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08 settembre 2025

Alastair Crooke - Da Tel Aviv il "nuovo e violento sionismo" prodromo di una geopolitica imperiale fatta di sottomissione e di obbedienza

Traduzione da Strategic Culture, 1 settembre 2025.

 La strategia dello stato sionista degli ultimi decenni continua a basarsi sulla speranza di arrivare a una vera e propria trasformazione che deradicalizzi sia i palestinesi sia la regione in generale. Una deradicalizzazione che renderà "sicuro" lo stato sionista. Questo è stato il sacro scopo dei sionisti sin dalla fondazione dello stato. Oggi, il termine in codice per indicare questa chimera è "Accordi di Abramo".
Anna Barsky scrive su Ma'ariv (in ebraico) il 24 agosto che Ron Dermer -ministro per gli affari strategici di Netanyahu, ex ambasciatore a Washington e importante "consigliere" di Trump- "vede la realtà con freddo occhio politico. È convinto che un vero accordo [su Gaza] non sarà mai concluso con Hamas, ma [solo] con gli Stati Uniti. Ciò che serve, dice Dermer, è che gli ameriKKKani facciano propria la linea politica dello stato sionista, gli stessi cinque punti approvati dal Consiglio dei Ministri: disarmo di Hamas, ritorno di tutti gli ostaggi, completa smilitarizzazione di Gaza, controllo della sicurezza nella Striscia in mano allo stato sionista e un governo civile alternativo che non sia né di Hamas né dell'Autorità Palestinese".
Dal punto di vista di Dermer, un accordo parziale per il rilascio degli ostaggi –che Hamas ha accettato– sarebbe un disastro politico. Al contrario, se Washington dovesse approvare la linea di Dermer facendone un proprio piano, secondo la Barsky Dermer concluderebbe che "avremmo una situazione vantaggiosa per tutti". Inoltre, secondo la logica di Dermer, "la mera apertura di un accordo parziale darebbe a Hamas due o tre mesi di respiro, durante i quali potrebbe rafforzarsi e persino cercare di arrivare a uno scenario conclusivo diverso da quello degli statunitensi, uno che gli si adatti meglio [ad Hamas]". "Questo, secondo Dermer, è lo scenario veramente pericoloso", scrive la Barsky.
Dermer ha insistito per anni sul fatto che lo stato sionista non può arrivare alla pace senza prima arrivare a una trasformazione deradicalizzante di tutti i palestinesi. "Se lo facciamo nel modo giusto", dice Ron Dermer, "lo stato sionista ne uscirà più forte -e anche gli Stati Uniti!".
Alcuni anni prima, quando fu chiesto a Dermer quale fosse secondo lui la soluzione al conflitto palestinese, egli rispose che sia la Cisgiordania che Gaza dovevano essere completamente disarmate. Tuttavia, più importante del disarmo era l'assoluta necessità che tutti i palestinesi fossero parimenti "deradicalizzati". Quando gli fu chiesto di spiegarsi meglio, Dermer fece riferimento con aria di approvazione all'esito della Seconda Guerra Mondiale: i tedeschi furono sì sconfitti, ma la cosa ancor più significativa fu che i giapponesi furono completamente "deradicalizzati" e resi imbelli dalla fine delle ostilità:
In Giappone le truppe statunitensi sono rimaste per settantacinque anni. In Germania le truppe statunitensi sono rimaste per settantacinque anni. Se qualcuno pensa che fossero questi gli accordi iniziali, si sta prendendo in giro. Dapprima si è trattato di un'imposizione. Poi hanno capito che per loro era un bene. E col tempo c'è stato un interesse reciproco a mantenere questo stato di cose.
Trump è a conoscenza della tesi di Dermer, ma a quanto pare è Netanyahu a esitare istintivamente. La Barsky scrive poi:
Un accordo parziale [con Hamas] porterà quasi certamente alle dimissioni di Smotrich e di Ben Gvir [dal governo]... Il governo andrà in pezzi... Un accordo parziale significa la fine del governo di destra... Netanyahu lo sa bene, ed è per questo che esita con difficoltà. Eppure si può tirare la corda fino a un certo punto.
Trump sembra accettare la tesi di Dermer: "Penso che vogliano morire, ed è molto, molto grave", ha detto Trump di Hamas prima di partire per il suo recente viaggio in Scozia in agosto. "Si è arrivati al punto in cui siete voi [cioè lo stato sionista] che dovrete portare a termine il lavoro".
Ma l'idea di Dermer di infliggere agli avversari una sconfitta tale da bruciare loro la coscienza non ha mai riguardato solo Hamas. Essa riguardava tutti i palestinesi, tutta la regione nel suo complesso e, naturalmente, l'Iran in particolare.
Gideon Levy scrive che dobbiamo essere grati all'ex capo dell'intelligence militare Aharon Haliva, che su Channel 12 ha ammesso che
"Abbiamo bisogno di un genocidio ogni pochi anni; il massacro del popolo palestinese è un atto legittimo, persino fondamentale". Ecco come parla un generale moderato dell'IDF... uccidere cinquantamila persone è "necessario".
Questa "necessità" non ha più un fondamento razionale. Si è trasformata in sete di sangue. Benny Barbash, drammaturgo cittadino dello stato sionista, scrive che molti concittadini che incontra -anche alle manifestazioni a favore di uno scambio tra ostaggi e prigionieri- ammettono francamente:
"Senti, mi dispiace davvero dirtelo, ma dei bambini che muoiono a Gaza non mi importa nulla. Né della fame che c'è o non c'è. Davvero non mi interessa. Te lo dico chiaramente: per quanto mi riguarda, da quelle parti possono anche morire tutti".
"Il genocidio come prerogativa dell'IDF, per il bene delle generazioni future"; "Per ogni [cittadino dello stato sionista] del 7 ottobre, devono morire cinquanta palestinesi. Dei bambini adesso non importa. Non parlo per vendetta, ma per lanciare un messaggio alle generazioni future. Non c'è niente da fare, hanno bisogno di una Nakba ogni tanto e poi di provarne il peso", cita Gideon Levy le sobrie considerazioni del generale Haliva (sottolineatura aggiunta).
Occorre interpretare tutto questo come indice di un profondo mutamento nel nucleo del pensiero sionista, che passa da Ben Gurion a Kahane. Yossi Klein scrive (in ebraico su Haaretz) che
Siamo davvero arrivati alla barbarie, ma questa non è la fine del sionismo... [Questa barbarie] non ha ucciso il sionismo. Al contrario, gli ha conferito rilevanza. Il sionismo ha avuto varie versioni, ma nessuna assomigliava a questa nuova, aggiornata e violenta variante rappresentata dal sionismo di Smotrich e di Ben Gvir...
Il vecchio sionismo non aveva più rilevanza. Esso ha fondato uno Stato e fatto rinascere la sua lingua. Non ha più obiettivi... Se oggi chiedeste a un sionista che cos'è il suo sionismo, non saprebbe come rispondere. "Sionismo" era diventata una parola vuota... Fino all'arrivo di Meir Kahane. Egli è stato foriero di un sionismo aggiornato i cui obiettivi sono chiari: espellere gli arabi e insediare gli ebrei. Questo è un sionismo che non si nasconde dietro belle parole. Sentir parlare di "evacuazione volontaria" lo fa ridere. Il "trasferimento" lo incanta. Lo apartheid lo inorgoglisce... Essere sionisti oggi significa essere Ben Gvir. Non essere sionisti significa essere antisemiti. Un antisemita [oggi] è qualcuno che legge Haaretz...
Smotrich ha dichiarato a fine agosto che il popolo ebraico sta vivendo fisicamente "il processo di redenzione e il ritorno della presenza divina a Sion, mentre è impegnato nella 'conquista della terra'".
È questo filone di pensiero apocalittico che sta influenzando l'amministrazione Trump in vari modi: sta trasformando la linea etica dell'amministrazione in una posizione del tipo "la guerra è guerra e deve essere totale". Qualunque cosa in meno deve essere vista come un mero scrupolo morale. Questa è l'interpretazione talmudica che deriva dalla storia dello sterminio degli Amalekiti; si veda Jonathan Muskat in Times of Israel.
Ecco quindi il nuovo asservimento di Washington verso la decapitazione delle leadership intransigenti (Yemen, Siria e Iran); il sostegno alla neutralizzazione politica di Hezbollah e degli sciiti in Libano, l'assassinio dei capi di Stato riottosi -come è stato discusso per l'Imam Kamenei- come operazioni di ordinaria amministrazione e la sovversione delle strutture statali (come previsto per l'Iran il 13 giugno).
La conversione dello stato sionista a questo sionismo revisionista –e la sua influenza sulle fazioni chiave della linea statunitense– è proprio il motivo per cui la guerra tra Iran e stato sionista è ormai percepita come inevitabile.
La Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran ha espresso chiaramente il proprioo comprenderne le implicazioni in un discorso pubblico all'inizio di questa settimana:
Questa ostilità [statunitense] è la stessa da quarantacinque anni ed è passata attraverso amministrazioni, partiti e presidenti statunitensi diversi. Sempre la stessa ostilità, le stesse sanzioni e le stesse minacce contro la Repubblica Islamica e il popolo iraniano. La domanda è: perché? In passato, hanno nascosto la vera ragione dietro etichette come terrorismo, diritti umani, diritti delle donne o democrazia. Se la dichiaravano, la formulavano in modo più educato, dicendo: "Vogliamo che l'Iran cambi comportamento".
Ma l'uomo oggi al potere in AmeriKKKa è stato finalmente chiaro e ha svelato il vero obiettivo: "Il nostro conflitto con l'Iran, con il popolo iraniano, è dovuto al fatto che l'Iran deve obbedire all'AmeriKKKa". Questo è ciò che noi, la nazione iraniana, dobbiamo capire chiaramente. In altre parole: una potenza mondiale si aspetta che l'Iran, con tutta la sua storia, la sua dignità e la sua eredità di grande nazione, se ne stia semplicemente sottomesso. Questo è il vero motivo di tutta quella ostilità.
Quelli che dicono "Perché non negoziate direttamente con l'AmeriKKKa per risolvere le vostre questioni?" guardano solo alla superficie. Non è questo il vero problema. Il vero problema è che gli Stati Uniti vogliono che l'Iran obbedisca ai loro ordini. Il popolo iraniano è profondamente offeso da un insulto così grave e si opporrà con tutte le sue forze a chiunque nutra false aspettative nei suoi confronti... Il vero obiettivo degli Stati Uniti è la sottomissione dell'Iran. Gli iraniani non accetteranno mai questo grave insulto.
Nella tesi di Dermer, deradicalizzare significa "instaurare un dispotismo leviatanico che riduca la regione a una totale impotenza, anche a livello spirituale, intellettuale e morale. Il Leviatano totale è un potere unico, assoluto e illimitato, spirituale e temporale, sugli altri esseri umani", come ha osservato il dottor Henri Hude, ex capo del Dipartimento di Etica e Diritto della prestigiosa Accademia Militare di Saint-Cyr in Francia.
Anche l'ex difensore civico dell'IDF, il maggiore generale (in pensione) Itzhak Brik, ha avvertito che la leadership politica israeliana sta "giocando con l'esistenza stessa dello stato sionista":
Vogliono ottenere tutto attraverso la pressione militare, ma alla fine non otterranno nulla. Hanno messo lo stato sionista sull'orlo di due situazioni insostenibili: lo scoppio di una guerra su vasta scala in Medio Oriente [e, o, in secondo luogo] il proseguimento della guerra di logoramento. In entrambe le situazioni lo stato sionista non sarà in grado di sopravvivere a lungo.
Così, mentre il sionismo si trasforma in quella che Yossi Klein ha definito "barbarie all'ultimo stadio", sorge la domanda: questa guerra senza limiti potrebbe funzionare, nonostante il profondo scetticismo di Hude e Brik? Il terrorizzante operato dello stato sionista potrebbe imporre al Medio Oriente una resa incondizionata "che gli consentirebbe di cambiare profondamente, militarmente, politicamente e culturalmente, e di trasformarsi in un satellite dello stato sionista all'interno di una Pax AmeriKKKana globale"?
La risposta chiara che il dottor Hude dà nel suo libro Philosophie de la Guerre è che la guerra senza limiti non può essere la soluzione, perché non può garantire una "deterrenza" duratura o una deradicalizzazione:
Al contrario, essa è la causa più certa della guerra. Cessando di essere razionale, disprezzando avversari che sono più razionali di lui, suscitando avversari ancora meno razionali di lui, il Leviatano cadrà; e anche prima della sua caduta, nessuna sicurezza è garantita.
Hude indica anche come questa estrema ”volontà di potenza" senza limiti contenga inevitabilmente al suo interno la psiche dell'autodistruzione.
Per funzionare, un Leviatano deve rimanere razionale e potente. Cessando di essere razionale, disprezzando gli avversari più razionali e suscitando l'ira degli avversari meno razionali di lui, il Leviatano finisce per cadere. E cadrà.
Questo è precisamente il motivo per cui l'Iran, già adesso, sa che deve prepararsi alla Grande Guerra mentre il Leviatano si leva. E così deve fare anche la Russia, perché si tratta di una guerra unica, che verrà condotta contro i recalcitranti al nuovo ordine ameriKKKano.


16 giugno 2025

I tesori archeologici di Gaza in mostra allo Institut du Monde Arabe di Parigi




I danni deliberati che lo Stato Islamico ha causato al patrimonio archeologico siriano sono stati oggetto di diffusa e giustificata esecrazione. Quelli altrettanto deliberati che lo stato sionista ha causato e causa a tutt'oggi al patrimonio archeologico palestinese sono stati al più trattati a margine.
Trésors Sauvés de Gaza - 5000 Ans d'Histoire, allestita presso l'Institut du Monde Arabe di Parigi dal 3 aprile al 2 novembre 2025, aveva tra i suoi obiettivi quello di mettere a disposizione del pubblico reperti e informazioni sul patrimonio archeologico di Gaza. Quelle che seguono sono le traduzioni dal francese della presentazione della mostra e delle descrizioni dei cinque siti più rilevanti.


Introduzione

Fin dalla sua delimitazione nel 1949 il territorio della Striscia di Gaza -365 chilometri quadrati- è stato caratterizzato tanto da un sostanziale isolamento quanto da una estrema densità demografica e edilizia. La sua storia contemporanea è costellata da guerre e crisi umanitarie; il suo glorioso passato di vasto porto mediterraneo ricco grazie ai traffici con l'Arabia ne è stato messo in ombra. Dopo l'attacco terroristico e la presa degli ostaggi da parte di Hamas il 7 ottobre 2023, la Striscia di Gaza ha subito una devastazione fuori dall'ordinario; a causa della guerra e dei bombardamenti ad opera dello stato sionista si è avuto un numero vertiginoso di vittime civili e di sfollati.
I tragici eventi del XX e del XXI secolo fino alla guerra attualmente in corso hanno spazzato via la storia di questa antica oasi, luogo di passaggio e di scambi aperto al mondo: chi mai ricorda che fin dall'età del bronzo Gaza -nata laddove le sabbie e il mare si incontrano- ha avuto un passato dal prestigio ininterrotto?
Le circa cento opere qui presentate consentono uno sguardo attraverso le civiltà cananea, egizia, filistea, neo-assira, babilonese, persiana, ellenistica, romana, bizantina e araba in questa stretta fascia costiera. La ricchezza di questa oasi, un tempo lodata per la sua prosperità e per la piacevolezza delle sue condizioni di vita, ambita per la sua posizione strategica, terra promessa dei commercianti carovanieri e porto delle merci preziose provenienti dall'Arabia, dall'Africa e dal Mediterraneo, è oggi in grave pericolo.
Oggi che il patrimonio di Gaza subisce attacchi senza precedenti e folli speculazioni sul suo futuro minacciano di spazzare via cinquemila anni anni di esistenza, più che mai è necessario conoscere la sua storia.


Un patrimonio in esilio

Nell'autunno 2006 un centinaio di casse contenenti 529 reperti archeologici provenienti da Gaza sono arrivate a Ginevra per la mostra "Gaza, crocevia tra civiltà" (2007). La mostra presentava i reperti arrivati in Francia nel 2000 e 260 opere provenienti dalla collezione privata di Jawdat Khoudary, successivamente donata all'Autorità Nazionale Palestinese. Per diciassette anni le opere che avrebbero dovuto costituire il futuro museo archeologico di Gaza sono rimaste imballate a Ginevra, pronte a partire. Ma non è stato possibile garantire le condizioni per un ritorno in sicurezza nel loro paese d'origine. Mentre il patrimonio culturale palestinese è vittima di distruzioni senza precedenti, le 123 opere presentate oggi rispecchiano la ricca e lunga storia di Gaza, salvaguardata grazie al Musée d'art et d'histoire di Ginevra che conserva la collezione.


1994-2000: le eccezionali scoperte della campagna di scavi franco-palestinesi

Nell'autunno del 2000, l'Institut du Monde Arabe inaugurò la mostra "Gaza mediterranea", che presentava i risultati degli scavi archeologici intrapresi a partire dal 1994. L'iniziativa nasceva dall'accordo di cooperazione franco-palestinese che permise -per la prima volta dopo il ritiro dello stato sionista dalla enclave- al personale della École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), del Centre National de la Recherche Scientifique e del Servizio delle Antichità dell'Autorità Palestinese di indagare quattro siti di grande importanza. I ritrovamenti più rimarchevoli sono stati quelli dell'antico porto di Anthedon, dei mosaici bizantini di Mukheitim (Jabalya) e dell'eccezionale monastero di Sant'Ilarione (Nussayrat), nonché del prestigioso Tali al-Sakan. Gli eccezionali reperti di questa collezione sono stati sotto la responsabilità dell'Institut du Monde Arabe fino al loro arrivo a Ginevra nel 2007.


I - Gaza, cinquemila anni di storia

La tragedia oggi in atto ha contribuito alla cancellazione della plurimillenaria storia di questa prospera oasi ambita da tutti gli imperi della regione. Gaza si trova ai limiti del deserto, affacciata sul mare e sulla lingua di dune costiere che la separa da esso. Punto di confine naturale tra l'Egitto e l'Asia, la zona dello uadi di Gaza (Wadi Ghazza) è l'ultimo luogo sereno prima del deserto inospitale. Gaza e la sua regione sono un'oasi dalla ricca storia commerciale e politica e sono quindi una posta in gioco importante nella rivalità tra chi si trova al potere nella valle del Nilo e chi vi si trova in Mesopotamia. Porto mediterraneo, punto di convergenza delle rotte carovaniere dell'Africa, dell'Arabia e dell'India, la sua posizione strategica secondo Strabone rese l'antica Gaza "la più grande città della Siria", levando volta per volta le brame degli egizi, degli assiri, dei babilonesi, dei persiani, dei greci, dei romani e infine dei mamelucchi e degli ottomani...


L'età del bronzo e del ferro

Sulla strada di Horus, la via che collegava l'Egitto alla Palestina, il passaggio dello uadi a Wadi Ghazza era un luogo strategico. Nelle vicinanze si trovano due importanti siti dell'età del bronzo, Tali al-Sakan (circa 3500-2350 a.C.) e Tali al-'Ajul (circa 1900-1200 a.C.). Già nella prima metà del IV millennio esistevano stabili legami con l'Egitto, prima che esso conquistasse la Palestina meridionale nella prima età del bronzo e dell'organizzazione della provincia egiziana di Canaan nella tarda età del bronzo. Questo periodo corrisponde anche al comparire della città di Gaza nella storia. Fondata probabilmente nella prima metà del III millennio, la città figura per la prima volta nei testi egizi del regno di Thutmose III (1504-1450 a.C.). Qui viene chiamata "Hazattu", da cui deriva l'attuale nome arabo "Ghazza". Qui risiedeva un funzionario reale egiziano incaricato di sorvegliare la regione, ma la città rimaneva un regno il cui re giurava fedeltà al faraone.


Gaza, città filistea nel periodo assiro, persiano ed ellenistico

All'inizio del XII secolo a.C. dei gruppi provenienti probabilmente dal mondo egeo fondarono dei centri commerciali nelle pianure costiere della regione; Gaza divenne così una delle più importanti città-stato della Filistea. Rimase filistea fino all'VIII secolo quando fu conquistata dagli degli Assiri nel 734 a.C. Il re di Gaza iniziò allora a prestare giuramento di fedeltà, riconoscendosi vassallo di Ninive. Con il nuovo impero di Nabucodonosor II Gaza divenne l'avamposto di Babilonia al confine occidentale dell'impero. Nel 539 a.C. il persiano Ciro conquistò Babilonia e fondò l'impero achemenide. Nel corso dei due secoli del periodo persiano Gaza fu la perla del Mediterraneo. Nel corso della conquista della Siria Alessandro Magno impose un crudele assedio alla città, nel 332. Massacri, saccheggi e distruzioni ebbero carattere sistematico e il disastro portò alla ricostruzione di Gaza sotto l'influenza dominante della cultura ellenistica. La città conservò la sua fama e la sua importanza commerciale sotto i successori di Alessandro, i Lagidi e i Seleucidi, che se ne contesero il controllo.


Il periodo romano e bizantino

Nel 97 a.C. Gaza fu conquistata e distrutta dal regno ebraico degli Asmonei e quindi abbandonata: Gaza deserta. Pompeo la conquistò nel 61 a.C. e nella città furono ripristinate le leggi greche. Venne ricostruita una nuova Gaza, dotata di un teatro, di un ippodromo e sicuramente di una palestra e di uno stadio. Nel corso del IV secolo Gaza vede l'insediamento di marinai cristiani provenienti dall'Egitto, in particolare a Maiouma, il porto della città. La città di Gaza e la sua aristocrazia romanizzata rimasero fedeli a Zeus Marnas fino al V secolo, epoca della conversione forzata alla fede cristiana. Una basilica bizantina, l'Eudoxia, fu quindi eretta sulle rovine del Marneion distrutto nel 402. La città ospitava una comunità ebraica di agricoltori, in particolare a Maiouma dove sono stati ritrovati i resti di una sinagoga del V secolo. Il monachesimo si sviluppò nella regione sotto l'impulso di Ilarione (291-371 circa), originario di Gaza. La città divenne un centro attivo della vita cristiana e intellettuale con la famosa scuola di retorica di Procopio di Gaza. Furono costruiti nuovi edifici come il palazzo vescovile, il mercato coperto, le terme e una scuola di mosaicisti di talento che operavano sia in città che nei centri vicini.


Il periodo musulmano

Nel 637 la città fu conquistata dalle armate musulmane. La popolazione era allora in maggioranza cristiana e lo status delle piccole comunità ebraica e samaritana venne rispettato. Così, fino alle crociate, queste comunità continuarono a prosperare in una città che si islamizzava progressivamente. Gaza era ancora una grande città ricca di attività artigianali, di giardini e di vigneti. Diventò un prospero centro di pellegrinaggio perché si diceva che vi fosse sepolto il nonno dell'Inviato. Le crociate aprirono un nuovo periodo di violenze. Gaza venne occupata dai crociati dal 1149 al 1187 e la sua architettura si trasformò. I crociati vi costruirono una grande chiesa romanica, che in seguito divenne la grande moschea al-'Umari. Dopo la conquista da parte dei Mamelucchi (1260-1277) tornò la pace e vennero costruite moschee e edifici commerciali. Nel 1516 Gaza divenne ottomana e la città iniziò a declinare perché le vie commerciali -specie quelle marittime- cambiarono corso.


Gaza fra il 1905 e il 1922, un patrimonio e paesaggi scomparsi

All'inizio del XX secolo il viaggiatore scopriva a Gaza il fascino di altri tempi dell'abitato circondato da piccoli giardini, il pittoresco palmeto tra le dune e il porto da pesca. Le fotografie inedite della collezione della École Biblique et Archéologique Française de Jérusalem (EBAF) sono testimonianze uniche di questi paesaggi scomparsi. Il XX secolo avrebbe infatti portato a Gaza grandi sconvolgimenti. La prima guerra mondiale non risparmiò questo lembo di terra e i bombardamenti inglesi del 1917 costarono a Gaza gran parte del suo patrimonio architettonico. Dopo l'arrivo di sfollati a partire dal 1947 e la fondazione dello stato sionista, Gaza e i suoi dintorni videro un massiccio afflusso di rifugiati a seguito della guerra del 1948-1949. In questo modo quasi duecentomila "naufraghi della storia" sono andati ad aggiungersi agli ottantamila abitanti di questa fascia costiera. Le conseguenze di quella guerra delimitarono i contorni della "Striscia di Gaza", un territorio enclave di 365 chilometri quadrati. La città portuale di Gaza si trova oggi tagliata fuori dal suo entroterra e dalle strade che in passato ne erano state la ricchezza.


II - Un patrimonio in pericolo

Con oltre 2.150.000 abitanti, di cui settecentomila nella città di Gaza (gennaio 2022), la Striscia di Gaza presenta una densità di popolazione tra le più alte della regione. Da oltre venti anni questa zona è sottoposta a un intenso consumo di suolo, associato a una incessante crisi sociale e umanitaria. Gli interventi urbanistici indispensabili e un'urbanizzazione tanto rapida non potevano essere realizzati senza ripercussioni sul patrimonio archeologico, che abbonda in tutta la regione. A fronte della moltitudine di cantieri, dei rischi di distruzione dei siti e delle scoperte casuali, è stata avviata un'archeologia di emergenza e di conservazione. Il progetto Intiqal (Trasmissione) avviato nel 2017 dall'ONG Première Urgence Internationale in collaborazione con il Ministero del Turismo e delle Antichità dell'Autorità Palestina e con l'EBAF, ha collaborato al salvataggio di diversi siti e ha contribuito alla formazione di oltre un centinaio di studenti laureati in archeologia e architettura. Dall'inizio della guerra sono i palestinesi che intervengono per salvare i siti e le collezioni archeologiche minacciati o in grave pericolo e che un domani documenteranno gli effetti del conflitto sul loro patrimonio.

Il progetto Intiqal è sostenuto dal Consolato Generale di Francia a Gerusalemme, dal British Council, dall'UNESCO, dalla Alliance Internationale pour la Protection du Patrimoine e dall'Agence Française de Développement. Al progetto collaborano anche altri partner istituzionali come il Louvre e l'Institut National du Patrimoine.


Dalla crisi umanitaria alla guerra, la creazione di una nuova archeologia

Sulla base di immagini satellitari aggiornate al 17 febbraio 2025 l'UNESCO ha osservato che dall'inizio della guerra nell'ottobre 2023 nella Striscia di Gaza ci sono stati danni a settantasei siti di interesse culturale. Considerate le minacce che gravano su questo patrimonio, l'UNESCO aveva fatto ricorso alla procedura d'urgenza prevista dalla Convenzione sul patrimonio mondiale. Il 26 luglio 2024 il Monastero di Sant'Ilarione è stato inserito nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. Oltre a questo complesso riconosciuto per il suo valore universale, sono oggi censiti dall'UNESCO circa 345 siti, edifici storici e resti di antiche città, ripartiti tra la città di Gaza, Khan Yunis, Dayr el-Balah, Rafah, Beit Hanoun, otto campi profughi e numerosi villaggi.


Agire in tempo di guerra: documentare, spostare, stabilizzare, salvare

Dall'inizio della guerra operatori palestinesi stanno lavorando per documentare, difendere e salvare i beni culturali minacciati nella Striscia di Gaza. Queste iniziative possono essere portate avanti grazie al sostegno di attori locali e internazionali. La Alliance Internationale pour la Protection du Patrimoine, attiva a Gaza dal 2020, sostiene fin dall'inizio del conflitto progetti di emergenza che hanno permesso di mettere al sicuro collezioni museali o private, di documentare e stabilizzare siti e monumenti e di formare professionisti palestinesi per gli interventi di salvataggio.

Queste operazioni, avviate nel momento in cui più intensi erano i bombardamenti, sono andate sviluppandosi durante la fragile tregua. Adesso gli operatori si trovano ad affrontare nuove sfide. Valutare l'impatto del conflitto sul patrimonio e attuarne il salvataggio e la conservazione nella situazione umanitaria e materiale prevalente a Gaza solleva sfide senza precedenti: la gestione delle macerie in zone dove due terzi degli edifici sono distrutti e le infrastrutture essenziali sono scomparse; la messa in sicurezza dell'accesso ai siti vicini alle zone di combattimento sminando aree in cui quasi il 30% delle bombe e degli esplosivi è rimasto sepolto e inesploso saranno sfide colossali e fondamentali per il futuro di Gaza, per la conservazione del suo patrimonio e della sua storia.

I progetti sostenuti dalla Alliance Internationale pour la Protection du Patrimoine a Gaza vengono portati avanti dal Museo Palestinese, dall'organizzazione Riwaq, da Première Urgence Internationale, dal Center far Cultural Heritage Préservation, dalla Mayasem Association for Arts and Culture, dal Centro Iwan e dal Museo di Rafah, in collaborazione con il Ministero del Turismo e delle Antichità dell'Autorità Palestinese.



Antico porto di Anthedon

Scoperto nel 1995 entro la città di Gaza, vicino al campo profughi di Shatteh.
Cittadella neoassira dell'inizio dell'ottavo secolo a.C. e poi città greca nel sesto secolo.
Sito gravemente danneggiato dai bombardamenti. Estensione dei danni ancora da valutare.
Anthedon è il nome greco di una città costiera vicina alla collocazione della Gaza antica. Il sito ha conosciuto il succedersi di diverse civiltà: neoassira, babilonesek persiana, greca e romana, prima di essere improvvisamente abbandonato attorno al 300 d.C. Prima della guerra del 2023 Il sito presentava le rovine di un bastione romano, un muro di mattoni crudi lungo sessantacinque metri, dei quartieri artigiani romani e una serie di ville ellenistiche. Nell'area sono stati scoperti anche pavimenti a mosaico, magazzini, un cimitero romano e strutture fortificate.



Complesso funerario di Mukheitim

Scoperto nel 1996 a Jabalya.
Dalla seconda metà del quinto secolo fino all'ottavo.
Il sito si trova in una zona di combattimento; la struttura che proteggeva i ritrovamenti è crollata in seguito alla distruzione dell'ospedale adiacente lasciando i resti senza protezione.
Tre corpi di fabbrica contigui per circa seciento metri quadri complessivi. Una chiesa bizantina a tre navate, una cappella delle offerte e un complesso battesimale costituito da quattro ambienti. Al centro un fonte cruciforme. Il sito è rilevante per le sue diciassette iscrizioni in greco e i cinquecentocinquanta metri quadrati di mosaici di ispirazione agreste che raffigurano molti personaggi e molti animali.



Monastero di Sant'Ilarione a Nussayrat

Scoperto agli inizi degli anni Novanta sul tell Umm al-'Amr a Nussayrat e indagato dal 1997.
Dal quarto al settimo secolo.
Il 26 luglio del 2024 il sito è entrato a far parte del patrimonio mondiale dell'umanità dell'UNESCO ed è nella lista dei siti minacciati.
Fondato da Ilarione, quello di Nussayrat è uno dei complessi monastici noti più antichi e più importanti del Medio Oriente. Gli ottomilatrecento metri quadri del sito sono suddivisi in un complesso ecclesiastico di quattomilaseicentocinquanta metri quadri con al centro un santuario, e in una foresteria dotata di bagni, per altri tremilaseicento metri quadri circa. Tra gli ambienti ecclesiastici si trovano una chiesa, una cripta, un atrio, dei battisteri, una cappella, le celle, il refettorio e altri locali di servizio.



Villa-museo di Jawdat Khoudary

Gaza città, quartiere di Sheikh Radwan.
Dopo l'inizio della guerra nell'ottobre 2023 l'edificio e il suo giardino sono stati occupati dall'esercito dello stato sionista che li usa come centro di comando. I giardini sono stati interamente spianati per farne un parcheggio per mezzi blindati. Più di quattromila reperti, tra i quali un colonnato bizantino con relativi capitelli sono al momento dispersi o gravemente danneggiati.
A partire dal 1996, per contrastare la vendita e il trafugamento di reperti archeologici da Gaza, Jawdat Khoudary aveva iniziato a raccoglierne fino metterne insieme oltre quattromila. Nel 2006 ne ha inviati oltre duecento in prestito a Ginevra, a sostegno della realizzazione di un grande museo archeologico a Gaza. Con l'arrivo al potere di Hamas il progetto è stato abbandonato e non ci sono più state le condizioni perché i reperti prestati potessero rientrare in sicurezza, sia a causa del blocco imposto dallo stato sionista sia delle guerre che si sono susseguite nella enclave.



Tall al Sakan

Scoperto per caso nel 1998.
Età del bronzo antica, verso il 3400-3000 a.C.
Sito molto danneggiato nel 2017 con la costruzione di un complesso immobiliare. Lavori interrrotti per le pressioni del Ministero del Turismo e delle Antichità dell'Autorità Palestinese e di professionisti del settore archeologico. Nel novembre 2023 si sono avuti altri gravi danni in seguito all'invasione sionista. A tutt'oggi non si hanno notizie sulle condizioni del sito.
Situato a cinque chilometri da Gaza città, rappresenta uno dei primi aggolmerati fortificati noti della regione e uno dei primi insediamenti amministrativi egiziani della zona sudoccidentale della Palestina. Il tell -finito ricoperto da una duna- presenta i resti di un abitato occupato da popolazioni prima egiziane, poi cananee e quindi abbandonato.




25 ottobre 2024

Il testamento spirituale di Yahya Sinwar



La "libera informazione" ha ritratto Yahya Sinwar praticamente come un sorcio.
Yahya Sinwar è morto con la divisa addosso, combattendo fino all'ultimo respiro contro le forze armate dello stato sionista.
Se ne pubblica qui il testamento spirituale.


Sono Yahya, il figlio di un rifugiato che ha trasformato l’esilio in una patria temporanea e ha fatto di un sogno una battaglia incessante. Mentre scrivo queste parole, ricordo ogni momento della mia vita: dalla mia infanzia nei vicoli, ai lunghi anni di prigionia, a ogni goccia di sangue versata sul suolo di questa terra.
Sono nato nel campo di Khan Yunis nel 1962, in un periodo in cui la Palestina era solo un ricordo lacerato e mappe dimenticate sui tavoli dei politici.
Sono l’uomo che ha intrecciato la sua vita tra fuoco e cenere, e ha capito presto che vivere sotto occupazione significa non avere altro che una prigione permanente.
Sapevo fin da giovane che la vita in questa terra non è come qualsiasi altra, e che chi nasce qui deve portare nel cuore un’arma indistruttibile, e capire che la strada verso la libertà è lunga.
Le mie volontà per voi iniziano qui, da quel bambino che ha lanciato la prima pietra contro l’occupante e che ha imparato che le pietre sono le prime parole con cui possiamo farci sentire da un mondo che osserva in silenzio le nostre ferite.
Ho imparato nelle strade di Gaza che una persona non si misura per gli anni della sua vita, ma per ciò che dà alla sua patria. E così è stata la mia vita: prigioni e battaglie, dolore e speranza. Sono entrato in prigione per la prima volta nel 1988 e sono stato condannato all’ergastolo, ma non conoscevo la via della paura.
In quelle celle oscure, vedevo in ogni muro una finestra verso l’orizzonte lontano e in ogni sbarra una luce che illuminava il cammino verso la libertà. In prigione, ho imparato che la pazienza non è solo una virtù, ma un’arma… un’arma amara, come bere il mare goccia dopo goccia.
Il mio consiglio per voi: non temete le prigioni, poiché sono solo una parte del nostro lungo cammino verso la libertà. La prigione mi ha insegnato che la libertà non è solo un diritto rubato, ma un’idea nata dal dolore e affinata dalla pazienza.
Quando sono stato rilasciato con l’accordo “Wafa al-Ahrar” nel 2011, non sono uscito come ero prima, ne sono uscito più forte e la mia fede è aumentata nel fatto che quello che stiamo facendo non è solo una lotta passeggera, ma piuttosto il nostro destino che portiamo fino all’ultima goccia del nostro sangue.
Io vi esorto a resistere senza cedimenti e a conservare senza compromessi la dignità e il vostro attaccamento a un sogno che non muore.
Il nemico vuole che abbandoniamo la resistenza, per trasformare la nostra causa in un eterno negoziato. Ma vi dico: non negoziate per una cosa che vi spetta di diritto. Temono la vostra fermezza più delle vostre armi.
La resistenza non è solo un’arma che portiamo con noi; è piuttosto il nostro amore per la Palestina in ogni nostro respiro, è la nostra volontà di restarvi nonostante l’assedio e le aggressioni.
Io vi esorto a rimanere fedeli al sangue dei martiri, a coloro che se ne sono andati e che ci hanno lasciato su questo cammino pieno di spine. La strada per la libertà è segnata dal sangue dei martiri; fate che il loro sacrificio non sia reso vano dai calcoli dei politici e dai giochi della diplomazia.
Siamo qui per portare a compimento ciò che essi hanno iniziato e non ci faremo distogliere dal nostro cammino, costi quello che costi. Gaza è stata e rimarrà un saldo baluardo, il cuore della Palestina che non smette mai di battere, anche quando il mondo intero ci crolla addosso.
Quando ho assunto la guida di Hamas a Gaza nel 2017, non si è trattato solo di una transizione di potere, ma della continuazione di una resistenza iniziata con le pietre e proseguita con le armi. Ogni giorno sentivo il dolore del mio popolo sotto assedio e sapevo che ogni passo verso la libertà aveva un prezzo.
Ma vi dico: il prezzo della resa è molto più grande. Pertanto, aggrappatevi alla terra come una radice si aggrappa al suolo, poiché nessun vento può sradicare un popolo deciso a vivere.
Nella battaglia dell'Alluvione di Al Aqsa non sono stato il leader di un gruppo o di un movimento, ma la voce di ogni palestinese che sogna la propria liberazione. Sono stato guidato dalla mia convinzione che la resistenza non sia solo una scelta, ma un dovere.
Volevo che questa battaglia fosse una nuova pagina nel libro della lotta palestinese, una battaglia in cui le fazioni si unissero e tutti si schierassero in un’unica trincea contro un nemico che non ha mai fatto distinzione tra un bambino e un anziano o tra una pietra e un albero.
L'Alluvione di Al Aqsa è stata una battaglia delle anime prima ancora che dei corpi e della volontà prima che delle armi. Quello che ho lasciato dietro di me non è un’eredità personale, ma un’eredità collettiva per ogni palestinese che ha sognato la libertà, per ogni madre che ha portato sulle spalle il figlio martire, per ogni padre che ha pianto amaramente per sua figlia assassinata da un proiettile traditore.
Le mie ultime volontà sono quelle di ricordare sempre che la resistenza non è vana e non sta solo in un proiettile sparato; la resistenza è una vita vissuta con onore e dignità.
La prigionia e l’assedio mi hanno insegnato che la battaglia è lunga e la strada difficile, ma ho anche imparato che i popoli che rifiutano di arrendersi fanno miracoli con le proprie stesse mani.
Non aspettatevi che il mondo faccia giustizia per voi; ho vissuto e testimoniato come il mondo rimanga muto di fronte al nostro dolore.
Non aspettatevi giustizia; siate voi la giustizia. Portate il sogno della Palestina nei vostri cuori e trasformate ogni ferita in un’arma e ogni lacrima in una fonte di speranza.
Questa è la mia volontà: non abbandonate le vostre armi, non lasciate cadere le pietre, non dimenticate i vostri martiri e non compromettete un sogno che vi spetta di diritto. Siamo qui per restare, nella nostra terra, nei nostri cuori e nel futuro dei nostri figli.
Vi affido alla Palestina, la terra che ho amato fino alla morte e il sogno che ho portato sulle spalle come una montagna indomita.
Se cado, non cadete insieme a me; portate al mio posto la bandiera mai caduta e fate del mio sangue un ponte per una generazione più forte nata dalle nostre ceneri. Non dimenticate mai che la patria non è una storia da raccontare ma una realtà da vivere; da ogni martire, mille combattenti della resistenza nascono dal ventre di questa terra.
Se ci sarà una nuova alluvione e io non sarò tra voi, sappiate che sono stata la prima goccia nelle onde della libertà e ho vissuto per vedervi continuare il viaggio.
Siate una spina nella loro gola, un’alluvione che non defluisce, e non calmatevi finché il mondo riconoscerà noi come i legittimi titolari del diritto; noi non siamo dei numeri nei notiziari.
Che Dio ci guidi e protegga tutti.

20 agosto 2024

Alastair Crooke - La sfida del sionismo revisionista agli Stati Uniti: la nuova Nakba non si tocca



Traduzione da Strategic Culture, 19 agosto 2024.

Negli ultimi anni gli elettori dello stato sionista hanno sofferto profonde divisioni e sono stati incapaci di dare ampio sostegno a un governo. Dopo cinque consultazioni politiche hanno deciso di congedare la squadra Lapid/Gantz e di portare al potere una nuova coalizione, formata da Netanyahu e da piccoli partiti del suprematismo ebraico.
Tuttavia, subito dopo la formazione del nuovo esecutivo si è verificata una grave epidemia di "pentimento del compratore": un consistente settore della cittadinanza a quanto pare sarebbe stato pronto quasi a tutto, pur di spodestare il governo.
Si sono svolte manifestazioni puntuali in tutto lo stato sionista; si voleva evitare che il Paese diventasse, secondo le parole di un ex direttore del Mossad, "uno Stato razzista e violento al punto da mettere a rischio la propria stessa sopravvivenza".
Solo che probabilmente è già troppo tardi.
La maggior parte delle persone che vive fuori dallo stato sionista tende a fare di tutta l'erba un fascio dei diversi e spesso opposti punti di vista che vi si riscontrano, perché adottano una prospettiva riduttiva che implica il considerare gli esponenti delle varie posizioni solo come ebrei e come sionisti che differiscono fra loro per qualche questione di dettaglio.
E non potrebbero fare errore più grave. Esistono divisioni inconciliabili; esistono forme diverse di sionismo e queste divisioni riguardano il significato stesso di cosa voglia dire essere ebreo. Benjamin Netanyahu è un sionista revisionista, un seguace dello stesso Vladimir Jabotinsky di cui suo padre Benzion Netanyahu era segretario personale. Il sionismo revisionista è l'opposto del sionismo culturale del Congresso Ebraico Mondiale.
Da giovane Netanyahu era convinto che la Palestina fosse "una terra senza popolo per un popolo senza terra". Di conseguenza, era favorevole all'espulsione di tutti quegli arabi che a sentir lui erano dei "nuovi arrivati". Inoltre, sosteneva l'idea che lo stato sionista si estendesse "dal Nilo all'Eufrate".
Durante i sedici anni in cui è stato Primo Ministro, Netanyahu è stato tuttavia percepito come moderato -nel senso che è diventato più pragmatico- ma ancora subdolo. Considerandolo con il senno di poi, è possibile che si sia semplicemente adattato ai tempi. O forse stava praticando la "doppia verità" straussiana, una pratica che Leo Strauss insegnava ai suoi seguaci come unico mezzo per preservare il "vero" ebraismo all'interno di un'etica liberal-europea che era in gran parte ashkenazita. L'"esoterismo" di Strauss veniva da Maimonide, un iniziatore della mistica ebraica, e consisteva nel professare esteriormente un qualche atteggiamento mondano e nell'osservare interiormente una lettura esoterica del mondo completamente contrastante con esso.
Per essere chiari, erano sionisti revisionisti come Netanyahu anche Menachem Begin e Ariel Sharon, che hanno mostrato di cosa erano capaci con la Nakba del 1948, l'espulsione di massa dei palestinesi.
Netanyahu appartiene a questa linea di pensiero, e vi fa riferimento anche una delle principali fazioni dominanti a Washington.


Le schermaglie con Washington dopo il 7 ottobre

In un primo momento, Washington ha reagito schierandosi immediatamente e precipitosamente a fianco dello stato sionista, mettendo il veto a diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU per un cessate il fuoco e fornendo allo stato sionista tutte le risorse militari necessarie a distruggere la enclave palestinese di Gaza. Agli occhi dello establishment statunitense era impensabile fare qualcosa di diverso dal sostenere lo stato sionista. Il Qualitative Military Edge (QME) dello stato sionista -la sua capacità di contrastare e di respingere qualsiasi minaccia militare a costo di danni e perdite minime- è uno dei puntelli fondamentali del fragile ramo su cui poggia l'egemonia statunitense.
I semplici cittadini statunitensi e anche alcuni membri dell'esecutivo in carica tuttavia, assistevano agli orrori del genocidio che si svolgeva in diretta sui loro cellulari. Il Partito Democratico ha iniziato a presentare gravi spaccature. I mediatori del potere, quelli dietro le quinte, hanno iniziato a fare pressione sull'esecutivo di guerra dello stato sionista per negoziare il rilascio degli ostaggi e arrivare a un cessate il fuoco a Gaza sperando in un ritorno allo status quo.
Il governo di Netanyahu ha usato vari sistemi tautologici per dire sempre di no -giocando spudoratamente sul trauma che per i suoi cittadini è stato il 7 ottobre- per ribadire la necessità di distruggere Hamas.
Washington ha capito un po' in ritardo che il 7 ottobre altro non era il pretesto che serviva ai seguaci di Jabotinsky per fare quello che hanno sempre voluto fare: cacciare i palestinesi dalla Palestina.
Il messaggio del governo sionista è stato ricevuto e compreso alla perfezione dalla classe dirigente di Washington: i sionisti revisionisti -che rappresentano circa due milioni di cittadini dello stato sionista- intendevano cinicamente imporre la loro volontà ai paesi anglosassoni minacciandoli di scatenare una guerra con il mondo intero, in cui gli Stati Uniti sarebbero bruciati. Essi non esiterebbero a far precipitare gli Stati Uniti in una guerra regionale vera e propria se la Casa Bianca cercasse di minare il progetto della nuova Nakba.
Nonostante l'assoluto favore di cui lo stato sionista gode a Washington, sembra che la classe dirigente abbia deciso che l'ultimatum degli strateghi del sionismo revisionista non poteva essere tollerato. Negli USA era iniziata la corsa elettorale, proprio mentre il prestigio statunitense nel mondo stava crollando. Chiunque abbia assistito allo svolgersi degli eventi ha capito che l'uccisione di oltre quarantamila persone innocenti non aveva nulla a che fare con l'eliminazione di Hamas.


Comprendere il contesto

Per comprendere la natura delle schermaglie tra i sionisti revisionisti e Washington, è necessario tornare a Leo Strauss, un ebreo tedesco che aveva lasciato la Germania nel 1932 grazie a una borsa di studio della Fondazione Rockefeller, per arrivare infine negli Stati Uniti nel 1938.
Il punto è che le idee che si confrontano in questa disputa ideologica non riguardano solo i cittadini dello stato sionista e i palestinesi. È una questione di potere e di controllo. L'agenda dell'attuale esecutivo dello stato sionista - in particolare quanto riguarda la sua controversa riforma del sistema giudiziario- deriva nella sua essenza da Leo Strauss.
La preoccupazione dei governanti statunitensi era che l'agenda di Netanyahu stesse diventando un esercizio di puro potere straussiano, a spese del potere laico statunitense.
Questo significa che i principi del sionismo revisionista sono condivisi dall'influente gruppo di statunitensi che si è formato intorno a Leo Strauss, che è stato professore di filosofia all'Università di Chicago. Molti resoconti riferiscono che egli aveva formato un piccolo gruppo interno di fedeli studenti ebrei ai quali dava lezioni orali in separata sede. A quanto si dice, in queste lezioni il valore intrinseco dell'azione politica verteva sull'affermazione dell'egemonia politica come mezzo per difendersi da una nuova Shoah.
Il nucleo del pensiero di Strauss, il tema su cui sarebbe tornato più volte, è quello che egli chiamava la curiosa polarità tra Gerusalemme e Atene. Che cosa significavano questi due nomi? A un primo sguardo potrebbe sembrare che Gerusalemme e Atene rappresentino due codici o due modi di vita fondamentalmente diversi, persino antagonisti.
La Bibbia, sosteneva Strauss, non si presenta come una visione filosofica o come una scienza, ma come un codice di legge; una legge divina immutabile che impone regole di vita. In effetti, i primi cinque libri della Bibbia sono noti nella tradizione ebraica come Torah, e Torah è forse più letteralmente traducibile come "Legge". L'atteggiamento insegnato dalla Bibbia non è quello della riflessione o dell'esame critico, ma dell'obbedienza assoluta, della fede e della fiducia nella Rivelazione. Se l'ateniese paradigmatico è Socrate, la figura biblica paradigmatica è Abramo, che con la Akedah -la legatura di Isacco- è pronto a sacrificare suo figlio per seguire un ordine divino incomprensibile.
Sì, la democrazia liberale occidentale ha portato l'uguaglianza civile, la tolleranza e la fine delle peggiori forme di persecuzione. Tuttavia, allo stesso tempo, il liberalismo ha richiesto all'ebraismo -come a tutte le fedi- di subire la privatizzazione del credo, la trasformazione della legge ebraica da autorità comunitaria a sistema recluso nella coscienza individuale. Il risultato, secondo l'analisi di Strauss, è stato quello di una benedizione a metà.
Il principio liberale della separazione tra Stato e società, tra vita pubblica e fede privata, non poteva che portare alla "protestantizzazione" dell'ebraismo, asserì Strauss.
Insomma, questi due modi di essere antagonisti esprimono punti di vista morali e politici fondamentalmente diversi. Questa è l'essenza di ciò che divide i due campi in cui si divide lo stato sionista di oggi: l'ebraismo culturale democratico si contrappone all'ebraismo della fede e dell'obbedienza alla Rivelazione divina.


La trappola per gli Stati Uniti

Gli Straussiani statunitensi hanno iniziato a formare un gruppo politico mezzo secolo fa, nel 1972. Erano tutti membri dello staff del senatore democratico Henry “Scoop” Jackson e comprendevano Elliott Abrams, Richard Perle e David Wurmser. Nel 1996 questo trio di straussiani ha elaborato un saggio per lo allora nuovo Primo Ministro dello stato sionista Benjamin Netanyahu. Questo studio, intitolato Clean Break Strategy, sosteneva l'eliminazione di Yasser Arafat, l'annessione dei territori palestinesi, una guerra contro l'Iraq e il trasferimento in Iraq dei palestinesi. Netanyahu faceva parte di questo stesso ambiente.
Clean Break Strategy si ispirava non solo alle teorie politiche di Leo Strauss, ma anche a quelle del suo amico Zeev Jabotinsky, fondatore del sionismo revisionista, di cui il padre di Netanyahu era stato segretario.
A scanso di equivoci gli straussiani statunitensi -oggi solitamente chiamati "neoconservatori"- non sono in linea di principio contrari alla Nakba che il governo Netanyahu ha in agenda. Non erano le sofferenze degli abitanti di Gaza a farli preoccupare, ma le minacce dei sionisti revisionisti di lanciare un attacco all'Iran e al Libano. Infatti, se questa guerra venisse scatenata l'esercito sionista non sarebbe assolutamente in grado di sconfiggere Hezbollah da solo. E per lo stato sionista muovere guerra all'Iran sarebbe una vera e propria follia.
Quindi, per salvare lo stato sionista gli Stati Uniti sarebbero senza dubbio costretti a intervenire. L'equilibrio del potere militare si è notevolmente spostato verso Hezbollah e l'Iran dopo la guerra del 2006 tra stato sionista e Libano, e qualsiasi guerra ora sarebbe un'impresa difficile e rischiosa.
Eppure era proprio questo il punto fondamentale dell'agenda "esoterica" -ovvero ad uso interno- e non dichiarata del governo sionista.


Washington cerca di reagire, ma si trova spiazzata

L'unica alternativa per gli Stati Uniti sarebbe quella di appoggiare un colpo di Stato militare a Tel Aviv. Alcuni alti ufficiali e sottufficiali dell'esercito sionista si sono già riuniti per suggerire una mossa di questo tipo. Nel marzo 2024 il generale Benny Gantz è stato invitato a Washington contro la volontà del premier. Tuttavia, non ha accettato l'invito perché intendeva rovesciare il Primo Ministro. Lo ha fatto per assicurarsi di poter ancora salvare il Paese e per essere certo che i suoi alleati negli Stati Uniti non si rivoltassero contro i quadri militari dello stato sionista.
Questo può sembrare strano. Ma la realtà è che le forze armate sioniste si sentono indebolite e persino tradite. Una condizione di ansietà che è emersa con l'accordo raggiunto all'inizio della legislatura tra Netanyahu e Itamar Ben-Gvir del partito Otzma Yehudit.
L'accordo con il governo prevedeva che Ben-Gvir venisse destinato a comandare una forza armata autonoma in Cisgiordania. Gli è stata affidata non solo la polizia nazionale, ma anche la polizia di frontiera, che fino ad allora era stata di competenza del Ministero della Difesa.
L'accordo prevedeva anche la creazione di una Guardia Nazionale dagli effettivi numerosi e il rafforzamento della presenza di personale della riserva all'interno della polizia di frontiera. Ben-Gvir è un kahanista, cioè un discepolo del rabbino Meir Kahane. Meir Kahane vuole l'espulsione dei cittadini arabi palestinesi dallo stato sionista e dai Territori occupati e l'instaurazione di una teocrazia: non fa mistero di voler ricorrere alla polizia di frontiera per espellere le popolazioni palestinesi, musulmane o cristiane che siano.
Le forze ufficialmente a disposizione di Ben Gvir rappresentano, come ha notato Benny Gantz, un "esercito privato". Esse tuttavia ne costituiscono solo la metà, perché Ben Gvir può contare anche sulla fedeltà di centinaia di migliaia di coloni armati della Cisgiordania, controllati dal rabbino radicale Dov Lior e dalla sua congrega di influenti rabbini radicali ispirati da Jabotinsky. L'esercito regolare teme questi coloni armati; come abbiamo visto, a Sde Teiman i coloni della milizia di Ben Gvir hanno preso d'assalto la base militare per proteggere i soldati accusati di aver violentato dei prigionieri palestinesi.
L'ansia che i vertici delle forze armate dello stato sionista provano verso questo vero e proprio "esercito di Jabotinsky" è testimoniata dall'avvertimento dell'ex premier Ehud Barak:
Sotto la copertura della guerra, nello stato sionista si sta verificando un colpo di stato governativo e costituzionale senza che venga sparato un colpo. Se non viene fermato, questo putsch trasformerà lo stato sionista in una dittatura di fatto entro poche settimane. Netanyahu e il suo governo stanno assassinando la democrazia... L'unico modo per impedire l'instaurazione ormai avanzata di una dittatura è quello di imporre la serrata del Paese attraverso atti di disobbedienza civile nonviolenta su larga scala, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, finché questo governo non cade... lo stato sionista non ha mai affrontato una minaccia interna tanto grave e tanto diretta per la sua esistenza e per il suo futuro come società libera.
I vertici delle forze armate sioniste vogliono un cessate il fuoco e/o un accordo sugli ostaggi più che altro per "fermare Ben-Gvir", non perché la cosa possa risolvere la questione con i palestinesi. Non è così.
L'ingiunzione ultimativa di Netanyahu è che se l'assassinio di Haniyeh non è sufficiente a far precipitare gli Stati Uniti nella Grande Guerra che darà a lui (Netanyahu) la Grande Vittoria, può sempre scatenare una provocazione ancor più in grande stile: Ben Gvir controlla anche la sicurezza del Monte del Tempio; si può sempre alzare la posta minacciando la distruzione della Moschea di Al-Aqsa.
Gli Stati Uniti sono in trappola.
E chi è al potere, pur amareggiato, non può farci nulla.


06 giugno 2024

Hamas - Documento di principi e politiche generali (2017)


Da La Luce si riprende il testo del Documento di principi e politiche generali diffuso dal Movimento di Resistenza Islamica palestinese nel 2017.


Lode ad Allah, il Signore dei mondi. La pace e le benedizioni di Allah siano su Muhammad, maestro dei messaggeri e guida dei mujahidin, sulla sua famiglia e su tutti i suoi compagni.


Premessa

La Palestina è la terra del popolo arabo palestinese, dalla quale ha origine, alla quale è unito e appartiene, e sulla quale si propaga ed esprime.
La Palestina è una terra la cui posizione è stata elevata dall’Islam, una religione che la tiene in grande considerazione, che respira attraverso di essa il suo spirito e i giusti valori e che pone le basi per la dottrina della difesa e della protezione della stessa.
La Palestina è la causa di un popolo che è stato deluso da un mondo che non riesce a garantire i suoi diritti e a restituirgli ciò che gli è stato usurpato, un popolo la cui terra continua a subire una delle peggiori occupazioni al mondo.
La Palestina è una terra sequestrata da un progetto sionista razzista, disumano e coloniale, fondato su una falsa promessa (la Dichiarazione Balfour), sul riconoscimento di un’entità usurpatrice e sull’imposizione con la forza del fatto compiuto.
La Palestina simboleggia la resistenza che continuerà fino al raggiungimento della liberazione, fino al quando il ritorno non sarà avvenuto e fino all’istituzione di uno Stato pienamente sovrano con Gerusalemme come capitale.
La Palestina è il vero sodalizio tra palestinesi di tutte le appartenenze per il sublime obiettivo della liberazione.
La Palestina è lo spirito della Ummah e la sua causa principale; è l’anima dell’umanità e la sua coscienza vivente.
Questo documento è il prodotto di profonde discussioni che ci hanno portato ad un forte consenso. Come movimento, concordiamo sia sulla teoria che sulla pratica della visione delineata nelle pagine che seguono. È una visione che poggia su basi solide e su principi consolidati. Questo documento svela gli obiettivi, le tappe fondamentali e il modo in cui l’unità nazionale può essere realizzata. Definisce inoltre la nostra comprensione comune della causa palestinese, i principi operativi che utilizziamo per promuoverla e i limiti di flessibilità utilizzati per interpretarla.


Il movimento

1. Il Movimento di Resistenza Islamica “Hamas” è un movimento islamico di liberazione nazionale e di resistenza palestinese. Il suo obiettivo è liberare la Palestina e contrastare il progetto sionista. Il suo sistema di riferimento è l’Islam, che ne determina i principi, gli obiettivi e i mezzi.


La Terra di Palestina

2. La Palestina, che si estende dal fiume Giordano a est al Mediterraneo a ovest e da Ras al-Naqurah a nord a Umm al-Rashrash a sud, è un’unità territoriale integrale. È la terra e la casa del popolo palestinese. L’espulsione e l’esilio del popolo palestinese dalla sua terra e l’insediamento dell’entità sionista al suo interno non annullano il diritto del popolo palestinese all’intero territorio e non conferiscono alcun diritto all’entità sionista usurpatrice.
3. La Palestina è una terra arabo-islamica. È una terra sacra e benedetta che occupa un posto speciale nel cuore di ogni arabo e di ogni musulmano.


Il popolo palestinese

4. I palestinesi sono gli arabi che hanno vissuto in Palestina fino al 1947, indipendentemente dal fatto che ne siano stati espulsi o che vi siano rimasti; e ogni persona nata da padre arabo palestinese dopo tale data, sia all’interno che all’esterno della Palestina, è un palestinese.
5. L’identità palestinese è autentica e senza tempo; si trasmette di generazione in generazione. Le catastrofi che hanno colpito il popolo palestinese, come conseguenza dell’occupazione sionista e della sua politica di sfollamento, non possono cancellare l’identità del popolo palestinese, né possono negarla. Un palestinese non può perdere la sua identità nazionale o i suoi diritti acquisendo una seconda nazionalità.
6. Il popolo palestinese è un unico popolo, composto da tutti i palestinesi, dentro e fuori la Palestina, indipendentemente dalla loro religione, cultura o affiliazione politica.


Islam e Palestina

7. La Palestina è al centro della Ummah araba e islamica e gode di uno status speciale. In Palestina si trova Gerusalemme, i cui confini sono benedetti da Allah. La Palestina è la Terra Santa che Allah ha benedetto per l’umanità. È la prima Qiblah dei musulmani e la meta del viaggio notturno del Profeta Muhammad, la pace sia con lui. È il luogo da cui è asceso ai cieli superiori. È il luogo di nascita di Gesù Cristo, la pace sia con lui. Il suo suolo contiene i resti di migliaia di profeti, compagni e mujahidin. È la terra di persone determinate a difendere la verità – all’interno di Gerusalemme e nei suoi dintorni – che non si lasciano scoraggiare o intimidire da coloro che si oppongono a loro e da coloro che li tradiscono, e che continueranno la loro missione fino a quando la promessa di Allah non sarà compiuta.
8. In virtù della sua vocazione giustamente equilibrata e della sua natura moderata, l’Islam – per Hamas – fornisce uno stile di vita completo e un ordine che è adatto allo scopo in ogni momento e in ogni luogo. L’Islam è una religione di pace e tolleranza. Fornisce una protezione per i seguaci di altri credi e religioni che possono praticare il loro credo in sicurezza. Hamas ritiene inoltre che la Palestina sia sempre stata e sarà sempre un modello di coesistenza, tolleranza e innovazione civile.
9. Hamas crede che il messaggio dell’Islam sostenga i valori della verità, della giustizia, della libertà e della dignità e proibisca ogni forma di ingiustizia incriminando gli oppressori a prescindere dalla loro religione, razza, sesso o nazionalità. L’Islam è contro ogni forma di estremismo e bigottismo religioso, etnico o settario. È la religione che insegna ai suoi fedeli il valore della resistenza alle aggressioni e del sostegno agli oppressi; li motiva a donare generosamente e a fare sacrifici in difesa della loro dignità, della loro terra, dei loro popoli e dei loro luoghi sacri.


Gerusalemme

10. Gerusalemme è la capitale della Palestina. Il suo status religioso, storico e civile è fondamentale per gli arabi, i musulmani e il mondo intero. I suoi luoghi sacri islamici e cristiani appartengono esclusivamente al popolo palestinese e alla Ummah araba e islamica. Non una sola pietra di Gerusalemme può essere ceduta o abbandonata. Le misure intraprese dagli occupanti a Gerusalemme, come l’ebraicizzazione, la costruzione di insediamenti e l’approvazione dei fatti sul terreno sono sostanzialmente nulle e senza valore.
11. La benedetta Moschea di al-Aqsa appartiene esclusivamente al nostro popolo e alla nostra Ummah e l’occupazione non ha alcun diritto su di essa. I complotti, le misure e i tentativi dell’occupazione di giudaizzare al-Aqsa e di dividerla sono nulli, inesistenti e illegittimi.


Rifugiati e diritto al ritorno

12. La causa palestinese, nella sua essenza, è la causa di una terra occupata e di un popolo sfollato. Il diritto dei rifugiati e degli sfollati palestinesi di ritornare alle loro case dalle quali sono stati cacciati o a cui è stato impedito di tornare – sia nelle terre occupate nel 1948 che in quelle occupate nel 1967 (cioè l’intera Palestina) – è un diritto naturale, sia individuale che collettivo. Questo diritto è confermato da tutte le leggi divine e dai principi fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale. Si tratta di un diritto inalienabile e non può essere soppresso da nessuna delle parti, sia essa palestinese, araba o internazionale.
13. Hamas respinge tutti i tentativi di cancellare i diritti dei rifugiati, compresi i tentativi di collocarli fuori dalla Palestina e attraverso i progetti di patria alternativa. Il risarcimento dei profughi palestinesi per i danni subiti in seguito all’esilio e all’occupazione della loro terra è un diritto assoluto che va di pari passo con il loro diritto al ritorno. I profughi palestinesi devono ricevere un indennizzo al loro rientro e questo non nega o diminuisce il loro diritto al ritorno.


Il progetto sionista

14. Il progetto sionista è un progetto razzista, aggressivo, coloniale ed espansionistico basato sull’appropriazione delle proprietà altrui; è ostile al popolo palestinese e alla sua aspirazione alla libertà, alla liberazione, al ritorno e all’autodeterminazione. L’entità israeliana è il giocattolo del progetto sionista e la base per la sua aggressione.
15. Il progetto sionista non si rivolge solo al popolo palestinese, ma è nemico della Ummah araba e islamica e costituisce una grave minaccia alla sua sicurezza e ai suoi interessi. È anche ostile alle aspirazioni di unità, rinascita e liberazione della Ummah ed è stato la principale fonte dei suoi problemi. Il progetto sionista rappresenta anche un pericolo per la sicurezza e la pace internazionale e per l’umanità, i suoi interessi e la sua stabilità.
16. Hamas afferma che il suo conflitto è con il progetto sionista e non con gli ebrei a causa della loro religione. Hamas non lotta contro gli ebrei perché sono ebrei, ma lotta contro i sionisti che occupano la Palestina. Eppure, sono i sionisti che identificano costantemente l’ebraismo e gli ebrei con il loro progetto coloniale e la loro entità illegale.
17. Hamas rifiuta la persecuzione di qualsiasi essere umano o la soppressione dei suoi diritti per motivi nazionalistici, religiosi o settari. Hamas ritiene che il problema ebraico, l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei siano fenomeni principalmente legati alla storia europea e non alla storia degli arabi e dei musulmani o al loro patrimonio culturale. Il movimento sionista, che è riuscito con l’aiuto delle potenze occidentali ad occupare la Palestina, è la forma più pericolosa di occupazione coloniale che è già scomparsa in gran parte del mondo e deve scomparire dalla Palestina.


La posizione nei confronti dell’occupazione e le soluzioni politiche

18. Sono considerati nulli e non validi: la Dichiarazione Balfour, il Documento del Mandato Britannico, la Risoluzione delle Nazioni Unite sulla spartizione della Palestina e tutte le risoluzioni e le misure che ne derivano o che sono simili ad esse. L’istituzione di “Israele” è del tutto illegale e contravviene ai diritti inalienabili del popolo palestinese e va contro la sua volontà e quella della Ummah; inoltre viola i diritti umani garantiti dalle convenzioni internazionali, primo fra tutti il diritto all’autodeterminazione.
19. Non ci sarà alcun riconoscimento della legittimità dell’entità sionista. Qualsiasi cosa sia accaduta alla terra di Palestina in termini di occupazione, costruzione di insediamenti, giudaizzazione o modifica delle sue caratteristiche o falsificazione dei fatti è illegittima. I diritti non decadono mai.
20. Hamas ritiene che nessuna parte della terra di Palestina debba essere compromessa o ceduta, indipendentemente dalle cause, dalle circostanze e dalle pressioni e a prescindere dalla durata dell’occupazione. Hamas rifiuta qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare. Tuttavia, senza compromettere il suo rifiuto dell’entità sionista e senza rinunciare ad alcun diritto palestinese, Hamas ritiene che l’istituzione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale secondo i confini del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati nelle loro case dalle quali sono stati espulsi, sia un principio di consenso nazionale.
21. Hamas afferma che gli accordi di Oslo e le loro integrazioni contravvengono alle regole del diritto internazionale in quanto generano impegni che violano i diritti inalienabili del popolo palestinese. Pertanto, il Movimento rifiuta questi accordi e tutto ciò che ne deriva, come gli obblighi che sono dannosi per gli interessi del nostro popolo, in particolare il coordinamento della sicurezza (collaborazione).
22. Hamas respinge tutti gli accordi, le iniziative e i progetti di insediamento che tendono a minare la causa palestinese e i diritti del nostro popolo palestinese. A questo proposito, qualsiasi posizione, iniziativa o programma politico non deve in alcun modo violare questi diritti e non deve contravvenire o contraddirli.
23. Hamas sottolinea che la violenza contro il popolo palestinese, l’usurpazione della sua terra e l’esilio dalla sua patria non possono essere chiamati pace. Qualsiasi accordo raggiunto su questa base non porterà alla pace. La resistenza e la jihad per la liberazione della Palestina rimarranno un diritto legittimo, un dovere e un onore per tutti i figli e le figlie del nostro popolo e della nostra Ummah.


Resistenza e liberazione

24. La liberazione della Palestina è un dovere del popolo palestinese in particolare e della Ummah araba e islamica in generale. Si tratta anche di un obbligo umanitario, reso necessario dai principi di verità e giustizia. Le organizzazioni che lavorano per la Palestina, siano esse nazionali, arabe, islamiche o umanitarie, si completano a vicenda e sono in armonia e non in conflitto tra loro.
25. Resistere all’occupazione con tutti i mezzi e i metodi è un diritto legittimo garantito dalle leggi divine e dalle norme e leggi internazionali. Al centro di queste c’è la resistenza armata, che è considerata la scelta strategica per proteggere i principi e i diritti del popolo palestinese.
26. Hamas respinge qualsiasi tentativo di minare la resistenza e le sue armi. Afferma inoltre il diritto del nostro popolo a sviluppare i mezzi e i meccanismi della resistenza. La gestione della resistenza, in termini di escalation o de-escalation, o in termini di diversificazione dei mezzi e dei metodi, è parte integrante del processo di gestione del conflitto e non dovrebbe andare a scapito del principio della resistenza.


Il sistema politico palestinese

27. Un vero Stato di Palestina è uno Stato liberato. Non c’è alternativa a uno Stato palestinese pienamente sovrano sull’intero suolo nazionale palestinese, con Gerusalemme come capitale.
28. Hamas crede e aderisce alla gestione delle relazioni con la Palestina sulla base del pluralismo, della democrazia, del partenariato nazionale, dell’accettazione dell’altro e dell’adozione del dialogo. L’obiettivo è quello di rafforzare l’unità dei ranghi e l’azione congiunta al fine di realizzare gli obiettivi nazionali e soddisfare le aspirazioni del popolo palestinese.
29. L’OLP è una struttura nazionale per il popolo palestinese all’interno e all’esterno della Palestina. Pertanto, dovrebbe essere preservata, sviluppata e ricostruita su basi democratiche, in modo da assicurare la partecipazione di tutti i costituenti e le forze del popolo palestinese, in modo da salvaguardare i diritti dei palestinesi.
30. Hamas sottolinea la necessità di stabilire le istituzioni nazionali palestinesi su solidi principi democratici, primo fra tutti quello di elezioni libere ed eque. Tale processo dovrebbe avvenire sulla base di un partenariato nazionale e in conformità con un programma e una strategia chiari che aderiscano ai diritti, compreso il diritto alla resistenza, e che soddisfino le aspirazioni del popolo palestinese.
31. Hamas afferma che il ruolo dell’Autorità Palestinese dovrebbe essere quello di servire il popolo palestinese e salvaguardare la sua sicurezza, i suoi diritti e il suo progetto nazionale.
32. Hamas sottolinea la necessità di mantenere l’indipendenza del processo decisionale nazionale palestinese. Non si deve permettere a forze esterne di intervenire. Allo stesso tempo, Hamas afferma la responsabilità degli arabi e dei musulmani e il loro dovere e ruolo nella liberazione della Palestina dall’occupazione sionista.
33. La società palestinese è arricchita dalle sue personalità di spicco, dalle figure, dai dignitari, dalle istituzioni della società civile e dai gruppi di giovani, studenti, sindacalisti e donne che insieme lavorano per il raggiungimento degli obiettivi nazionali e la costruzione della società, perseguono la resistenza e raggiungono la liberazione.
34. Il ruolo delle donne palestinesi è fondamentale nel processo di costruzione del presente e del futuro, così come lo è sempre stato nel processo di costruzione della storia palestinese. È un ruolo centrale nel progetto di resistenza, liberazione e costruzione del sistema politico.


La Ummah araba e islamica

35. Hamas ritiene che la questione palestinese sia la causa centrale della Ummah araba e islamica.
36. Hamas crede nell’unità della Ummah con tutti i suoi diversi costituenti ed è consapevole della necessità di evitare qualsiasi cosa che possa frammentare la Ummah e minare la sua unità.
37. Hamas crede nella cooperazione con tutti gli Stati che sostengono i diritti del popolo palestinese. Si oppone all’intervento negli affari interni di qualsiasi Paese. Rifiuta inoltre di essere coinvolto nelle dispute e nei conflitti che si verificano tra i diversi Paesi. Hamas adotta una politica di apertura verso i diversi Stati del mondo, in particolare verso gli Stati arabi e islamici. Cerca di stabilire relazioni equilibrate sulla base di una combinazione tra le esigenze della causa palestinese e gli interessi del popolo palestinese da un lato e gli interessi della Ummah, della sua rinascita e della sua sicurezza dall’altro.


L’aspetto umanitario e internazionale

38. La questione palestinese ha aspetti umanitari e internazionali rilevanti. Sostenere e appoggiare questa causa è un obiettivo umanitario e di civiltà, richiesto dai presupposti di verità, giustizia e valori umanitari comuni.
39. Dal punto di vista giuridico e umanitario, la liberazione della Palestina è un’attività legittima, è un atto di autodifesa ed è l’espressione del diritto naturale di tutti i popoli all’autodeterminazione.
40. Nelle sue relazioni con le nazioni e i popoli del mondo, Hamas crede nei valori della cooperazione, della giustizia, della libertà e del rispetto della volontà dei popoli.
41. Hamas accoglie con favore le posizioni di Stati, organizzazioni e istituzioni che sostengono i diritti del popolo palestinese. Rende omaggio ai popoli liberi del mondo che sostengono la causa palestinese. Allo stesso tempo, denuncia il sostegno concesso da qualsiasi soggetto all’entità sionista o i tentativi di coprire i suoi crimini e le sue aggressioni contro i palestinesi e chiede il perseguimento dei criminali di guerra sionisti.
42. Hamas rigetta i tentativi di imporre l’egemonia sulla Ummah araba e islamica, così come respinge i tentativi di imporre l’egemonia sul resto delle nazioni e dei popoli del mondo. Hamas condanna anche tutte le forme di colonialismo, occupazione, discriminazione, oppressione e aggressione nel mondo.



13 marzo 2024

Alastair Crooke - Quando si è fuori dalla realtà. La Casa Bianca davanti al mutato atteggiamento dello stato sionista

 



Traduzione da Strategic Culture, 11 marzo 2024.

Alon Pinkas, un ex diplomatico sionista di alto livello e con saldi collegamenti a Washington, ci dice che una Casa Bianca esasperata ha finalmente detto di "averne abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: quel Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche di Biden per il Medio Oriente e gli Stati Uniti hanno finalmente interiorizzato questo dato di fatto.
Biden non può permettersi che le vicende dello stato sionista compromettano ancora di più la sua campagna elettorale e quindi -come ha chiarito il suo Discorso sullo Stato dell'Unione- raddoppierà la posta sulle sue mal congegnate linee politiche, sia per lo stato sionista che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito al gesto di sfida con cui Netanyahu ha risposto alle raccomandazioni politiche statunitensi, intoccabili come le cose sacre? Ha invitato a Washington Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra sionista, e lo ha impacchettato in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si ritiene possa o debba diventare premier". A quanto pare i funzionari hanno pensato che organizzando un colloquio al di fuori dei consueti protocolli diplomatici si sarebbe potuto "dare il via a una serie di avvenimenti che avrebbe potuto portare a nuove elezioni nello stato sionista", osserva Pinkas, dalle quali sarebbe potuta emergere una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
Chiaramente, l'idea era quella di un primo passo verso un cambio di governo realizzato tramite l'esercizio del cosiddetto soft power.
Il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto durante le primarie del Michigan, in cui il voto di protesta per Gaza ha superato i centomila voti del tipo a favore del partito, ma senza una indicazione di candidato. I sondaggi -soprattutto tra i giovani- lanciano l'allarme per novembre, per lo più proprio a causa di Gaza. I leader democratici iniziano a preoccuparsi.
L'importante commentatore sionista Nahum Barnea scrive che lo stato sionista sta "perdendo l'AmeriKKKa":
Siamo abituati a pensare agli Stati Uniti come a qualcosa di familiare... Riceviamo armi e sostegno internazionale, e gli ebrei danno il loro voto negli Stati chiave e forniscono denaro per le campagne elettorali. Solo che stavolta la situazione è diversa... Dal momento che i voti alle elezioni [presidenziali] vengono conteggiati a livello regionale, solo alcuni Stati... sono davvero decisivi. Come in Florida, [uno] Stato chiave, i voti degli ebrei possono decidere chi andrà alla Casa Bianca, anche i voti dei musulmani in Michigan possono essere decisivi... [Gli attivisti] hanno chiesto agli elettori delle primarie di votare senza indicare un candidato, per protestare contro il sostegno di Biden allo stato sionista... La loro campagna ha avuto un successo superiore alle aspettative: centotrentamila elettori democratici hanno risposto all'appello. Lo schiaffo dato a Biden è riecheggiato in lungo e in largo negli ambienti della politica istituzionale. Non solo ha attestato l'ascesa di una nuova, efficiente e tossica lobby politica, [ma] anche il senso di repulsione che molti statunitensi provano quando vedono le immagini che arrivano da Gaza.
"Biden ama lo stato sionista e teme veramente per la sua sorte", conclude Barnea, "ma non ha intenzione di perdere le elezioni per questo motivo. Questa è una minaccia esistenziale".
Il problema, tuttavia, è il contrario. È la politica degli Stati Uniti ad essere profondamente sbagliata e completamente incongruente con il sentimento della maggioranza dell'opinione pubblica dello stato sionista. Molti cittadini dello stato sionista sono convinti di stare combattendo una lotta per la sopravvivenza e non vogliono devono diventare "carne da macello" (per come la vedono loro) per le strategie elettorali dei democratici statunitensi.
La verità è che è lo stato sionista ad aver rotto con l'amministrazione Biden, non il contrario.
Il piano fondamentale di Biden, che si basa sulla rivitalizzazione dell'apparato di sicurezza palestinese, viene descritto come implausibile persino dallo Washington Post. Gli Stati Uniti hanno tentato di ripristinare il sistema di sicurezza dell'Autorità Nazionale Palestinese con il generale Zinni nel 2002 e poi con Dayton nel 2010. Le iniziative non hanno avuto successo, e per un buon motivo: le forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese sono viste dalla maggior parte dei palestinesi come nient'altro che degli odiati tirapiedi che fanno rispettare l'occupazione sionista. Esse lavorano per l'interesse della sicurezza sionista, non di quella palestinese.
L'altro pilastro della politica statunitense è un ancor più improbabile, de-radicalizzata e anemica "soluzione dei due Stati", affogata dentro una sinfonia regionale di stati arabi di orientamento conservatore chiamata ad agire come supervisore della sicurezza. Questo approccio politico è un riflesso del fatto che la Casa Bianca non è in sintonia con la visione escatologica che ha oggi lo stato sionista. La Casa Bianca non riesce a superare una prospettiva politica che è retaggio di decenni ormai passati e che si era rivelata fallimentare già all'epoca. La Casa Bianca ha fatto quindi ricorso a un vecchio trucco: quello di proiettare tutti i propri fallimenti politici su un leader straniero colpevole di non aver fatto funzionare qualche cosa che funzionare non poteva, e cercare di sostituire quel leader con qualcuno più accondiscendente. Scrive Pinkas:
Una volta che gli Stati Uniti hanno appurato che Netanyahu non sarebbe stato collaborativo e non si sarebbe comportato da alleato sollecito ma anzi si sarebbe mostrato grossolanamente ingrato... e concentrato solo sulla sua sopravvivenza politica dopo la débacle del 7 ottobre, i tempi sono diventati maturi per tentare un nuovo corso politico.
Solo che la politica di Netanyahu -nel bene e nel male- è il riflesso di quello che pensa la maggioranza dei cittadini dello stato sionista. Netanyahu ha i suoi ben noti difetti di personalità ed è molto impopolare nello stato sionista, tuttavia questo non significa che un gran numero di persone non sia d'accordo con il suo programma e con quello del suo governo.
Insomma, ecco che arriva Gantz, sguinzagliato dall'amministrazione Biden come potenziale premier in pectore negli ambienti diplomatici di Washington e Londra.
Solo che la manovra non ha funzionato come previsto. Come scrive Ariel Kahana (in ebraico, su Israel Hayom del 6 marzo):
Gantz ha incontrato tutti i più alti funzionari governativi ad eccezione del presidente Biden, e ha presentato posizioni identiche a quelle che Netanyahu ha presentato durante i colloqui che ha avuto con le stesse personalità nel corso delle ultime settimane".
"Non distruggere Hamas a Rafah significa inviare un camion dei pompieri per spegnere l'80% dell'incendio", ha detto Gantz a Sullivan. Harris e altri funzionari hanno fatto notare che sarebbe impossibile evacuare un milione e duecentomila abitanti di Gaza dall'area di Rafah, un'evacuazione che essi considerano una precondizione essenziale per qualsiasi operazione militare nella zona meridionale della Striscia di Gaza. "Gantz non si è mostrato affatto d'accordo".
Discutendo la questione degli aiuti umanitari sono emerse divergenze anche più gravi. Mentre molti cittadini dello stato sionista hanno accolto furibondi la decisione di permettere la consegna di rifornimenti al nemico perché [lo considerano] un gesto che ha aiutato Hamas, ha prolungato la guerra e ha ritardato il raggiungimento di un accordo sugli ostaggi, gli statunitensi ritengono che lo stato sionista non stia facendo abbastanza. Gli assistenti di Biden hanno persino accusato i funzionari sionisti di mentire sulla quantità di aiuti consegnati e sulla cadenza delle consegne.
Ovviamente la questione degli aiuti è diventata (come è giusto) il tema fondamentale per le prospettive elettorali del Partito Democratico, ma Gantz non intende prenderne atto. Come nota Kahana: "Purtroppo, i più alti funzionari dell'amministrazione statunitense sono fuori dalla realtà anche quando si tratta di altri aspetti della guerra. Credono ancora che l'Autorità Palestinese palestinese debba governare a Gaza, che la pace possa essere raggiunta in futuro attraverso la 'soluzione dei due Stati' e che un accordo per normalizzare i rapporti con l'Arabia Saudita sia a portata di mano. Gantz è stato costretto a smentire questa lettura errata della situazione".
I funzionari dell'amministrazione statunitense hanno quindi ascoltato dalle labbra di Gantz la stessa agenda politica che gli aveva ripetuto Netanyahu negli ultimi mesi. Gantz ha anche avvertito che cercare di metterlo contro Netanyahu era inutile: potrebbe anche avere voglia di sostituire Netanyahu come primo ministro, ma le sue politiche non sarebbero sostanzialmente diverse da quelle dell'attuale governo, ha spiegato.
Ora che i colloqui sono finiti e che Gantz ha detto ciò che ha detto, la Casa Bianca sta facendo i conti con una nuova esperienza: quella dei limiti al potere degli Stati Uniti e all'automatico adeguarsi alla volontà statunitense da parte di altri paesi, fossero pure gli alleati più stretti.
Gli Stati Uniti non possono imporre la loro volontà allo stato sionista, né costringere un "Gruppo di contatto arabo" a formarsi, né obbligare questo presunto gruppo di contatto a sostenere e finanziare le "soluzioni" per lo meno fantasiose che Biden ha per Gaza. È un momento rivelatore per il potere degli Stati Uniti.
Netanyahu è una vecchia volpe, per certe cose a Washington. Si vanta della sua capacità di interpretare bene la politica statunitense. Senza dubbio ha messo in conto il fatto che Biden può anche alzare di un tono o due il registro della retorica, ma si trova comunque legato mani e piedi perché è lui che può determinare la distanza che separa Biden dai generosi finanziatori ebrei in un anno di elezioni.
Lo stesso Netanyahu d'altra parte sembra aver concluso che può tranquillamente ignorare Washington, almeno per i prossimi dieci mesi.
Biden sta cercando disperatamente di arrivare a un cessate il fuoco; ma anche in questo caso -per lo schieramento politico statunitense gli ostaggi sono un tema su cui la va o la spacca- gli Stati Uniti non sono in grado di fare nulla. Si chiede all'ultimo minuto a Hamas di dire quanti ostaggi sono ancora vivi.
Una richiesta del genere può anche sembrare ragionevole a chi non è addentro alla questione, ma gli Stati Uniti sono tenuti a sapere che né Hezbollah né Hamas forniscono senza contropartite la prova che ci sono ostaggi ancora vivi: esiste un prezzo da pagare, in termini di rapporto di scambio tra cadaveri e ostaggi vivi. Esiste una lunga casistica in cui i sionisti hanno chiesto prove analoghe, con richieste finite nel nulla.
Secondo i notiziari lo stato sionista si rifiuta di concordare il ritiro da Gaza; si rifiuta di consentire ai palestinesi del nord di Gaza di tornare alle loro case e si rifiuta di accordarsi per un cessate il fuoco totale.
Sono tutte richieste che vengono direttamente da Hamas, non sono certo una novità. Perché Biden dovrebbe mostrarsi sorpreso o offeso perché vengono ripetute ancora una volta: Sinwar non sta certo giocando al rialzo, come invece sostengono i media occidentali e quelli sionisti. Sorpresa e irritazione nascono piuttosto dal fatto che Washington ha fatto propria una strategia negoziale non realistica.
Secondo il quotidiano Al-Quds, Hamas ha presentato al Cairo "un documento finale non negoziabile". Questo include, tra l'altro, la richiesta di fermare i combattimenti a Gaza per un'intera settimana prima di procedere a un accordo per la liberazione degli ostaggi, e quella di un esplicito impegno da parte dello stato sionista a un ritiro completo dalla Striscia, con tanto di garanzie internazionali.
Hamas chiede inoltre che tutti gli abitanti di Gaza abbiano il diritto incondizionato di tornare alle loro case, nonché l'ingresso dei rifornimenti in tutta la Striscia di Gaza senza alcuna ripartizione di sicurezza fin dal primo giorno di entrata in vigore dell'accordo. Secondo il documento di Hamas, il rilascio degli ostaggi inizierebbe una settimana dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco. Hamas respinge la richiesta dello stato sionista di esiliare e mandare all'estero un qualsiasi suo appartenente o un qualsiasi suo capo. Qualcosa di simile si verificò in occasione del rilascio degli ostaggi dell'assedio alla Chiesa della Natività, dove un certo numero di palestinesi è stato esiliato in paesi dell'Unione Europea; un atto che all'epoca fu molto criticato.
In una clausola separata, Hamas ha dichiarato che né da parte sua né da quella di altre organizzazioni palestinesi saranno forniti elenchi di ostaggi fino a quarantotto ore prima dell'entrata in vigore dell'accordo. L'elenco dei prigionieri di cui Hamas reclama la liberazione è lungo, e comprende i nomi di cinquantastte persone che erano state rilasciate nell'ambito dell'accordo su Gilad Shalit del 2011 e che successivamente erano state arrestate nuovamente. Comprende poi tutti i detenuti in regime di sicurezza[*] di sesso femminile e minori; tutti i detenuti in regime di sicurezza malati e tutti i detenuti ultrasessantenni.
Secondo l'articolo solo dopo il completamento della prima fase inizieranno i negoziati per la fase successiva dell'accordo.
Queste richieste non dovrebbero sorprendere nessuno. Una convinzione fin troppo diffusa tra persone poco esperte vuole che quando ci sono di mezzo degli ostaggi si possa arrivare ad un accordo in modo relativamente facile e veloce con i toni retorici, i mass media e le pressioni diplomatiche. La realtà è diversa. In media occorre più di un anno di tempo per concordare la liberazione di ostaggi.
L'esecutivo di Biden deve cambiare urgentemente il proprio approggio alla questione, e interiorizzare innanzitutto il fatto che è lo stato sionista che si sta staccando dalla stantìa e mal fondata condiscendenza degli Stati Uniti. La maggior parte dei cittadini dello stato sionista è d'accordo con Netanyahu, che il 9 marzo ha ribadito che "questa è una guerra in cui è in gioco l'esistenza, e dobbiamo vincerla".
Come mai lo stato sionista può pensare di fare a meno degli Stati Uniti? Forse perché Netanyahu sa che la conformazione del potere che negli USA (come in Europa) controlla gran parte, se non la maggior parte, del denaro che plasma la politica statunitense e che in particolare contribuisce all'orientamento del Congresso, dipende fortemente dall'esistenza di una causa sionista e dal fatto che essa continui a esistere. Non è quindi lo stato sionista a dipendere in tutto e per tutto dalla conformazione del potere degli Stati Uniti e dalla loro "buona volontà" come Biden presuppone.
La "causa dello stato sionista" conferisce alle strutture della politica interna statunitensi la loro significatività politico, il loro programma e la loro legittimità. Un "no allo stato sionista" toglierebbe loro la terra da sotto i piedi e lascerebbe gli ebrei statunitensi a vivere nell'insicurezza. Netanyahu lo sa, e sa anche che l'esistenza di lo stato sionista, di per sé, consente a Tel Aviv di influire in una certa misura sulla politica statunitense.
A giudicare dal discorso sullo Stato dell'Unione del 9 marzo, l'amministrazione statunitense non è in grado di barcamenarsi nell'attuale impasse con lo stato sionista, e si sta invece incaponendo sui propri logori e banali punti fermi. Servirsi del discorso sullo stato dell'Unione come di un pulpito per imporre il vecchio modo di pensare non rappresenta una strategia. Anche l'idea di costruire un molo a Gaza è una storia vecchia. Non risolve nulla e serve solo a consolidare ulteriormente il controllo sionista sui confini di Gaza e su ogni possibile prospettiva per il dopo occupazione. Cipro prenderà il posto di Rafah, per i controlli di sicurezza dello stato sionista. Un tempo a Gaza c'erano sia un porto che un aeroporto internazionale; ovviamente sono stati entrambi ridotti in macerie da tempo dai bombardamenti sionisti.
La poca o nulla attenzione per il principio di realtà non può essere considerata come un fastidioso accidente cui porre rimedio imponendo a chi si occupa della campagna elettorale di gestire meglio le pubbliche relazioni. I funzionari sionisti e statunitensi vanno dicendo da tempo che la tensione potrebbe salire all'improvviso in concomitanza con l'inizio del Ramadan il 10 marzo. La rete Channel 12 dello stato sionista (in ebraico) riferisce che il capo del servizio di informazioni militare Aman ha avvertito il governo sionista, con un documento riservato, che esiste la possibilità che durante il mese di Ramadan scoppi una guerra a carattere religioso con una prima escalation nei territori palestinesi e poi l'estensione a fronti differenti fino alla sua trasformazione in una guerra regionale.
Questo avvertimento -sostiene Channel 12- è stato il motivo principale alla base della decisione di Netanyahu di non imporre Netanyahu di non imporre restrizioni più dure del solito ai palestinesi che entrano ad Al-Aqsa per le preghiere del Ramadan.
Sì, le cose potrebbero andare peggio, molto peggio, per lo stato sionista.



[*] Secondo Adalah un security prisoner è qualcuno che viene "incarcerato e condannato per aver commesso o perché sospettato di un reato che per la sua natura o per le circostanze in cui è avvenuto viene considerato contrario alla sicurezza, o per motivazioni nazionaliste". In pratica sono classificati in questo modo tutti i prigionieri accusati di atti ostili contro l'occupazione sionista (N.d.T.).