martedì 19 dicembre 2023

Alastair Crooke - Gaza. L'Asse della Resistenza può mettersi tranquillamente ad aspettare e lasciare che sia Netanyahu a muoversi... e a commettere errori



Gaza. Nella piccola stanza poco illuminata la prima cosa che si notava era quella sedia a rotelle da museo. Solo dopo si distingueva la figura accartocciata e coperta del paraplegico che la occupava.
All'improvviso, dalla sedia a rotelle sembrò venire uno stridio acuto; l'apparecchio acustico del suo occupante era impazzito e avrebbe continuato a strepitare a intervalli regolari durante tutto il tempo della mia visita. Mi chiesi quanto potesse sentire l'occupante della sedia, con un apparecchio acustico così mal regolato.
Durante la conversazione mi resi conto che, disabile o meno, la sua mente era più acuta di un coltello. Era duro come il ferro, animato da un sobrio umorismo e dagli occhi sempre vivaci. Era chiaro che si stava divertendo, tranne quando lottava con i fischi e gli strepiti del suo apparecchio acustico. Come era possibile che da una figura tanto esile promanasse un tale carisma?
Quest'uomo sulla sedia a rotelle e con l'auricolare sgangherato -lo sceicco Ahmad Yassin- era il fondatore di Hamas.
Alla fine, quello che mi disse quella mattina è quello che ha stravolto il mondo islamico di oggi.
Mi disse: "Hamas non è un movimento islamico. È un movimento di liberazione e chiunque, sia egli cristiano o buddista" -persino io, quindi- "potrebbe unirsi a esso. Siamo tutti benvenuti".
Perché questa semplice espressione si sarebbe rivelata tanto significativa e collegata agli eventi di oggi?
Beh, il clima di Gaza a quel tempo (2000-2002) era prevalentemente quello dell'islamismo ideologico. I Fratelli Musulmani egiziani vi erano profondamente radicati. Non si trattava di un movimento di resistenza in sé; era capace di ricorrere alla violenza, ma il suo obiettivo principale erano le opere sociali e una pratica governativa scevra dalla corruzione. Voleva dimostrare fino a che punto arrivassero le sue competenze in materia di governo.
Il commento di Yassin era rivoluzionario perché il concetto di liberazione era prevalente rispetto ai dogmi e alle varie "scuole" dell'Islam politico. Alla fin fine lo "Hamas di Gaza" avrebbe preso questa forma, in contrasto con quelli che per convenzione si intendono come i vertici del movimento che se ne stanno a Doha. Sinwar e Dief sono "figli di Yassin".
Per farla breve poco tempo dopo Yassin, mentre attraversava la strada con la sedia a rotelle per recarsi alla moschea adiacente durante la preghiera del venerdì, è stato fatto a pezzi da un missile dello stato sionista appena uscito da casa.
L'ala dei Fratelli Musulmani di Hamas ha avuto la possibilità di dimostrare quanto fosse competente a governare: ha vinto con ampio suffragio le elezioni del 2006 dell'Autorità Palestinese a Gaza e ha conquistato la maggioranza dei seggi, alcuni anche in Cisgiordania.
Il presidente Bush e Condoleeza Rice restarono inorriditi. Avevano appoggiato l'iniziativa di tenere le elezioni... e guarda cosa va a succedere. Così il premier Blair e il presidente Bush misero a punto un piano segreto per reagire, senza metterne al corrente l'Unione Europea: i leader di Hamas e le ONG del movimento che facevano attività sociale dovevano essere eliminati. Inoltre, l'Autorità Palestinese avrebbe dovuto reprimere tutte le attività di Hamas, in stretta collaborazione con lo stato sionista.
Secondo questo piano la Cisgiordania sarebbe stata destinataria di ingenti aiuti finanziari per costruire un prospero stato di tipo occidentale all'insegna dei consumi e della sicurezza, mentre Gaza sarebbe stata ridotta di proposito alla fame. Sarebbe stata costretta a cuocere nel suo brodo, stretta d'assedio per sedici anni. Avrebbe stagnato nella povertà.
Dallo stato sionista hanno fornito una base empirica al piano di Blair, calcolando esattamente quante calorie a testa, quanto carburante e gas sarebbero potuti entrare a Gaza in modo da mantenervi un livello di vita di pura sussistenza. Dopo questa iniziativa di Blair e Bush, i palestinesi sono rimasti irrimediabilmente divisi, e un progetto politico non è nemmeno lontanamente possibile. Come scrive Tareq Baconi su Foreign Policy:
"Hamas si trovava bloccato... in una situazione in cui l'equilibrio era determinato dalla violenza, in cui la forza militare si affermava come mezzo per negoziare concessioni tra Hamas e stato sionista. [Hamas ha usato] missili e altre tattiche per costringere lo stato sionista ad alleviare le restrizioni sul blocco, mentre [lo stato sionista] ha risposto con forza schiacciante per imporre la propria deterrenza e garantire la "calma" nelle aree intorno alla Striscia di Gaza. Il ricorso alla violenza ha permesso ad entrambe le entità di operare im un quadro in cui Hamas ha potuto mantenere il suo ruolo di autorità di governo a Gaza anche se sottoposto a un blocco che è di fatto una violenza strutturale quotidiana contro i palestinesi".
È questo paradigma della Gaza sotto assedio che si è infranto il 7 ottobre:
"Il mutamento di strategia ha comportato il passaggio da un limitato ricorso al lancio di razzi per negoziare con lo stato sionista a un'offensiva militare a tutto campo volta a spezzare in modo particolare il suo accerchiamento e a disconfermare la convinzione sionista di poter imporre impunemente un sistema di apartheid".
Hamas ha cambiato fisionomia. Adesso è il "movimento di liberazione", la liberazione di tutti coloro che vivono sotto l'occupazione, che lo sceicco Yassin aveva vaticinato. Ancora una volta, alla maniera di Yassin, si focalizza su un Islam non ideologico simboleggiato dall'icona civile della moschea di Al-Aqsa, che non è né palestinese, né sciita, né sunnita, né wahhabita, né dei Fratelli Musulmani, né salafita. Ed è proprio questo, il posizionarsi di Hamas tra i movimenti di liberazione, che si accorda direttamente con la nuova "spinta indipendentista" globale a cui stiamo assistendo oggi e che forse spiega gli enormi cortei a sostegno di Gaza in tutto il Sud del mondo, così come in Europa e negli Stati Uniti. La rappresaglia inflitta ai civili di Gaza ha quell'immancabile tocco di colonialismo vecchia maniera che viene accolto con compartecipata rabbia su un vastissimo spazio.
Il calcolo di Hamas è che la sua resilienza militare unita alla forte pressione internazionale derivante dai massacri a Gaza potrebbero alla fine costringere lo stato sionista a negoziare, e a raggiungere in conclusione un (costoso, del tipo "tutto in cambio di tutti") accordo sugli ostaggi con il movimento palestinese, e imporre anche un mutamento di paradigma nel contesto politico degli infiniti "colloqui di pace" con lo stato sionista. In breve, la scommessa di Hamas è che la sua resilienza militare durerà probabilmente quanto basta perché si manifesti l'impazienza della Casa Bianca di porre rapidamente fine all'episodio della guerra a Gaza. Questo approccio sottolinea come Hamas e i suoi alleati nell'Asse della Resistenza dispongano di una strategia in cui i passi successivi della escalation sono coordinati e procedono secondo consenso, evitando reazioni impulsive agli eventi che potrebbero far precipitare la regione in una guerra totale; un esito distruttivo cui nessuno dei protagonisti dell'Asse desidera arrivare.
In definitiva l'attento calcolo dell'Asse si basa sull'assunto che lo stato sionista commetta errori prevedibili che consentano una graduale ascesa a livello regionale nel logoramento delle sue capacità militari. La reazione forsennata del governo dello stato sionista agli avvenimenti del 7 ottobre rientrava nel calcolo; ci si aspettava che lo stato sionista avrebbe fallito nello sconfiggere Hamas a Gaza, così come erano esiti attesi l'escalation dei coloni in Cisgiordania e il passaggio all'azione dello stato sionista per cercare di cambiare lo status quo rispetto a Hezbollah. Anche questo era stato messo in conto, gli abitanti del nord dello stato sionista non accetteranno di tornare alle loro case senza un cambiamento dello status quo nel sud del Libano.
Tutte queste ipotizzate escalation da parte dello stato sionista potrebbero tradursi in realtà come forma di "distrazione rispetto ai fatti di Gaza" concertata da Netanyahu, in quanto l'opinione pubblica dello stato sionista comincia a dubitare che Hamas sia vicino alla sconfitta, e anche a dubitare che bombardare i civili palestinesi rappresenti un modo per fare pressione su Hamas affinché compia altri rilasci, come sostiene il governo, o piuttosto non possa mettere a rischio la vita di altri ostaggi.
Anche se le forze dell'IDF dovessero continuare a operare a Gaza ancora per qualche settimana, scrive l'editorialista di questioni militari di Haaretz Amos Harel,
"rischierebbero di non soddisfare le aspettative dell'opinione pubblica, dal momento che la leadership politica ha promesso di eliminare Hamas, liberare tutti gli ostaggi, ricostruire tutte le comunità di confine devastate e rimuovere la minaccia alla sicurezza. Si tratta di obiettivi ambiziosi, ed è già chiaro che alcuni di essi non saranno raggiunti...".
I leader di Hamas al contrario sono consapevoli che i membri dell'attuale esecutivo (Levin, Smotrich e Ben Gvir) sono andati dicendo per anni che avrebbe potuto essere necessaria una crisi vera e propria -o una guerra- per attuare il piano di pulizia della Cisgiordania dalla popolazione palestinese che vogliono realizzare per instaurare lo stato sionista sulla biblica "Terra di Israele".
È quindi inverosimile che l'Asse della Resistenza fondi il suo piano sugli errori strategici dello stato sionista? Forse non è così inverosimile come alcuni potrebbero pensare.
Netanyahu deve continuare con la guerra -ne va della sua stessa sopravvivenza- perché la fine degli scontri potrebbe essere un disastro per lui e per la sua famiglia. Netanyahu è quindi nel bel mezzo di una campagna. Non è una campagna elettorale, perché non ha alcuna possibilità di sopravvivere a delle elezioni. Al contrario, si tratta di una "campagna per la sopravvivenza" con due obiettivi: rimanere aggrappato al suo seggio per altri due anni (cosa fattibile, dato che la possibilità di defezioni dal governo è tutt'altro che assicurata), e in secondo luogo preservare, o addirittura rafforzare, la servile ammirazione tributatagli dalla sua base.
Solo io, Netanyahu, posso impedire la nascita di uno Stato palestinese a Gaza, in Giudea o in Samaria": "Non lo permetterò". "Non ci sarà mai" uno Stato palestinese. Solo io posso gestire le relazioni con Biden. Solo io so come manipolare la psiche statunitense".
"Io sto facendo tutto questo"... non solo per la storia ebraica, ma anche per la civiltà occidentale.
"Ma a cosa serve una lunga guerra", si chiede il corrispondente e commentatore di Haaretz B. Michael,
"se alla fine, o anche mentre è ancora in corso, la 'base' se ne annoia, diventa indifferente e si mostra delusa? Non è una base di questo genere quella che si precipiterà nella cabina elettorale con la scheda giusta tra i denti. Quella base vuole azione. Quella base vuole sangue. Quella base vuole odiare, provare rabbia, sentirsi offesa, vendicarsi. Scaricare sull'altro tutto ciò che la fa arrabbiare".
"Questo è l'unico modo per capire l'ostinazione con cui [Netanyahu] evade da qualsiasi seria discussione su una politica di uscita dalla guerra. Solo così si possono comprendere le promesse infondate su un controllo permanente di Gaza". La base è estasiata, le sue speranze si stanno avverando: "Stiamo davvero attaccando gli arabi e buttandoli in mare. Ed è tutto merito di Bibi".
"Non c'è una goccia di logica nel bombardare a tappeto Gaza. Né una goccia di vantaggio verrà dall'uccisione di altri palestinesi... l'iniziativa è una palese follia e un imbarazzante condiscendere alla base, che dal suo leader non vuole delusioni neanche minime. Che ne sarà degli ostaggi? Ah, è più importante la base".
Israele ha già visto qualcosa di simile in passato, in particolare con la Nakba del 1948. La pretesa arrogante che quella volta si sarebbe davvero chiuso: i palestinesi espulsi, le loro proprietà saccheggiate ed espropriate. "Fine della storia", si credeva, e "problema risolto".
No, il problema non è mai stato risolto. Da qui il 7 ottobre.
Il Primo Ministro e il suo esecutivo sono in "campagna elettorale" per sfruttare e amplificare il trauma che la base ha sofferto il 7 ottobre e per plasmarlo in base alle loro esigenze elettorali.
Netanyahu ha ripetuto un unico messaggio: "Non smetteremo di combattere". Dal suo punto di vista, la guerra deve continuare per sempre:
"La visione di Ben-Gvir di Bezalel Smotrich e compagnia sta prendendo forma. E l'arrivo del messia deve essere dietro l'angolo. Ed è tutto merito di Bibi. Urrà per Bibi!".
La Resistenza vede e comprende tutto questo: come fa lo stato sionista a uscire da questa situazione? Rovesciando Bibi? Non basterà. È troppo tardi. Il tappo è stato tolto; i geni e i demoni sono usciti. Se il fronte della Resistenza mantiene la coordinazione, procede di concerto ed evita qualsiasi reazione pavloviana agli eventi che potrebbe far precipitare la regione in una guerra totale, allora i suoi protagonisti "possono mettersi tranquillamente ad aspettare e lasciare che sia (Netanyahu) a muoversi" ...e a commettere errori (Sun Tzu).

Nessun commento:

Posta un commento