lunedì 27 novembre 2017

Alastair Crooke - L'azzardo di un'Arabia Saudita alla disperazione



Traduzione da Consortium News, 10 novembre 2017.

La cosa è sempre intrigante. La guerra in Siria sta per finire, e per chi ha scommesso sulla parte perdente e si ritrova all'improvviso nelle peste mentre il tempo sta per scadere la sconfitta è motivo di acuto e pubblico imbarazzo. La tentazione è quella di ignorare la sconfitta e buttare spavaldamente sul piatto l'ultima posta: all'ultimo giro di ruota il vero uomo si gioca la casa e tutto quello che c'è dentro. Quelli che assistono se ne stanno vigili in silenzio, aspettano che la ruota rallenti e faccia passare la pallina da numero a numero e guardano dove va a fermarsi, se sul nero o sul rosso. Il rosso sangue della tragedia.
Questo non succede solo nei romanzi; succede anche nella vita. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) ha puntato tutto sul nero, con il sostegno degli amici: il genero del Presidente Trump Jared Kushner, il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed (MbZ) e lo stesso Trump. Nel corso della sua vita di affarista Trump si è giocato il futuro in una o due occasioni. Ha giocato anche lui, e lo ammette con eccitazione.
Nell'ombra, nel retro della sala da gioco, ecco il Primo Ministro sionista Bibi Netanyahu. L'idea di darsi al gioco è stata prima di tutto un'idea sua. Se l'eroico giocatore cade in piedi anche lui avrà di che gioire, ma se esce il rosso... beh, nulla di cui preoccuparsi: mica ci rimane lui, in braghe di tela.
Siamo chiari: Mohammed bin Salman sta distruggendo tutto quello che mantiene il regno saudita integro e intatto. L'Arabia Saudita non è solo una ditta di famiglia, è anche una confederazione tribale i cui interessi discordanti sono stati soddistatti dapprincipio tramite la composizione della Guardia Nazionale e tramite il suo controllo. Solo che la Guardia Nazionale non rispecchia più le varie affiliazioni tribali del regno, ma gli interessi di un solo uomo, quello che se ne è impossessato.
Lo stesso vale per i vari rami cadetti della famiglia al Saud. L'oculata suddivisione della posta in gioco fra i molti che in famiglia battono cassa non esiste più. Un solo uomo sta ritirando dal tavolo le puntate più piccole di tutti quanti. Lo stesso ha tagliato i legami che univano la corte alla élite affaristica saudita e sta lentamente separandosi anche dallo establishment religioso wahabita, che si è ritrovato cacciato a calci dal sodalizio fondato insieme a Ibn Saud, primo monarca dell'Arabia Saudita che governò nella prima metà del XX secolo e noto anche come re Abdul Aziz. Insomma, non è rimasto più nessuno ad avere voce in capitolo ad eccezione di Mohammed bin Salman e a quanto sembra nessuno ha qualche diritto o può aspirare a qualche risarcimento.
Tutto questo per quale motivo? Perché MbS vede che la supremazia politica e religiosa sul mondo arabo sta sfuggendo come sabbia dalle dita del re, e non può sopportare l'idea che l'Iran e i disprezzati sciiti possano esserne gli eredi.


Cambiare volto all'Arabia Saudita

L'Arabia Saudita deve dunque essere trasformata da sonnacchioso e declinante regno a strumento per rintuzzare la potenza iraniana. Un'idea in sintonia con un Presidente statunitense che sembra sempre più preoccupato di riaffermare il prestigio degli USA, la loro deterrenza e il loro potere a livello mondiale anziché attenersi alla linea non interventista della campagna elettorale. Alla conferenza dello American Conservative tenutasi all'inizio di novembre a Washington l'editorialista Robert Merry, che è un prolifico scrittore dal realismo inossidabile, ha lamentato il fatto che "Nell'epoca di Trump non esistono né realismo né ritegno nella politica estera degli Stati Uniti."
Le guerre costano, tutte, e servono soldi. E sui soldi allora si mettono le mani arrestando i rivali con l'accusa di corruzione, come sta facendo Mohammed bin Salman. Solo che per tradizione l'Arabia Saudita, fin dal diciottesimo secolo, ha sempre nutrito tutte le sue lotte per il potere facendo ricorso a uno strumento particolare ed efficace: lo scatenamento dello jihadismo wahabita. Solo che all'indomani della débacle in Siria questo strumento non gode di alcun credito, e non è più utilizzabile.
L'Arabia Saudita deve inventarsi altro, da contrapporre all'Iran; il principe ereditario ha fatto una scelta che suona ironica: l'"Islam moderato" e il nazionalismo arabo, da contrapporre a un Iran e a una Turchia che arabi non sono. Muhammad Abd el Wahhab si sta rigirando nella tomba: l'Islam "moderato", nella sua dottrina rigorosa, altro non era che idolatria, come quella praticata dagli Ottomani; roba che a suo modo di vedere andava punita con la morte.
Nell'azzardo di MbS questa è la parte più rischiosa, anche se l'espropriare il principe Walid bin Talal della sua mastodontica fortuna è stata una cosa che ha attirato di più l'attenzione. Re Abdel Aziz dovette vedersela con una ribellione armata, e un altro re fu assassinato per essersi allontanato dai principi wahabiti su cui si fonda lo stato e per aver abbracciato la modernità occidentalizzata, una cosa che i puristi dello wahabismo considerano idolatria.
Non è che si possono esorcizzare i geni del fervore wahabita statuendo per decreto che essi non esistono più. Abdul Aziz alla fine riuscì ad averne ragione solo uccidendo a colpi di mitragliatrice i suoi aderenti. Solo che l'idea di abbracciare l'"Islam moderato" e di minacciare una resa dei conti con l'Iran è stata probabilmente concepita corteggiando Trump perché sostenesse MbS nella cacciata dal ruolo di principe ereditario del cugino, il principe Naif, e al tempo stesso tenendo presente il potenziale appeal, sul piano delle pubbliche relazioni, che avrebbe avuto il ritrarre l'Iran come estremista ad una Casa Bianca la cui idea di Medio Oriente viene definita da Bibi Netanyahu che sussurra all'orecchio di Jared Kushner, e dai pregiudizi di una conventicola di consiglieri propensi a intendere l'Iran in un modo solo invece che per i suoi molteplici aspetti. Probabilmente Netanyahu si sta congratulando con se stesso per questa astuta pensata.


Un bel colpo per Netanyahu

Non ci sono dubbi, per Netanyahu è stato un bel colpo. La questione comunque è se l'esito sarà una vittoria di Pirro oppure no. Comunque vada, tirare bombe a mano contro qualcosa di infiammabile è molto pericoloso. Questo piano di USA, stato sionista, Arabia Saudita ed Emirati Arabi è come minimo un tentativo di rovesciare la realtà che origina nella negazione dello smacco che questi paesi hanno subito per i molteplici fallimenti cui sono andati incontro nel plasmare un nuovo Medio Oriente alla maniera occidentale. Ora, dopo il fallimento cui sono incorsi in Siria dove pure si sono spinti al limite cercando la vittoria, provano con un nuovo giro di ruota e sperano di rifarsi di tutte le perdite precedenti. Il meno che si possa dirne è che si tratta di una speranza fallace.
La presenza iraniana nel nord della regione mediorientale non è velleitaria; oggi si tratta di una realtà dalle solide radici. Lo spazio strategico iraniano comprende la Siria, il Libano, l'Iraq, lo Yemen e, in misura sempre maggiore, la Turchia. L'Iran ha avuto un ruolo di primo piano nella sconfitta dello Stato Islamico, come lo ha avuto la Russia. E l'Iran è un partner strategico di una russia che può contare oggi su un'ampia influenza nella regione. In altre parole, a pesare di più sul piano politico oggi è la parte settentrionale del Medio Oriente più che il suo indebolito fianco a sud.
Nel caso ci fosse stata in giro l'idea che la Russia poteva tenere a freno l'Iran e i suoi alleati nella regione e con questo alleviare le preoccupazioni dello stato sionista, tutto questo fa fuori qualunque pio desiderio. Anche se i russi potessero farlo, e probabilmente non possono, perché dovrebbero? E allora, come si argina l'Iran, con le armi? Anche questa sembra un'esagerazione.
Dopo la guerra in Libano nel 2006, la prospettiva dell'esercito e delle forze di sicurezza dello stato sionista è quella di una guerra breve -sei giorni o meno- eccezion fatta per i palestinesi. Una guerra che non provochi pesanti perdite per le forze armate o per la popolazione civile dello stato sionista, e che si possa vincere pagando un basso prezzo. L'ideale sarebbe anche una piena partecipazione da parte degli USA, a differenza di quanto successo nel 2006. Al Pentagono non è che muoiano dalla voglia di impegnarsi di nuovo sul terreno, e i sionisti lo sanno. L'Arabia Saudita da sola, poi, non è una minaccia per nessuno: lo Yemen ne è una dimostrazione.
L'Arabia Saudita è in grado di strangolare l'economia libanese e di fare pressione politica sul governo del Libano? Certamente: solo che le pressioni sul piano economico colpiranno più duramente le classi medioalte di ascendenza sunnita rispetto agli sciiti che sono il 44% della popolazione. I libanesi in generale non amano le interferenze esterne; più probabile che le pressioni e le sanzioni ameriKKKane uniscano il paese anziché dividerlo. La storia delle sanzioni è vecchia, ed è sempre la stessa. Inoltre, si può indovinare che gli europei non sosterranno volentieri né la destabilizzazione del Libano, né l'abbandono dell'accordo sul nucleare iraniano, raggiunto nel 2015 per impedire all'Iran di sviluppare armamenti nucleari.
Quale, allora, il risultato? Quella saudita è una società in cui già sono molte le tensioni represse; il paese può semplicemente implodere sotto la nuova ondata repressiva, o MbS essere in qualche modo estromesso prima che la situazione diventi irreparabile. L'AmeriKKKa e lo stato sionista non ne usciranno rafforzati; anzi, saranno visti come sempre meno importanti per il Medio Oriente.
Robert Malley, consigliere per il Medio Oriente nella passata amministrazione, mette in guardia contro il pericolo di una deflagrazione regionale: "Non succede grazie alla paura, ma la stessa paura potrebbe far precipitare la situazione."

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