giovedì 19 agosto 2021

Roberto Hamza Piccardo, le gazzette e la caduta di Kabul



Il rapidissimo collasso dello stato fantoccio che gli USA e i volenterosi hanno mantenuto in Afghanistan per vent'anni [*] è stato accolto dalle gazzette "occidentali" con un coro indignato, e per qualche giornonell'agosto 2021 è stata rispolverata la panoplia dell'incompetenza di cui fa sfoggio in questi casi chi non capisce neppure cosa possa aver mai combinato per doversi trovare in una situazione del genere.
A fronte di ogni rovescio "occidentale", specie se dei più prevedibili, in questa sede si è sempre tentati da pensare alla scena di un vecchio film di Mel Brooks in cui una facoltosa protagonista, bersaglio di una gragnuola di proiettili, afferma stizzita "Ma non possono farmi questo; io sono ricca!"
Un certo Francesco Merlo ne ha approfittato per aggiungere al già corposo vaccabolario spregiativo con cui il gazzettaio marchia i reietti (cattocomunisti, pacifinti eccetera) uno italiban e un talebanini.
Chissà se avrà fortuna.
Il comportamento dei gazzettieri ispira tanto maggiore ripugnanza se si pensa che tanta preoccupazione per lo sventurato popolo afghano viene espressa sulle stesse pagine e dagli stessi ben vestiti che hanno contribuito in maniera determinante a far sì che in "occidente" basti fare una scritta su un muro per vedersela con la gendarmeria. Le scritte sul muro -lasciamo perdere i cortei, le occupazioni, gli scontri di piazza- sono senz'altro lodevoli... purché a L'Avana, a Minsk o a Tehran.
Dal 2001 in poi noi persone serie abbiamo sostenuto che aggredire e occupare l'Afghanistan, al pari di tutte le aggressioni, le destabilizzazioni, le occupazioni statunitensi che si sono succedute negli anni successivi, significava dare il via a un'impresa pazzesca. Maggiormente documentate erano le nostre affermazioni, più la feccia gazzettiera mostrava la sicumera arrogante che unisce viltà, incompetenza e servilismo in un miscuglio meraviglioso, i cui propugnatori hanno ricette per tutte le stagioni, non conoscono resipiscenza alcuna e comunque vada sono sempre in tempo a chiedere scusa. Tanto hanno righe perentorie adatte a ogni circostanza della vita, l'aria condizionata funziona e il ristorante sotto la redazione non chiude nemmeno per ferie.
C'è solo da maledire il reddito di cittadinanza che gli impedisce di schierare cameriere diciottenni a due euro l'ora.

Nell'immediato, al piagnisteo collettivo sono sfuggiti in pochissimi. Tra questi Roberto Hamza Piccardo, traduttore e divulgatore del Libro non eccessivamente propenso alla visibilità mediatica, che anche solo per questo merita qualche minuto di attenzione.

Sono passati quarantasei anni e la Storia, cioè la cronaca, ci ha dato un’altra prova che contro i popoli non si vince. Dico la cronaca poiché, la Storia ha bisogno di tempo, documenti, studio e riflessione, deve lasciar decantare i fatti e poi leggerli con maggior serenità e onestà intellettuale.
I talebani, mentre sto scrivendo sono entrati a Kabul mentre la ritiranda coalizione occidentale che sta cercando di mettere in salvo il salvabile, qualche centinaio di collaborazionisti, ma più ancora documenti e prove di un fallimento clamoroso, caricandole in fretta e furia sui capaci aerei della USAF o distruggendole sul posto. Il tutto sotto lo sguardo nervoso di qualche migliaia di marines con l’indice sul grilletto che non vedono l’ora che questa storia finisca per tornarsene a casa.
Nel 1975 erano i vietcong e i regolari nord vietnamiti che avevano preso Saigon (oggi Ho Ci Min Ville) e le immagini della rotta statunitense mi testimoniarono quello che era già stato evidente nel caso algerino di 13 anni prima e ora clamoroso in quello afghano: contro i popoli non si può vincere.
I popoli non hanno alternative: non possono tornarsene a casa, vincono o soccombono e per gente come gli algerini, i vietcong e gli afghani, soccombere era molto peggio che morire.
Qui non si tratta di conDIvidere l’ideologia dei mujahidin algerini, o quella dei vietcong e neppure quella dei talebani anche se con i primi e questi ultimi esiste un robusto tessuto comune: la fede islamica che ci accomuna;  la questione di fondo è che i popoli possono permettersi di pagare un prezzo che i colonizzatori, gli invasori (compresi i collaborazionisti locali) non possono pagare.
Bisognerebbe sterminarli, nel senso letterale del verbo, cioè fare “un deserto e chiamarlo pace” come Tacito fa dire al comandante dei Caledoni (oggi scozzesi) che descrive il modus operandi romano quando arringa le truppe che dovranno scontrarsi con le loro legioni
Non basta decimarlo, un popolo, non basta usare contro di esso la forza e l’organizzazione militare anche più sofisticata, non basta spendere come hanno fatto gli USA e i loro alleati 1300 miliardi di dollari, non basta.
Ora, mentre cominciano a essere pubblicati su media occidentali racconti sulle atrocità dei vincitori che servono più che altro a giustificare il fatto che contro mostri del genere la guerra era stata necessaria, ci auguriamo che il popolo afghano sappia ritrovare, nei suoi tempi e modi, quell’unità d’intenti che li ha visti vincitori da quasi due secoli contro tutti gl’invasori: inglesi, sovietici e infine contro la Coalizione di cui disgraziatamente abbiamo fatto parte anche noi italiani.
E che, come ci ha insegnato la tradizione del Profeta Muhammad (pbls) a cui sostengono di riferirsi, sappiano essere giusti e misericordiosi con quelli del loro popolo che per debolezza o altre circostanze si trovano oggi tra gli sconfitti.


[*] Un rapido calcolo. Lo stato che occupa la penisola italiana ha destinato all'occupazione dell'Afghanistan circa nove miliardi di euro. Ammettiamo che la cifra vada divisa tra sessantatré milioni di contribuenti. Si tratta di circa centoquaranta euro, spalmati in vent'anni. Sette euro l'anno a testa. Una cifra abbordabilissima, chissà che a Roma non stiano già pensando di ripetere l'esperienza.



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