria totale e di liberarsi di Putin") è perché questa guerra va a coinvolgere motivi più profondi; è una reazione che riflette il timore esistenziale di un disfacimento della metanarrativa occidentale capace di provocare il crollo dell'egeomonia dell'Occidente, e con essa anche della sua struttura finanziaria.
La metanarrativa occidentale "da Platone alla NATO è una storia fatta di idee e comportamenti superiori le cui origini risalgono all'antica Grecia e che da allora sono stati raffinati, estesi e trasmessi nel corso dei secoli (attraverso il Rinascimento, la rivoluzione scientifica e altri sviluppi presumibilmente unicamente occidentali), cosicché oggi noi occidentali siamo i fortunati eredi di un DNA culturale superiore".
Questo è ciò che probabilmente avevano in mente gli autori del video del Daily Telegraph quando insistevano a dire che "la nostra narrativa vince le guerre". La loro arroganza risiede nella presunzione implicita che l'Occidente in qualche modo vinca sempre, che sia destinato a prevalere perché è il custode ultimo di questa genealogia privilegiata.
Naturalmente al di fuori del parlare comune si accetta che la nozione di "Occidente coerente" sia stata inventata, riproposta e utilizzata in tempi e luoghi diversi. Nel suo nuovo libro The West l'archeologa classica Naoíse Mac Sweeney contesta questo mito fondante sottolineando che è stato solo "con l'espansione dell'imperialismo europeo oltremare nel XVII secolo che ha cominciato a farsi strada un'idea più coerente di Occidente, utilizzata come strumento concettuale per tracciare la distinzione tra il tipo di persone che poteva essere legittimamente colonizzato e quello che poteva legittimamente fare il colonizzatore".
Con l'invenzione dell'Occidente è arrivata anche l'invenzione della storia dell'Occidente, storia di un lignaggio elevato ed esclusivo, che ha fornito giustificazione storica al dominio occidentale.
Secondo il giurista e filosofo inglese Francis Bacon, nella storia dell'umanità ci sono stati solo tre periodi di progresso e di civiltà: "uno tra i greci, il secondo tra i romani e l'ultimo tra noi, cioè tra le nazioni dell'Europa occidentale".
Il timore più profondo dei leader politici occidentali -complice la consapevolezza che una narrativa altro non è che un racconto fittizio che facciamo a noi stessi, pur sapendo che di fatto si tratta di cose senza fondamento- è che la nostra epoca sia stata resa sempre più e sempre più pericolosamente subordinata rispetto a questa metanarrazione mitica.
Essi non guardano con timore soltanto a una Russia che diventa una potenza, ma piuttosto alla prospettiva che il nuovo ordine multipolare guidato da Putin e Xi, che si sta diffondendo in tutto il mondo, faccia crollare il mito della civiltà occidentale.

lunedì 17 luglio 2023

Alastair Crooke - Le due città

 

Traduzione da Strategic Culture, 13 luglio 2023.


Il caos che gli "esperti" occidentali si aspettavano "facendosela addosso per l'eccitazione" e che si sarebbe scatenato in Russia comportando con certezza il fatto che "russi... avrebbero ucciso altri russi" con Putin "probabilmente nascosto da qualche parte" si è effettivamente verificato. Solo che è esploso in Francia, dove non era previsto, e alle corde ci è finito Macron a Parigi invece che Putin a Mosca.
C'è molto di cui fare tesoro in questo interessante rovesciamento delle aspettative e degli eventi, dalla storia di due insurrezioni dal carattere molto diverso. Sabato pomeriggio [8 luglio 2023, n.d.t.], dopo che Prigozhin aveva raggiunto Rostov, negli Stati Uniti si è diffusa la notizia che aveva raggiunto un accordo con il Presidente Lukashenko per porre fine alla sua protesta e andare in Bielorussia.
Si è così conclusa una vicenda in buona parte incruenta. Nessuno ha sostenuto Prigozhin, né nella classe politica né nell'esercito. L'establishment occidentale è rimasto sconcertato; le sue aspettative sono crollate nel giro di qualche ora in maniera apparentemente inspiegabile.
Altrettanto scioccanti per l'Occidente sono stati i video provenienti da Parigi e dalle città di tutta la Francia. Auto in fiamme, stazioni di polizia e sedi comunali incendiate, polizia attaccata e moltissimi negozi saccheggiati. Erano scene che sembravano riferirsi alla caduta dell'impero romano.
Alla fine anche questa insurrezione è evaporata. Tuttavia non è certo sfumata come l'"ammutinamento" di Prigozhin, che si è concluso con un'attestazione di sostegno allo Stato russo in sé e al Presidente Putin in persona. Nel caso dell'insurrezione francese non si è risolto un bel nulla; lo Stato viene considerato al di là di ogni possibile rimedio nella sua attuale iterazione: esso non è più una repubblica. E la posizione personale del Presidente Macron è stata messa a repentaglio forse in modo irreparabile.
A differenza di quanto successo in Russia il Presidente francese ha visto gran parte della polizia rivoltarglisi contro. Il sindacato della polizia ha rilasciato una dichiarazione che puzzava di imminente guerra civile, con i rivoltosi etichettati come "parassiti". Alti generali dell'esercito hanno anche avvertito Macron di "prendere in mano la situazione", altrimenti sarebbero stati costretti a farlo loro.
È chiaro che -anche se solo per nove giorni- le forze di polizia hanno voltato le spalle al Capo dello Stato. Tutta la storia ci dice che un leader che ha perso l'appoggio dei suoi esecutori può anch'egli finire male, magari alla prossima insurrezione.
Questa rivolta delle banlieues è stata liquidata con troppa faciloneria come la nuova recrudescenza di una inveterata piaga di origine algerina/marocchina. È vero che l'uccisione di un giovane di origine nordafricana ha scatenato immediatamente le rivolte in diverse città; in tutte sono scoppiati disordini nel giro di un'ora. Coloro che vogliono a tutti i costi negare che l'accaduto abbia una portata più ampia, nonostante le precedenti proteste di massa non siano state condotte dai banlieusards, lo fanno bofonchiando che i francesi sono gente facile a scendere in piazza...
In tutta franchezza, il problema di fondo che la Francia ha appena rivelato è la crisi paneuropea -in corso da tempo- per la quale non esistono soluzioni pronte. È una crisi che minaccia tutta l'Europa. I commentatori si affrettano a suggerire che proteste di piazza come quelle francesi non possono minacciare uno Stato europeo perché erratiche e prive di una piattaforma politica.
Stephen Kotkin tuttavia ha scritto Uncivil Society in risposta al mito preponderante per cui se non esiste una società civile organizzata in modo parallelo, in grado di opporsi a un regime e di arrivare infine a smantellarlo, gli Stati della UE sono perfettamente al sicuro e possono andare dritti per la loro strada ignorando la rabbia popolare.
La tesi di Kotkin è che i regimi comunisti caddero non solo inaspettatamente e sostanzialmente da un giorno all'altro, ma anche (tranne che in Polonia) senza che esistesse alcuna opposizione organizzata. È un mito assoluto che il comunismo sia caduto perché esisteva una società civile contraria, scrive. Questo mito persiste tuttavia all'interno di un Occidente che si affanna a creare opposizioni a livello di società civile per promuovere i propri obiettivi di rovesciamento dei governi.
L'unica struttura organizzata nell'Europa orientale comunista era la Nomenklatura al potere. Kotkin stima che questa burocrazia tecnocratica al potere assommasse a circa il 5-7% della popolazione; persone che interagivano quotidianamente tra loro e che costituivano l'entità coerente che deteneva il potere effettivo. Persone che vivevano una realtà parallela e privilegiata, completamente separata dal mondo circostante, e che modellavano ogni aspetto della vita a proprio vantaggio. Finché un giorno smise di farlo. Fu questa tecnocrazia a crollare nel 1989.
Cosa provocò l'improvviso crollo di questi Stati? La recisa risposta di Kotkin è che si trattò di un venir meno a cascata della fiducia: l'equivalente politico di un episodio di panico bancario. E l'evento cruciale nel rovesciamento di tutti i governi comunisti furono le proteste di piazza. Così gli eventi del 1989 hanno stupito l'intero Occidente: per il fatto che mancava un'opposizione politica organizzata.
Il punto ovviamente è che l'odierna tecnocrazia europea, che rispetto alla maggior parte degli europei vive una realtà parallela tutta sua fatta di estrema attenzione per le questioni di genere, per la diversità e per l'agenda verde, presume compiaciuta di poter sopprimere la protesta controllando la narrativa, e di poter andare avanti con l'imposizione di un futuro a misura di Forum Economico Mondiale, che cancelli senza trovare ostacoli le identità e le culture nazionali.
Ciò che sta accadendo in Francia -in forme diverse- è proprio l'equivalente politico di un episodio di panico bancario a scapito del Presidente francese. E ciò che sta accadendo in Francia può anche diffondersi... 
Naturalmente, negli Stati comunisti si erano verificate anche in precedenza delle proteste di piazza. Kotkin sostiene che a fare la differenza nel 1989 fu l'estrema fragilità del regime. I due elementi scatenanti nell'immediato, oltre alla pura incompetenza e alla sclerotizzazione, furono il rifiuto di Mikhail Gorbaciov di avallare la repressione (un comportamento analogo a quello di Macron nel caso degli episodi recenti), e il fallimento dello schema economico Ponzi in cui tutti quegli stati erano impelagati prendendo in prestito valuta forte dall'Occidente per sostenere le proprie economie.
Questo punto permette di capire perché i recenti accadimenti in Francia sono così gravi e hanno un impatto tanto più vasto. L'Europa infatti sta perversamente percorrendo la stessa parabola -sia pure con peculiarità occidentali- che ha percorso l'Europa dell'Est.
Dopo le due guerre mondiali gli europei occidentali hanno cercato di realizzare una società più giusta; la società industriale che aveva preceduto le guerre era scopertamente feudale e brutale. Gli europei volevano un nuovo contratto sociale che si occupasse anche dei meno favoriti. Non si cercava il socialismo in sé, anche se alcuni volevano chiaramente il comunismo; in sostanza, si trattava di reinserire alcuni valori etici in una sfera economica all'insegna di un laissez-faire amorale.
Le cose non sono andate troppo bene. Il sistema si è enfiato fino a quando gli Stati occidentali non hanno potuto più permetterselo. Il debito è alle stelle. Poi, negli anni '80, fu adottato quello che sembrava un "rimedio" rilevandolo dai fanatici neoliberisti della Scuola di Chicago, che predicavano il logoramento dell'infrastruttura sociale e la finanziarizzazione dell'economia.
I proseliti di Chicago dissero al Primo Ministro Thatcher di smettere di costruire navi o di produrre automobili; che ci pensassero in Asia. L'industria dei servizi finanziari era la gallina dalle uova d'oro del futuro. La cura si è rivelata peggiore della malattia. Paradossalmente, il difetto del paradigma economico cui si era deciso di aderire era stato percepito da Friedrich List e dalla Scuola tedesca di economia già nel XIX secolo. List notò la stortura del modello anglosassone basato su un consumo fondato sul debito: in poche parole, il benessere di una società e la sua ricchezza complessiva non sono determinati da ciò che essa può comprare, ma da ciò che può produrre.
List prevedeva che la tendenza a privilegiare il consumo anteponendolo alla costruzione dell'economia reale avrebbe inevitabilmente portato a un indebolimento dell'economia: man mano che i consumi e un settore finanziario e dei servizi dalla portata effimera avrebbero rubato l'"ossigeno" degli investimenti freschi alla produzione reale, in ogni caso necessaria per pagare le importazioni, l'economia reale sarebbe deperita.
Questo avrebbe portato all'erosione della fiducia in se stessi, con una base sempre più ridotta di creazione di ricchezza reale a sostenere un numero sempre minore di occupati adeguatamente retribuiti. E per sostenere un numero sempre più ridotto di persone occupate in modo produttivo sarebbe diventato necessario un debito sempre maggiore. Eccola qui, la favola francese.
Negli Stati Uniti ad esempio i disoccupati ufficiali sono 6,1 milioni, ma 99,8 milioni di statunitensi in età lavorativa sono considerati "non appartenenti alla forza lavoro". In totale, quindi, 105 milioni di statunitensi in età lavorativa un lavoro non lo hanno.
È la stessa trappola in cui si dibattono la Francia e gran parte dell'Europa. L'inflazione è in aumento, l'economia reale si sta contraendo, l'occupazione ben retribuita si sta riducendo, mentre il tessuto di sostegno è stato sventrato per motivi ideologici.
La situazione è desolante. L'aumento dell'immigrazione in Europa aggrava il problema. Tutti se ne rendono conto, tranne la nomenklatura europea che continua a negare in nome dell'ideologia della "società aperta". Ecco il punto: non ci sono soluzioni. Sciogliere le contraddizioni strutturali del modello di Chicago è al di là delle attuali capacità politiche occidentali.
La sinistra non ha soluzioni, alla destra non si permette di esprimere un'opinione. Zugzwang. Scacco matto.
Il che ci riporta a "Le due città" e al modo molto diverso con cui vivono gli episodi insurrezionali: In Francia, non esiste soluzione. In Russia, Putin e milioni di altri hanno sperimentato la "terapia d'urto" della liberalizzazione dei prezzi e dell'iperfinanziarizzazione durante gli anni di Eltsin.
E Putin ha capito. Come aveva previsto List, il modello finanziario "anglosassone" aveva eroso la fiducia del paese in se stesso e ridotto la base della creazione di ricchezza reale, quella che forniva i posti di lavoro necessari a sostenere la popolazione russa.
Negli anni di Eltsin molte persone persero il lavoro, non ricevettero stipendio, videro crollare il valore reale dei loro redditi. Oligarchi apparentemente sbucati dal nulla arrivarono a saccheggiare qualsiasi settore che avesse valore. Ci furono iperinflazione, gangsterismo, corruzione, corse all'accaparramento di valuta pregiata, fuga di capitali, povertà disperata, aumento dell'alcolismo, declino della salute e volgari e dispendiose ostentazioni di ricchezza da parte dei super ricchi.
Tuttavia, l'influenza principale su Putin è stata esercitata dal Presidente Xi. Quest'ultimo aveva chiarito, in una acuta analisi intitolata "Perché l'Unione Sovietica si è disintegrata?", che il ripudio sovietico della storia del Partito Comunista dell'Unione Sovietica di Lenin e di Stalin "ha portato il caos nell'ideologia sovietica e ad abbracciare il nichilismo storico".
Xi sosteneva che, dati i due poli dell'antinomia ideologica -la costruzione anglostatunitense da un lato, la critica escatologica leninista del sistema economico occidentale dall'altro- le "classi dirigenti sovietiche avevano smesso di credere" nel loro polo, e di conseguenza erano scivolate in uno stato di nichilismo (con il perno dell'ideologia liberal-mercantile occidentale nell'era Gorbaciov-Yeltsin). Xi avanzava una considerazione precisa: la Cina non aveva mai compiuto una simile deviazione. In parole povere, per Xi, la débâcle economica di Eltsin è stata il risultato della svolta verso il liberalismo occidentale. E Putin si è dimostrato d'accordo.
Secondo le parole di Putin, la Cina "è riuscita nel miglior modo possibile, a mio avviso, a utilizzare le leve dell'amministrazione centrale (per) lo sviluppo di un'economia di mercato... L'Unione Sovietica non ha fatto nulla di simile, e i risultati di una politica economica inefficace hanno avuto impatto sulla sfera politica".
Ma è proprio in questo che la Russia, sotto Putin, ha operato correzioni. Mescolando l'ideologia di Lenin con le intuizioni economiche di List (un seguace di List, il conte Sergei Witte, fu Primo Ministro nella Russia del 19° secolo), la Russia ha preso fiducia in se stessa.
L'Occidente non ne è convinto. L'Occidente si ostina a vedere la Russia come uno Stato fragile e propenso a sgretolarsi, finanziariamente in difficoltà tali che un qualsiasi rovescio sul fronte ucraino potrebbe provocare un crollo finanziario da panico (come si è visto nel 1998) e gettare Mosca in condizioni di anarchia politica simili a quella dell'era Eltsin.
Sulla base di questa analisi errata e assurda, l'Occidente ha mosso guerra alla Russia attraverso l'Ucraina. La strategia di questa guerra è sempre stata basata sul postulato di una fragilità politica ed economica della Russia, e sulla debolezza di un esercito impantanato in rigide strutture di comando di tipo sovietico.
La guerra può essere in gran parte attribuita a questo non aver considerato il forte convincimento di Xi e di Putin che la devastazione dei tempi di Eltsin non fosse altro che il risultato inevitabile della svolta verso il liberalismo occidentale. E che questa stortura richiedesse una correzione concertata, che Putin ha debitamente effettuato ma che l'Occidente non ha notato.
Gli Stati Uniti perseverano, a dispetto di ogni evidenza, nella convinzione che la fragilità intrinseca della Russia si spieghi con il suo allontanamento dalle dottrine economiche "anglosassoni". Un atteggiamento che riflette il pio desiderio occidentale.
La maggior parte dei russi invece considera spiegabile la resilienza della Russia a fronte del concertato attacco finanziario occidentale, perché Putin ha ampiamente spinto la Russia verso l'autosufficienza, al di fuori della sfera economica occidentale dominata dagli Stati Uniti.
Così si spiega il paradosso: di fronte alla "insurrezione" di Prigozhin i russi hanno espresso fiducia e sostegno allo Stato russo. Mentre nel caso dell'insurrezione francese, il popolo ha espresso malcontento e rabbia per la "trappola" in cui si trova. La corsa agli sportelli, per la "banca" Macron, è cominciata.