lunedì 27 novembre 2017

Alastair Crooke - L'azzardo di un'Arabia Saudita alla disperazione



Traduzione da Consortium News, 10 novembre 2017.

La cosa è sempre intrigante. La guerra in Siria sta per finire, e per chi ha scommesso sulla parte perdente e si ritrova all'improvviso nelle peste mentre il tempo sta per scadere la sconfitta è motivo di acuto e pubblico imbarazzo. La tentazione è quella di ignorare la sconfitta e buttare spavaldamente sul piatto l'ultima posta: all'ultimo giro di ruota il vero uomo si gioca la casa e tutto quello che c'è dentro. Quelli che assistono se ne stanno vigili in silenzio, aspettano che la ruota rallenti e faccia passare la pallina da numero a numero e guardano dove va a fermarsi, se sul nero o sul rosso. Il rosso sangue della tragedia.
Questo non succede solo nei romanzi; succede anche nella vita. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) ha puntato tutto sul nero, con il sostegno degli amici: il genero del Presidente Trump Jared Kushner, il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed (MbZ) e lo stesso Trump. Nel corso della sua vita di affarista Trump si è giocato il futuro in una o due occasioni. Ha giocato anche lui, e lo ammette con eccitazione.
Nell'ombra, nel retro della sala da gioco, ecco il Primo Ministro sionista Bibi Netanyahu. L'idea di darsi al gioco è stata prima di tutto un'idea sua. Se l'eroico giocatore cade in piedi anche lui avrà di che gioire, ma se esce il rosso... beh, nulla di cui preoccuparsi: mica ci rimane lui, in braghe di tela.
Siamo chiari: Mohammed bin Salman sta distruggendo tutto quello che mantiene il regno saudita integro e intatto. L'Arabia Saudita non è solo una ditta di famiglia, è anche una confederazione tribale i cui interessi discordanti sono stati soddistatti dapprincipio tramite la composizione della Guardia Nazionale e tramite il suo controllo. Solo che la Guardia Nazionale non rispecchia più le varie affiliazioni tribali del regno, ma gli interessi di un solo uomo, quello che se ne è impossessato.
Lo stesso vale per i vari rami cadetti della famiglia al Saud. L'oculata suddivisione della posta in gioco fra i molti che in famiglia battono cassa non esiste più. Un solo uomo sta ritirando dal tavolo le puntate più piccole di tutti quanti. Lo stesso ha tagliato i legami che univano la corte alla élite affaristica saudita e sta lentamente separandosi anche dallo establishment religioso wahabita, che si è ritrovato cacciato a calci dal sodalizio fondato insieme a Ibn Saud, primo monarca dell'Arabia Saudita che governò nella prima metà del XX secolo e noto anche come re Abdul Aziz. Insomma, non è rimasto più nessuno ad avere voce in capitolo ad eccezione di Mohammed bin Salman e a quanto sembra nessuno ha qualche diritto o può aspirare a qualche risarcimento.
Tutto questo per quale motivo? Perché MbS vede che la supremazia politica e religiosa sul mondo arabo sta sfuggendo come sabbia dalle dita del re, e non può sopportare l'idea che l'Iran e i disprezzati sciiti possano esserne gli eredi.


Cambiare volto all'Arabia Saudita

L'Arabia Saudita deve dunque essere trasformata da sonnacchioso e declinante regno a strumento per rintuzzare la potenza iraniana. Un'idea in sintonia con un Presidente statunitense che sembra sempre più preoccupato di riaffermare il prestigio degli USA, la loro deterrenza e il loro potere a livello mondiale anziché attenersi alla linea non interventista della campagna elettorale. Alla conferenza dello American Conservative tenutasi all'inizio di novembre a Washington l'editorialista Robert Merry, che è un prolifico scrittore dal realismo inossidabile, ha lamentato il fatto che "Nell'epoca di Trump non esistono né realismo né ritegno nella politica estera degli Stati Uniti."
Le guerre costano, tutte, e servono soldi. E sui soldi allora si mettono le mani arrestando i rivali con l'accusa di corruzione, come sta facendo Mohammed bin Salman. Solo che per tradizione l'Arabia Saudita, fin dal diciottesimo secolo, ha sempre nutrito tutte le sue lotte per il potere facendo ricorso a uno strumento particolare ed efficace: lo scatenamento dello jihadismo wahabita. Solo che all'indomani della débacle in Siria questo strumento non gode di alcun credito, e non è più utilizzabile.
L'Arabia Saudita deve inventarsi altro, da contrapporre all'Iran; il principe ereditario ha fatto una scelta che suona ironica: l'"Islam moderato" e il nazionalismo arabo, da contrapporre a un Iran e a una Turchia che arabi non sono. Muhammad Abd el Wahhab si sta rigirando nella tomba: l'Islam "moderato", nella sua dottrina rigorosa, altro non era che idolatria, come quella praticata dagli Ottomani; roba che a suo modo di vedere andava punita con la morte.
Nell'azzardo di MbS questa è la parte più rischiosa, anche se l'espropriare il principe Walid bin Talal della sua mastodontica fortuna è stata una cosa che ha attirato di più l'attenzione. Re Abdel Aziz dovette vedersela con una ribellione armata, e un altro re fu assassinato per essersi allontanato dai principi wahabiti su cui si fonda lo stato e per aver abbracciato la modernità occidentalizzata, una cosa che i puristi dello wahabismo considerano idolatria.
Non è che si possono esorcizzare i geni del fervore wahabita statuendo per decreto che essi non esistono più. Abdul Aziz alla fine riuscì ad averne ragione solo uccidendo a colpi di mitragliatrice i suoi aderenti. Solo che l'idea di abbracciare l'"Islam moderato" e di minacciare una resa dei conti con l'Iran è stata probabilmente concepita corteggiando Trump perché sostenesse MbS nella cacciata dal ruolo di principe ereditario del cugino, il principe Naif, e al tempo stesso tenendo presente il potenziale appeal, sul piano delle pubbliche relazioni, che avrebbe avuto il ritrarre l'Iran come estremista ad una Casa Bianca la cui idea di Medio Oriente viene definita da Bibi Netanyahu che sussurra all'orecchio di Jared Kushner, e dai pregiudizi di una conventicola di consiglieri propensi a intendere l'Iran in un modo solo invece che per i suoi molteplici aspetti. Probabilmente Netanyahu si sta congratulando con se stesso per questa astuta pensata.


Un bel colpo per Netanyahu

Non ci sono dubbi, per Netanyahu è stato un bel colpo. La questione comunque è se l'esito sarà una vittoria di Pirro oppure no. Comunque vada, tirare bombe a mano contro qualcosa di infiammabile è molto pericoloso. Questo piano di USA, stato sionista, Arabia Saudita ed Emirati Arabi è come minimo un tentativo di rovesciare la realtà che origina nella negazione dello smacco che questi paesi hanno subito per i molteplici fallimenti cui sono andati incontro nel plasmare un nuovo Medio Oriente alla maniera occidentale. Ora, dopo il fallimento cui sono incorsi in Siria dove pure si sono spinti al limite cercando la vittoria, provano con un nuovo giro di ruota e sperano di rifarsi di tutte le perdite precedenti. Il meno che si possa dirne è che si tratta di una speranza fallace.
La presenza iraniana nel nord della regione mediorientale non è velleitaria; oggi si tratta di una realtà dalle solide radici. Lo spazio strategico iraniano comprende la Siria, il Libano, l'Iraq, lo Yemen e, in misura sempre maggiore, la Turchia. L'Iran ha avuto un ruolo di primo piano nella sconfitta dello Stato Islamico, come lo ha avuto la Russia. E l'Iran è un partner strategico di una russia che può contare oggi su un'ampia influenza nella regione. In altre parole, a pesare di più sul piano politico oggi è la parte settentrionale del Medio Oriente più che il suo indebolito fianco a sud.
Nel caso ci fosse stata in giro l'idea che la Russia poteva tenere a freno l'Iran e i suoi alleati nella regione e con questo alleviare le preoccupazioni dello stato sionista, tutto questo fa fuori qualunque pio desiderio. Anche se i russi potessero farlo, e probabilmente non possono, perché dovrebbero? E allora, come si argina l'Iran, con le armi? Anche questa sembra un'esagerazione.
Dopo la guerra in Libano nel 2006, la prospettiva dell'esercito e delle forze di sicurezza dello stato sionista è quella di una guerra breve -sei giorni o meno- eccezion fatta per i palestinesi. Una guerra che non provochi pesanti perdite per le forze armate o per la popolazione civile dello stato sionista, e che si possa vincere pagando un basso prezzo. L'ideale sarebbe anche una piena partecipazione da parte degli USA, a differenza di quanto successo nel 2006. Al Pentagono non è che muoiano dalla voglia di impegnarsi di nuovo sul terreno, e i sionisti lo sanno. L'Arabia Saudita da sola, poi, non è una minaccia per nessuno: lo Yemen ne è una dimostrazione.
L'Arabia Saudita è in grado di strangolare l'economia libanese e di fare pressione politica sul governo del Libano? Certamente: solo che le pressioni sul piano economico colpiranno più duramente le classi medioalte di ascendenza sunnita rispetto agli sciiti che sono il 44% della popolazione. I libanesi in generale non amano le interferenze esterne; più probabile che le pressioni e le sanzioni ameriKKKane uniscano il paese anziché dividerlo. La storia delle sanzioni è vecchia, ed è sempre la stessa. Inoltre, si può indovinare che gli europei non sosterranno volentieri né la destabilizzazione del Libano, né l'abbandono dell'accordo sul nucleare iraniano, raggiunto nel 2015 per impedire all'Iran di sviluppare armamenti nucleari.
Quale, allora, il risultato? Quella saudita è una società in cui già sono molte le tensioni represse; il paese può semplicemente implodere sotto la nuova ondata repressiva, o MbS essere in qualche modo estromesso prima che la situazione diventi irreparabile. L'AmeriKKKa e lo stato sionista non ne usciranno rafforzati; anzi, saranno visti come sempre meno importanti per il Medio Oriente.
Robert Malley, consigliere per il Medio Oriente nella passata amministrazione, mette in guardia contro il pericolo di una deflagrazione regionale: "Non succede grazie alla paura, ma la stessa paura potrebbe far precipitare la situazione."

sabato 25 novembre 2017

Raúl Ilargi Meijer - Tassateli a sangue. Facebook, Google, Uber, AirBnB e tutti gli altri.


Traduzione da The Automatic Earth, 11 novembre 2017.

 
Jean-Léon Gérôme, La Verità esce dal pozzo per far vergognare il genere umano, 1896.

Negli ultimi giorni sta uscendo un'intera biblioteca di articoli sui giganti della tecnologia e credo che la maggior parte di essi siano scritti così bene, e le idee ivi contenute così bene espresse, che c'è poco da aggiungere. Unica cosa, credo di poter avere la soluzione ai problemi che sono davanti agli occhi di molta gente. Temo altresì che non verrà adottata, e che si farà in modo che non lo sia proprio. Se le cose stanno in questo modo, siamo davvero lontani da qualsiasi soluzione. E questa è davvero una brutta notizia.
Cominciamo con una critica in senso generale -e financo benevola- scritta per il Guardian da Claire Wardle e Hossein Derakhshan.
In che modo le notizie sono diventate "false notizie"? Quando i media sono diventati sociali
I media sociali ci costringono a vivere sotto gli occhi di tutti, ci mettono al centro della scena in qualunque cosa facciamo ogni giorno. Erving Goffman, sociologo statunitense, ha formulato il concetto della "vita come teatro" nel suo libro Presentation of self in everyday life uscito nel 1956. Il libro è uscito sessant'anni fa, ma l'importanza del concetto non ha fatto che aumentare. Avere una vita privata è sempre più difficile non solo per quello che riguarda il mantenere lontano dagli occhi del governo o delle multinazionali i propri dati personali, ma anche per quanto riguarda il tenere i nostri spostamenti, i nostri interessi e -cosa ancora più preoccupante- i nostri comportamenti di consumo lontano dagli occhi del resto del mondo.
Le reti sociali sono congegnate in maniera tale che ci ritroviamo a valutare continuamente gli altri, e ad essere noi stessi continuamente oggetto di valutazione. Di fatto ci ritroviamo sparpagliati su diverse piattaforme e le nostre decisioni, che diventano atti pubblici o parzialmente pubblici, sono guidate dal nostro desiderio di fare buona impressione sul nostro pubblico, immaginario o reale. Accettiamo di mala voglia questo mettere in piazza quando si tratta dei viaggi che facciamo, degli acquisti, degli appuntamenti e delle cene. Sappiamo come funziona la cosa. Gli strumenti on-line che utilizziamo sono gratuiti, ma in cambio vogliono informazione sul nostro conto e siamo consapevoli del fatto che le utilizzano per pubblicizzare le decisioni che stanno a monte del nostro stile di vita in modo da incoraggiare le persone che fanno parte della nostra rete a unirsi, connettersi e acquistare.
Il problema è che queste stesse forze hanno influito pesantemente sul modo in cui consumiamo notizie e informazioni. Prima che i nostri media diventassero "sociali", solo i nostri familiari più prossimi o i nostri amici sapevano che cosa leggevamo o che cosa guardavamo, e se volevamo tenere segreti certi nostri piaceri proibiti eravamo in condizioni di poterlo fare. Adesso, quanti di noi fruiscono di notizie tramite le reti sociali si trovano a far sapere a molta gente quello che apprezzano e quello che seguono [...] Fluire di notizie è diventato un comportamento che non riguarda soltanto il cercare di tenersi aggiornati o il divertimento. Quello su cui mettiamo un "mi piace" o che decidiamo di seguire diventa parte della nostra identità, un'indicazione della classe sociale a cui apparteniamo, del nostro status, e soprattutto delle nostre opinioni politiche.

Il contesto è questo. La gente vende la propria vita, la propria anima, per unirsi a una rete che poi vende questa vita e quest'anima al miglior offerente, ottenendo un profitto che per nessuna parte torna alle persone. Non si tratta di un'idea inverosimile. Come spiegato in seguito, in termini di scala Facebook è il cristianesimo dei giorni nostri. E queste preoccupazioni non sono patrimonio esclusivo di cittadini preoccupati; a parlare senza mezzi termini sono anche alcuni pionieri come il cofondatore di Facebook Sean Parker.
Facebook: Dio solo sa cosa sta facendo al cervello dei nostri figli
"Sean Parker, presidente fondatore di Facebook, mi ha fornito una panoramica disinteressata su come le reti sociali attirano e possono danneggiare la nostra mente. Occhio: la testimonianza in prima persona del signor Parker rappresenta un preziosissimo punto di vista nel nascente dibattito sulla potenza e sugli effetti delle reti sociali, che ormai hanno uno sviluppo e una portata che non ha precedenti nella storia umana [...].
Ai tempi in cui stavamo mettendo in piedi Facebook mi trovavo con persone che venivano da me e mi dicevano "Io sui media sociali non ci sono". Io rispondevo "Va bene, in futuro ci sarai". Quelli allora dicevano: "No, no, no: io ci tengo ai rapporti che ho nella vita vera. Io ci tengo al singolo momento. Io ci tengo alla presenza concreta. Io ci tengo all'intimità." Io gli dicevo: "...Beh, alla fine ti beccheremo."
"Non so se davvero avevo compreso le implicazioni delle mie parole; una delle non volute conseguenze dell'esistenza di una rete che arriva a comprendere uno o due miliardi di persone e... è che essa cambia, letteralmente, i rapporti che si hanno con la società e con gli altri... probabilmente interferisce con la produttività, e lo fa in modo strano. Dio solo sa che costa sta facendo al cervello dei nostri figli.
Il processo cognitivo implicato nella realizzazione di applicazioni del genere, di cui Facebook è stata la prima... era centrato solo su 'Come assorbire il più possibile del tempo e dell'attenzione consapevole dell'utenza?' Insomma, bisogna trovare la maniera di darti una botta di dopamina ogni tanto, perché qualcuno aveva apprezzato o commentato una foto o uno scritto o che altro. Così i tuoi contributi arrivavano sempre più volentieri, e ti avrebbero portato... più apprezzamenti e più commenti.
Insomma, una sorta di validazione sociale ciclica... esattamente il genere di cosa che metterebbe in piedi uno hacker come me, perché si tratta di sfruttare una vulnerabilità nella psicologia dell'uomo. Noi inventori, noi realizzatori, io stesso, Mark [Zuckerberg], Kevin Systrom di Instagram, tutti noialtri insomma, siamo consapevolie di questo. E siamo andati avanti lo stesso.
Anche uno dei primi ad investire in Facebook, Roger McNamee, ha qualcosa da aggiungere in linea con quanto affermato da Parker. Sembra che loro siano Frankenstein, e Facebook il loro mostro...

La minaccia di Google e di Facebook alla salute pubblica e alla democrazia
"Non è esagerato parlare di dipendenza. Il consumatore medio controlla il proprio smartphone centocinquanta volte al giorno, con più di duemila sfioramenti e tocchi. Le applicazioni più frequentemente utilizzate sono proprietà di Facebook e di Alphabet, e sono prodotti il cui numero di utenti è ancora in crescita. In termini di scala, Facebook e Youtube sono paragonabili al cristianesimo e all'Islam, rispettivamente. Ogni mese più di due miliardi di persone usano Facebook; un miliardo e trecento milioni ne fa uso quotidiano. Più di un miliardo e mezzo di persone usano Youtube. Altri servizi di proprietà di queste società assommano utenti per più di un miliardo di persone.
Facebook e Alphabet contano perché gli utenti barattano privacy e franchezza con qualcosa di comodo e di gratuito. Dapprincipio i creatori di contenuti hanno opposto resistenza, ma la domanda degli utenti li ha costretti a rassegnare controllo e profitti a Facebook e ad Alphabet. La verità è triste, ed è che nel perseguire profitti smisurati Facebook e Alphabet si sono comportate in modo irresponsabile. Esse hanno consapevolmente unito le tecniche di persuasione usate dai propagandisti e dall'industria dell'azzardo con la tecnologia, in una maniera che è pericolosa per la salute pubblica e per la democrazia.
Il problema non si trova nella rete sociale o nella ricerca. Il problema è nel modo in cui sono veicolate le pubblicità. Mi spiego meglio. Dacché esistono i rotocalchi gli editori sono consapevoli delle potenzialità racchiuse nello sfruttamento delle emozioni umane. Per vincere la guerra dell'attenzione, gli editori devono dare al pubblico quello che il pubblico desidera, contenuti che fanno leva sulle emozioni più che sull'intelletto. La sostanza non può competere con la sensazione, e con la sensazione si deve giocare permanentemente al rialzo, altrimenti i consumatori si fanno distrarre e si rivolgono ad altro. Lo sbattimento dei mostri in prima pagina ha guidato le scelte editoriali per più di un secolo e mezzo, ma è diventato una minaccia per la società nel corso degli ultimi dieci anni, con l'arrivo degli smartphone.
 I supporti mediatici come i giornali, la televisione, i libri e gli stessi computer sono capaci di persuasione, ma la gente se ne avvale solo per qualche ora al giorno, e tutti sono destinatari degli stessi contenuti. La guerra in atto oggi per attirare pubblico non è uno scontro leale. Ogni concorrente sfrutta le stesse tecniche, ma Facebook e Alphabet possono contare su due vantaggi incolmabili: la personalizzazione e gli smartphone. A differenza degli altri media, Facebook e Alphabet sanno praticamente tutto dei propri utenti: li seguono ovunque sul web e spesso anche al di fuori di esso.
Rendendo ogni esperienza gratuita e semplice, Facebook e Alphabet sono diventati i guardiani di internet e questo assegna loro prerogative di controllo e di profitto mai viste prima nei media. Sfruttano i dati per personalizzare l'esperienza di ogni utente e per drenare profitti dai creatori di contenuti. Grazie agli smartphone, la guerra del pubblico si svolte su una sola piattaforma accessibile in ogni momento che si trascorre svegli: i concorrenti di Facebook e di Alphabet non hanno nessuna speranza.
Facebook e Alphabet traggono profitto dai contenuti tramite pubblicità indirizzate in maniera più precisa di quanto sia mai stato possibile in precedenza. Le piattaforme creano "bolle filtro" attorno a ciascun utente, confermando le sue credenze preesistenti e spesso creando l'illusione che tutti condividano i suoi stessi punti di vista. Lo fanno perché questo porta profitti. Il rovescio della medaglia è rappresentato dal fatto che le credenze di ciascuno diventano più rigide e più estreme. Gli utenti diventano meno aperti a nuove idee e persino ai dati di fatto.
In un dato momento Facebook può mostrare a ciascun utente milioni di contenuti. A essere scelti sono quei pochi che più probabilmente porteranno il massimo profitto. Se non fosse per il modello con cui vengono veicolate le pubblicità, Facebook potrebbe presentare invece contenuti che informano, ispirano o arricchiscono altrimenti l'utenza. L'esperienza dell'utente su Facebook invece è dominata da cose che fanno leva sulla paura e sulla rabbia. E questo sarebbe già una brutta cosa, ma la realtà è anche peggiore.
In un articolo sul Daily Mail, le idee di McNamee vengono portate parecchio più avanti. Goebbels, Bernays, paura, rabbia, personalizzazione, civiltà.


I primi finanziatori di Facebook paragonano le reti sociali alla propaganda nazista
I piani alti di Facebook sono stati paragonati da un ex finanziatore al ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels. Roger McNamee ha anche paragonato i metodi della società a quelli di Edward Bernays, il pioniere delle pubbliche relazioni che promosse tra le donne l'abitudine al fumo. Il signor McNamee ha fatto fortuna sostenendo Facebook nei primi tempi, e ha esposto senza mezzi termini le proprie preoccupazioni per le tecniche che i giganti della tecnologia usano per trovare utenti e inserzionisti. [...] L'ex finanziatore ha detto che tutti ormai "in misura più o meno estesa sono dipendenti" da quel sito e che temeva che la piattaforma stesse inducendo le persone a scambiare i rapporti umani veri e propri con relazioni fasulle.
Ha paragonato le tecniche della società a quelle di Bernays e del ministro delle pubbliche relazioni di Hitler. "Per tenere viva la tua attenzione hanno saccheggiato il repertorio di Edward Bernays, di Joseph Goebbels e di tutti gli altri professionisti della persuasione, di tutte le grandi agenzie pubblicitarie, e lo hanno riversato in un prodotto permanente che presenta informazioni altamente personalizzate in modo da renderti dipendente", ha detto al Telegraph il signor McNamee. McNamee ha detto che Facebook stava costruendo una cultura basata "sulla paura e sulla rabbia". "Abbiamo abbassato il livello del discorso civile, le persone si comportano in modo meno civile le une con le altre..."
McNamee ha detto che i giganti della tecnologia hanno usato il Primo Emendamento come un'arma, "essenzialmente per autoassolversi da ogni responsabilità." Ha poi aggiunto: "Parlo da persona che all'inizio era coinvolta in tutto questo." Le considerazioni di McNamee arrivano come un altro schiaffo a Facebook, dopo che il mese scorso l'ex collaboratore Justin Rosenstein ha fatto presenti le sue preoccupazioni. Il signor Rosenstein è l'ingegnere di Facebook che ha creato un prototipo del bottone "mi piace" del portale; ha chiamato la sua invenzione "l'argentino rintocco del piacere falso". Ha detto che era stato costretto a limitarsi nell'uso della rete sociale perché era preoccupato per l'impatto che essa aveva avuto su di lui.
In merito agli effetti che i media sociali hanno sul piano economico, e non su quello della società o dei singoli, qualche settimana fa Yanis Varoufakis ha detto questo:
Il capitalismo è alla fine perché si è reso obsoleto da solo - Varoufakis
L'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha affermato che il capitalismo sta avvicinandosi alla fine perché si sta rendendo obsoleto da solo. L'ex professore di economia ha detto al pubblico dello University College di Londra che l'affermarsi delle grandi società nel campo della tecnologia e dell'intelligenza artificiale farà sì che l'attuale sistema economico si indebolisca da solo. Varoufakis ha detto che in società come Google o Facebook, per la prima volta in assoluto, il capitale sociale viene acquistato e prodotto dai consumatori.
"Le tecnologie, tanto per cominciare, sono state finanziate con denaro governativo; poi, ogni volta che si cerca qualche cosa su Google, si porta un contributo al capitale di Google," ha detto Varoufakis. "E chi è che si prende i frutti del capitale? Google, non voi. Non c'è dunque dubbio che il capitale sia prodotto in modo sociale, e che i suoi frutti invece siano privatizzati. Questo, insieme all'intelligenza artificiale, sta per portare alla fine del capitalismo.
Insomma, quando la gente vende vita e anima a Facebook e ad Alphabet, vende anche la propria economia. Ecco cosa significa tutto questo. E dire che stavate solo guardando cosa facevano gli amici. E' interessante vedere come le due cose si mescolano, e interagiscono tra loro.

Come l'economia ha fatto fallire l'economia
Quando il grande economista Simon Kuznets dopo il 1930 ha ideato il concetto di Prodotto Interno Lordo, ha deliberatamente lasciato due settori industriali fuori da quella che all'epoca era un'idea di reddito nazionale innovativa e rivoluzionaria: la finanza e la pubblicità. [...] La logica di Kuznets era semplice e non si trattava di una sua mera opinione ma di un dato di fatto frutto di un'analisi: la finanza e la pubblicità non creano nuova ricchezza. Si limitano ad allocare o a distribuire la ricchezza esistente: il prestito per comprare un televisore non è un televisore, un prestito per accedere a cure mediche non è una cura medica. Sono soltanto i mezzi per conseguire un qualche bene, non il bene stesso. Adesso tocca parlare di due tragedie della storia recente.
Quelli del Cogresso si fecero una risata, come fanno di solito quelli del Congresso, ignorarono Kuznets e inclusero comunque nel Prodotto Interno Lordo pubblicità e finanza per motivi politici. Insomma, per come pensano i politici più alto significa anche migliore, per cui un reddito nazionale più alto deve andare meglio per forza. E' chiaro? Teniamolo presente. Ai nostri giorni sta succedendo qualcosa di veramente strano.
Se ci comportiamo come aveva suggerito Kuznets e togliamo dal PIL la finanza e la pubblicità, cosa indicano i grafici, grafici che mostrano l'economia come essa è veramente? Ecco, dal momento che nella crescita la parte del leone (oltre il cinquanta per cento l'anno) la fanno proprio la finanza e la pubblicità -con Facebook o Google o gli hedge fund di Wall Street- si nota che la crescita economica che gli USA hanno perseguito così affannosamente, così furiosamente, in realtà non è mai esistita.
La stessa crescita non è stata altro che un'illusione, un gioco di numeri, creato tenendo conto di cose che avrebbero dovuto esserne escluse. Se avessimo tolto dal PIL quelli che potremmo definire "settori allocativi", noteremmo che la cescita economica è in realtà inferiore alla crescita della popolazione e che le cose stanno così da molto tempo, probabilmente fin dagli anni successivi al 1980; insomma, l'economia statunitense ha ristagnato, e questo è -oh, sorpresa- quello che rivela l'esperienza quotidiana.
Gli indicatori economici non ci raccontano più una storia realistica, preziosa e accurata sulle vere condizioni dell'economia; non l'hanno mai fatto. Solo che per un po' il giochetto ci ha fatto credere che la realtà non fosse quella che era. Oggi i giochetti sono finiti e l'economia cresce, ma la vita della gente, il benessere, i redditi e la ricchezza non crescono. Ed è questo il motivo per cui l'estremismo si è scatenato in tutto il mondo. Si comincia forse a notare perché i due piani si sono separati uno dall'altro: le analisi economiche hanno fatto fallire l'economia.
Adesso facciamo prima uno, poi due passi avanti. La finanza e la pubblicità oggi non sono solo industrie allocatrici. Sono industrie rapaci, che tolgono a molti per dare a pochi. Esse incamerano ricchezza dalla società e deviano su di essa i costi, senza creare ricchezza di per sé.
L'esempio di Facebook permette di comprendere nel modo più semplice come stanno le cose. Facebook rende i suoi utenti più tristi, più soli e più infelici, e corrode anche la democrazia in modi che sono spettacolari e catastrofici. Non si vede nulla di buono in tutto questo, eppure a livello di reddito nazionale sono tutte cose considerate vantaggi e non costi; l'economia così figura in crescita, anche mentre una società formata da persone impoverite viene manipolata da attori stranieri perché distrugga la sua stessa democrazia. Bello, vero?
Questo perché la finanza e la pubblicità sono state considerate creative e produttive, mentre invece erano soltanto allocative e distributive, e presto hanno mutato la propria natura in rapace. Insomma, se fin da principio avessimo asserito che questi settori non contavano, forse non avrebbero avuto bisogno di massimizzare i profitti (o i venture capital non avrebbero avuto bisogno di annegarli nel denaro...) per un tempo indefinito in modo da contare di più. Solo che non lo abbiamo fatto.
Insomma, presto non hanno avuto altra scelta che assumere un carattere rapace, mettersi ad accumulare sempre maggiori profitti per alimentare l'illusione della crescita, e cominciare a fagocitare l'intera economia; come notato da Kuznets, finanza e pubblicità allocano tutto quanto il resto e finiscono di fatto per controllarlo.
Insomma, i settori dell'economia davvero creativi, produttivi e vivificanti sono deperiti sia in termini relativi che in termini assoluti, perché sono stati marginalizzati, dissanguati e logorati per mantenere i settori predatori, che non espandono il potenziale umano. L'economia ha divorato se stessa, proprio come aveva ipotizato Marx; solo che non è accaduto per un motivo intrinseco, ma a causa di una scelta, di un errore, di una tragedia.
[...] La vita non prospera, non cresce, non si sviluppa in un modo unico che io o voi possiamo identificare o indicare con chiarezza. Sembra proprio che l'economia stia crescendo, perché imprese meramente allocative e distributive come Uber, come Facebook, come le agenzie di rating, come l'infinità di hedge fund senza nome o i trafficanti di dati personali che operano nell'ombra e altre cose del genere che non portano alcun contributo positivo identificabile alla vita umana sono tutte considerate in modo positivo. Non è evidente l'assurdità di tutto questo?
[...] Non è un caso che i settori validi dell'economia non siano riusciti a crescere, e non si è certo trattato di volontà divina. E' stata una scelta. Un mero rapporto di causa ed effetto: da una parte una società che stava ingannando se stessa fingendo disperatamente di crescere, dall'altra la crescita autentica. Il non togliere la finanza e la pubblicità dal PIL e creare così l'illusione della crescita; se gli USA non lo avessero fatto, magari si sarebbero trovati a doversi impegnare a fondo per trovare qualche modo per crescere in modo significativo, vero, autentico, invece di cavarsi d'impaccio per la via più facile e ritrovarsi oggi a ristagnare, senza neanche riuscire a capire perché.

Le imprese che non producono ma si limitano a drenare denaro dalla società devono essere tassate in maniera talmente pesante da rendergli problematico sopravvivere. Se questo non succede, la nostra conomia non si riprenderà mai; non sopravviverà neppure. Tutta l'illusione dell'economia dei servizi deve essere abbattuta finché siamo in tempo a farlo. Un sistema economico deve produrre beni reali, tangibili, altrimenti muore.
Nel caso dell'industria finanziaria tutto questo vuol dire tassargli anche il culo, per ogni transazione che combina. Vogliono tirar su soldi da derivati complessi? Bene: aliquota del settantacinque per cento. Anticipato. Ah, no, niente trasferimenti in paradisi fiscali. Che non si azzardino nemmeno.
Nel caso di Uber e di Air BnB vuol dire essere tassati fino al culo, sia come società che come singoli proprietari di auto o di case. Uber e Air BnB sottraggono grandi quantità di denaro alle economie locali, alla società, ai contesti locali; una cosa senza senso, senza necessità e che porta alla miseria. Ogni città può realizzare un proprio sistema per il noleggio di auto o per l'affitto di abitazioni. I profitti dovrebbero rimanere all'interno della comunità locale ed essere reinvestiti in essa.
E Google e Facebook, che sono oggi le agenzie pubblicitarie più grandi del mondo (ma sono solo questo)? Fracassarle di tasse, o proibire loro di diffondere pubblicità. Per quale motivo? Perché esse drenano dalla società enormi quantità di capitali produttivi. Capitali che esse, come spiega Varoufakis, non hanno creato.
I capitali li state creando voi, voi stessi che dovete poi pagare per accedere ai capitali che avete creato. Oh sì, sembra che uno non faccia che connnettersi e guardare cosa stanno combinando gli amici, ma il totale che viene tolto a voi, ai vostri amici e alla vostra comunità è talmente altro che non avreste mai accettato di pagarlo volontariamente se ne aveste avuto contezza.
L'unica cosa che non mi pare nessuno abbia denunciato, e che potrebbe impedire alla radicale proposta di tassarli -senza mezzi termini- a sangue di rappresentare una minaccia per i grandi della tecnologia è che Facebook, Alphabet e gli altri hanno tutti stabilito solidi rapporti con varie agenzie di spionaggio. Ecco: Goebbels e Bernays a servizio della CIA!
Visti i rapporti sempre più stretti tra Google, Facebook e la CIA, queste due società sono talmente importanti per quello che le teste d'uovo impegnate là dentro considerano l'interesse nazionale che non faranno altro che proteggersi a vicenda. Insomma, visto che il quartier generale della CIA a Langley in Virginia protegge tutti sia scopertamente che segretamente, siamo a posto per la vita. Per tutta la vita, proprio.
Proissimo passo, prendersi interi sistemi economici e intere società. Lo stanno facendo proprio adesso. Lo so, pensavate che fossero "i russi", con qualche pubblicità su Facebook di cui non ci sono neanche le prove, a minacciare la democrazia in USA e in Europa. Ecco, sarebbe il caso di rivederle, queste opinioni.
Il mondo non si è mai trovato davanti a tecnologie come queste. Non ha mai visto una tale densità, una tale profondità di informazioni e neppure una tale dipendenza da esse. Non siamo pronti ad affrontare alcuno di questi aspetti. Ma dobbiamo imparare velocemente, o ci ritroveremo a fare la parte degli utili idioti e degli schiavi in una pièce di teatro dell'assurdo con tutti i crismi di 1984. I nostri politici a riguardo sono tutti assenti ingiustificati o dispersi; non hanno idea di cosa dire o di cosa pensare, non capiscono davvero cosa significhino Google o la bitcoin o Uber.
Intanto però c'è una cosa che possiamo fare, portando a giustificazione il concetto di considerarle industrie non produttive e rapaci. Cavargli il sangue a furia di tasse. Colpire l'industria finanziaria in questo modo, dargli così un benvenuto molto in ritardo sui tempi. Abbiamo bisogno di rendere produttiva l'economia, o siamo spacciati. E Facebook, Alphabet e la Goldman Sachs non producono un cazzo di niente.
Se ci si pensa bene, l'unico settore in crescita rimasto nell'economia statunitense è quello di imprese che spiano i cittadini statunitensi. E quelli europei. La Cina ha messo al bando sia Facebook che Google. Per quale motivo pensate che l'abbiano fatto? Perché Google e Facebook sono 1984, ecco perché. E se esisterà un Grande Fratello nel Regno di Mezzo, non sarà nella Silicon Valley.

venerdì 17 novembre 2017

Alastair Crooke - L'intesa tra sionisti e sauditi corregge il tiro dopo la sconfitta in Siria



Da Consortium News, 4 novembre 2017.

Sembra che in Medio Oriente si stia venendo a capo di qualcosa. Per molti paesi e per la regione nel suo complesso il prossimo periodo sarà probabilmente determinante per il futuro. Una cosa che nell'immediato indica l'incombere di un periodo decisivo è la proposta, avanzata con rapidità dai russi, di una conferenza da tenersi a Sochi e cui dovrebbe partecipare quasi tutto lo spettro dell'opposizione siriana; se tutto va come previsto, questo potrebbe significare che dal 18 novembre arriveranno a Sochi circa mille delegati.
Il governo siriano ha acconsentito a partecipare. Ovviamente quando si sente parlare di partecipazione con numeri del genere non si deve pensare ad un incontro in cui si lavora con impegno, ma ad una situazione in cui i russi avanzeranno una loro visione puramente accademica sulla costituzione, sul sistema di governo e sulla tutela delle minoranze. A seguire c'è il fatto che la Russia vuole che si facciano alla svelta queste maledette elezioni, vale a dire entro sei mesi. In breve si tratta dell'ultima passerella per i personaggi dell'opposizione: o salgono a bordo subito o verranno lasciati fuori al freddo.
Sono in molti a premere per questa iniziativa, appoggiata personalmente dal Presidente Putin; tuttavia non esiste alcuna garanzia di successo. Sia l'Iran che la Turchia, i garanti di Astana, possono avere le loro private obiezioni perché non sanno che cosa hanno di preciso in mente i russi. L'Iran vuole che la Siria conservi un governo forte e centralizzato mentre la Turchia teme probabilmente che i curdi possano ricevere troppe concessioni da Mosca, oltre ad avere le proprie riserve sul mettersi allo stesso tavolo con i curdi siriani dello YPD, in Turchia considerati poco più che un PKK con il nome cambiato, a sua volta visto come un'organizzazione terrorista. Se la Turchia non partecipa, a non partecipare sarà anche un importante settore dell'opposizione.
Nella storia i momenti delicati sono soliti rivelarsi meno delicati di quello che si pensava; questa iniziativa tuttavia segna davvero l'inizio della fine della guerra in Siria e del ventennale progetto per il "Nuovo Medio Oriente" come lo intendevano il governo statunitense e quello sionista. Sarà la reazione che ciascun paese avrà verso di essa a definire il panorama mediorientale per i prossimi anni.


Gli ultimi fuochi

La settimana scorsa l'Esercito Arabo Siriano ha finito di conquistare la città di Deir ez Zor; con le spalle ormai al sicuro l'esercito può adesso procedere lungo i trenta chilometri circa che lo separano da Abu Kamal (Al Bukumal), l'ultimo centro urbano in mano allo Stato Islamico, e il vitale posto di frontiera con l'Iraq a ridosso dell'Eufrate. Si possono stimare in circa tremilacinquecento i combattenti del Da'ish -altro nome dello Stato Islamico o ISIS- ad Abu Kamal. La cittadina gemella di Abu Kamal sul lato iracheno della frontiera, Al Qaim, è stata presa dalle Forze di Mobilitazione Popolare, milizie governative irachene, venerdì 3 novembre. Gli iracheni stanno ora bonificando la cittadina da circa mille e cinquecento combattenti del Da'ish.
L'Esercito Arabo Siriano, fiancheggiato da diverse migliaia di combattenti di Hezbollah recentemente giunti in zona d'operazioni, è deciso ad entrare in Abu Kamal nei prossimi giorni da due lati; da sud, una concomitante avanzata verso nord e verso la cittadina da parte delle Forze di Mobilitazione Popolari contribuirà a formare una tenaglia.
Le Forze Democratiche Siriane, milizie sostenute dagli USA, stanno anch'esse cercando di arrivare ad Abu Kamal da est. Gli USA, sotto pressione da parte dello stato sionista, vorrebbero isolare e chiudere il posto di frontiera. Le forze alleate degli USA possono muoversi più velocemente perché funzionari ameriKKKani stanno cercando di corrompere (con denaro saudita) capi tribali della zona che a suo tempo avevano giurato fedeltà allo Stato Islamico affinché cambino casacca, o almeno consentano alle milizie di avanzare senza essere attaccate dallo Stato Islamico, come successo nei dintorni di Deir ez Zor.
Insomma, sul piano militare e dopo sei anni di guerra la situazione in Siria è ormai decisa; ora tocca alla politica. Saranno gli sviluppi su questo piano a determinare il peso relativo delle forze che plasmeranno il Medio Oriente nei prossimi anni. Probabilmente l'esito sarà se la Turchia potrà essere spinta nuovamente nei ranghi della NATO da minacce come quelle del generale Petr Pavel, capo del comitato militare della NATO che ha parlato di "conseguenze" per i tentativi fatti dalla Turchia di acquistare sistemi di difesa aerea di produzione russa, o se invece la determinazione dei turchi di mettere un limite alle aspirazioni curde vedrà la Turchia allinearsi all'Iran e all'Iraq, che condividono uno stesso interesse.
Il ruolo della Turchia a Idlib, dove ha compiti di supervisione in una zona di de-escalation, resta poco chiaro. Di fatto i militari turchi sono dislocati in maniera da controllare più il "cantone" curdo di Anfrin che non il funzionamento della de-escalation. Probabilmente Recep Tayyip Erdogan spera di avvalersi dei soldati turchi per incassare una zona cuscinetto lungo la frontiera con la Siria, in aperta violazione degli accordi di Astana. In questo caso andrà allo scontro sia con Mosca che con Damasco, senza che questo implichi per forza un suo ritorno nel campo della NATO.


Il futuro della Siria

Le trattative di Sochi metteranno più in chiaro se la Siria sarà un forte stato centralizzato, come preferirebbe l'Iran, o uno stato più largamente federale come preferirebbero gli USA e probabilmente anche la Russia. Sochi sarà una specie di cartina di tornasole per misurare fino a che punto l'influenza ameriKKKana può plasmare gli esiti nel Medio Oriente di oggi. Ora come ora sembra che Mosca e Washington stiano agendo di concerto per arrivare velocemente a degli accordi politici in Siria, a una dichiarazione di vittoria sullo Stato Islamico da parte degli USA, ad elezioni in Siria e ad un'uscita degli Stati Uniti dal teatro siriano.
Probabilmente i risultati della conferenza metteranno in chiaro se i curdi siriani sosterranno infine il progetto del CentCom statunitense per una presenza stabile degli USA nel nord est della Siria (come desidera lo stato sionista) o se invece si accorderanno con Damasco, dopo aver assistito alla distruzione del progetto per l'indipendenza curda di Barzani ad opera delle potenze confinanti.
Se si verifica il secondo caso, gli argomenti a favore del mantenimento di una presenza statunitense a lungo termine nel nord est della Siria perderanno forza. I sauditi saranno costretti ad accettare la sconfitta, o a comportarsi da guastafeste cercando di rimettere in azione i combattenti che ancora gli rimangono a idlib. Per questo però il regno avrebbe bisogno del benestare dei turchi, che può anche non essere dietro l'angolo.
Anche l'Iraq, irritato dai commenti del Segretario di Stato Rex Tillerson in cui si insinua che le Forze di Mobilitazione Popolare siano iraniane e che devono "andare a casa", ha già mostrato segni di riorientamento verso la Russia. Ultimamente  l'Iraq ha firmato con la Russia un corposo accordo nei campi dell'energia e dell'economia, dopo aver rivendicato il controllo delle frontiere e delle risorse energetiche del paese, e sta anche acquistando armamenti russi. Prova palese degli stretti rapporti che l'Iraq intrattiene con la Siria, la Turchia e l'Iran, la rapidità con cui è stata messa la parola fine all'avventura indipendentista dei curdi.
Tuttavia, è lo stato sionista quello che si trova alle prese col dilemma più grande sul come andranno le cose in Siria. Alex Fishman, che nello stato sionista è decano degli editorialisti di cose militari, ha scritto che lo stato sionista non si è adeguato ai mutamenti strategici e si trova imprigionato in un'angusta mentalità da guerra fredda.
I siriani lanciano razzi in zone aperte, lo stato sionista distrugge artiglieria siriana come ritorsione; gli iraniani minacciano di schierare truppe sciite in Siria, lo stato sionista proclama 'linee rosse' e minaccia una guerra; Fatah e Hamas intrattengono sterili colloqui sulla creazione di un governo unico, il primo ministro dichiara che lo stato sionista sospende il dialogo coi palestinesi. E tutti giù ad applaudire gli alti papaveri della sicurezza e della politica: 'Ecco, gli abbiamo fatto vedere cosa vuol dire deterrenza', [ripete il premier sionista].
In realtà stiamo assistendo a una politica difensiva provinciale, alla falsa rappresentazione di una leadership che non vede a un palmo dal proprio naso e che passa tutto il tempo ad agitare le acque.
Si tratta di un premier che considera la sicurezza nazionale in una ristretta ottica regionale. Come se tutto quello che c'è oltre Hezbollah, Hamas e l'Iran non esistesse proprio. Come se il mondo che ci circonda non fosse cambiato negli ultimi decenni. Ed eccoci prigionieri di un'epoca in cui la principale attività nel settore della politica e della sicurezza è fatta di soluzioni aggressive che si presentano come bastone e come carota. Gli attuali vertici nella politica e nella sicurezza non stanno risolvendo i problemi, non li stanno affrontando; li stanno solo posticipando, rimandandoli alla prossima generazione.


La mancanza di un quadro strategico

Fishman si riferisce ad una questione che ha ramificazione profonde. Lo stato sionista ha conseguito qualche vittoria tattica contro i vicini, ovvero contro i palestinesi in generale, e ha indebolito Hamas, ma non ha più presente il quadro strategico generale. In concreto lo stato sionista ha perso la propria capacità di dominare il Medio Oriente. Voleva una Siria debole e frammentata, voleva che Hezbollah si impelagasse nel pantano siriano e che l'Iran si trovasse circondato da sunniti settariamente ostili verso gli sciiti in generale. Non è probabile che ottenga alcuna di queste cose. Anzi, lo stato sionista si scopre vittima della deterrenza, invece che autore di essa, perché si accorge che oggi come oggi non può rovesciare la propria debolezza strategica -che è data dal rischio di una guerra su tre fronti- a meno che l'AmeriKKKa non intervenga a suo fianco in qualsiasi conflitto. Proprio questo fa preoccupare gli alti quadri della sicurezza e dei servizi: l'AmeriKKKa di oggi prevede di intervenire in maniera decisiva a fianco dello stato sionista, a meno che non sia a rischio la sua stessa sopravvivenza?
I funzionari sionisti ricordano che nel 2006 gli USA non entrarono in guerra contro Hezbollah in Libano; dopo 33 giorni fu lo stato sionista a cercare un cessate il fuoco.
Fishman ha ragione anche quando dice che attaccare fabbriche e postazioni radar siriane "secondo la vecchia prassi" non risolve nulla. La cosa può essere gabellata al pubblico sionista come deterrenza, ma in realtà è un giocare col fuoco. La Siria ha iniziato a rispondere, lanciando vecchi missili terra aria (gli S200) contro gli aerei sionisti. Questi missili possono anche non aver ancora colpito nessuno, e magari non sono neppure stati lanciati con questo scopo. Il messaggio dei siriani è comunque chiaro: saranno anche vecchi, ma hanno un raggio maggiore degli S300 più recenti. Potenzialmente, è sufficiente ad arrivare all'aeroporto Ben Gurion alla periferia di Tel Aviv.
E lo stato sionista è sicuro che Siria e Hezbollah non dispongano di missili più moderni? E' sicuro che l'Iran o la Russia non gliene forniranno? Il Ministro della Difesa russo era molto irritato durante la sua visita nello stato sionista; come regalo di benvenuto all'atterraggio si era ritrovato un attacco di rappresaglia contro una postazione radar e missilistica siriana. Alle sue rimostranze la controparte sionista, il Ministro della Difesa Lieberman, ha detto con degnazione che lo stato sionista non aveva bisogno di consultarsi con nessuno per quanto riguardava la propria sicurezza. Pare che il generale Sergey Shoygu non abbia gradito.
Lo stato sionista è in grado di venire a patti con la sua nuova situazione strategica? Sembrerebbe di no. Ibrahim Karagul, un editorialista politico turco e voce autorevole del Presidente Erdogan, ha scritto sullo Yeni Safak che "nella nostra regione si stanno ponendo le premesse per nuove frammentazioni [e] nuove divisioni. 'Stiamo passando all'Islam moderato', annuncia l'Arabia Saudita: un'affermazione che implica un azzardo pericoloso. L'asse fra USA e stato sionista sta formando un nuovo fronte." Prosegue Karagul: "Da qualche tempo ormai stiamo assistendo agli strani sviluppi della situazione in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti, in Egitto, nello stato sionista e negli Stati Uniti. Nella regione si è venuta a creare una situazione nuova, che sappiamo essere [principalmente rivolta] contro l'Iran; tuttavia essa ha di recente assunto un atteggiamento apertamente contrario alla Turchia, il cui intento è quello di limitare l'influenza turca in Medio Oriente... Vedrete, l'annuncio dell''Islam moderato' sarà seguito immediatamente da un improvviso e inatteso rafforzarsi del nazionalismo arabo. Questa ondata non farà differenze tra arabi sunniti e arabi sciiti, ma isolerà il mondo musulmano arabo dal mondo musulmano nel suo insieme. Questa separazione sarà avvertita soprattutto dagli arabi sciiti iracheni. Iraq e Iran andranno allo scontro con questo nuovo raggruppamento [cioè reagiranno vigorosamente per contrastarlo]. La permanenza al potere del Primo Ministro iracheno Haider al Abadi è anch'essa, con ogni probabilità, legata [al risultato di] questa resa dei conti."


L'avallo statunitense

Per ottenere l'avallo ameriKKKano a questa iniziativa, lo stato sionista e l'Arabia Saudita stanno mettendone al centro lo Hezbollah libanese, che gli USA hanno dichiarato organizzazione terroristica nonostante il movimento facesse parte del governo libanese capeggiato dal Primo Ministro Saad Hariri, che si è ignominiosamente dimesso il 4 novembre. Hariri, che ha la doppia cittadinanza libanese e saudita, lo ha annunciato da Riyadh.
Il ministro saudita per gli affari del Golfo Thamer al Sabhan, che era a Beirut nel corso della prima settimana di novembre, ha invocato "il rovesciamento di Hezbollah" e ha promesso sviluppi "sconcertanti" per "i prossimi giorni. Chi crede che i messaggi che scrivo su Twitter rappresentino un'opinione personale rimarrà deluso... si preparano sviluppi davvero sconcertanti."
Al Sabhan ha aggiunto che l'impegno dell'Arabia Saudita contro Hezbollah potrebbe assumere varie forme che "di sicuro colpiranno il Libano. Politicamente, potrebbero essere colpite le relazioni del governo con il resto del mondo. Sul piano economico e su quello finanziario, potrebbero essere colpiti gli scambi commerciali e i fondi, mentre il piano militare potrebbe comportare un attacco contro Hezbollah da parte della coalizione capeggiata dagli USA, che considerano Hezbollah un'organizzazione terroristica." Un commento: quest'ultimo concetto probabilmente è stato espresso più come una speranza che come una previsione. L'Europa e gli USA si impegnano in maniera considerevole per mantenere stabile il Libano.
Karagul presenta altre riflessioni sull'iniziativa di USA, paesi del Golfo e stato sionista:
Questo progetto dell'Islam moderato è stato tentato soprattutto in Turchia. Abbiamo sempre detto che questo è "l'Islam dell'AmeriKKKa" e ci siamo opposti ad esso. L'intervento militare del 28 febbraio è prodotto di questo piano, al quale hanno partecipato l'estrema destra statunitense e sionista e i suoi fiancheggiatori sul piano interno. L'organizzazione terroristica di Fetullah è il risultato di questo piano, e gli attacchi del 17 e del 25 dicembre, oltre a quello del 15 luglio, sono stati sferrati per questa ragione. Il loro scopo era sempre quello di intrappolare la Turchia nell'asse di USA e stato sionista.
La resistenza a livello locale e a livello nazionale della Turchia ha avuto ragione di ogni attacco. Adesso sono tutti a  mettere in mezzo l'Arabia Saudita per cercare di portare a termine lo stesso piano. Ecco come presentano i loro scopi. Io non credo che sia possibile affrontare un'incombenza similen per i sauditi; si tratta di un compito impossibile sia per il carattere del governo saudita, sia per la struttura sociale del paese. Un compito impossibile a causa del pasticcio statunitense e sionista.
Questo discorso del passare all'Islam moderato causerà grande confusione nell'amministrazione saudita e pesanti reazioni a livello sociale. Lo scontro vero e proprio sarà uno scontro interno all'Arabia Saudita. E il governo di Riyadh non ha alcuna possibilità di successo nell'esportare qualcosa nel resto de Medio Oriente, o nel presentarsi come un esempio.
In special modo, una volta che verrà fuori che anche stavolta tutta l'iniziativa ha al centro la sicurezza, che si è formata una nuova linea del fronte e che è tutto frutto di una macchinazione statunitense e sionista, il fallimento sarà sicuro. Per l'Arabia Saudita è un progetto suicida, un progetto per la distruzione; un piano che la distruggerà, a meno che non cominci a ragionare sul serio.
Karagul centra bene il punto: il tentativo di plasmare l'Islam secondo l'immagine della Westfalia cristiana ha una storia disseminata di disastri. La metafisica islamica non è la metafisica cristiana. E Mohammed bin Salman non può far diventare "moderata" l'Arabia Saudita semplicemente ordinandoglielo. Occorrerebbe intraprendere una vera e propria rivoluzione culturale per cambiare le basi del regno e allontanarle dai rigori dello wahabismo facendole approdare ad un Islam laicizzato di un qualche genere.


Ancora guerra?

Tutto questo sta portando il Medio Oriente alla guerra? Può darsi. Ma il Primo Ministro sionista Benjamin Netanyahu non è famoso per la propria audacia, è famoso per i toni della sua retorica, che spesso si sono dimostrati privi di sostanza. E i funzionari preposti alla sicurezza dello stato sionista si comportano con cautela, anche se ambo le parti si stanno davvero preparando per quella che Karagul chiama "una resa dei conti fra grandi potenze". Sembra comunque, a giudicare da questa e da altre dichiarazioni provenienti da ambienti turchi, che la Turchia starà dalla parte dell'Iran e dell'Iraq, contro l'AmeriKKKa e contro l'Arabia Saudita.
E il Presidente Trump? Trump è davvero e comprensibilmente preoccupato per la guerra a bassa intensità che gli stanno facendo sul piano interno. Probabilmente Trump va a dire a Netanyahu qualunque cosa possa aiutarlo in questa contesa, specie al Congresso dove Netanyahu esercita influenza. Insomma: se Bibi vuole un discorso infuocato contro l'Iran all'ONU, perché non farlo? A discorso fatto si può anche andare dal terzetto di generali della Casa Bianca e dirgli di "sistemare la cosa", come nel caso dell'accordo sul nucleare iraniano, passato al senato perché lo "sistemasse", ben sapendo che i generali una guerra contro l'Iran non la vogliono.
Il pericolo è che qualcosa cambi le carte in tavola. Cosa succede se lo stato sionista continua ad attaccare le installazioni militari e industriali in Siria (cosa che succede quasi tutti i giorni) e la Siria abbatte davvero un aereo sionista?


domenica 12 novembre 2017

Aron Lund - Ecco come i nemici di Assad hanno abbandonato l'opposizione siriana


Il primo incontro degli "Amici della Siria" a Tunisi, il 24 febbraio 2012.
Amici simili comportano il vantaggio di poter fare a meno dei nemici.


Traduzione da The Century Foundation, 17 ottobre 2017.

La guerra in Siria può ancora andare avanti per degli anni, ma è chiaro che Bashar al Assad la sta vincendo. Il presidente siriano ha consolidato il controllo di centri nevralgici come Homs e Damasco, ed ha riconquistato alla fine del 2016 i quartieri di Aleppo tenuti dai ribelli; il mese scorso ha raggiunto la città orientale di Deir ez Zor e gli accordi di tregua mediati dai russi hanno messo al sicuro i progressi compiuti nella parte occidentale del paese.
L'opposizione sostiene che questi progressi sono dovuti a sostegno straniero. Questo è vero, ma il coinvolgimento dei russi e degli iraniani in Siria è solo una parte della verità: altrettanto importante è stato lo scemare del sostegno internazionale all'opposizione siriana.
Per qualche anno nessuna causa ha avuto in Occidente e nelle capitali arabe la considerazione che ha avuto l'insurrezione siriana. Gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati europei hanno stretto la morsa sul governo di Assad nel corso della primavera e dell'estate del 2011, imponendo una serie di sanzioni e invitando il dittatore a farsi da parte. Il Qatar, la Turchia e l'Arabia Saudita hanno fornito migliaia di tonnellate di equipaggiamento militare, mandato in Siria dal 2012 in poi[1]. Fonti vicine al governo del Qatar affermano che il Qatar ha donato tremila miliardi di dollari fra il 2011 e il 2013 [2]. Nel 2013 il Presidente Barack Obama intraprese "uno dei più costosi programmi sotto copertura in tutta la storia della CIA"; in seguito un funzionario ha calcolato che i ribelli sostenuti dagli ameriKKKani possono aver ucciso o ferito centomila tra cittadini siriani e soldati alleati.
Nonostante tutto questo Assad non è stato rovesciato, e i suoi alleati russi e iraniani, com'era prevedibile, hanno risposto in pari misura aumentando il loro sostegno al governo. Mentre la siria diventava il teatro di una caotica guerra civile a sfondo settario, mentre crescevano l'instabilità in Medio Oriente e il fenomeno dell'estremismo jihadista, la risolutezza dei paesi determinati a rovesciare Assad è venuta meno e l'attenzione degli ambienti internazionali ha iniziato a rivolgersi al porre rimedio agli effetti secondari della guerra.
Più di cento paesi, più della metà degli stati del mondo si erano uniti nel 2012 alla coalizione contro Assad nota come "Amici della Siria". Nonostante questo, negli anni successivi l'opposizione armata ha potuto contare solo sul sostegno militare di un gruppo molto più ristretto, essenziamente composto da Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Arabia Saudita, Giordania, Qatar e Turchia. Nel 2017 anche questi paesi erano pronti a gettare la spugna. Oggi come oggi hanno messo con cautela la sordina alla pretesa che Assad si dimetta, hanno ridimensionato i programmi di sostegno all'opposizione, e stanno facendo pressione sulle loro pedine in Siria perché si concentrino su altri avversari.
Questo articolo ricostruisce l'ascesa e la caduta della coalizione degli Amici della Siria e la lenta ritirata degli occidentali, degli arabi e di altri attori dalla pluriennale campagna che aveva lo scopo di rovesciare il governo siriano.


Gli Amici della Siria

All'inizio del 2012 ministri degli esteri e i funzionari di qualcosa come una sessantina di paesi si recarono nella Tunisia da poco tornata democratica per quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di sostegno internazionale per l'opposizione siriana, dopo un anno dall'inizio delle sollevazioni contro il governo autoritario del Presidente Bashar al Assad. Ispirati dal Gruppo di Contatto per la Libia fondato nel marzo 2011 per rovesciare Gheddafi, ribattezzato poi Amici della Nuova Libia, le autorità in Tunisia decisero di chiamarsi "Amici della Siria".
La fondazione degli "Amici della Siria" avvenne "immediatamente dopo il secondo veto della Russia in favore di Assad al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del febbraio 2012; "gli Amici della Siria dovevano essere uno strumento di coordinazione per il sostegno all'opposizione da parte dei paesi contrari ad Assad," dice Christopher Phillips, docente associato alla Chatham House e autore di un ben recensito volume sula diplomazia nel conflitto siriano.[3] 
Phillips considera la Francia come uno dei verosimili protagonisti di questo tentativo di imitare il modello libico, ma gran parte della grossa mole di lavoro diplomatico è stata svolta dagli Stati Uniti, che avevano ventilato l'idea e avevano iniziato a formare un nucleo di paesi aderenti subito dopo il veto. L'impegno ameriKKKano è stato "fondamentale per l'organizzazione degli Amici della Siria", ha detto Frederic C. Hof, che come consigliere esperto del Segretario di Stato Hillary Clinton sugli affari siriani ha avuto un ruolo di primo piano nell'organizzazione degli incontri. Hof tuttavia ha anche specificato che l'influenza degli Stati Uniti sul piano della diplomazia internazionale sul campo di battaglia in Siria non ha fatto molta strada, e neppure in mezzo alla diaspora contraria ad Assad. Nell'opposizione siriana contano assai di più i padroni di Istanbul, di Doha, di Ryadh, poco coordinati tra di loro e poco coordinati con Washington.[4]
Insomma, fin dall'incontro inaugurale a Tunisi il gruppo degli Amici della Siria sarebbe stato "afflitto da problemi che avrebbero segnato il destino dell'impegno internazionale volto a sostenere l'opposizione siriana," ha detto Phillips. "I paesi della regione, capeggiati dal Qatar ma anche dall'Arabia Saudita, hanno premuto per un intervento militare e per armare i ribelli come nel caso della Libia, mentre i paesi occidentali intimoriti dalla componente islamista della ribellione volevano che si arrivasse a una soluzione diplomatica."[5]
All'incontro di Tunisi il ministro saudita per gli Affari Esteri Saud al Feisal ha auspicato la fornitura di armi all'opposizione siriana; il Qatar, che venissero coinvolte le forze armate dei paesi arabi. Questi suggerimenti sono stati ignorati con discrezione o respinti dalla maggior parte dei paesi, compresi gli oppositori occidentali di Assad che in altre circostanze hanno ostentato intransigenza.
Nel 2012 gli Amici della Siria si riunirono quattro volte:
- A Tunisi il 23 febbraio.
- A Istanbul il 1 aprile.
- A Parigi il 6 luglio.
- A Marrakesh il 12 dicembre.
Il risultato pratico degli incontri è stato essenzialmente quello di intonare la politica di ogni singolo paese verso la richiesta di una transizione politica, al tempo stesso ribadendo a parole il forte sostegno per i dissidenti siriani e l'auspicio di sanzioni contro le autorità di Damasco. Al vertice di Marrakesh ad esempio, cui avrebbero assistito i rappresentanti di centoquattordici paesi, si stabilì che Assad aveva "perso ogni legittimità e avrebbe dovuto fare un passo indietro per permettere l'inizio di un processo di transazione politica sostenibile e conforme al comunicato di Ginevra," un documento redatto durante l'estate precedente con la supervisione delle Nazioni Unite. Gli inconti sono stati usati anche per annunciare programmi di aiuti umanitari e di sostegno economico in favore dell'opposizione siriana.
Le conferenze degli Amici della Siria hanno avuto un ruolo significativo nella politica dell'opposizione siriana, perché hanno legittimato il Consiglio Nazionale Siriano, un gruppo basato in Turchia che ha cercato di procurarsi il sostegno della comunità internazionale per rovesciare Assad. Alla fine del 2012 gli Stati Uniti e i loro alleati costrinsero il Consiglio Nazionale Siriano, che aveva dato ampia prova di inefficacia, a confluire in un'organizzazione analoga nota come Coalizione Nazionale, puntualmente consacrata dagli Amici della Siria come "il legittimo rappresentante del popolo siriano, e ombrello sotto cui si stanno raccogliendo i gruppi dell'opposizione siriana." [6]
Dietro questa mossa c'era un doppio intento. Da una parte, il blocco degli Amici della Siria cercava di togliere legittimità al governo di Assad. Dall'altra, i paesi coinvolti intendevano far crescere un'opposizione coesa e non estremista in grado di negoziare le dimissioni di Assad, e di colmarne il vuoto se -o quando- egli fosse stato tolto di mezzo con altri sistemi.


Armare i ribelli

Nello stesso periodo in cui si tenevano gli incontri degli Amici della Siria, i sostenitori più intransigenti dell'opposizione finanziavano e armavano un crescente movimento guerrigliero che agiva all'interno della Siria.[7] Fin dal 2011 armamenti avevano cominciato ad essere introdotti nel paese attraverso percorsi clandestini organizzati dalle reti islamiste, da contrabbandieri, mercanti e tribù beduine, ma anche con il crescente esplicito appoggio della Turchia, del Qatar e dell'Arabia Saudita.[8]
All'inizio del 2012 Turchia e Paesi del Golfo accrebbero la portata del loro impegno in Siria. In estate il governo turco agevolò l'organizzazione di una cellula congiunta nella città di Adana per il coordinamento delle contrastanti iniziative qatariote e saudite, ma né le pressioni turche né quelle statunitensi si dimostrarono in grado di impedire ai due paesi di cercare di sabotare a vicenda le proprie iniziative in Siria. La campagna per armare i ribelli diventò una gara competitiva e caotica a costruire reti clientelari; negli anni successivi armamenti per miliardi di dollari vennero introdotti in Siria con poca vigilanza e poca coordinazione.
Alla fine del 2011 la Siria stava già andando incontro ad una guerra civile settaria e il controllo governativo stava cedendo nelle zone sunnite del paese. Il massiccio sostegno straniero della primavera e dell'estate del 2012 condusse ad un proliferare senza precedenti di gruppi armati. L'esercito, non in grado di affrontare la montante marea della guerriglia, fu costretto a ritirarsi in aree più sicure abbandonando ai ribelli ampie regioni nel nord della Siria e anche alcuni quartieri di Damasco e di Aleppo.
Fu più o meno in questo momento che il governo degli Stati Uniti iniziò ad impegnarsi sul serio a favore degli insorti. Dapprincipio la CIA si attivò per controllare le forniture di armi cui provvedevano turchi, qatarioti e sauditi, cercando di non farne arrivare a jihadisti antioccidentali e intercettando consegne di armamenti ad alto potenziale come i missili antiaerei. Il personale statunitense prese comunque ad agevolare e a integrare sempre di più il sostegno alleato apportandovi addestramento e materiali statunitensi, dapprima non letali, poi letali.
Col continuare della guerra, Obama si trovò sotto il tiro di un crescente coro interventista nei media, al Congresso e negli alleati degli Amici della Siria, per aver impedito la consegna di grossi quantitativi di armamenti e per non essere intervenuto militarmente contro Assad. Nella primavera del 2013 Obama acconsentì di malavoglia all'organizzazione di un canale proprio della CIA per la consegna di armi, nel contesto di un programma patrocinato dai sauditi e chiamato Timber Sycamore.[9] Il programma si trasformò rapidamente in una delle più costose operazioni sotto copertura della storia della CIA; nel 2015 i costi ammontavano a mille miliardi di dollari.[10]
A quel punto era chiaro che la Primavera Araba era diventata "una guerra per procura per varie potenze regionali," come scrisse Derek Chollet, all'epoca assistente del ministro della difesa di Obama sui temi di sicurezza internazionale. "I paesi con cui avevamo rapporti non facevano che gettare nel teatro bellico risorse di ogni genere," Chollet rivelò all'A. nel 2016 in un'intervista lamentandosi di quelle che considerava iniziative irresponsabili da parte di alcuni alleati degli USA. "Molte di queste risorse sono finite nelle mani sbagliate. Il clima è quello de 'il nemico del mio nemico è mio amico', e ad alcuni dei nostri alleati non importava se gli aiuti che fornivano andavano a finire a Jabhat an Nusra [collegata ad al Qaeda] o ad altri gruppi. Abbiamo impiegato un sacco di tempo cercando di convincerli a sostenere l'opposizione moderata, e a spronare la comunità internazionale affinché rafforzasse i gruppi moderati".
Alla fine gli USA sono riusciti a imporre un qualche ordine sulla corsa agli armamenti, e anche ad infliggere considerevoli danni al governo di Assad; tuttavia Washington non è riuscita a
imbrigliare l'insurrezione. In condizioni di sempre maggiore caos, essa ormai conteneva anche una serie di gruppi jihadisti radicali.
Alcuni detrattori di Assad, sia in Occidente che in Siria, hanno affermato che la militarizzazione e l'islamizzazione della protesta sono state inevitabile reazione ad una repressione brutale, e che gli attivisti democratici rappresentavano la "vera rivoluzione". Tuttavia a dissentire è stato un movimento islamico assai più forte; man mano che la Siria continuava a precipitare nella guerra civile a sfondo settario, questi distinguo hanno perso ogni importanza. L'opposizione era quello che era, non quello che i suoi sostenitori avrebbero voluto che fosse.
Non importa quanto forte fosse l'avversione per Assad e per il suo governo -da sempre corrotto e non democratico e ormai anche colpevole di un crescente numero di crimini di guerra- nutrita da molti siriani, da molti attivisti stranieri, da molti politici e da molti diplomatici; un'insurrezione come quella che essi avrebbero voluto non avrebbe mai potuto ottenere un vasto sostegno internazionale.


Amici volubili

Insomma, via via che la Siria sprofondava nella guerra civile, gli Amici della Siria iniziarono a diminuire rapidamente di numero. Alla prima conferenza del gruppo tenutasi a Tunisi nel febbraio del 2012 avevano preso parte più di sessanta paesi. Ai successivi incontri di Istanbul, di Parigi e di Marrakesh erano stati anche di più. Il sostegno internazionale all'opposizione siriana aveva raggiunto il culmine.
Nello stesso periodo il governo siriano stava soffrendo per l'insurrezione iniziale che era divampata all'improvviso, ed ogni giorno perdeva più uomini, più mezzi e più terreno. Nel 2012 i ribelli occuparono la zona est di Aleppo e tennero il centro di Damasco sotto un forte fuoco di razzi e di mortai; il 18 luglio una bomba uccise vari appartenenti agli alti gradi dei servizi di sicurezza governativi; gli uomini d'affari iniziarono a trasferire all'estero il proprio patrimonio e l'economia prese a vacillare; i giovani iniziarono a fuggire in gran numero per evitare di fare il servizio militare. Assad ricorse in misura sempre più massiccia agli strumenti della repressione per venire a capo delle montanti perdite; nel 2012 prima mise in campo l'artiglieria, poi gli elicotteri, poi l'aviazione e alla fine i missili balistici. Verso la fine dell'anno iniziarono a circolare resoconti che dicevano che il governo aveva iniziato a far uscire dai depositi gli armamenti chimici, e nel 2013 vi furono i primi impieghi confermati di gas nervino, anche se Damasco ne ha negato la responsabilità.
Anche in campo lealista sembra che nel 2012 molti pensassero che alla fine Assad sarebbe caduto, o che avrebbe perso il controllo di una parte così vasta del paese che il suo governo non avrebbe più potuto funzionare come governo nazionale. Negli incontri che ho avuto con figure filogovernative a Damasco nel corso dell'ultimo anno tutti coloro che ho interrogato sulla questione hanno detto che il periodo fra 2012 e 2013 è stato il peggiore. Anche al di fuori da questo ambiente un pubblico di esperti, di giornalisti e di politici rimasto impressionato dalla recente caduta degli autoritari dominatori della Tunisia, dell'Egitto e della Libia pensava che la fine di Assad fosse soltanto questione di tempo. In modo forse comprensibile ma errato, "la politica [era] guidata dalla convinzione che il governo siriano sarebbe stata l'ultima vittima dell'effetto domino della Primavera Araba."[11]
Alla metà del 2012 i diplomatici statunitensi stavano approntando dei piani di emergenza in vista di un crollo incontrollato del governo siriano, e sul piano interno le argomentazioni favorevoli a un intervento erano alimentate dall'idea che gli USA dovessero gestire gli eventi e limitare il contagio regionale una volta che il governo di Assad fosse crollato.[12] All'inizio del 2013 i ministri degli esteri occidentali, quello turco e quelli arabi assicuravano ancora con convinzione ai loro rispettivi governi che Assad stava per cedere.
Invece Assad non ha ceduto. Alla fine del 2013 invece Assad aveva fermato l'avanzata dell'opposizione, interrotto il flusso delle diserzioni e rafforzato il controllo di Damasco. Anche se l'Esercito Arabo Siriano aveva risentito della situazione e aveva perso molto del potenziale che aveva prima del 2011, Assad e i suoi alleati erano ricorsi alla mobilitazione di una estesa rete di milizie che comprendeva gruppi a base confessionale di orientamento alawita e sciita, ma anche unità miste, compagini tribali sunnite e di altro genere.[13] L'aviazione intraprese una spietata campagna di bombardamenti contro le zone in mano ai ribelli, i gas nervini fecero centinaia di vittime alla periferia di Damasco e un deciso intervento dei combattenti di Hezbollah interruppe le vie di rifornimento dei ribelli che passavano dal Libano settentrionale.[14]
Intanto, gli espatriati democratici che avevano l'appoggio degli Amici della Siria si trovavano in difficoltà davanti a un fronte insurrezionale a carattere settario dominato dall'orientamento islamico, i cui capi hanno trattato con disprezzo le istanze occidentali dirette al compromesso e al negoziato.[15] Anche se parte dei ribelli aveva promesso democrazia e rispetto dei diritti delle minoranze, i gruppi più numerosi appartenevano quasi tutti a questo o a quell'orientamento islamico. Molti dovevano essere tenuti sotto continuo controllo e sotto continua pressione da parte dei loro finanziatori stranieri affinché si tenessero lontani da avventurismi estremisti, e alcuni erano strapieni di jihadisti salafiti, ostili nei confronti di qualsiasi altro governo al pari di come erano ostili al governo di Assad.
Anche se il presidente siriano era ormai ampiamente tacciato di criminale di guerra e ritenuto responsabile della morte di decine di migliaia di civili, le alternative verosimili sembravano essere il vuoto statuale di un caos infestato di jihadisti o una sorta di teocrazia in stile talebano.[16]
L'entusiasmo degli ambienti internazionali per l'opposizione venne meno di colpo.
Dopo la conferenza di Marrakesh nel dicembre del 2012, gli Amici della Siria non hanno più tenuto conferenze su vasta scala. L'attivismo internazionale contrario ad Assad andò invece avanti nella forma di più ristretto gruppo di paesi dalla mentalità simile a partire dall'incontro tenuto a Roma nel febbraio del 2013; alla fine venne chiamato "il gruppo centrale degli Amici della Siria", o "gli undici di Londra."
I nuovi e ridimensionati incontri vedevano di solito la partecipazione dei ministri degli esteri di USA, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, EAU, Giordania e, spesso, Egitto. La maggior parte di questi paesi aveva profuso ingenti risorse nella guerra contro Assad, e aveva per lo meno sostenuto materialmente l'insurrezione armata, anche se c'erano delle eccezioni: l'Egitto è stato un fautore della linea dura fino al luglio del 2013, quando un colpo di stato ha spostato il Cairo un po' più vicino ai sostenitori di Assad. Angela Merkel, nonostante la Germania abbia sempre spiccato per stanziamenti in aiuti umanitari, è sempre stata lontana dagli oppositori di Assad più intransigenti.[17]
Man mano che la guerra continuava anche l'entusiasmo dei governi così orientati iniziò a vacillare ed emersero altri interessi non compatibili con simili intenzioni.


Viene meno la fiducia nel rovesciamento del governo siriano

"Ci sono stati vari tentativi di mettere una pezza ai problemi che i paesi contrari ad Assad avevano tra di loro; si è cercato anche di trasformare gli Amici della Siria nella più snella organizzazione degli 'Undici di Londra', ma le sostanziali divergenze nell'approccio alla questione sono rimaste," afferma Christopher Phillips. "In conclusione, i più accettarono il fatto che i ribelli non potevano vincere senza l'intervento dell'aviazione statunitense; Obama tuttavia non sarebbe intervenuto."[18]
La cosiddetta crisi della linea rossa, nel settembre del 2013, ha rappresentato un simbolico punto di svolta. Obama preferì accordarsi con i russi per eliminare con mezzi pacifici l'arsenale chimico di Assad invece di copire le sue istituzioni come rappresaglia per un micidiale attacco condotto con quegli armamenti. Obama considerò l'accordo come la meno peggio tra tante opzioni terribili, e disse che dal teatro bellico siriano erano state così tolte qualcosa come 1300 tonnellate di sostanze tossiche; i suoi oppositori però accolsero furibondi un'iniziativa che a loro modo di vedere rappresentava un segno di debolezza ed elargiva al governo di Assad un'ulteriore possibilità di sopravvivere.
A questo punto era chiaro al di là di ogni dubbio o questione che l'opposizione siriana non era in grado, da sola, di colmare il vuoto lasciato da Assad se egli fosse stato rovesciato col ricorso alla forza. Obama a quanto pare considerò inaccettabile qualsiasi intervento che sarebbe finito con lasciare agli USA un altro stato fallito come l'Afghanistan, e parimenti inaccettabile se non peggiore qualunque iniziativa finalizzata a cacciare semplicemente Assad, con il risultato di doversela vedere con una Siria in preda all'anarchia. La Casa Bianca tuttavia non avrebbe rinunciato a togliere di mezzo Assad, anche se si concentrò sull'idea che si sarebbe potuti arrivare a una transizione negoziata se i ribelli avessero fatto sufficiente pressione sul governo siriano.
Un primo tentativo di organizzare colloqui tra le parti in vista di un passaggio dei poteri, i cosiddetti negoziati di Ginevra II che hanno avuto luogo tra gennaio e febbraio del 2014, è stato un completo fallimento e non ha lasciato motivi di pensare che si potesse arrivare a un compromesso costruttivo. Nonostante questo nell'amministrazione statunitense e nella maggior parte degli alleati degli USA nell'ambiente degli Amici della Siria molti continuarono a insistere per un intervento più deciso, sostenendo che Assad sarebbe venuto a più miti consigli se solo si fosse sentito abbastanza sotto tiro. Obama ostentò scetticismo, ma chiaramente non voleva che si pensasse che stava ricompensando il governo siriano per le sue tattiche ostruzionistiche e per l'abuso che faceva del diritto umanitario internazionale. La politica statunitense sulla Siria dopo il fallimento di Ginevra II ha così continuato puramente a venir meno, in un continuo intervento di basso profilo all'infelice ricerca di un qualche secondo fine, cui sovrintendeva un presidente che non sembrava credere a quello che stava facendo.
Nell'estate del 2014 l'ascesa dello Stato Islamico riaccese l'interesse per la minaccia estremista che stava montando in regioni della Siria ormai fuori dal controllo dello stato. Questo portò alla nascita di una coalizione a guida statunitense contro gli jihadisti, cui era tuttavia esplicitamente vietato colpire le forze favorevoli ad Assad. Gli USA adesso erano più riluttanti che mai davanti alla prospettiva della caduta di Damasco, perché temevano che un crollo della compagine governativa avrebbe fornito alle operazioni dello Stato Islamico ancor più spazio privo di controllo.
Al contrario di quello che si potrebbe intuire, per gli Amici della Siria e per un certo numero di think tank di Washington vicini all'opposizione questa conclusione si trasformò in un ulteriore argomento a favore del sostegno per gli insorti.  "L'ultima cosa che vogliamo è lasciare che [gli jihadisti] entrino a Damasco," ha detto il direttore della CIA John Brennan nel marzo del 2015. A suo dire, Assad doveva restare per il momento al potere perché si potesse arrivare a una soluzione negoziata, ma questo poteva succedere solo se si esercitava una pressione militare continua e se c'era modo di far scendere l'opposizione a compromessi. "Ecco perché è importante sostenere i settori non estremisti dell'opposizione," disse Brennan.
In via ufficiale, la strategia degli USA ormai era quella di inebolire Assad al punto che avrebbe accettato di cedere il potere, ma non di indebolirlo al punto da causare il crollo delle istituzioni o la caduta di grandi centri urbani nelle mani degli jihadisti. Solo che la Siria non era un gioco al computer. La CIA e i suoi uomini sul terreno, che erano una compagine ingestibile fatta di capetti di spionaggi locali in competizione tra loro e di ribelli maneggioni, non potevano dirigere con precisione le attività degli insorti in modo che conseguisse effetti prevedibili. E neppure potevano ridisegnare da lontano il panorama sociale e ideologico della Siria controllata dai ribelli.
Non è che mandare armi al di là della frontiera fosse una tattica senza effetti. Anzi, insistere quanto bastava avrebbe quasi certamente portato alla distruzione del governo siriano e alla morte di Assad, se questi fossero stati gli scopi e se i costi fossero stati ritenuti accettabili. Solo che usare una guerriglia sunnita caotica e frammentata in centinaia di correnti per influenzare il calcolo che Assad faceva dei costi e dei vantaggi di una transizione politica era come cercare di dedicarsi alla cardiochirurgia con una motosega. La mappa iniziò presto a grondare sangue da ogni parte.
All'inizio del 2015 i Paesi del Golfo e la Turchia mandarono munizioni a carrettate nel nord della Siria senza fare tante distinzioni, e con esse anche razzi anticarro di alto livello che venivano dagli USA. Rafforzati robustamente, i ribellli squassarono velocemente le linee dei governativi. Il governo siriano sembrava esausto e incapace di impedire ai ribelli di attaccarlo ai fianchi, ma anche in queste circostanze Assad non si mostrò affatto disposto a negoziare; a quanto pareva considerava la guerra come una questione di vita o di morte.
Nella primavera e nell'estate del 2015 le città di Idlib e Jisr al Sughur nel nord ovest del paese caddero nelle mani delle formazioni islamiche che avevano alla testa i combattenti di al Qaeda; ad est, Palmira venne presa dallo Stato Islamico.
Ad alcuni degli Amici della Siria questo andava bene: Turchia e Qatar hanno sempre mostrato molta tolleranza nei confronti dello jihadismo, e a quel punto sia loro che i sauditi volevano che Assad si togliesse di mezzo ad ogni costo o quasi. Nelle capitali d'Occidente e in alcuni paesi arabi invece si usavano altri parametri. Dietro le quinte, gli esperti di difesa e di intelligence erano in allarme e temevano che la Siria rischiasse di diventare un paradiso jihadista permanente alle soglie del continente europeo.
In via ufficiale la Casa Bianca continuò a ostentare la linea dura contro Assad, puntualmente rimessa al suo posto dai media ogni volta che qualche funzionario governativo si mostrava dubbioso sulla questione della sua cacciata.[19] La fiducia nella capacità della CIA di concretizzare quel giusto grado di pressione militare stava però venendo chiaramente meno.
Il 30 settembre 2015 il presidente russo Vladimir Putin provvide, inatteso, a mettere fine al dibattito nel governo statunitense intervenendo militarmente in Siria; sul terreno operava invece un corpo di spedizione guidato dall'Iran. La presenza di aerei russi e di sistemi di difesa aerea sembrò costituire un impedimento nei confronti di un intervento statunitense di vasta portata contro Assad, che fosse sotto l'amministrazione Obama o sotto quella del futuro presidente.
A differenza degli ameriKKKani, Russia e Iran non sono stati a lambiccarsi sull'orientamento ideologico dei propri alleati e non avevano progetti per mettere in piedi un nuovo movimento di opposizione; non cercavano neppure di far nascere un governo di transizione retto da un delicato equilibrio di poteri. Russia e Iran avevano un obiettivo molto più semplice: spazzare via la ribellione rafforzando il già esistente governo di Assad senza stare a preoccuparsi di tante finezze costituzionali o umanitarie.
Il compito non era infattibile. L'intervento russo e iraniano spostò velocemente il pendolo in favore di Assad, e nella primavera del 2016 il governo siriano iniziò a riconquistare i territori perduti. Gli Stati Uniti e i loro alleati cercarono di fare da mediatori per nuovi cessate il fuoco e di tenere in vita i colloqui per la transizione in corso a Ginevra, ma non accettarono l'invito a disimpegnarsi per conto di un'opposizione che non volevano più vedere al potere. Anzi, consapevoli del fatto che non era più realistico pensare di arrivare a quello che era stato il loro obiettivo condiviso, ovvero la fine del governo di Assad, vari appartenenti agli ex Amici della Siria iniziarono a fare da soli, perseguendo i propri e meno ambiziosi interessi nazionali.
Nel testo che segue si esamineranno i comportamenti messi in atto dai principali attori, o gruppi di essi, nel contesto degli Amici della Siria: gli USA, l'Euro9pa, la Turchia, la Giordania e i Paesi del Golfo.


Gli USA: "Con la Siria, pochissimo a che fare"

Anche prima di essere eletto nel novembre del 2016, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva detto chiaramente che non si fidava dei ribelli e che non voleva rimanere coinvolto in Siria. "Se i sauditi sono tanto preoccupati per la Siria, dovrebbero essere loro a pensarci. Che la smettano di dire che dobbiamo fare il lavoro sporco al posto loro," aveva scritto nell'ottobre del 2013 dopo aver vigorosamente contestato l'idea che la linea rossa che Obama aveva tracciato circa l'uso di armamenti chimici avrebbe dovuto essere rafforzata ricorrendo alle armi. Un anno dopo, Trump respinse l'idea che in Siria esistessero dei "ribelli moderati" e si mostrò incredulo sul fatto che Obama li avrebbe armati. "Cosaa diavolo sta facendo," scrisse su Twitter.v "Questa è una cosa che si ripercuoterà su di noi."[20]
Una volta in carica, Trump ha indugiato per qualche mese ma poi ha cominciato a tradurre operazionalmente quello che aveva scritto. Alla fine di marzo 2017 il Segretario di Stato Rex Tillerson ha dichiarato che il futuro di Assad "sarà deciso dal popolo siriano," un'affermazione che è stata ampiamente e correttamente interpretata nel senso che a decidere saranno lo stesso Assad, Putin o chissà chi altro, ma che gli USA non spenderanno più né denaro né sangue per forzare le cose.
Una settimana dopo ci fu un momento di confusione quando gli Stati Uniti lanciarono una salva di missili da crociera contro una base aerea siriana come rappresaglia per un attacco chimico avvenuto il 4 aprile. Trump tuttavia è ritornato presto sui suoi passi, deciso a ridurre la portata del coinvolgimento statunitense in Siria. "Quella palude non ci serve," ha detto allo Wall Street Journal.
Poco dopo, il Presidente ha posto termine al programma della CIA per armare i ribelli che era in atto da quattro anni, e lo ha definito "massiccio, pericoloso e pieno di sprechi." Entro l'inverno dovrebbero anche venire meno gli stanziamenti per le paghe ai ribelli sostenuti dalla CIA. Sia la CIA che il Pentagono hanno continuato a fornire assistenza a gruppi che combattono contro lo Stato Islamico, ma i due filoni di questo impegno vengono mantenuti distinti e ai combattenti impegnati contro gli jihadisti è stato posto esplicito divieto di attaccare le forze di Assad. Questo ha segnato la fine dei tentativi statunitensi di rovesciare Assad con la forza.
"Per quanto riguarda la Siria, abbiamo molto poco a che fare con la questione a parte distruggere l'ISIS," ha detto Trump durante una conferenza stampa tenuta l'8 settembre con l'emiro del Kuwait.
Come prevedibile, le opinioni sulla politica siriana di Trump sono discordanti. Qualcuno, nel mondo politico statunitense, non è contento per quella che considera un'umiliazione patita per mano di Vladimir Putin e un colpo al prestigio e all'influenza degli USA in Medio Oriente. Altri considerano il tentativo di Mosca di influenzare le vicende belliche verso un esito favorevole alla Russia come un'occasione per liberare gli Stati Uniti da un problema senza soluzione, che permetterebbe loro di impiegare il proprio capitale politico in campi maggiormente proficui.
Lo smantellamento da parte di Trump della politica tesa al rovesciamento del governo siriano dei tempi di Obama ha senz'altro creato nuove opportunità diplomatiche a spese dell'opposizione, perché gli obiettivi russi e ameriKKKani in Siria non sono più radicalmente inconciliabili. Anche se gli USA hanno avuto molte occasioni per colpire gli interessi del governo siriano, ivi compresa l'occupazione di regioni nell'est del paese, a tutt'oggi vi hanno rinunciato e hanno lasciato che gli eventi seguissero il loro corso e si sono anzi impegnati diplomaticamente con la Russia nelle occasioni e nei contesti in cui poteva portare a risultati utili. Per adesso questi sforzi hanno portato a un accordo per la riduzione delle tensioni nel sud della Siria, ma si tratta di un accordo poco dettagliato e molto problematico e resta da vedere se potrà essere tradotto in modo stabile sul piano pratico. In particolare, il ruolo dell'Iran in Siria continua a irritare i politici ameriKKKani ed è possibile che inneschi nuovi conflitti.


Gli europei vanno dietro agli Stati Uniti

Di tutti gli appartenenti all'Unione Europea soltanto Francia e Regno Unito hanno davvero sostenuto la rivoluzione siriana, anche se la Germania e vari altri paesi dell'Unione vi hanno un ruolo politico o umanitario.
"Il Regno Unito e la Francia sono coinvolti per ragionio diverse," afferma Christopher Phillips. "Ad unirle era una qual certa fiducia dopo il 'successo' ottenuto in Libia alla fine del 2011, e sia Sarkozy che Cameron all'inizio speravano di fare il bis in Siria, convinti che avrebbero ancora una volta potuto dirigere l'azione degli USA. A tutti e due sarebbe toccato capire che Obama considerava la Siria in maniera molto differente."[21]
L'intervento russo e l'elezione di Donald Trump hanno posto fine a qualunque speranza anglofrancese di un intervento in Siria capeggiato dagli USA, e tutti e due i paesi si sono adeguati alla nuova posizione degli ameriKKKani.
Le elezioni del maggio 2017 in Francia, il più acceso sostenitore europeo dell'opposizione siriana, hanno portato al potere Emmanuel Macron e questo ha prodotto marcati cambiamenti nella posizione diplomatica del paese. Il nuovo presidente ha invertito la rotta sulla questione delle dimissioni di Assad fin da giugno, affermando che "nessuno mi ha indicato un successore legittimo;" in seguito Macron ha proposto la creazione di un nuovo gruppo di contatto internazionale per discutere della Siria. Di idee nuove non ce ne sono molte, comunque, e quella che viene presentata come una grande mossa diplomatica parigina non è altro che il prendere con cautela le distanze da una linea politica insostenibile sperando di far sembrare la cosa una specie di progresso. Solo su una certa questione Macron ha indurito l'atteggiamento francese verso Assd: ha promesso che Parigi non tollererà l'uso di armamenti chimici e che a fronte di un caso del genere si riserverà di procedere ad attacchi aerei di propria iniziativa, con o senza sostegno ameriKKKano. Macron afferma di aver fatto passi avanti sul problema delle armi chimiche colloquiando con Putin, ma non ha fornito dettagli.
La britannica Theresa May ha mantenuto un profilo più basso. In ogni caso è sempre stato chiaro che Londra non sarebbe passata all'azione da sola. In un'intervista radiofonica alla fine di agosto, il Segretario agli Esteri Boris Johnson ha fatto del suo meglio per non affrontare l'argomento, ma alla fine è stato costretto a dire che il futuro del presidente siriano è in ultima analisi nelle mani del popolo, e che Assad, anche se dovrebbe rassegnare le dimissioni, è libero di "presentarsi ad elezioni democratiche." Di per sé questo non significa nulla di particolare, ma è un invito a leggere tra le righe.
"Non è che potevano fare marcia indietro così all'improvviso; c'è da salvare la faccia. Comunque è piuttosto chiaro che sul terreno le cose sono cambiate e che c'è bisogno di ridefinire la linea politica tenendone conto," dice Christopher Phillips. "Gente con cui ho parlato al Foreign and Commonwealth Office mi ha detto che si sta ancora lavorando a un processo di transizione che non coinvolga Assad, ma sono abbastanza sicuro che non si tratti della linea ufficiale, e sicurissimo che la cosa non si materializzerà."[22]
A partire dalla fine del 2016 la UE ha cercato di usare i fondi per la ricostruzione come una carota nei confronti di Assad: i paesi più ricchi ne ripagherebbero l'abbandono del potere con interventi assistenziali per il popolo siriano. Una strategia che si denuncia da sola come nata morta, e si dovrebbe dar credito ai diplomatici europei di essere in grado di capirlo. In pratica, l'idea della UE di comprare la transizione a contanti non è che una foglia di fico utile a salvare la faccia intanto che si batte in ritirata, passando da una diplomazia perentoria a posizioni politiche assai meno pretenziose che consistono nell'offrire baratti irricevibili intanto che si accetta la restaurazione della Siria baathista.


La Turchia conta su un'opposizione propria. E non sa bene cosa farne.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato costretto ad ammettere, alla fine del 2016, di aver messo un po' troppa carne al fuoco. Il suo atteggiamento interventista in Siria non gli aveva procurato altro che grane e a quel punto si trovava anche in preda a crisi sul piano interno.
Nel 2014 gli USA sono intervenuti contro lo Stato Islamico. Nel quadro delle operazioni, gli ameriKKKani hanno iniziato a sostenere le Forze di Protezione del Popolo, lo YPG, che sono l'emanazione siriana del Partito dei Lavoratori del Kurdistan detto PKK, che è in guerra contro il governo turco. Per Ankara è stata una tragedia, sul piano strategico. L'affermarsi di un autogoverno favorevole al PKK e sostenuto dagli USA nel nord della Siria ha fatto rapidamente sì che Assad non fosse più il primo dei problemi. Nel 2015 e nel 2016 poi l'intervento russo ha posto di fatto termine alla speranza di rovesciare il governo di Damasco.
Anche se l'entrata dei russi nel conflitto ha prodotto considerevoli tensioni e ha finito per porre drastici limiti alla libertà di azione di Erdogan, ha avuto anche il merito di sbarazzare la Turchia da una serie di priorità nazionali ormai impossibili da raggiungere. Una volta che Ankara ha capito che rovesciare Assad era fuori questione, non le è rimasto altro che concentrarsi sui curdi, sugli jihadisti e sulla crisi dei profughi, ovvero sul controllo a lungo termine dell'influenza turca sulle forze in competizione tra loro situate alle sue frontiere meridionali.
Erdogan ha invesito molto sull'opposizione e per questo è comunque un attore fondamentale del conflitto, solo che ha la parte del perdente e non quella del vincitore. Nella primavera del 2016 si è risolto a cercare un compromesso con la Russia, sperando che Mosca sarebbe stata disponibile a una soluzione pragmatica ai problemi della frontiera turca.
Nel contesto di un più ampio rimodellamento della propria politica estera ormai in crisi, a metà del 2016 la Turchia ha iniziato a modificare la propria condotta in Siria. Dopo un periodo ai ferri corti, Erdogan ha improvvisamente fatto buon viso alla Russia e poi ha negoziato con Mosca un accordo che ha concesso alle truppe turche di intervenire nella zona a nord est di Aleppo nel corso dell'agosto dello stesso anno. L'intervento ha messo nelle mani di Ankara una regione di suo per lo più priva di importanza, ma che ha tagliato in due il territorio dei curdi siriani. I russi hanno comunque premuto per costringere alla fine Ankara ad abbandonare altre regioni importanti. Dopo un lungo assedio governativo della zona est di Aleppo, Erdogan ha acconsentito di malavoglia a facilitare la capitolazione degli insorti nella sacca di Aleppo avvenuta nel dicembre del 2016; migliaia di ribelli hanno potuto abbandonare la città insieme alle proprie famiglie.
L'accordo su Aleppo è arrivato subito dopo l'elezione di Trump, che è stata un ulteriore chiodo sulla bara dell'opposizione siriana. Erdogan ha poi deciso di impegnarsi ulteriormente in favore dei sostenitori di Assad, intraprendendo un nuovo processo di pace con Russia e Iran nella capitale kazaka Astana.
La priorità che passa avanti a tutto per la Turchia è "impedire che in Siria si formino un corridoio curdo e un governo curdo autonomo a ridosso della frontiera", ha detto un giornalista turco esperto di questioni mediorientali come Cengiz Çandar. "Per raggiungere questo obiettivo e in considerazione del fatto che l'impegno degli USA non muta obiettivo, la Turchia si è avvicinata a Russia e Iran. L'accordo con la Russia su Aleppo, in cui la Turchia si è impegnata a ridurre il proprio impegno a favore dell'opposizione siriana, è stato un passo fondamentale. Astana ha rappresentato anch'essa un rimarchevole mutamento nella politica turca sulla questione siriana." [23]
Tuttavia, i pilastri strategici della Turchia hanno continuato a creparsi e a sgretolarsi. Nel gennaio 2017 gli jihadisti hanno attaccato a Idlib i ribelli sostenuti da Ankara, e a luglio sono arrivati a prendere il principale punto di frontiera della Siria nordoccidentale. I servizi turchi hanno cercato di indirizzare altre formazioni ribelli contro l'avanzata jihadista, fino a oggi con poco successo.
A settembre i tre paesi di Astana hanno dichiarato Idlib zona di de-escalation; ai pattugliamenti interni avrebbero pensato truppe turche. Con gli jihadisti a controllare la maggior parte della zona, sembrava una pretesa poco fondata; Ankara però ha mobilitato i ribelli suoi alleati in un'operazione a cavallo della frontiera durante il mese di ottobre, e ha cercato di costringere gli jihadisti ad accettare la presenza turca senza arrivare ad uno scontro aperto. Sembra che la Turchia stia cercando di mettersi al riparo da un incessante flusso di profughi ed è probabile che intenda barattare la pacificazione di Idlib con contromisure russe dirette al controllo della vicina enclave curda di Efrin. In una prospettiva di più lungo termine, Ankara può anche considerare le zone che controlla nel nord della Siria come contropartita per un'azione contro il PKK.
In ogni caso è chiaro che le priorità di Ankara riguardano essenzialmente i suoi interessi sul piano interno, e anche se la Turchia è a tutt'oggi il principale sostenitore dell'insurrezione nel nord della Siria, i settori non jihadisti di essa stanno diventando una guardia di frontiera per conto dei turchi più che una forza armata diretta al rovesciamento del governo. Diversi gruppi sostenuti dalla CIA e dai turchi che hanno rifiutato di adeguarsi agli accordi per la de-escalation e hanno scelto di continuare ad attaccare le posizioni dell'esercito siriano assieme ai combattenti jihadisti si sono visti togliere ogni sostegno nel corso degli ultimi mesi.[24]
Il governo turco continua a deplorare quello che considera un tradimento da parte degli USA, ma sia nella lotta in Siria sia nella guerra contro il PKK pare che Recep Tayyip Erdogan si sia ridotto a cercare di togliere le castagne dal fuoco sotto la supervisione del Cremlino.[25] "L'accordo raggiunto per controllare il terreno in modo da trasformare Idlib in una zona di de-escalation non è che l'ultimo anello di una catena con cui la Turchia si è andata a mettere sempre più sotto l'ombrello russo," afferma Cengiz Çandar.[26]
Per Erdogan si tratta di una situazione imbarazzante, perché è costretto a barcamenarsi tra gli avversari di Assad che restano il suo principale strumento di pressione in Siria e le pretese in favore di Assad dei suoi partner russi e iraniani nel processo di pace di Astana. A tutt'oggi la Turchia non si è mossa gran che secondo le sue nuove linee strategiche, ma con gli USA che stanno perdendo interesse e i ribelli da lui foraggiati che stanno perdendo la guerra, Erdogan non ha molte possibilità allettanti. Sembra che sia arrivato alla conclusione che la miglior scommessa per la Turchia consista nel vivere alla giornata, e che un duro accordo con i russi possa in fin dei conti rivelarsi meno dannoso di continuare a sperperare quattrini nella Siria del nord.
Di sicuro Erdogan deve continuare ad essere della partita. Il suo paese condivide con la Siria ottocentoventidue chilometri di frontiera colabrodo, e sta ospitando più di tre milioni di profughi di guerra. La Turchia non potrebbe estraniarsi dalla politica siriana neppure se volesse.


Giordania: freddo pragmatismo e problemi alla frontiera

Il Regno di Giordania è entrato in guerra contro il governo siriano con qualche trepidazione, preoccupato per la propria sicurezza ma consapevole anche delle proprie alleanze nella regione. Da molto tempo la Giordania dipende dalla generosità occidentale ed araba per colmare i buchi nel proprio bilancio e per assicurare la stabilità interna.
I tentativi capeggiati dagli USA di incanalare attraverso Amman il sostegno ai ribelli da loro protetti e di costruire una forza coesa e di orientamento moderato nel sud della Siria hanno avuto poco successo. I ribelli del fronte meridionale non sono riusciti a unificarsi, non hanno tenuto lontani gli jihadisti, e Assad non è caduto.
Già nel 2014, dopo aver accolto centinaia di migliaia di profughi e aver visto crescere i fermenti jihadisti all'interno del regno, ad Amman non erano contenti di come andavano le cose. Il doppio colpo del collasso iracheno ad opera dello Stato Islamico nel corso dell'estate e dell'intervento russo in Siria nel 2015 hanno convinto il regno a cambiare rotta, lasciando perdere gli alleati statunitensi e quelli arabi del Golfo per tornare a concentrarsi sulla sicurezza delle frontiere.
Nell'autunno del 2015 la Giordania iniziò a mettere dei limiti al sostegno ai ribelli nel sud della Siria, ordinando ai suoi protetti di dirigere il fuoco contro bersagli dello Stato Islamico o di cercare altrimenti di mantenere le posizioni. Alla fine del 2016 il mondo politico giordano ha fatto un ulteriore passo avanti, facendo sapere che era pronto a riprendere i rapporti con Assad e a far ripartire i traffici dal passaggio di frontiera di Nassib una volta che a ridosso della frontiera si fosse instaurata una situazione di consolidata sicurezza. Alla fine dell'estate e nel corso dell'autunno del 2017 esponenti giordani e siriani si sono scambiati complimenti sui media,[27] e sono stati tenuti colloqui a tre fra giordani, russi e statunitensi per disinnescare le situazoni problematiche lungo la frontiera, per lo più a spese dei ribelli.[28] A rovesciare il governo di Damasco la Giordania ha chiaramente rinunciato; molte delle formazioni all'opposizione da essa sostenute sembra siano rassegnate a questo dato di fatto. Deciso a bonificare e in ultimo a far tornare alla normalità la situazione al confine settentrionale, il regno continua a lavorare con pragmatismo insieme a russi e ameriKKKani per contrattare un nuovo modus vivendi con Assad, e non ostenta alcun interesse a intervenire nel sud della Siria fintanto che ne sarà garantita la stabilità.
Nell'àmbito di questo processo il regno ha cercato comunque più volte di ampliare la propria influenza sui gruppi ribelli per limitare la presenza dell'Iran nella Siria meridionale, dicendo a Mosca e a Damasco che è questo il modo di arrivare ad una riconciliazione di più vasta portata e magari anche alla ripresa dei traffici. Amman ha le sue ragioni per tenere l'Iran lontano dalle proprie frontiere, ma queste pretese sembrano modulate dalle preoccupazioni dello stato sionista, dell'Arabia Saudita e degli USA: lo stato sionista fa la parte del poliziotto cattivo, picchia sul tasto dell'apparato militare e rumoreggia minaccioso per via delle alture del Golan; poi arriva la Giordania a fare la parte del poliziotto buono, a offrire accesso alle frontiere ed entrate dai traffici commerciali. Il problema però è questo: Assad e Putin possono davvero liberare il sud della Siria da Hezbollah?


I Paesi del Golfo combattono tra di loro, non contro Assad

Fin dal 2012 i Paesi del Golfo sono stati i più generosi sostenitori dell'opposizione siriana, ma l'imperterrita prosecuzione della cura dei rispettivi orticelli da parte di Qatar e Arabia Saudita, acerrimi nemici sul piano regionale, ha avuto anche l'effetto di minare la coesione degli insorti.
In stretta cooperazione con la Turchia e con i Fratelli Musulmani, il Qatar è stato fin dal 2013 il principale finanziatore dell'insurrezione e ha spesso diretto il proprio sostegno verso formazioni islamiche di carattere estremista, ignorando i pressanti inviti degli USA a privilegiare i ribelli ben disposti verso l'Occidente. In almeno un paio di occasioni il Qatar ha infranto i ben precisi limiti dettati dagli USA e ha consegnato a gruppi ribelli missili antiaerei spalleggiabili.[29]
Tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 l'Araba Saudita ha aumentato considerevolmente il proprio impegno anche per contrastare la crescente influenza del Qatar, e ha destinato la maggior parte delle proprie risorse a fazioni meno radicali diventando un partecipante di tutto riguardo nel programma di armamenti organizzato dalla CIA. [30] Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno avuto un ruolo in Siria, per lo più come finanziatori di fazioni contrarie ai Fratelli Musulmani e al Qatar e di conseguenza come sostenitori degli sforzi dei sauditi.[31]
L'abdicazione dell'emiro del Qatar nel 2013, cui seguì dopo poco tempo un colpo di stato contro il governo dei Fratelli Musulmani in Egitto appoggiato da Arabia Saudita ed Emirati, ha provocato un mutamento nelle relazioni. Il governo di Doha, pesantemente colpito, ha messo meno vigore nelle proprie sfide alla supremazia saudita e le relazioni fra i due paesi si sono in qualche modo stabilizzate, nonostante un certo periodico riacutizzarsi dellen tensioni.
Molti degli armamenti forniti dai Paesi del Golfo ai ribelli siriani venivano dall'Europa orientale. Un gruppo di giornalisti ha identificato un picco negli acquisti di surplus di armamenti dell'era sovietica in paesi come la Croazia e la Repubblica Ceca, per un totale che si avvicina al miliardo e quattrocento milioni di dollari per gli anni compresi fra il 2012 e il 2016. L'Arabia Saudita ha contribuito per due terzi al totale di questi acquisti. In un caso, nel 2013, un'unica Dichiarazione di Uso Finale rilasciata dal Ministero della Difesa saudita a un mercante di armamenti serbo elencava più di trecentosessantaquattro milioni di proiettili, trecento carri armati, seimilatrecento mitragliatrici e diecimila fucili automatici tipo Kalashnikov. Dal momento che l'esercito saudita usa per lo più armamenti di produzione occidentale, gli autori della ricerca hanno considerato che la destinazione finale di gran parte dei materiali fosse la Siria a prescindere da quanto scritto sulla Dichiarazione.[32] 
Pur se acquistate dalle monarchie petrolifere arabe, le armi entravano in Siria attraverso la Turchia, la Giordania e, sia pure in misura minore attraverso il Libano. I paesi del Golfo, per evidenti ragioni geografiche, sono sempre stati costretti a operare per mezzo dei propri alleati regionali; sembra che abbiano fatto anche grande affidamento sul coordinamento e sull'assistenza della CIA.
L'abbandono del conflitto da parte della Turchia, della Giordania e degli USA a partire dal 2015-2016 ha dunque lasciato "il Qatar e, cosa ancora più importante, l'Arabia Saudita con pochissimi elementi cui aggrapparsi," ha concluso alla fine del 2016 Emile Hokayem, un esperto studioso dell'International Institute for Strategic Studies.
I limiti sopraggiunti all'attività dell'Arabia Saudita possono essere stati di particolare importanza. Irritati dal riavvicinamento degli USA all'Iran e sconquassati da intrighi di corte per la successione, i sauditi hanno seguito nel corso degli ultimi anni una politica estera sempre più interventista e in particolare nel 2015 hanno lanciato una confusa e inconcludente campagna militare nello Yemen.[33] I ribelli siriani avevano sperato che contro Assad i sauditi si muovessero in maniera altrettanto decisa, ma ogni interesse dei sauditi ad alzare il livello dello scontro è venuto meno quando la Russia ha spinto Turchia e Giordania a rivedere la propria linea. "Incapace di agire in maniera determinante sul campo di battaglia o di esercitare una concreta influenza diplomatica, un'Arabia Saudita esausta e impegnata oltre le proprie possibilità ha silenziosamente fatto retrocedere la Siria nell'ordine delle proprie priorità," ha scritto Hokayem.
Fra le priorità dei sauditi, a quanto pare, il Qatar occupava un posto di maggiore rilievo. Nel giugno 2017 la vecchia rivalità fra paesi arabi si è riaccesa in pieno, per motivi che nessuno conosce con esattezza. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno scatenato un boicottaggio finanziario e politico contro il Qatar, che si è rivolto agli importanti alleati turchi e ha ripreso i rapporti diplomatici con l'Iran: non proprio quello che i sauditi speravano.
A distanza di mesi il Golfo è ancora bloccato in questa strana situazione di stallo; i tentativi condotti dagli USA per indurre i due contrapposti blocchi a dialogare si sono arenati su ininfluenti questioni di protocollo.
Prima o poi e in una qualche misura i principi del Golfo probabilmente si riconcilieranno. Solo che quando lo faranno difficilmente il futuro di Bashar al Assad sarà la prima delle loro preoccupazioni. "I sauditi non si preoccupano più della Siria," ha detto al Guardian un esperto diplomatico occidentale; "ai sauditi interessa solo il Qatar; la Siria è una partita persa."
O una partita vinta, se ci si mette nei panni dello schieramento opposto.  


Conclusione. Verso una pace fredda con Assad

"Confermiamo il nostro impegno nel processo di Ginevra e nel sostegno ad un processo politico credibile che possa risolvere l'interrogativo del futuro della Siria," ha riferito un funzionario del Dipartimento di Stato USA. "Alla fine questo processo, a nostro modo di vedere, porterà all'uscita di scena di Assad." [34]
La linea ufficiale è questa: gli USA vogliono che Assad se ne vada, ma non metteranno in atto alcuna strategia miliare per costringerlo a lasciare. Continueranno a perorare il proseguimento dei colloqui di Ginevra e diranno che è la stessa cosa. Ovviamente non è così. Ma nel 2017 ormai anche i paesi che per lungo tempo sono stati fautori della linea dura contro Assad si sono allineati a Washington.
Non è che l'opposizione siriana sia stata propriamente abbandonata. Molti gruppi armati stanno continuando a ricevere sostegno, e gli esiliati sono ancora pronti a qualunque accordo possa in qualunque circostanza rivelarsi raggiungibile. Le fazioni dell'opposizione siriana possono anche veder aumentare la propria importanza col procedere del conflitto, se terranno fede all'agenda dei rispettivi protettori. La Turchia, per esempio, continuerà ad aver bisogno dei propri alleati sul terreno per arginare i nemici curdi.
A non esistere più è un serio sostegno internazionale verso l'originale ragion d'essere dell'oppposizione che ancora anima i suoi appartenenti e i suoi capi, ovvero liberare la Siria dalla dinastia degli Assad.
La diplomazia internazionale ha abbandonato questo obiettivo tramite piccoli e graduali atti di omissione. Il comunicato di Ginevra del 2012, sostenuto dall'ONU, pretendeva che si arrivasse ad un accordo su un "organismo di governo di transizione" che avrebbe permesso all'opposizione di mettere il veto al coinvolgimento di Assad. Questo documento ha rappresentato per anni il fondamento di tutti i colloqui per la pace in Siria, ma oggi è stato tacitamente superato dal ricorso alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU numero 2254, emessa dopo l'intervento russo del 2015. Ora, la risoluzione 2254 propone un ambizioso (o meglio, un assurdo) piano per delle libere elezioni; oltretutto è anche assai meno chiara del comunicato di Ginevra, ed è più facile interpretarla in modo da legittimare una transizione che in concreto non è affatto tale.
Il più recente incontro tenuto da un gruppo di paesi "dalla mentalità simile", del tipo degli Amici della Siria, è avvenuto a margine della settantaduesima Assemblea Generale dell'ONU a settembre del 2017. Vi hanno preso parte diciassette ministri degli esteri, fra i quali figuravano rappresentanti di tutti i principali avversari di Assad: Canada, Danimarca, Egitto, Unione Europea, Francia, Germania, Italia, Giordania, Olanda, Norvegia, Qatar, Arabia Saudita, Svezia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti. I partecipanti hanno concordato sul fatto che i finanziamenti per la ricostruzione della Siria dipenderanno da "un credibile processo politico che porti a una vera transizione politica che possa riscuotere il sostegno della maggioranza del popolo siriano." Hanno colto l'occasione per insistere in favore di "una completa messa in atto della risoluzione 2254" e hanno auspicato una "forte ed effettiva partecipazione a negoziati dalla portata significativa da parte di credibili rappresentanze dell'opposizione siriana." Il nome "Assad" non è stato menzionato.
In una conferenza stampa successiva all'incontro, è stato chiesto all'Assistente Segretario ad interim per gli Affari Mediorientali David Satterfield se in concreto questo significava che il presidente siriano sarebbe potuto rimanere in carica.
"Il punto importante è che si richiede un processo politico credibile," ha risposto Satterfield. "Il risultato del processo potrà farsi attendere, ma è il processo stesso che è essenziale per sbloccare le cose, non il suo risultato conclusivo."
Non serve più neppure leggere tra le righe; è tutto detto esplicitamente. Per quanto riguarda gli Amici della Siria, la guerra per rovesciare Assad è finita.


[1] Esistono stime che parlano di più di 160 voli per la consegna di materiale militare all'opposizione siriana tra gennaio 2012 e marzo 2013 per conto del Qatar, dell'Arabia Saudita e della Giordania. Secondo un esperto "una stima prudenziale del carico portato in questo modo assommerebbe a tremilacinquecento tonnellate di equipaggiamenti militari." – C. J. Chivers e Eric Schmitt, “Arms Airlift to Syria Rebels Expands, With Aid From C.I.A.,” New York Times, 24 marzo 2013; http://www.nytimes.com/2013/03/25/world/middleeast/arms-airlift-to-syrian-rebels-expands-with-cia-aid.html.
[2] Roula Khalaf e Abigail Fielding Smith, “Qatar bankrolls Syrian revolt with cash and arms,” Financial Times, 16 maggio, 2013, http://ig-legacy.ft.com/content/86e3f28e-be3a-11e2-bb35-00144feab7de#axzz4v9RYFIiY.
[3]“Penso che l'idea sia stata dei francesi,” dice Phillips circa le origini del gruppo. “SI voleva fare qualcosa di analogo agli Amici della Libia perché all'epoca molti credevano che l'intervento in Libia fosse stato un successo e che in Siria si potesse fare la stessa cosa.” Christopher Phillips, intervista via e-mail dell'A., settembre 2017. Il libro di Phillips, "Battle for Syria: International Rivalry in the New Middle East", è stato pubblicato nel 2016 dalla Yale University Press.
[4] Frederic C. Hof, consigliere esperto del Rafik Hariri Center for the Middle East nel Consiglio Atlantico, intervistato dall'A. per e-mail nel luglio 2013.
[5] Christopher Willis intervistato dall'A., 2017.
[6] Sul ruolo che gli incontri degli Amici della Siria hanno avuto nella promozione del Consiglio Nazionale Siriano, cfr. Aron Lund, Divided They Stand: An Overview of Syria’s Political Opposition Factions, FEPS, 2012, su http://www.feps-europe.eu/en/publications/details/149. Sulle pressioni statunitensi affinché il Consiglio Nazionale Siriano confluisse nella Coalizione Nazionale, cfr. Neil MacFarquhar e Michael R. Gordon, “As Fighting Rages, Clinton Seeks New Syrian Opposition,” New York Times, 31 ottobre 2012, http://www.nytimes.com/2012/11/01/world/middleeast/syrian-air-raids-increase-as-battle-for-strategic-areas-intensifies-rebels-say.html. La conferenza di Marrakesh del dicembre 2012 spostò il riconoscimento da parte degli Amici della Siria dal Consiglio Nazionale Siriano alla Coalizione Nazionale. Cfr. “The Fourth Ministerial Meeting of The Group of Friends of the Syrian People,” op. cit.
[7] Aron Lund, “Stumbling into civil war: The militarization of the Syrian opposition in 2011,” in AMEC Insights Volume 2, pp. 2-24, Afro-Middle East Center, 2015.
[8] Sembra che il sostegno turco e qatariota si sia manifestato abbastanza presto e che sia stato incanalato nelle reti islamiste di cui facevano parte personaggi dei Fratelli Musulmani, e che provvedevano a spostare armi da fuoco dalla Libia in piena guerra civile. L'Arabia Saudita mobilitò anche i propri alleati islamisti, ma temeva che l'insurrezione si radicalizzasse e non aveva in particolare alcuna stima per i Fratelli Musulmani. Ad esempio, politici libanesi di orientamento non islamico vennero cooptati per spostare armamenti attraverso la frontiera libanese e la frontiera turca già alla fine del 2011, in un'operazione che "al di là di ogni dubbio è stata pianificata con la supervisione dei servizi segreti dell'Arabia Saudita." Cfr. Bernard Rougier, The Sunni Tragedy in the Middle East: Northern Lebanon from al-Qaeda to ISIS, Princeton University Press, 2015, p. 178.
[9] DeYoung, 2013, cit.; Mark Mazzetti e Matt Appuzzo, “U.S. Relies Heavily on Saudi Money to Support Syrian Rebels,” New York Times, https://www.nytimes.com/2016/01/24/world/middleeast/us-relies-heavily-on-saudi-money-to-support-syrian-rebels.html.
[10] Greg Miller e Karen DeYoung, “Secret CIA effort in Syria faces large funding cut,” Washington Post, 12 giugno, 2015; https://www.washingtonpost.com/world/national-security/lawmakers-move-to-curb-1-billion-cia-program-to-train-syrian-rebels/2015/06/12/b0f45a9e-1114-11e5-adec-e82f8395c032_story.html; Mazzetti, Goldman e Schmidt, 2017, cit.
[11] Christopher Phillips, Battle for Syria: International Rivalry in the New Middle East, Yale University Press, 2016, p. 77.
[12] I funzionari statunitensi temevano in particolare che in un colpo di coda il governo siriano potesse ricorrere al copioso arsenale chimico, o che esso finisse nelle mani degli insorti. Cfr. Helene Cooper, “Washington Begins to Plan for Collapse of Syrian Government,” New York Times, 18 luglio 2012.
[13] Aron Lund, “Chasing Ghosts: The Shabiha Phenomenon,” in Michael Kerr e Craig Larkin (a cura di), The Alawis of Syria, Hurst & Co., 2015.
[14] Human Rights Watch, “Syria: Aerial Attacks Strike Civilians,” April 10, 2013, https://www.hrw.org/news/2013/04/10/syria-aerial-attacks-strike-civilians; “United Nations Mission to Investigate Allegations of the Use of Chemical Weapons in the Syrian Arab Republic,” op. cit., though note, again, that the government never admitted responsibility; Anne Barnard, “Hezbollah Commits to an All-Out Fight to Save Assad,” New York Times, May 25, 2013, www.nytimes.com/2013/05/26/world/middleeast/syrian-army-and-hezbollah-step-up-raids-on-rebels.html.
[15] Una raccolta di scritti dell'A. sulla frammentazione e sulla radicalizzazione dell'opposizione siriana nel 2012-2013 e sul rifiuto delle più importanti fazioni ribelli di accettare le strategie sostenute dagli Amici della Siria e favorevoli a una soluzione negoziata si trova in Aron Lund, “Syrian Jihadism,” Swedish Institute for International Affairs, 14 settembre 2012, su http://www.sultan-alamer.com/wp-content/uploads/77409.pdf; Aron Lund, “Syria’s Salafi Insurgents: The Rise of The Syrian Islamic Front,” UI Occasional Papers, Swedish Institute of International Affairs, marzo 2013, https://www.ui.se/globalassets/ui.se-eng/publications/ui-publications/syrias-salafi-insurgents-the-rise-of-the-syrian-islamic-front-min.pdf; Aron Lund, “The Non-State Militant Landscape in Syria,” CTC Sentinel, 27 agosto 2013, https://ctc.usma.edu/posts/the-non-state-militant-landscape-in-syria; Aron Lund, “Islamist Groups Declare Opposition to National Coalition and US Strategy [aggiornato],” Syria Comment, 24 settembre 2013, www.joshualandis.com/blog/major-rebel-factions-drop-exiles-go-full-islamist/; Aron Lund, “Rebels Call Geneva Talks ‘Treason’,” Carnegie Endowment for International Peace, 28 ottobre 2013, http://carnegie-mec.org/diwan/53451?lang=en/; Aron Lund, “The Politics of the Islamic Front, Part 3: Negotiations,” Carnegie Endowment for International Peace, 16 gennaio 2014, carnegie-mec.org/diwan/54213?lang=en
[16] Per un esempio fra i più concreti e credibili -pur non necessariamente atraenti- tentativi dell'opposizione di costruire uno stato in Siria, cfr. Aron Lund, “The Syrian Rebel Who Tried to Build an Islamist Paradise,” Politico Magazine, 31 marzo 2017, http://www.politico.com/magazine/story/2017/03/the-syrian-rebel-who-built-an-islamic-paradise-214969
[17] Nel corso di una conferenza per la raccolta di fondi tenutasi a Bruxelles fra il 4 e il 5 aprile 2017 la Germania ha promesso di stanziare un miliardo e trecento milioni di euro per aiuti umanitari alla Siria, destinati sia a zone sotto controllo dell'opposizione sia a zone sotto controllo governativo. La somma più alta che un paese si sia mai impegnato a stanziare, e più di quanto promesso da USA, regno Unito, Francia, italia, Svezia e Spagna considerati tutti insieme. Per una lista degli impegni in campo umanitario presi alla conferenza di Bruxelles, cfr. http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2017/04/pdf/SyriaConf2017-Pledging-Statement_pdf. Si ringrazia Tobias Schneider, un tedesco esperto di questioni mediorientali, per le interessanti considerazioni sul ruolo della Germania.
[18] Christopher Phillips, intervista dell'A.
[19] Hugh Naylor, “Kerry’s comments on Assad create uproar in the Middle East,” Washington Post, 16 Marzo 2015: https://www.washingtonpost.com/world/middle_east/kerry-comments-on-assad-create-uproar-in-the-middle-east/2015/03/16/4a087930-cbe8-11e4-8730-4f473416e759_story.html.
[20] Gli scritti su Twitter di Donald Trump. 5 settembre 2013: https://twitter.com/realDonaldTrump/status/375609403376144384; 23 ottobre 2013, https://twitter.com/realDonaldTrump/status/393064582287069184; 20 settembre 2014, https://twitter.com/realDonaldTrump/status/513249345857413120. Sul tema della linea rossa, cfr. Lund, “Red Line Redux,” 2017.
[21] Intervista con l'A.
[22] Intervista con l'A.
[23] Intervista per e-mail con l'A., settembre 2017.
[24] “’Mom’ tuwaqqif daam baad fasail shamali souriya,” Enab Baladi, 8 ottobre 2017; https://www.enabbaladi.net/archives/177026. L'articolo inidica vari gruppi ascritti all'Esercito Libero Siriano nella regione di Idlib: la Divisione Centrale (al-Firqa al-Wusta), il Libero Esercito di Idlib (Jaish Idlib al-Hurr), l'Armata della Gloria (Jaish al-Ezzah) e l'Armata della Vittoria (Jaish al-Nasr).
[25] Nel gennaio 2017 ad esempio il Ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavusoglu ha messo in guardia contro "una crisi di fiducia nelle relazioni" dopo che "gli USA hanno scelto di allearsi con un'organizzazione terrorista." “Turkey ‘questions’ US use of Incirlik air base,” Hürriyet Daily News, 4 gennaio, 2017, http://www.hurriyetdailynews.com/turkey-questions-us-use-of-incirlik-air-base-.aspx?PageID=238&NID=108122&NewsCatID=338.
[26] Intervista con l'A.
[27] Mohammed al-Momani intervistato su Sittoun Daqiqa, canale su Youtube della Jordanian Royal Television il 25 agosto 2017: https://www.youtube.com/watch?v=MIPA6ugARwk; “melaff al-maaber ala nar sakhina,” al-Watan, 21 settembre 2017: http://alwatan.sy/archives/120139.
[28] Gardiner Harris, “U.S., Russia and Jordan Reach Deal for Cease-Fire in Part of Syria,” New York Times, 7 luglio 2017: https://www.nytimes.com/2017/07/07/us/politics/syria-ceasefire-agreement.html; Sam Heller, “Aleppo’s Bitter Lessons,” The Century Foundation, 27 gennaio 2017: https://tcf.org/content/report/aleppos-bitter-lessons.
[29] Roula Khalaf e Abigail Fielding Smith, “Qatar bankrolls Syrian revolt with cash and arms,” Financial Times, 16 maggio 2013, ig-legacy.ft.com/content/86e3f28e-be3a-11e2-bb35-00144feab7de#axzz4v9RYFIiY; Mark Mazzetti, C. J. Chivers ed Eric Schmitt, “Taking Outsize Role in Syria, Qatar Funnels Arms to Rebels,” New York Times, 29 giugno 2013, www.nytimes.com/2013/06/30/world/middleeast/sending-missiles-to-syrian-rebels-qatar-muscles-in.html.
[30] C. J. Chivers ed Eric Schmitt, “Saudis Step Up Help for Rebels in Syria With Croatian Arms,” New York Times, 25 febbraio 2013, www.nytimes.com/2013/02/26/world/middleeast/in-shift-saudis-are-said-to-arm-rebels-in-syria.html; Mark Mazzetti e Matt Appuzzo, “U.S. Relies Heavily on Saudi Money to Support Syrian Rebels,” New York Times, https://www.nytimes.com/2016/01/24/world/middleeast/us-relies-heavily-on-saudi-money-to-support-syrian-rebels.html.
[31] Interviste dell'A. a ribelli siriani, 2014-2015.
[32] Lawrence Marzouk, ivan Angelovski e Miranda Patrucic, “Making a Killing: The €1.2 Billion Arms Pipeline to Middle East,” OCCRP, 27 luglio 2016, https://www.occrp.org/en/makingakilling/making-a-killing?auto=format.
[33] Simrat Roopa, “Saudi Fears Spur Aggressive New Doctrine,” The Century Foundation, 31 agosto 2017, https://tcf.org/content/report/saudi-fears-spur-aggressive-new-doctrine.
[34] Intervista per e-mail dell'A. a un funzionario del Dipartimento di Stato USA, aprile 2017.