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02 marzo 2021

Alastair Crooke - Lo stato sionista è stato superato in astuzia?



Traduzione da Strategic Culture, 1 marzo 2021. 

  La riattivazione dell'accordo sul nucleare iraniano ha trovato difensori inattesi: alti funzionari dell'apparato di sicurezza dello stato sionista ne vorrebbero il ripristino.

Un alto funzionario russo lo scorso fine settimana ha detto qualcosa di rivelatore circa i tempi in cui viviamo. Può sembrare un'osservazione buttata lì, ma dietro di essa, appena fuori vista, c'è qualcosa di profondo. Ha detto che l'accordo sul nucleare iraniano, -agli occhi di moltissimi, e non solo per l'Iran- è diventato il primo simbolo di come l'ordine globale basato sulle regole venga utilizzato proprio per svuotare di significato la sovranità e l'autonomia di un popolo - e per imporne la caricatura rappresentata dal suo gemello siamese, che è l'ordine monetario basato sulle regole.
A prima vista una considerazione in questi termini potrebbe sembrare un po' esagerata e persino ostile: l'intento di prevenire la proliferazione delle armi nucleari da parte degli Stati Uniti è di sicuro un obiettivo lodevole...
Apparentemente l'obiettivo può proprio sembrare questo, e sembrerebbe anche condiviso dalla Russia. Ma è anche vero che la metodologia dell'accordo sul nucleare iraniano presenta uno schema tutto particolare: si dichiara unilateralmente che una certa visione e i valori che essa sottende sono universali, e si stabiliscono le regole operazionali per tradurre questo universale. Queste regole non saranno necessariamente conformi al diritto internazionale, ma poi, secondo la famigerata frase di Carl Schmitt per cui "Sovrano è colui che decide l'eccezione (al diritto)" e siccome è proprio di questa universalità il considerarsi superiore di una spanna alle civiltà arretrate e nazionaliste, essa rivendica un proprio carattere eccezionale su queste mere basi. Secondo questo modo di intendere le cose un "ordine" basato sulle regole deve sostituire e soppiantare la "legge".
Nel caso specifico si voleva che le regole "universali" suddette, e imposte d'imperio, soppiantassero i diritti che il trattato di non proliferazione garantiva per legge all'Iran, per far regredire l'impulso rivoluzionario in Iran, prosciugarne il radicalismo residuale imponendo un faticoso conformarsi alle capziose regole dell'accordo sul nucleare e per forzare infine l'assimilazione dell'Iran alla governance monetaria globale.
Fin qui niente di nuovo; è la procedura occidentale standard. Eppure, certe considerazioni su come l'accordo sul nucleare iraniano sia diventato il caso tipico di procedura al dissanguamento della sovranità di una nazione indica un mutamento di più vasta portata, che riguarda sia la Russia che l'Iran. Indicano che gran parte del mondo ragiona in termini che nei discorsi degli ambienti politici di Washington sono quasi inimmaginabili.
Ancora cinque anni or sono molti in Russia credevano che lo stato dovesse come minimo curarsi di sondare le vivaci acque di quello che è il "si può fare" del dinamismo occidentale. Anche se costava qualcosa in termini di sovranità russa, era necessario in considerazione della tecnologia, della finanza e del know-how occidentali. Poi è arrivato il discorso di Putin del 2007 alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. E quello è stato un punto di svolta fondamentale: "La Russia è sotto attacco da parte dell'Occidente. Accettiamo la sfida e la vinceremo".
Nel 2007 i russi hanno intuito che le acque del pozzo rappresentato dal dinamismo occidentale stavano diventando stagnanti. A Davos il mese scorso, Putin ha suggerito che non solo erano stagnanti, ma ormai anche inquinate. Il progetto occidentale era diventato ottuso perché tutto il sistema era manipolato a beneficio dello 0,1%.
L'Unione Europea, come costrutto, è tagliata sullo stesso "universalismo" del suo progenitore statunitense, anche se nel suo caso viene gabellato per comune fondamento universalista europeo. Solo che le acque europee ristagnano allo stesso modo. La leadership russa ha capito che una Grande Europa non esisterà mai. Ancora più importante, la Russia ha scoperto che può trarre energia culturale da risorse proprie, per innovare e sviluppare la nazione russa.
Molti iraniani sono giunti a conclusioni simili per quello che riguarda l'Iran. Una volta la maggior parte -forse l'80%- degli iraniani avrebbe volentieri sondato le acque del dinamismo tecnico occidentale; oggi sono in pochi a volerlo. Per la loro società, un contatto troppo stretto con l'acqua stagnante comporta un ovvio pericolo. Come i russi, anche gli iraniani si stanno impegnando nel trovare energia al proprio interno, e nell'utilizzare le risorse a loro disposizione. E stanno scoprendo che queste risorse possono essere presenti oggi in Asia come lo erano un tempo in Europa.
L'altro discorso che c'è in giro è questo. A parte le narrative fracassone sull'Iran che emanano dal chiuso mondo della Beltway, questa è la visione alternativa scopertamente disponibile, e al pari dell'oculato inquadramento di Putin essa è oggetto di ampia disamina in gran parte del mondo. Ma non sarà ascoltata a Washington. Biden si è presentato a Monaco dipingendo la Russia come un personaggio voodoo, che fa incantesimi dannosi per gli Stati Uniti. L'idea era quella di far intendere che chiunque critichi l'AmeriKKKa sugli stessi temi non può che essere un agente dei russi e quindi un traditore. La Russia è diventata la bambola voodoo da tirare fuori per spaventare il pubblico americano e per disciplinare il discorso pubblico.
Come mai con l'Iran sul punto di un possibile disaccoppiamento dall'Europa -al pari della Russia- la riattivazione dell'accordo sul nucleare ha attirato alcuni insospettabili sostenitori tra i funzionari e gli ex funzionari della sicurezza dello stato sionista, che vogliono far rientrare l'Iran nell'accordo?
Cosa sta succedendo? Si tratta di una ribellione contro la linea della massima pressione tenuta in permanenza da Netanyahu? Ancora più interessante è il fatto che un certo numero di questi alti funzionari stiano sostenendo un ritorno puro e semplice all'accordo, non una sua ricontrattazione serrata. Come spiega Ben Caspit, "Un team di esperti [dello stato sionista] particolarmente versati ha concluso che, contrariamente a quanto pensano per lo più i membri di punta del governo Netanyahu-Gantz, l'accordo con l'Iran non dovrebbe includere il programma missilistico di Tehran o le sue attività regionali" [corsivo dell'A., N.d.T.]. Si tratta di un paradosso assoluto? Proprio nel momento in cui lo scetticismo iraniano minaccia di prevalere, dovrebbe calare quello della controparte? Forse si passeranno accanto senza incontrarsi, e l'esito sarà nullo.
Questi ex alti funzionari dello stato sionista adesso suggeriscono che l'accordo non era poi così male, dopo tutto: "Quando si è saputo dell'accordo", spiega ora l'ex generale della riserva Yair Golan, "abbiamo tenuto una discussione con tutti i funzionari e ci siamo detti che se l'Iran l'avesse rispettato sarebbe stato un risultato incredibile".
O forse si tratta di un oscuro segreto di quelli che nessuno vuole discutere pubblicamente, vale a dire che lo stato sionista è stato battuto. Mentre tutto il mondo si trovava ossessonato da qualcosa di grosso (ovvero la prospettiva dell'arma nucleare) e si chiedeva se la massima pressione di Trump avrebbe portato o meno l'Iran a rispettare l'accordo, l'Iran stava preparando non qualcosa di grosso, ma un sacco di cose più piccole.
Lo stato sionista è ora circondato da migliaia di missili da crociera intelligenti che volano rasoterra, e da droni da attacco capaci di muoversi come uno sciame. L'arma nucleare è sempre stata un depistaggio (il Medio Oriente è troppo piccolo e densamente popolato perché le atomiche abbiano un senso). Il baratro della guerra, sul cui ciglio Netanyahu ama ballare, forse è un rischio troppo grave agli occhi di questi ex funzionari perché potessero rimanersene a guardare.
Sanno (a differenza di Blinken, si direbbe), che l'Iran non metterà mai i suoi missili su nessun tavolo di negoziato. Forse sono dei realisti, e considerano il puro e semplice ripristino dell'accordo come l'unica via da seguire. Probabilmente su questo hanno ragione.
Ma perché sostenere un ritorno dell'Iran all'accordo? Beh, un pieno ritorno dell'Iran e dell'AmeriKKKa all'accordo sul nucleare portare alla nascita di un'architettura di sicurezza del Golfo che include l'Iran, ma ovviamente non lo stato sionista. E poi questa architettura potrebbe agevolare un ulteriore passaggio in secondo piano della deterrenza missilistica intelligente iraniana.
Per lo stato sionista potrebbe essere il modo per imboccare una de-escalation con l'Iran; magari, per fare un passo indietro rispetto alla pericolosa guerra di Netanyahu.
Ma i falchi statunitensi quando mai sarebbero d'accordo? Essi desiderano ancora che l'Iran rivoluzionario venga punito in qualche modo. E gli iraniani crederanno mai a Washington? Probabilmente no.

12 marzo 2020

Alastair Crooke - Il Medio Oriente tradito dalle sue élite



Traduzione da Strategic Culture, 3 marzo 2020.

Un influente pezzo grosso della Lega Araba ha fatto tuoni e fulmini poco tempo fa: era impossibile per il mondo arabo accettare qualcosa di diverso dal laicismo moderno del ventunesimo secolo; l'Islam andava bandito. Il golpe in Egitto ("Se volete chiamarlo così...") contro il governo dei Fratelli Musulmani era stato, a suo dire, un'iniziativa assolutamente adeguata. Un governo di ispirazione islamica non sarebbe stato tollerabile e hanno fatto proprio bene a rovesciarlo, e si faceva bene anche a respingere l'influenza iraniana sul mondo arabo.
Di argomenti a sostegno di quanto sopra, non ne presentava neanche uno. Emotività allo stato puro, per dirla con Alasdair MacIntrye. Vale a dire, nient'altro che l'espressione di una preferenza, la definizione di un atteggiamento o di un sentire, con il proposito di produrre nell'uditorio una risposta emotiva: proprio quello che è successo. Insomma: in un ambiente che ha virato sull'emotivo come il Medio Oriente di oggi, non è certo dalla ragione che ci si possono attendere delle soluzioni; dobbiamo soltanto tenere duro e decidere il nostro atteggiamento a livello soggettivo. Le questioni morali, nel migliore dei casi, non sono altro che retorica.
Questo fa pensare che l'istanza sul piano morale di questo luminare su quanto serve al "ventunesimo secolo" del mondo arabo non sia poi razionale come vorrebbe essere. Non è affatto razionale, anzi. Quando ogni argomentazione morale non è altro che l'esplicitazione di una preferenza soggettiva, qualsiasi serio tentativo di comprensione razionale è destinato a fallire.
Un approccio emotivo come questo alla presenza di istanze discordanti quanto basta (c'erano manifestanti "populisti" iraniani e arabi ad assistere) presenta solo le potenzialità perché la situazioni degeneri in una ridda di urla o peggio. Discutere in questi termini non porta in nessun caso a qualche soluzione. Si tracciano innanzitutto le linee, e poi i partecipanti si mettono di qua o di là. Nello schierarsi tuttavia pare che essi perdano la capacità di ascoltare gli altri, di condividere i valori o anche i dati di fatto. Tutti si accalorano, ma nessuno ci vede chiaro.
Ebbene, la questione non riguarda tanto i meriti -o i pretesi difetti- dell'Islam come viene inteso nella Repubblica dell'Iran. Riguarda il completo tradimento perpetrato dalle élite arabe nei confronti dei rispettivi popoli.
Le autocrazie e le oligarchie arabe moderne si presentano come neutrali, laiche, razionali e prive di valori intesi come punti fermi, intanto che si adoperano in favore di esiti già decisi, come con il colpo di stato contro il presidente Morsi. In realtà esse stanno semplicemente scimmiottando l'ideologia occidentale neoliberista e mercantilista. Chiudendo di fatto ogni via di scampo alla crisi che incombe sui paesi del Medio Oriente.
Il problema in questo modo di affrontare le cose, concretizzato dal "moderno ventunesimo secolo" di un pezzo grosso dei nostri giorni, è che esso testimonia fino a che punto le istituzioni civili e politiche più importanti del mondo arabo sono state sistematicamente indebolite da quelle stesse élite che avrebbero dovuto guidarle e rappresentarle.
Abbiamo tutti bisogno di certe istituzioni; della famiglia, delle associazioni religiose e laiche, e ovviamente delle istituzioni formali del governo. Esse costituiscono, insieme al retaggio di archetipi morali, miti e letteratura che le sostiene, la struttura durevole della vita comunitaria. Assegnano dei ruoli, insegnano l'autocontrollo, rafforzano l'uniformità e così conferiscono significato alla vita. E così facendo formano la personalità di quanti vi partecipano.
Il tradimento delle élite si misura dal grado in cui le istituzioni sono state indebolite, in nome del potere e per anestetizzare lo scontento popolare e i movimenti di protesta.
Negli ultimi tempi lo scontento nei confronti del sistema nei paesi arabi ha avuto ampia visibilità per il Libano e l'Iraq, ed ampia visibilità ha avuto anche il recrudere del vecchio clima nei paesi del Golfo; è stato un tentativo di conferire un particolare tono alle manifestazioni di piazza, indirizzando lo scontento per i problemi del mondo arabo contro l'Iran tramite l'orchestrazione di una fitta presenza sui media sociali. Ovviamente in queste manovre c'è lo zampino di Washington, che fomentando gli scontri settari spera di indebolire e di contenere l'Iran.
Sono state le élite globaliste del ventunesimo secolo nel loro insieme -quelle arabe comprese- ad aver minato di proposito le istituzioni più importanti per la vita della gente comune. Nel fare questo hanno abolito la maggior parte, se non tutti, i modi per dare sfogo in maniera civile alla crescente pressione dello scontento. Proprio il globalismo privo di valori ha cercato di disancorare il singolo dalle pastoie del genere, dell'identità storica e dall'idea stessa di comunità. Il risultato è stato quello di attirare discredito e delegittimazione su gran parte di queste importanti istituzioni.
A colpire di più è stato il fatto che nello stesso momento in cui questo pezzo grosso della élite araba scopriva le carte e bandiva gli islamici dalla democrazia, i dimostranti della nuova ondata di proteste che percorre la regione mettevano ben in chiaro, per giunta nello stesso scambio di battute, che adesso, loro, la democrazia la disprezzano. La disprezzano quanto la disprezzano gli stessi autocrati. Secondo i manifestanti, la democrazia è stata manipolata in tutto e per tutto in nome degli interessi delle élite, ed è diventata lo strumento per imbrigliare e soffocare il dissenso. E questo lo dicono, senza mezzi termini.
Ricorrendo a un discorso infarcito di una morale di facciata e pieno di vocaboli come bene, giustizia e dovere, queste élite hanno privato il discorso politico regionale del suo vecchio contesto, islamico o filosofico che fosse. Ed era il contesto che conferiva significato al discorso politico regionale. Tolto quello, sono rimasti i toni accesi e nessuno a vederci chiaro.
E allora, potrebbe chiedere il lettore. E allora in Medio Oriente lo scontento cresce; cosa vorranno i manifestanti, a parte la cacciata delle loro élite? Non è chiaro; un'ondata giacobina? Di sicuro, in tutta la regione il modello di governo praticato dalle élite attuali non fa certo venire in mente il bene, la giustizia o il dovere ma l'avidità, l'egoismo e la corruzione.
Arrivati a cotanto risultato, gli autocrati si affidano -o meglio, si consolano- con la peculiarità che è stata definita come "resilienza dell'autocrazia mediorientale": il fenomeno, imprevisto, per cui le monarchie e gli autocrati si sono dimostrati più capaci di reggere rispetto alle repubbliche.
Ora che il Medio Oriente si trova con le spalle al muro cosa faranno, reggeranno al colpo, introdurranno delle riforme o si abbandoneranno alla repressione?
Per il caso del Libano e della Giordania, è chiaro che il modello economico da cui entrambi i paesi sono stati dipendenti in passato non funziona più. Probabilmente nessuno dei due riuscirà a dimostrarsi in grado di riformarlo. Le loro élite non possono e soprattutto rifiutano di farlo. Qualsiasi nuovo modello è al di là del raggiungibile, in entrambi i casi.
La Giordania e il Libano non sono delle eccezioni. Ci sono altri paesi con le spalle al muro, sia a causa di un modello economico regionale ormai fallito sia a causa degli aut aut su cui l'amministrazione Trump ha basato la propria politica per riplasmare il Medio Oriente, che è la traduzione operazionale del suo concetto del destino di Israele e della sua missione giudaico-cristiana.
Chiaro che gli ultimatum connessi allo stato sionista, diretti via via alla Giordania, al Libano, all'Iraq, alla Siria e all'Iran stanno facendo alzare e inasprire la pressione su questi paesi e le tensioni al loro interno. Difficile capire quale potrebbe essere la loro risposta. Qualcuno potrebbe anche crollare; altri, come l'Iran o il Libano, potrebbero considerare il rispondere a Washington -magari in un modo cosiddetto asimmetrico- come l'unica reazione possibile.
Il greggio ai minimi, la popolazione che cresce a vista d'occhio, le alte aliquote fiscali, l'acqua che scarseggia e i mutamenti climatici che si accaniscono sull'agricoltura rappresentano fattori di crisi veri e presenti, anche per i paesi del Golfo.
La creazione di un laicismo a misura di ventunesimo secolo da parte delle autocrazie arabe ha creato anche un vuoto di valori morali che finirà inevitabilmente per essere colmato da maschi alfa, che vi sfogheranno la loro brama di potere e il loro rancore. Da un altro punto di vista, per dirla con MacIntyre, un mondo governato dalle emozioni non è né stabile né autosufficiente. Anzi, diventa un campo di battaglia per intenti contrastanti, fintanto che non si afferma un qualche uomo forte o un qualche dittatore.
Con l'allentarsi dei legami comunitari e dei valori morali che essi rappresentano, è inevitabile che i singoli perdano la strada. Perdono la propria virtus, intesa come in antico come il proprio posto, i propri legami con un dato contesto sociale insieme con la considerazione che gliene derivava e col concetto stesso di darsi da fare per una comunità, o per qualcosa di più ampio del loro mero narcisismo.
Mujyahidd è un blogger saudita molto stimato. Ha preso diligente nota di ciò che questo comporta per i giovani sauditi di oggi: corse sfrenate con le auto nei centri cittadini, dilaganti rapine a mano armata e furti d'auto in pieno giorno, nessuno a tutelare l'ordine costituito, festini zuppi di alcol e di eccessi.
Mujyahidd è un osservatore assennato, e si chiede semplicemente cosa stia succedendo a una società come quella saudita, che è conservatrice e tradizionalista ma tutto d'un tratto mostra anche tratti licenziosi. Il problema rappresentato da due culture incompatibili e dai contrasti laceranti costrette a coesistere potrà essere risolto, o finirà prima o poi per mandare in pezzi il regno?
Le riforme autentiche come tali, proprio come in altri paesi mediorientali, sono state impedite dalla necessità delle élite di concentrarsi sulla propria sopravvivenza. Una cosa che è sempre stata più importante.

06 aprile 2019

Alastair Crooke - I pii desideri dell'Occidente "trascurano quello che fa della Cina ciò che essa è".




Traduzione da Strategic Culture, 2 aprile 2019.

Nelle ultime settimane abbiamo assistito allo sviluppo di una "zona di contiguità territoriale e di vie di comunicazione" nel quadrante settentrionale del Medio Oriente, destinata ad unire l'Iran con l'Iraq, con la Siria e con il Libano. Un'iniziativa che si pensa finirà per inquadrarsi nel grande progetto cinese per una Nuova Via della Seta. Quella perpetua banderuola che segna il vento in medio oriente e che si chiama Libano sembra accingersi a tagliare il cordone ombelicale che da cinquecento anni lo lega a Roma e all'Europa per guardare invece in direzione di Mosca -ai fini di proteggere i cristiani della regione, di agevolare il rimpatrio dei profughi siriani, per mettersi sotto l'ala protettiva del presidente Putin e impedire a Bolton e a Netanyahu di scatenare il caos nel suo pezzetto di terra- e della Cina. Negli ultimi giorni le iniziative infrastrutturali relative alla Nuova Via della Seta sono esplicitamente sbarcate nello stato che occupa la penisola italiana e questo conferisce un po' di spessore reale (ovvero di infrastrutture) all'idea di comunanza nel Mediterraneo.
Entrambi gli accadimenti hanno un unico motivo di fondo: restituire autonomia ai rispettivi paesi, recuperare un minimo di potere decisionale e liberarsi dalla camicia di forza della stagnazione economica e dal peso morto di pastoie politiche desuete. Come ha scritto Cristina Lin, "la Cina per prima ha fatto proprio il concetto per cui la sicurezza è una conseguenza dello sviluppo economico, e ha detto chiaramente che la ricostruzione viene prima degli accordi politici. La Cina sta considerando il Levante nell'ottica del contesto regionale e considera il Libano come un punto di partenza per la ricostruzione della Siria e dell'Iraq."
L'Unione Europea ovviamente nutre timori nei confronti della Cina. L'Unione Europea si è sempre arrogata la palma del "colosso economico prossimo venturo". Solo che adesso l'Unione Europea nutre concretissimi timori al cospetto dell'ascesa della Cina, anch'essa stato e civiltà al tempo stesso, che molto probabilmente metterà la parola fine al dominio occidentale in ogni campo: economico, politico e culturale. Soprattutto, la tendenza demografica indica un'Europa che sta invecchiando, che si sta inaridendo e che controlla una quota dell'economia mondiale sempre più piccola. In scena, sia nel quadrante settentrionale del medio oriente che nello stato che occupa la penisola italiana, si è assistito proprio questo spettacolo. A modo loro sia lo stato che occupa la penisola italiana che il Levante sono stati sovrani e civiltà al tempo stesso. Non hanno bisogno dell'avallo dell'Unione Europea a confermarli in questa convinzione. Come ha detto lo scorso anno l'ex ministro dell'economia del Libano, "La Cina non guarda al Libano come a un piccolo Stato con 4 milioni di cittadini, ma come a un paese che ha un grosso potenziale in considerazione della sua collocazione geografica."
Il fatto è proprio che l'Occidente non è più l'Occidente. Esiste il bellicoso Occidente di Trump, di Pence, di Bolton e di Pompeo ed esiste un Occidente che sta perdendo sempre più presa tanto in Medio Oriente quanto oltre esso. Poi esiste l'Occidente dell'Unione Europea, ma anch'esso soffre di profonde divisioni ed ospita forze che si oppongono al suo ethos millenaristico. Insomma, l'Occidente inteso come "visione del futuro" sta perdendo terreno.
All'Unione Europea se ne sono accorti. L'Unione Europea è nella morsa del potenziale cinese inteso come partner economico, in questi tempi di scarsità in cui tira aria di recessione, e non riesce neppure a tenere testa al mondo che cambia e alla propria ambizione di diffondere a livello mondiale i propri valori liberali di stampo europeo. In conseguenza di questo, l'Unione Europea presenta i sintomi di un comportamento schizofrenico. Da una parte sul piano economico non può rinunciare alla Cina e intende diventare il migliore amico del Leviatano; eppure l'Unione Europea ha anche un'altra faccia che potrebbe in qualche modo essere in sintonia con Trump nel denunciare le pratiche commerciali sleali dei cinesi, e farsi bella dei valori europei: "La competizione fra Cina e Unione Europea non è leale... L'Unione Europea ha sbagliato a sperare che la Cina avrebbe rispettato i diritti umani in misura maggiore col crescere dello sviluppo economico... L'Unione Europea dovrebbe essere onesta nei confronti della Cina, ma comportarsi anche con maggiore fermezza."
Le considerazioni polemiche di Juncker riflettono in qualche modo il senso di pentimento di chi ha comprato a scatola chiusa, a fronte delle conseguenze della condiscendenza mostrata verso la Cina. Secondo Martin Jacques le aspettative non sono diventate realtà:

"Esisteva una sorta di tacito consenso sul fatto che se avessimo trattato di buona grazia la Cina, come se fosse stata potenzialmente 'uno di noi', Pechino si sarebbe comportata allo stesso modo. In concreto si è discusso assai poco su come sarebbe stato un mondo in cui la potenza dominante fosse stata la Cina.
Da una parte c'è chi crede che la Cina diventerà la dominatrice del pianeta, ma solo a patto di appropriarsi del nostro modo, del modo occidentale di intendere le cose. Dall'altra ci sono quanti sostengono che la modernizzazione di Pechino finirà con l'arenarsi perché incontrerà un ostacolo nel modo cinese di essere. Entrambe le scuole di pensiero tuttavia arrivano alle stesse conclusioni. Noi europei non ci dobbiamo preoccupare; forte o debole che sia, la Cina non rappresenterà una minaccia al nostro modo di vivere.
In Occidente è ancora ampiamente diffusa l'idea che alla fine la Cina si adeguerà, per un processo di naturale e e inevitabile sviluppo, al paradigma occidentale. Si tratta di un pio desiderio. Concentrandosi sulle somiglianze, anziché prendere atto delle differenze, 'il mondo occidentale finisce per trascurare tutto quello che fa della Cina ciò che essa è.'"
Ahia. Adesso che su questo punto concorda anche l'Unione Europea i livelli di schizofrenia si alzano, come si nota su politico.eu:

"Il bilateralismo è duro a morire, e martedi scorso abbiamo assistito a uno spettacolo senza precedenti:[Macron, Merkel e Juncker] sulla soglia dell'Eliseo hanno accolto il presidente cinese Xi Jinping in un loro piccolo vertice a quattro sul multilateralismo. Di sicuro l'immagine ha mandato il messaggio che l'Eliseo voleva: la Cina ha davanti un fronte europeo coeso in cui non c'è spazio per quell'approccio bilaterale che è quello preferito da Pechino, che in casi simili vede pendere dalla propria parte l'equilibrio dei poteri.
Macron è noto per la sua propensione ai simbolismi, ma è forse tutto qui? L'incontro si è concluso con una dichiarazione bilaterale congiunta da parte di Francia e Cina. Sette pagine di riferimenti ai 'due paesi': della Germania o della Commissione Europea non si fa parola.
L'Unione Europea, questo è piuttosto vero, è sottoposta a grosse pressioni da parte degli USA. E poi, come ha detto l'ex ambasciatore statunitense in Cina Chas Freeman,
"Dal punto di vista degli Stati Uniti, le obiezioni nei confronti dell'apertura alla Cina di cui è autore lo stato che occupa la penisola italiana altro non sono che parte dell'isteria anticinese che si è impadronita di Washington. Gli USA stanno trattando la Nuova via della Seta come se fosse una sfida militare strategica. Gli europei invece la stanno trattando come una questione economica che va affrontata con cautela... Gli Europei stanno diventando matti per accettare il fatto che la Cina sul piano economico è ormai una grande potenza globale... per loro non conta tanto la Nuova via della Seta, contano gli investimenti cinesi nel settore tecnologico e lo spirito competitivo con cui essi si presentano in quel campo. Negli USA invece non c'è discussione: esiste oggi un forte consenso anticinese."
Il pendolo in AmeriKKKa è passato da un estremo all'altro: da "la Cina dominerà il mondo, ma solo se accetterà di fare le cose all'occidentale" all'idea isterica che essa costituisca una minaccia, perché l'Occidente finora proprio di questo è stato colpevole: di aver "trascurato tutto quello che fa della Cina ciò che essa è".
Assistiamo dunque alla problematica pretesa di un'AmeriKKKa che ha un modello economico proprio e molto particolare di puntare i piedi sul fatto che il modello economico cinese -che è proprio quello che fa della Cina ciò che essa è- va cambiato. Il modello economico cinese andrebbe modificato per permettere alle imprese statunitensi di entrare nel mercato cinese proprio come se si trattasse di quello interno, e come se stessero facendo affari con un'altra impresa statunitense.
Le contraddizioni di una simile pretesa sono ovvie. Non esiste alcun compendio di "regole" che vada bene per tutti i casi, ovvero per tutti i modelli economici. Le regole mondiali sono state concepite attorno a un paradigma statunitense, ma i modelli economici cambiano al cambiare dei paradigmi.
Cosa significa tutto questo? Ai paesi del Medio Oriente rivolgersi alla Russia e alla Cina offre la prospettiva di interagire con una macchina politica e diplomatica che funziona, e che è ancora collegata alle realtà della regione. Apre anche alla possibilità di accedere ad armamenti sofisticati per la propria difesa e presenta anche il valore aggiunto di poter attirare investimenti su infrastrutture e corridoi commerciali destinati a far parte della Nuova Via della Seta russo-cinese.
Nel caso dello stato che occupa la penisola italiana, la cui economia è come pietrificata nell'ambra, la mossa restituisce allo stato qualche barlume di autonomia in materia di scelte economiche, un cenno di sovranità. La penisola italiana nel corso dei secoli è stata occupata da altri tante volte quanto basta a non far temere che gli investimenti infrastrutturali cinesi possano ledere qualche cosa di simile a un orgoglio nazionale. E i cinesi sono come innamorati di qualsiasi cosa venga dalla penisola italiana.
Questo vuol dire che mentre a Washington si fanno tuoni e fulmini, i cinesi stanno erodendo con tutta calma ogni resistenza alla loro affermazione. Dovremmo semplicemente adeguarci all'alterità cinese e al modo con cui si fanno affari in Cina. Si tratta proprio di un problema, sempre che non ci pensino i signori Navarro, Lighthizer e Pence a farlo diventare?


06 febbraio 2019

Alastair Crooke - Una democrazia gradualmente ridotta all'impotenza. Finalmente il mondo ci è arrivato.




Traduzione da Strategic Culture, 28 gennaio 2019.

Secondo Antonio Gramsci un interregno è un periodo "in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere; in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati". In epoche del genere il nuovo è percepito come folle, malvagio e pericoloso da considerare.
Il Regno Unito sta chiaramente attraversando un interregno; un periodo in cui le élite che hanno fino a oggi gestito il discorso politico -come lo chiama Michel Foucault- entro precisi limiti di consenso scoprono adesso che esso viene pesantemente contestato. Periodi simili sono anche momenti in cui si perde di lucidità, periodi in cui si pensa che i limiti del ragionevole vengano meno. Cosa che in effetti succede.
I paradossi dell'interregno diventano roba d'ogni giorno quando una Camera dei Comuni democraticamente eletta si schiera in opposizione a un referendum popolare, si oppone alla legislazione derivante che pure ha essa stessa approvato e arriva a baloccarsi con l'idea di rovesciare il principio per cui è il governo che deve governare, per passare all'idea che al suo posto dovrebbe farlo una mutevole ed effimera aggregazione di parlamentari non governativi e provenienti da ogni partito. E anche così quell'assemblea non riesce a produrre un'alternativa su cui esista qualche accordo. Per quanto sia strano, non è sorprendente che (forse) la maggior parte di quanti intendono restare nella UE provi adesso un brivido di panico autentico, davanti alla scioccante scoperta del fatto che non esiste una soluzione univoca.
Anche in Francia lo establishment culturale è stato colpito da un trauma psicologico dello stesso genere. Come scrive Christopher Guilloy, "Adesso le élite hanno paura. Per la prima volta esiste un movimento che non è controllabile ricorrendo ai meccanismi della politica ordinaria. I gilets jaunes non vengono dai sindacati o dai partiti politici; non possono essere fermati. Non esiste un tasto "Off". L'intelligencija sarà costretta a farsi una ragione dell'esistenza di questa gente, o dovrà propendere per una qualche specie di totalitarismo di velluto."
L'ultima settimana di gennaio 2019 il vertice di Davos è stato messo a rumore da una lettera, che ha conosciuto ampia diffusione, scritta da un gestore di fondi che è diventato un'icona e una sorta di oracolo. Seth Klarman ha inviato un avvertimento perentorio ai propri clienti: la crescente sensazione di divisione politica e sociale che serpeggia per il mondo potrebbe portare a un disastro economico. "Non si possono fare affari come di consueto in mezzo a proteste incessanti, rivolte, serrate e crescenti tensioni sociali," ha scritto citando le proteste dei gilets jaunes in Francia che si sono diffuse in altri paesi d'Europa. "Ci chiediamo quando potranno gli investitori tenere in maggiore considerazione tutto questo", afferma, aggiungendo che "la coesione sociale è una cosa essenziale agli occhi di chi ha un capitale da investire."
La diffusione della lettera di Klarman aggiunge del suo al disagio che si sta diffondendo nello establishment globalista. E alla base di questa sensazione di ansia si trova per la precisione il possibile sgretolarsi di due grandi miti: il mito monetario, e il mito millenarista del Nuovo Ordine Mondiale sorto dai massacri della prima guerra mondiale. Il concetto di guerra eroica e nobile morì con la morte di una generazione di giovani sui campi della Somme e di Verdun. La guerra, eroica non lo fu più. Fu solo un disgustoso tritacarne. Milioni di uomini si erano sacrificati per il "sacro" ideale dello stato-nazione. Il concetto romantico e ottocentesco di stato-nazione "puro" esplose, e ne prese il posto l'idea -alla fine consacrata dalla caduta dell'Unione Sovietica- del Destino Manifesto degli Stati Uniti, la Nuova Gerusalemme che avrebbe rappresentato le migliori speranze dell'umanità per un mondo prospero, meno segnato dalle divisioni, più omogeneo e cosmopolita.
La promessa di una prosperità per tutti facile da raggiungere, forzatamente attuata con mezzi monetari -ovvero con la massiccia creazione di debito- ha rappresentato il corollario di questo allettante, idealistico risultato. Oggi non servono più dati di fatto a sostegno: i mezzi hanno deluso la maggioranza (ovvero i gilet e i cosiddetti "impresentabili") e ora perfino i gestori di fondi dalla fama oracolare come Klarman ammoniscono le presenze assidue di Davos che "i semi della prossima grande crisi finanziaria (o di quella successiva) possono essere identificati nel livello del debito sovrano oggi raggiunto". Klarman espone nel dettagli il modo in cui praticamente tutti i paesi sviluppati si sono indebitati in misura sempre maggiore dopo la crisi finanziaria del 2008; una tendenza che a suo dire può portare la finanza nel panico.
Il signor Klarman è preoccupato soprattutto per il debito statunitense, di quello che può significare per lo status del dollaro come valuta mondiale di riserva e dell'impatto che esso potrebbe in ultima analisi avere sull'economia del paese. "Non esiste modo di sapere quando il debito è troppo, ma l'AmeriKKKa raggiungerà senza dubbio un livello critico superato il quale un mercato del debito fattosi improvvisamente più sospettoso rifiuterà di accordarci prestiti a tassi per noi accettabili," ha scritto. "E quando una crisi del genere colpirà, sarà probabilmente troppo tardi per correre ai ripari."
Questo artificio monetario ha sempre portato a risultati illusori: l'idea che ricchezza vera sarebbe nata da un debito enfiato per decreto, che la sua espansione non avrebbe avuto limiti, che tutto il debito poteva e doveva essere onorato, e che l'eccessivo indebitamento doveva essere risolto indebitandosi ancora di più non è mai stata credibile. Era una fantasia che rifletteva la fede laica in una inevitabile e lineare strada fatta di progresso, un concetto che riecheggiava la credenza millenaristica cristiana del percorso verso una "fine dei tempi" fatta di abbondanza e di pace, credenza da cui peraltro derivava.
Nel 2008 le grandi banche erano a un niente dal collasso. Furono salvate dai contribuenti occidentali perché i rischi di un crollo della finanza furono giudicati troppo gravi dalle élite. Solo che poi anche i soccorritori -i vari paesi sovrani che hanno preso l'iniziativa- hanno a loro volta avuto bisogno di aiuto, e per salvarsi hanno massacrato il welfare e gli ammortizzatori sociali per turare le falle nei loro stessi disastrati bilanci. Questo, dopo aver provveduto a risanare i bilanci delle loro banche.
Il sessanta per cento della gente ha pagato tre volte. La prima con il salvataggio iniziale, la seconda con l'austerità che seguì, la terza quando le banche centrali ripresero le loro politiche di emissioni gonfiate e di depauperamento del risparmio. A fronte di questa ignobile contropartita, quel sessanta per cento prese coscienza della propria impotenza ma si accorse anche di non avere nulla da perdere. Era un gioco che non lo riguardava.
La narrativa di una agevole prosperità basata sul debito è stata quella che ha caratterizzato l'identità dell'Occidente nel corso degli ultimi decenni. >Ci è voluto comunque un outsider per innescare quello che, come ha preso atto con sarcasmo lo Washington Post, è stato il momento più rivelatore del vertice di Davos di quest'anno. Rivelatore, semplicemente perché di una assoluta ovvietà. A un gruppo di lavoro sui fallimenti dell'ordine mondiale Fang Xinghai, vicepresidente della principale agenzia per la sicurezza del governo cinese, ha ricordato con semplicità all'uditorio quale sia il rovescio della medaglia del rullo compressore monetario occidentale: "Dovete capire che la democrazia non sta funzionando molto bene. Nei vostri paesi c'è bisogno di riforme politiche." Ha soggiunto che questo lo diceva "con sincerità".
Accidenti: c'è voluto un funzionario cinese, per dire quello che non si poteva dire...
Comunque, è inevitabile che i danni dovuti al crollo di un mito affermatosi su scala mondiale comincino dalla periferia. Quello che a volte si tralascia è il fatto che le élite, specie negli stati nazionali fittizi messi in piedi dal colonialismo europeo dopo la prima guerra mondiale, non solo hanno definito se stesse in base a una narrativa del "non ci sono alternative" rispetto alla prosperità prodotta ricorrendo al credito, ma si sono anche integrate nella élite ricca cosmopolita internazionale. Ci sono, e ne sono parte integrante. Hanno tagliato le proprie radici culturali, eppure avocano a sé la pretesa di primeggiare nel mondo da cui provengono.
Un esempio di quanto sopra sarebbe quello dei paesi del Golfo. Ovviamente, uno starnuto a Davos significa polmonite per le élite periferiche. E se questa crisi di identità si accompagna ai presagi di una crisi finanziaria che incombe anche sul centro, la polmonite diventa grave. Non c'è da sorprendersi se l'ansia sta montando nelle élite di quella periferia che è il Medio Oriente. Esse sono consapevoli del fatto che qualsiasi crisi finanziaria seria che colpisca il centro nevralgico segnerebbe la loro fine.
Ecco il punto. Il discorso di Mike Pompeo al Cairo non è importante per quello che Pompeo ha detto sulla politica ameriKKKana (ovvero nulla). Piuttosto potrebbe succedere che venga inteso come punto saliente per tutt'altro genere di motivi. Il discorso di Pompeo ha mostrato che la visione di un nuovo ordine mondiale che ha retto per trent'anni era ormai defunta e che di altre visioni non ne esiste alcuna. Niente proprio. Di chiaro c'era che Pompeo stava solo combattendo con armi verbali un'altra battaglia della "guerra civile" ameriKKKana.
Anche John Bolton ha concretamente confermato l'abbandono di questa visione. Dal momento che l'AmeriKKKa non ha nulla da offrire, sta ricorrendo a tattiche di disturbo come sanzionare qualsiasi uomo d'affari o qualsiasi paese che contribuiscano alla ricostruzione della Siria. All'atto pratico, gesti del genere non fanno che turbare ancora di più gli alleati degli USA.
Ancora una volta sfugge una questione importante: la narrativa identitaria delle élite traballa, ma già altre forme culturali e "spirituali" si sono fatte vive per riempirne la nicchia. Come ha già notato Mike Vlahos, i paesi del Medio Oriente non si stanno indebolendo e non stanno andando in malora tanto a causa di concrete minacce fisiche, quanto perché al posto della corrente identità cosmopolita si sono affermate visionoi altrettanto coinvolgenti di tipo locale ed universalistico, spesso in mezzo a un tessuto intricato fatto di attori non statali come Hezbollah, Hashd al Shaabi e gli Houti.
E queste visioni non fondano le proprie istanze sul liberalismo o sulle economie del mondo sviluppato dominate dal consumismo e dallo stato sociale, ma sul riaffermare i punti di forza e la sovranità del loro contesto sociale. E nel loro diritto di vivere secondo le loro (diverse) culture. Esse prosperano laddove maggiore è il bisogno di uno scopo e del ripristino dei valori nella società.
Come i gilets jaunes si stanno rivelando tanto difficili da contenere tramite i normali meccanismi della politica, così anche questi attori non statali connotati dall'alterità hanno eluso il controllo da parte dei meccanismi statali del Medio Oriente che fanno ricorso ai normali sistemi occidentali. Il totalitarismo vero e proprio e quello di velluto si sono rivelati entrambi privi di una piena efficacia.
Il fatto è che siamo davanti a un profondo mutamento nel potere e nella natura del potere stesso. Per la prima volta, un funzionario ameriKKKano ha esplicitamente detto che gli USA non hanno alcuna visione del futuro e che oggi gli USA in Medio Oriente possono comportarsi solo come degli elementi di disturbo. Esatto: i paesi del Golfo hnno sentito l'assordante rumore del vuoto. E anche i paesi che stanno dall'altra parte della cortina, quelli che non sono mai stati parte di questo nuovo ordine mondiale, lo hanno sentito. Non è difficile capire in che direzione stia andando il pendolo.

18 dicembre 2018

Alastair Crooke - Dopo le elezioni di metà mandato Trump continuerà a mettere a rischio il commercio mondiale e la sfera economica del dollaro?



Traduzione da Strategic Culture, 12 novembre 2018.

Le elezioni di metà mandato ci sono state. Non c'è stata nessuna "ondata blu" e il risultato è stato tale che entrambi i principali partiti possono affermare di averle vinte. In concreto nessuno si è imposto in maniera decisiva, e Trump se l'è cavata meglio di quanti pensavano. Piuttosto vi sarà una polarizzazione ancora maggiore a livello popolare, e un'opposizione al Congresso ancora più intransigente. Il che significa maggiori difficoltà per portare avanti il paese, e l'aria di crisi e il clima di assedio attorno alla Casa Bianca si faranno ancora più grevi. La promessa di ulteriori tagli alle tasse adesso sembra una chimera, e lo stesso vale per qualsiasi ulteriore grande aumento alla spesa militare (addio allo sperpero per un altro missile a medio raggio?). Controllare il finanziamento del deficit fiscale statunitense non diventa più facile, e diventa più probabile che l'aumento nei tassi di interesse farà calare la disponibilità di spesa federale con la crescita inesorabile degli interessi di un debito che è arrivato al 106% del PIL statunitense o, se il fenomeno verrà ignorato, porrà le condizioni per una grave crisi nei finanziamenti.
Secondo una vecchia prassi, quando un leader trova ostacoli nella realizzazione del programma di politica interna si imbarca in qualche intrapresa al di là della frontiera, di quelle che a prima vista possono apparire più semplici che non il battagliare con le fragilità della propria legislatura, e che invece spesso si rivelano dolorosamente diverse dal previsto. Dopo le elezioni Trump imporrà qualche cambiamento alla propria linea in politica estera?
Si sa che dapprincipio la politica "alla Times Square" del Pentagono lo ha fatto sentire frustrato; con questa espressione si indica la risposta che il generale Mattis avrebbe rivolto a Trump quando questi, nel corso di un incontro per fare il punto della situazione, gli aveva chiesto perché dopo sedici anni di fallimenti gli USA mantenessero ancora tanti soldati in Afghanistan, perché ce n'erano ancora tanti in Corea e perché gli USA erano ancora presenti in Siria. "Ragazzi, voi volete che mandi soldati dappertutto," avrebbe detto Trump; "ma con quale giustificativo?" Mattis gli avrebbe detto semplicemente che la presenza statunitense in quei contesti era necessaria "per impedire che scoppi una bomba in Times Square... Purtroppo, signore, lei non ha scelta," ha soggiunto Mattis: "la sua sarà una presidenza di guerra".
Trump si è già mosso per sistemare una cosa che lo frustrava da molto tempo: ha chiesto a Jeff Sessions di dimettersi. Sembra che intenda mettere fine alla tiritera del cosiddetto Russiagate. Trump ha ulteriormente inasprito durante la campagna elettorale la propria retorica contro le malefatte economiche cinesi, e Xi ha risposto denunciando la protervia statunitense; ci troveremo ad assistere a qualche mutamento di rotta anche nei confronti della Russia e del Medio Oriente? Le dimissionoi di Session all'indomani delle elezioni di metà mandato segnano il ritorno di una qualche agibilità politica per la distensione con la Russia?
Da Mosca, Dimitri Trenin scrive:
Per questo fine settimana è possibile che a parigi si tenga un breve vertice ai massimi livelli [fra Putin e Trump] e che faccia seguito un più ampio scambio tra qualche giorno a Buenos Aires. In molti in Russia si chiedono perché mai incontrarsi dal momento che tutti i precedenti vertici -quello di Amburgo del 2017 e quello a Helsinki dello scorso luglio- sembra abbiano fatto più male che bene alle relazioni fra Russia e Stati Uniti. C'è chi consiglia al Cremlino di tenersi alla larga dalla Casa Bianca finché c'è Trump, e a non farsi trascinare nella litigiosa e spietata politica interna ameriKKKana. La teoria operazionale che sottende il consiglio sembra essere questa: lasciamo che la guerra civile fredda in AmeriKKKa si sfoghi, e poi riprendiamo i contatti con chi vince le elezioni del 2020. Putin tuttavia appare determinato a continuare gli incontri faccia a faccia con Trump. Perché insistere in un comportamento apparentemente privo di logica?
Le considerazioni di Trenin sono fondate. I russi sono comprensibilmente irritati e frustrati per quella che percepiscono come una litania quasi quotidiana di strampalate asserzioni di ogni genere sulla loro vocazione al Male. La pazienza è finita; perché mai darsi anche solo la pena di replicare. Più concretamente, il pubblico russo sa che Trump sulle sanzioni ha le mani legate. Le sanzioni sono materia quasi esclusivamente per un parlamento ora a maggioranza democratica; inoltre, almeno fino a oggi, Trump è stato incastrato dall'assioma di "Times Square" del Pentagono, e da una fronda di consiglieri neoconservatori ossessionati da una storica avversione a qualsiasi cosa sia russa.
Interessante è la risposta di Trenin a questo paradosso:
L'investimento che il leader russo fa sul presidente degli USA non è gran che dovuto al Congresso o alla politica statunitense nei confronti della Russia, e neppure all'insuccesso o meno del Partito Repubblicano alle elezioni di metà mandato. Per Putin, Trump rappresenta un punto e a capo per la politica estera degli USA. Quello che Putin considera positivo per la Russia è l'elemento di rottura che Trump sta introducendo nel sistema mondiale che gli USA hanno sostenuto dopo la fine della Guerra Fredda.
In altre parole, quello che Putin apprezza è il fatto che Trump è dedito per sua natura allo smantellamento di tutta la panoplia dell'impero ameriKKKano, e con esso, soprattutto, del concetto di egemonia svincolata dalla cultura, cosmopolita e utopistica.
Questo concetto è antitetico alla risovranizzazione e alla via euroasiatica russe e rappresenta dunque un ostacolo fondamentale per l'instaurazione del mondo multipolare caldeggiato da Russia e Cina. Trenin aggiunge: "Trump, per tutte le idiosincrasie e per i suoi comportamenti incoerenti, è [dunque] il leader ameriKKKano più scopertamente favorevole alla Russia in cui Putin possa imbattersi". Più importante ancora di questa ultima considerazione di Trenin  è il modo peculiare con cui Trump intende rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa, che passa essenzialmente da una trattativa individuale fondata sul gioco delle parti: Trump non è più il depositario di un'ideologia globale come ai tempi della Guerra Fredda, e il cosiddetto "interesse nazionale" è sempre soggetto a mutamenti.
Fin qui è tutto chiaro. Ovviamente, la leadership russa non può aver mancato di notare che le bordate a mezzo Twitter di Trump stanno rendendole accessibile l'Europa in un modo mai visto prima, anche se ancora tutto da definire. Insomma, eccoli qui: Trump e Putin sono gente da trattativa. Ma questo non significa che esista qualcosa, che esista alcunché di trattabile su cui possano trattare.
La politica estera di Trump non corrisponde affatto agli interessi dei russi: Trump vuole ristabilire una supremazia statunitense unilaterale, vuole rimettere al suo posto la Cina (che è alleata della Russia), la sua squadra di governo vuole scompaginare i piani per le vie commerciali cui stanno pensando russi e cinesi e mettere loro contro un qualche rivale, vuole intromettersi nelle questioni interne della Corea del Nord, compiervi ispezioni e spedire tutte le sue attrezzature nucleari negli USA a mezzo DHL; Trump vuole rovesciare lo stato iraniano, che è alleato della Russia; i suoi consiglieri vogliono destabilizzare la stessa Siria che la Russia cerca di stabilizzare; la sua squadra vuole cacciare Assad e vuole che i curdi diventino un "progetto" occidentale da usare per indebolire la Turchia e la Siria; Trump vuole servirsi della consolidata influenza dell'Arabia Saudita sugli altri paesi del Golfo e sul mondo sunnita per condurre le ostilità contro l'Iran e per costringere i palestinesi a rassegnarsi ad essere dei cittadini di seconda classe in un dispotico "stato-nazione ebraico". Quali spazi di trattativa offre, un elenco del genere?
Nessuno. Torniamo dunque alla prima questione di Trenin: perché mai impegnarvisi? Il Presidente Putin conosce di sicuro la posta in gioco. Sa anche che l'AmeriKKKa, a furia di sanzionare tutti quanti e di servirsi del dollaro come di un randello e delle sanzioni come di una bomba H sta rischiando scopertamente di far collassare i traffici commerciali mondiali.
Altrettanto scopertamente rischiosa è la possibilità che tutto il mondo rinunci alla considerevole sfera del dollaro, la cui esistenza è servita a finanziare per tutti gli ultimi settant'anni i deficit di bilancio statunitensi. Tutte cose messe a rischio nel tentativo di restituire all'AmeriKKKa il suo ruolo di giocatore unico, quello che ha tutti gli assi in mano.
Si scommette sul fatto che si possa far paura agli altri ricorrendo a un linguaggio da mafiosi. Paura che dovrebbe condurre al rientro in patria dei dollari che si trovano all'estero, al loro ritorno a Wall Street, col conseguente indebolimento o col crollo dei mercati emergenti in primo luogo, e poi con l'estensione del contagio all'Europa come conseguenza del venir meno della liquidità in dollari, dalla periferia fino al centro. A quel punto l'AmeriKKKa, che detta legge alle valute mondiali e può erogare (o non erogare) liquidità in dollari, avrà in mano tutte le carte vincenti per negoziare una riformulazione dei traffici mondiali in senso ad essa favorevole.
Esiste un'antica storia cinese che risale al terzo secolo avanti Cristo. Un ragazzo viene mandato dal suo maestro a catturare una lepre per pranzo. Il ragazzo si dirige in un bosco e appena vi arriva vede una grossa lepre che corre a tutta velocità fra gli alberi. Stupito, il ragazzo vede la lepre che sbatte diritta contro un albero rimanendo tramortita. Non deve fare altro che raccoglierla e portarla tutto contento a casa, direttamente in cucina.
La morale della storia è questa: diventato uomo, il ragazzo passò cinquant'anni accanto allo stesso albero, in attesa che altre lepri ci sbattessero contro. Ovviamente non successe mai; non ci si deve dunque aspettare che la storia si ripeta. Il caso degli USA per certi versi è simile. Dopo la seconda guerra mondiale il resto del mondo è andato a capofitto contro un albero ed economicamente è rimasto tramortito nell'irrilevanza. Gli USA non hanno dovuto fare altro che tirar su il proprio pranzo, che giaceva stecchito al suolo. A settant'anni di distanza un Presidente degli USA sta accanto allo stesso albero, spera che il mondo ci vada contro un'altra volta e resti tramortito battendo la testa contro le sanzioni e contro il venir meno della liquidità in dollari, rimanendo lì a farsi tirar su dagli USA e a farsi portare a casa per pranzo.
Questa allegoria non va intesa alla lettera. Ma la sostanza è questa; Xi e Putin l'hanno afferrata. E se il "mondo" riesce ad evitare l'albero di Trump, è probabile che sarà la situazione fiscale degli USA a prendere fuoco.

Ora, dopo la morte di Khashoggi, è in corso d'opera anche un nuovo progetto per la sistemazione del Medio Oriente. A quanto si dice gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita sono sul punto di normalizzare i rapporti con la Siria del Presidente Assad, con la riapertura delle missioni diplomatiche a Damasco. Una buona notizia per la Siria, certamente. Su questo nessun dubbio. Ma la vicenda ha un suo rovescio. A quanto sembra l'idea è quella di formare una specie di fronte contro i Fratelli Musulmani in cui troverebbero posto una Siria laica, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. In teoria il fronte sarebbe diretto contro i Fratelli Musulmani, ma in pratica il suo obiettivo è la Turchia, con il suo alleato Qatar. Da tempo i turchi hanno denunciato il complotto che si preparava e si sono messi a cercare di sventarlo. E la Turchia non permetterà né ai sauditi né agli USA di servirsi dei curdi dell'est della Siria come di un cuneo puntato contro il suo ventre molle. Sembra che Erdogan sia in un momento fortunato: sta cercando di strappare la leadership del mondo sunnita ai sauditi e l'assassinio di Khashoggi gli ha fornito proprio il destro che gli serviva.
A giustificare questa nuova alleanza, nel caso essa entri davvero in essere, è il solito bromuro buono per tutti i casi: arginare l'Iran e indebolirlo. Ovviamente ci sono delle gravi pecche: perché mai un simile fronte con la Siria dovrebbe d'un tratto indebolire l'Iran? La siria ha a tutt'oggi, e le ha fin dal 1979, relazioni molto strette con l'Iran. Dagli anni venti del XX secolo la Siria in quattro occasioni ha combattuto duramente contro i Fratelli Musulmani, eppure Siria e Iran fanno causa comune con i palestinesi, gran parte dei quali simpatizza proprio con i Fratelli Musulmani. La Siria non si metterà contro l'Iran; gli stati del Golfo hanno già cercato senza successo di corrompere il Presidente Assad perché rescindesse i legami con l'Iran. La Siria non volterà neppure le spalle ai palestinesi, e anche se le relazioni fra la Siria e il Presidente Erdogan sono tese e stanno prendendo la forma di unb confronto diretto, il Presidente Assad sa certamente che i giocatori di maggiore rilievo e gli alleati stretti come la Russia e la Cina hanno parte vitale in qualsiasi "grande gioco" della Turchia, cosa cui la Siria deve fare molta attenzione.
Mosca può accogliere di buon grado i vantaggi tattici che un fronte come questo le permetterebbe di conseguire e al tempo stesso riconoscere il fatto che è improbabile che l'idea abbia successo. La nuova iniziativa nata nel Golfo ha però un significato più profondo, che è necessario cogliere. Per riassumere in due parole una questione molto complicata, si può dire che nella supremazia saudita, storicamente, l'elemento politico è sempre stato marginale. L'Arabia Saudita deve la propria influenza più al controllo che ha dei luoghi santi, e al suo asserito diritto di interpretare il Corano secondo la propria ottica.
Gli stati del Golfo hanno agevolato gli jihadisti wahabiti nel loro tentativo di sovvertire gli stati iracheno e siriano coi più barbari sistemi. Questo li ha costretti a prendere poi le distanze dal bagno di sangue perpetrato dallo Stato Islamico. Mohammed bin Salman tuttavia si è trattenuto dal condannare esplicitamente lo wahabismo dello Stato Islamico e non ha collegato quanto stava accadendo in Siria e a Mossul ai principi dello wahabismo su cui è stato fondato lo stesso stato saudita. Simili critiche sarebbero state assolutamente inaccettabili per lo establishment religioso saudita.
I paesi del Golfo si sono risolti dunque a non esprimere condanne esplicite e ad esortare le parti a mostrare una non meglio definita "moderazione". Con questa storia della "moderazione" l'Arabia Saudita è diventata sotto certi aspetti abbastanza laica, sia pure senza assimilare principi politici laici e senza ricavarne alcun nuovo modello per il regno. Anziché adottare una completa laicizzazione i giovani principi hanno fatto proprio un neoliberismo da scuola aziendale occidentale, cui hanno aggiunto una estrema centralizzazione del potere rafforzata da un apparato repressivo ubiquo e intollerante. Un modello totalitario in stile Singapore. Nel Bahrein per esempio è oggi lecito fraternizzare con cittadini dello stato sionista, ma parlare bene del Qatar costa dieci anni di carcere.
Alcuni paesi del Golfo sono consapevoli dei rischi che comporta questa virata repressiva. Se non altro, l'uccisione di Khashoggi ha per lo meno gettato una luce negativa sulla repressione politica nei paesi del Golfo. I principi non hanno altro modello e la loro "moderazione" non ha portato idee nuove sulla pratica di governo. Di qui la proposta del nuovo fronte su descritto. L'ostilità verso i Fratelli Musulmani è popolare a Washington perché nel contesto del Golfo costituisce un utile diversivo rispetto alla guerra di Trump contro l'Iran, che non c'è modo di vincere. Un fronte che si oppone ai Fratelli Musulmani rappresenta tanto una giustificazione per l'apparato repressivo in patria quanto una piattaforma per dirigere i paesi occidentali contro la Turchia, che protegge, insieme col Qatar, i Fratelli Musulmani.
Il significato più profondo che è necessario cogliere è dunque rappresentato dalle ansie e dalle paure dei paesi del Golfo. I Fratelli Musulmani sono stati indeboliti e frammentati dalla campagna di logoramento lanciata contro di loro e sono stati messi in larga misura in condizioni di non poter reagire; eppure i paesi del Golfo vogliono una nuova offensiva. Chiaramente i fantasmi della Primavera Araba del 2011, che scosse l'autocrazia tribale, turbano ancora i sonni dei re e degli emiri. Hanno paura.
In ultimo, il Presidente Putin potrebbe anche chiedersi se le elezioni di metà mandato porteranno a qualche cambiamento della linea fin qui seguita in politica estera. Sicuramente non ce ne saranno per quanto riguarda la Cina, ma con i neoconservatori così infiltrati in tanti livelli dell'amministrazione Trump l'unico interrogativo non può essere altro che "cosa vorrà dai russi il signor Bolton, ora?".
A Mosca forse si ragiona tenendo presente l'idea che gli USA possono uscire da questa fase scoprendo di non ritrovarsi a essere la potenza egemone che avevano sperato e di essersi invece bruciati le dita scommettendo sulla supremazia del dollaro, con le ambiziose speranze mediorientali di Trump sparite nel nulla, come già successo fino ad oggi in tanti casi. Perché mai il signor Putin non dovrebbe mantenere con pazienza aperto qualche canale con il signor Trump, per quanto la cosa possa risultare impopolare in Russia dal momento che non c'è altro da aspettarsi se non altre sanzioni statunitensi e altre calunnie. Il signor Putin potrebbe aspettare la Quarta Svolta[*], e il relativo sovvertimento politico.


[*] La "fase apocalittica" nelle teorizzazioni politiche di Steve Bannon, N.d.T.


01 dicembre 2017

Alastair Crooke - Va in fumo il piano di Trump per l'Arabia Saudita



Traduzione da Consortium News, 17 novembre 2017.

Aaron Miller e Richard Sokolsky, in un articolo su Foreign Policy, insinuano che "l'aver corteggiato e irretito il Presidente Donald Trump e suo genero Jared Kushner può a buon diritto essere considerato il più notevole successo di Mohammed bin Salman in politica estera." Insomma, è possibile che questo "successo" si riveli anche l'unico.
"Non c'è voluto gran che per convincerli," scrivono Miller e Sokolski; "soprattutto, la nuova brigata è il riflesso di un opportuno coincidere di imperativi strategici."
Trump, come al solito, non voleva altro che distinguersi dal Presidente Obama e da tutto il suo operato; i sauditi erano al tempo stesso decisi a sfruttare la viscerale antipatia di Trump per l'Iran, per rovesciare la serqua di sconfitte recentemente sofferte dal regno.
La posta in gioco che Mohammed bin Salman è sembrato promettere, vale a dire il prendere tre piccioni con una fava (colpire l'Iran, "normalizzare" lo stato sionista nel mondo arabo e un accordo con i palestinesi) è parsa così allettante che il Presidente degli Stati Uniti ha trattato la cosa nei dettagli solo con i canali di famiglia. Insomma, Trump stava facendo uno sgarbo deliberato all'establishment della politica estera e della difesa lasciando i tramiti ufficiali all'oscuro e in preda al dubbio. Trump ha puntato forte su Mohammed bin Salman, e lo stesso ha fatto Jared Kushner in qualità di suo intermediario. Tuttavia, il grandioso piano di Mohammed bin Salman è fallito al primo ostacolo: il tentativo di levare una provocazione contro Hezbollah in Libano, provocazione che avrebbe suscitato una risposta smodata fornendo così allo stato sionista e all'"alleanza sunnita" il sospirato pretesto per passare a vie di fatto contro Hezbollah e contro l'Iran.
Questa prima fase è diventata una telenovela, con lo strampalato rapimento del Primo Ministro libanese Saad Hariri ad opera di Mohammed bin Salman che è servito solo a unire i libanesi invece che a dividerli in fazioni ostili tra loro come si sperava di fare.
Ora, la disfatta in Libano ha una portata che va al di là di quella di una telenovela mal diretta. Il fatto davvero importante che il pasticcio combinato da bin Salman ha fatto emeregere è che non soltanto nessuno si è minimamente scomposto, ma che meno che mai hanno intenzione di agitarsi i sionisti. Stando alle parole del navigato corrispondente sionista Ben Caspit, non intendono assumere il ruolo "del randello agitato dai leader sunniti contro gli sciiti loro nemici mortali... Insomma, nessuno nello stato sionista, e meno che mai il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha fretta di infiammare il fronte settentrionale. Farlo significherebbe essere risucchiati in una situazione infernale." [Corsivo dell'A.]


La sconfitta in Siria

Tanto per essere chiari, la cosiddetta "alleanza sunnita" formata essenzialmente da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con un Egitto che sta già tirandosi indietro, ha appena rimediato una secca sconfitta in Siria. Non ha la capacità di arginare l'Iran, Hezbollah o le Forze di Mobilitazione Popolare irachene -una milizia sciita- in alcun modo che non sia l'agitare il randello rappresentato dallo stato sionista. Lo stato sionista può anche condividere gli interessi strategici dell'alleanza sunnita, ma come sottolinea Caspit, "i sauditi hanno interesse a far sì che lo stato sionista faccia il lavoro sporco al loro posto. Ma è chiaro che non tutti nello stato sionista fanno salti di gioia a questa prospettiva."
Caspit definisce la prospettiva di uno scontro fra l'alleanza sunnita e lo schieramento capeggiato dall'Iran "una vera guerra di Armageddon." Parole che indicano implicitamente le riserve nutrite dallo stato sionista.
Questo rifiuto di agitarsi, come il cane che non abbaiò di notte nel famoso racconto di Sherlock Holmes scritto da Conan Doyle, inficia in qualche modo tutto il piano generale di Kushner: se lo stato sionista se ne chiama fuori, il discorso è chiuso. Lo stato sionista era il randello anche nel piano di Trump. Niente randello, niente azione di arginamento dell'Iran da parte dell'alleanza sunnita, niente progressi sulla normalizzazione dei rapporti fra sauditi e stato sionista, niente inziativa di sionisti e palestinesi. La maldestraggine di Mohammed bin Salman ("sconsideratezza", l'ha definita un funzionario statunitense) ha mandato a pallino la politica statunitense in Medio Oriente.
Perché Trump ha scommesso tanto sull'inesperto Kushner e sull'impulsivo bin Salman? Ovviamente, se un simile piano avesse funzionato si sarebbe rivelato un ottimo colpo in politica estera alla faccia dei professionisti della materia e dei quadri della difesa che ne sono stati esclusi. Nel caso, Trump si sarebbe sentito più libero di mettersi al di sopra delle pastoie degli apparati: i suoi "ispiratori" gli avrebbero permesso di alzare il livello della sua indipendenza e della sua libertà. Sarebbe giunto al risultato tramite i propri canali familiari invece che tramite i consiglieri ufficiali.
Se invece la cosa assume toni farseschi e Mohammed bin Salman comincia a essere considerato negli ambienti statunitensi più un cane sciolto che un Machiavelli, gli apparati che Trump ha calpestato si vendicheranno: le opinioni del presidente verranno considerate poca cosa e avranno ancor più bisogno di giustificazioni e di "ispirazione."
Mohammed bin Salman (e Kushner) possono aver colpito il Presidente Trump in modo anche più grave: aver scommesso sull'inesperto bin Salman e avere perso può ripercuotersi anche in altri campi: come conseguenza, gli alleati degli USA potrebbero mettere apertamente in discussione la correttezza delle opinioni di Trump in merito alla Corea del Nord. Insomma, sarà la credibilità del Presidente degli Stati Uniti a pagare lo scotto dell'infatuazione per bin Salman.


Pii desideri

Il meno che si possa dire è che nell'atteggiamento occidentale nei confronti dell'Arabia Saudita ci sono molti aspetti curiosi, per non dire adulatori; Trump non è l'unico che pende dalle labbra dei sauditi. La stessa idea di un'Arabia Saudita che diventa una potenza regionale assertiva e "moderna" in grado di rimettere l'Iran al suo posto è di per sé poco realistica, eppure è presa per buona da molti commentatori statunitensi. Certo, il regno non ha grandi alternative al trasformarsi dal momento che le rendite petrolifere si avvicinano alla fine, cosa che in teoria potrebbe senz'altro indirizzare il paese verso un nuovo corso.
Solo che indicare con precisione in che modo il regno possa reinventarsi senza andare in pezzi è probabilmente molto più complicato che non invocare un qualche superficiale accoglimento di una "modernità occidentale" o di combattere "la corruzione". Questi sono specchietti per le allodole; la famiglia regnante è essa stessa lo stato, e lo stato -ricchezze petrolifere comprese- appartiene alla famiglia regnante. Gli appartenenti alla famiglia regnante godono di privilegi e di prerogative per nascita a seconda della vicinanza o della lontananza dal trono. Queste prerogative vengono accordate o riconosciute soltanto nella misura in cui servono al monarca per puntellare il proprio assolutismo. In questo sistema merito ed equità non esistono nemmeno a livello di intenzione.
Cosa significa allora corruzione in un sistema come questo? L'Arabia Saudita non fa neanche finta di essere un terreno in pari, in cui si gioca secondo determinate regole. La legge e le regole le enuncia o le firma il re, giorno per giorno.
Ai tempi in cui l'Europa mostrava apprezzamento per un tale sistema assolutista, il vocabolo "corruzione" aveva un significato abbastanza chiaro: mettere i bastoni tra le ruote al re. "Corruzione" non significava altro. Se il mondo pensa che Mohammed bin Salman stia portando l'Arabia Saudita verso la modernità occidentale, deve tenere presente anche che bin Salman sta preparandosi a buttare a mare la famiglia, con i suoi quindicimila principi di sangue reale, o che sta andando verso un assetto da monarchia costituzionale e verso un modello di società basata sullo stato di diritto; una società di cittadini, non di sudditi.
Di tutto quello che bin Salman sta facendo, nulla fa pensare che si stia muovendo in questo senso. Anzi, il suo operato indica che intende recuperare e restaurare l'aspetto assolutista della monarchia. E la modernità che sta cercando è del tipo che si può comprare praticamente pronta per l'uso, quella che basta tirarla fuori dalla scatola e montarla. Insomma, la sua idea è quella di comprarsi una base industriale pronta in kit di montaggio, e rimediare all'inaridirsi delle rendite petrolifere.
Secondo il piano Vision 2030 questa base industriale ben confezionata e altamente tecnologica dovrebbe portare mille miliardi di dollari di profitti all'anno... se tutto va bene. L'industrializzazione è intesa come fonte sostitutiva di reddito a sostegno della famiglia reale, non per privarla delle sue prerogative. Non si tratta dunque di un qualche cosa di "riformista" secondo il concetto occidentale di modernità intesa come uguaglianza davanti alla legge e come tutela dei diritti.


Speranze fallaci

Questo modo di fare industrializzazione, non calato nel contesto e implementato rapidamente, non è facile da conciliare con la società. A meno che non ci si chiami Stalin. E' costoso e, come la storia insegna, è deleterio sul piano sociale e su quello culturale. Costerà molto di più degli ottocento miliardi di dollari che Mohammed bin Salman spera di "recuperare" da quelli che ha fatto arrestare, ricorrendo alla coercizione fisica: già diciassette di essi sono finiti in ospedale per i maltrattamenti sofferti in detenzione.
Se non si tratta di occidentalizzare l'economia, perché tanti appartenenti di prima importanza alla famiglia reale devono "togliersi di mezzo"? Questo aspetto del piano ha forse a che fare con il motivo per cui bin Salman ha tanto desiderato sedurre e irretire il Presidente Trump, per dirla con Solkosky. Su questo, bin Salman dice la verità: a Trump ha confidato che intende ripristinare l'antica grandezza del regno, tornare ad essere il leader del mondo sunnita e il custode dell'Islam. Per questo motivo l'Iran per primo e la riscossa sunnita devono essere ricacciati in uno stato di subordinazione alla supremazia saudita.
Il problema è che qualcuno, nella famiglia reale, si sarebbe opposto a un simile avventurismo nei confronti dell'Iran. Bin Salman sembra stia comportandosi secondo una linea simile a quella dei neoconservatori statunitensi: come sostiene Kristol, una "egemonia benevola" è come una frittata che non si può fare (o rifare) senza rompere qualche uovo. Come hanno notato Miller e Sokolsky, a convincere Trump "non ci è voluto molto": la visione di Mohammed bin Salman combacia con le sue stesse priorità, e l'avversione verso l'Iran è la stessa. Puntuale, Trump ha espresso su Twitter il suo appoggio al giro di vite contro la "corruzione" in Arabia Saudita.
Ed ecco il terzo pilastro del piano: lo stato sionista sarebbe il "randello" dell'alleanza di Arabia Saudita, Emirati e USA contro l'Iran; l'esca per farlo entrare in azione doveva essere Hezbollah. In cambio l'Arabia Saudita si sarebbe attivata per il riconoscimento dello stato sionista, che a sua volta avrebbe concesso "qualcosa" ai palestinesi: un "qualcosa" che si potrebbe anche definire uno stato anche se di fatto era assai meno. Gli USA e l'Arabia Saudita avrebbero di comune accordo fatto pressione sui palestinesi per far loro accettare la proposta statunitense di arrivare ad un "accordo".
Perché è andata così male? Le aspettative su quello che ciascuna parte poteva mettere davvero in atto sono state esagerate. Ciascuno ha creduto all'altrui retorica. C'è stata l'infatuazione ameriKKKana per la regalità saudita, ci sono stati i legami familiari tra Kushner e Netanyahu. Ci sono stati i pii desideri di Kushner e di Trump, che avevano visto in Mohammed bin Salman lo strumento per la restaurazione del regno saudita come "poliziotto" degli USA nel mondo islamico, e persino dell'ordine ameriKKKano in Medio Oriente.
Forse Jared Kushner ha creduto a Bibi Netanyahu quando ha fatto intendere che la normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita e stato sinista sarebbe stata contraccambiata con concessioni ai palestinesi; di fatto, il consiglio di sicurezza dello stato sionista ha già messo il veto alle concessioni di cui si discuteva a questo proposito, peraltro ben lontane dall'essere uno stato vero e proprio.
Forse Jared ha creduto a Mohammed bin Salman quando ha asserito di poter mobilitare il mondo sunnita contro l'Iran, se l'AmeriKKKa e lo stato sionista lo avessero sostenuto... in un momento in cui persino l'Egitto si è opposto alla destabilizzazione del Libano.
Forse Mohammed bin Salman ha creduto che Trump parlasse in nome dell'AmeriKKKa quando gli ha offerto il proprio sostegno, mentre in realtà parlava solo in nome della Casa Bianca.
Forse Mohammed bin Salman ha pensato che Trump avrebbe esortato l'Europa a muoversi contro Hezbollah in Libano e gli europei invece hanno messo al primo posto la stabilità libanese.
Infine, è possibile che Mohammed bin Salman e Kushner abbiano pensato che Netanyahu parlasse a nome dello stato sionista quando ha promesso di partecipare al blocco contro Hezbollah e contro l'Iran. Era questo il grandioso piano su cui hanno concordato Netanyahu e Trump il giorno prima che Trump a settembre lanciasse dall'ONU le sue bordate contro l'Iran? Un qualsiasi Primo Ministro dello stato sionista può combattere contro i palestinesi a mani relativamente libere, ma questo non è vero in quei casi in cui lo stesso stato sionista viene ad essere messo a repentaglio. Nessun Primo Ministro dello stato sionista può impegnarsi in un conflitto potenzialmente minaccioso per l'esistenza dello stato senza avere un ampio sostegno da parte del mondo politico e militare del paese. E questi sono ambienti che prevedono la guerra solo quando chiaramente confacente agli interessi dello stato sionista, non quando c'è da compiacere un bin Salman o il signor Trump.
Ben Caspit e altri editorialisti sionisti confermano che lo establishment dello stato sionista non pensa che una guerra contro Hezbollah e il rischio che il conflitto si allarghi facciano l'interesse del paese.
Le ricadute di quanto successo sono molto significative. E' emerso che al momento attuale lo stato sionista si guarda bene dal prendere in considerazione una guerra in Medio Oriente, come illustrato da Caspit. L'accaduto ha sottolineato anche l'inconsistenza delle ambizioni di Mohammed bin Salman su un'alleanza sunnita da contrapporre all'Iran, e ha tagliato le gambe alla politica di contenimento dell'Iran del Presidente Trump. Almeno per adesso ci si deve attendere che Iran e Russia rafforzeranno lo stato in Siria, e stabilizzeranno il quadrante nord. La "guerra di Armageddon" di Caspit magari arriverà anche, ma forse non adesso.

28 maggio 2014

Gli Stati Uniti e i miti della Guerra Fredda. La fine dell'unipolarismo yankee secondo Conflicts Forum



Traduzione da Conflicts Forum.

E' un'estate di rabbia quella che ci attende? Parrebbe di sì. La situazione geopolitica e strategica si mette al brutto, con tensioni che si inaspriscono e arrivano al limite di sicurezza su vari fronti. L'imprevedibilità della volatile e caotica crisi in Ucraina continuerà ad essere il fattore scatenante di un eventuale confronto tra Stati Uniti e Russia; sarebbe un conflitto "non voluto ed inutile", come il Primo Ministro russo Dimitri Medvedev ha notato con amarezza, da filoatlantista convinto.
L'AmeriKKKa vuole isolare e sanzionare la Russia e al tempo stesso sta mostrando ostilità passiva nei confronti della Repubblica Popolare Cinese; funzionari di quel paese sono stati accusati, fra le altre cose, di crimini informatici. Tutto questo alla fine ha fatto sì che Putin si rivolgesse strategicamente verso la Cina. Nonostante l'aprioristico scetticismo occidentale, sembra che le vicende di un'Ucraina in bancarotta, che di per sé sarebbero anche irrilevanti, si riveleranno la goccia che fa traboccare il vaso dell'ordine mondiale postbellico. D'un colpo solo potrebbero portare ad un asse Russia - Cina, ad un'alleanza che si oppone al monopolio statunitense sull'ordine mondiale e sul sistema finanziario; sarebbe la fine per le triangolazioni statunitensi con cui l'AmeriKKKa è stata in grado di mettere una potenza contro l'altra.
L'enorme contratto in materia di gas naturale siglato tra Russia e Cina non cambierà la situazione dell'energia in Europa; il gas per la Cina arriva per lo più dalla Russia orientale, mentre quello destinato all'Europa proviene dalle regioni occidentali del paese. Ad essere significativo per l'Europa è piuttosto il tipo di valuta utilizzata per i contratti, e se la Russia intenda o meno collegare il proprio nuovo ed ipotetico sistema di accordi finanziari al sistema cinese Union Pay che è già in essere. Il secondo istituto bancario della Federazione Russa ha già siglato un accordo con la Bank of China che comporta l'aggiramento del sistema internazionale oggi vigente. Il contratto sul gas stretto da Cina e Russia sembra concretizzare la volontà dei due paesi di allontanarsi da un sistema finanziario dominato dagli Stati Uniti; se così fosse, la portata delle implicazioni sarebe molto vasta.
Il Presidente Obama ha l'istinto e l'intelligenza necessarie ad avvertire il surriscaldamento dell'ordine geopolitico oggi dominante e comprende meglio di molti altri i rischi che questo comporta; il problema è che politicamente si trova sulla difensiva, a causa delle forti pressioni che subisce in patria. Di conseguenza deve mostrare ossequio verso la mitizzata vittoria ameriKKKana nella Guerra Fredda, e lo deve fare a fronte del fatto che le contromisure russe in Crimea ed in Ucraina hanno suscitato negli Stati Uniti reazioni emotivamente forti.
Scrivendo sulla più specifica questione dei negoziati con la Repubblica Islamica dell'Iran, Trita Parsi sottolinea fin dall'inizio che "in quello che è probabilmente il costrutto mitologico centrale della Guerra Fredda, il Presidente John  F. Kennedy si dice abbia rimesso al suo posto Nikita Khruschev durante la crisi dei missili a Cuba e che abbia rifiutato di cedere di un millimetro... costringendolo alla resa... [Nella visione ameriKKKana dei fatti] Khruschev cedette tutto, e Kennedy non cedette niente. In realtà, ovviamente, Kennedy arrivò ad un compromesso. Gli Stati Uniti poterono evitare un confronto nucleare con l'Unione Sovietica soltanto ritirando senza tanto chiasso i loro missili Jupiter dalla Turchia". La concessione fatta da Kennedy rimase segreta per decenni e al momento in cui fu resa nota il mito era diventato così forte e così imponente che la verità non poteva certo scalfirlo. Secondo Leslie Gelb del Council for Foreign Relation "questa falsità è diventata il sottinteso della prassi abituale degli Stati Uniti d'AmeriKKKa da quel momento in poi: non si fanno compromessi, si mettono gli avversari con le spalle al muro e li si costringe alla resa". Obama ed altri miscredenti come Dempsey possono anche prendere in considerazione una visione più sfumata delle potenzialità ameriKKKane, ma dal punto di vista politico sono per forza prigionieri di questa pervasiva mitologia.
Il popolo russo ha di questa fondamentale crisi dei missili a Cuba una visione tutta sua, e molto differente. I russi non credono affatto che l'URSS abbia capitolato, né all'epoca della crisi dei missili né in altre occasioni in tutto il tempo che è durata la Guerra Fredda. La maggior parte dei russi non crede di esser stata battuta dai superiori meriti dell'AmeriKKKa e del suo modello sociale (si veda questo nostro commento). Come nel primo dopoguerra i tedeschi incolparono di tutto gli accordi di Versailles, così i russi provano risentimento verso la situazione venutasi a creare dopo la Guerra Fredda e verso il fatto di esser stati trattati come un popolo sconfitto.
L'esperto francese Philippe Grasset ha correttamente notato che con i dovuti distinguo la stessa cosa si può dire della Cina. Secondo la sua opinione in Cina "si vive la sensazione di dover affrontare tensioni antagonistiche cui non è possibile resistere, e che né la Cina né la Russia siano in possesso di qualche soluzione che possa mitigarne gli effetti. Sa Iddio se cinesi e russi non farebbero di tutto pur di evitare il confronto. Ma nulla, assolutamente nulla pare aiutarli in questo".
Pare che le minacce che la Russia deve affrontare oggi abbiano spinto all'azione entrambi i paesi: da una parte siamo arrivati all'accordo trentennale sul gas, tante volte rinviato; dall'altra parte abbiamo il generale Fang, che in maniera del tutto inusuale per un funzionario cinese (per giunta spesso ospite a Washington) parla fuori dai denti per condannare il coinvolgimento statunitense nella mediazione sulle dispute territoriali nel Mar Cinese meridionale, dicendo con fermezza a Washington "Noi [cinesi] non combiniamo guai. Non siamo noi a crearne. Ma se del caso, non ci fanno neanche paura". Tutto questo ha indotto Forbes a citare alcune altre analisi condotte da fonti ben informate, e a scrivere che "Sta nascendo un'alleanza tra Russia e Cina; per l'Occidente sarà un disastro".
"Negli ultimi due decenni i liberali russi non hanno fatto che ripetere ai loro interlocutori occidentali che fare troppe pressioni sulla Russia o ignorare i suoi interessi vitali avrebbero spinto Mosca a stringere maggiormente le proprie relazioni con la Cina", scrive Dimitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center, aggiungendo la constatazione che tutti questi avvertimenti sono stati ignorati. "[Adesso] alle prese con le pressioni geopolitiche a guida statunitense in Europa Orienale e nell'est asiatico, è probabile che Russia e Cina finiranno per cooperare ancora più strettamente... a trarne benefici sarà la Cina, ma anche la Russia avrà la possibilità di sottrarsi alla pressione geopolitica statunitense, compensare il mutato orientamento energetico europeo, sviluppare la Siberia e l'Estremo Oriente russo e costruire legami con la regione Asia-Pacifico. I liberali russi che sono sopravvissuti agli anni Novanta [i filoatlantisti] si faranno le ultime risate prima di declinare definitivamente."
I legami con la situazione in Medio Oriente stanno proprio qui, nelle ultime amare risate dei liberali in via di estinzione. Anche in Medio Oriente infatti l'estate si annuncia lunga. E calda. L'amministrazione statunitense consentirà l'invio in Siria di ancora più armi, anche se non crede che in questo modo raggiungerà l'obiettivo che si era prefissa, ovvero la sconfitta dei ribelli jihadisti takfiri. Il trovare una soluzione purchessia alla crisi siriana nel suo complesso è argomento di cui negli USA non si parla neanche più. E destinare altre armi a quel teatro è tutto quello che si intende fare per spuntare un po' le critiche di chi, dal fronte interno, accusa l'AmeriKKKa di essersi mostrata debole con la Siria. Questa "debolezza" mal si accorda con il mito dei tempi della Guerra Fredda, con l'AmeriKKKa che "pretendeva ed otteneva".
La corretta comprensione della situazione da parte delle alte sfere si riflette invece con maggiore chiarezza nell'impegno che essa dedica a quella che adesso è una priorità collaterale: far sì che l'esercito e le istituzioni siriane rimangano intatte e funzionanti.  Questo ci fa capire che i responsabili della linea politica statunitense sono dell'idea che solo l'Esercito Arabo Siriano possa sconfiggere gli jihadisti -cosa che sta effettivamente succedendo- e che mandare altre armi ai "moderati" serve soltanto ai fini della manfrina politica, nonostante la spettacolosa quantità di sofferenze autentiche che esse potranno causare al popolo siriano. I "moderati" della Siria avranno avuto tutte le ragioni di comportarsi con sempre maggiore cinismo, prima di esser fatti sparire come "perdite collaterali" all'interno del nuovo e più grande piano messo in piedi dagli USA per sconfiggere gli jihadisti.
Nel caso dei negoziati tra Iran e "cinque più uno" ci sono alcune similitudini con l'atteggiamento che Russia e Cina hanno adottato per affrontare la "prassi abituale" degli Stati Uniti, ma anche alcune differenze. Anche qui la maggior parte delle cose fa pensare all'approssimarsi di un'estate di rabbia, ed anche qui è verosimile che si arrivi ad un riallineamento strategico; anzi, ci sono riallineamenti già in atto, a volerla dire tutta. In Iran si pensa in linea generale che quanto più a lungo dureranno le tensioni in Ucraina, tanto più la crisi si rivelerà un vantaggio per l'Iran e per i suoi interessi.
A Washington, invece, in tanti invece leggono i fatti in modo opposto. Ed è anche ovvio. La crisi in Ucraina, ovvero l'isolamento della Russia, costituisce per l'Occidente l'occasione per allontanare l'Iran dall'orbita russa e quindi per ampliare e approfondire la condizione di "isolamento" della Russia.
Questo "isolamento" della Russia, dato per scontato, è più un desiderio che un dato di fatto; la concezione sbagliata che lo sottende, e che vede nell'Ucraina una "opportunità" di influire geostrategicamente sull'Iran rappresenta un'altra mina destinata a deflagrare in estate.
Quello che valeva per la Russia, nel mito in cui Khrushev capitolava senza alcuna contropartita, oggi vale per l'Iran. Come scrive Parsi, "al giorno d'oggi è stata messa in cantiere l'edificazione di un altro mito altrettanto distruttivo". Questo mito afferma che la morsa delle sanzioni ha messo in ginocchio l'Iran costringendolo ad accorrere al tavolo dei negoziati per mendicare un po' di misericordia. In questa narrativa i progressi compiuti nei colloqui sul nucleare vengono attribuiti alle pressioni economiche senza precedenti esercitate dall'amministrazione Obama, che di fatto hanno espulso l'Iran dal sistema finanziario internazionale. Come JFK prima di lui, Obama con l'Iran non è sceso a compromessi. Ed ecco nuovamente soddisfatto il mito [che caratterizza la prassi ameriKKKana]". Lo scritto di Parsi prosegue spiegando per esteso come mai il mito delle sanzioni che avrebbero costretto l'Iran alla trattativa è privo di fondamento.
La narrativa ameriKKKana non intende nulla che non sia l'aver "costretto alla resa" i politici iraniani, e aver ridotto gli iraniani al rango di "popolo sconfitto". E forse su questo punto è stata aiutata da certi iraniani in buona fede, che magari volevano rendersi utili ma che hanno finito per provocare in ultima analisi il fallimento dei colloqui ed anche della politica che volevano portare avanti.
Esiste una visione dei fatti portata avanti dai liberali iraniani, che ha avuto vasta eco negli Stati Uniti e soprattutto in Europa. Secondo questa prospettiva, a dispetto delle frodi elettorali subite nel 2009 il campo riformista sarebbe stato in grado di realizzare un nutrito ritorno sulla scena soprattutto grazie ad un inatteso colpo di fortuna. I conservatori si sarebbero impegnati in massa in un "voto strategico" malamente congegnato, una strategia di voti incrociati che avrebbe finito per ritorcersi contro di loro. In altre parole, i riformisti vengono presentati come "verdi", filooccidentali, pragmatici in campo economico... gente con cui l'Occidente deve per forza arrivare ad un accordo. A loro stesso modo di vedere è l'Occidente ad avere interesse ad accordarsi, perché un negoziato sul nucleare coronato da successo permetterebbe ai filoatlantisti di prendere il potere a Tehran e di rimanere insediati per una decina d'anni o giù di lì.
A dir la verità molti di quelli che avanzano simili pretese e che hanno di sicuro entrature a Tehran sono in buona fede, e credono che comportarsi secondo questa linea permetterà all'Iran di stringere quegli accordi che in ultimo porteranno alla fine delle sanzioni, e permetteranno a loro e ai loro colleghi di adottare stili di vita migliori e più cosmopoliti. Ma i difetti di questa narrativa sono evidenti: i dati su cui essa fa affidamento per difendere la propria tesi di una "riscossa strategica dei riformisti" (i sondaggi dell'Università di Tehran) arrivano dallo stesso affidabile istituto di sondaggistica che aveva a suo tempo dimostrato che Ahmadinejad aveva vinto le elezioni a buon diritto e senza frodi.
Soprattutto, cosa ben più grave, questa narrativa sta in piedi perché polarizza a forza la politica iraniana in due campi contrapposti, confondendo i Verdi (gravemente screditati dopo il 2009) con i Riformisti. I Riformisti di oggi, per la maggior parte, non sono Verdi. I Riformisti comprendono uno spettro molto più ampio di orientamenti politici e di correnti diverse, e non sono affatto di inclinazione filoatlantista, come potrebbe suggerire la visione dei fatti che considera Rohani come il frutto del "compimento del percorso iniziato nel 2009". In concreto gli stessi sondaggi che si usano per mostrare la vittoria di Rohani sui conservatori mostrano anche -in modo più significativo- il suo ottenere sostegno dai Principalisti, in misura sempre più ampia man mano che la data delle elezioni si avvicinava. Il Presidente Rohani non è un riformista; ha ottenuto un sincero ed ampio sostegno da ogni parte. L'affermazione che la sua ascesa nasce dall'operato della dissidenza verde del 2009 come se ne fosse una conseguenza ha alla base un'idea troppo polarizzata delle forze politiche in campo, rischia di causare mala informazione, e dunque di suscitare mal riposta fiducia. Gli osservatori ben informati possono notare per conto proprio che il governo attualmente in carica in Iran non nasce dal movimento Verde: sostenerlo significa soltanto esacerbare i sospetti di doppiezza.
La narrativa "liberale", in poche parole, è quella del "per favore, aiutateci ad aiutarvi"; proprio come quella che Al Fatah ha usato per tanto tempo con i sionisti. A preoccupare maggiormente dovrebbe essere il fatto che a dispetto delle buone intenzioni che la animano essa finisce col dare agli interlocutori occidentali l'impressione che i negoziatori iraniani stiano disperatamente cercando di arrivare ad uno straccio di accordo. Il pericolo in questo caso sta nel mito che sostiene che "aver messo gli iraniani con le spalle al muro" fino a costringerli a negoziare possa trarre ulteriore vantaggio dal considerarli deboli e disperati. Da questo punto di vista non c'è da meravigliarsi del fatto che gli ameriKKKani stiano irrigidendo le loro posizioni.  In realtà è più facile che ulteriore intransigenza verso l'Iran si riveli un segno di debolezza più di quanto non lo sarebbe qualche "comprensiva" concessione da parte degli Stati Uniti. In questo modo, la questione del "non consentire all'Iran di raggiungere in breve tempo la potenzialità di fabbricare un ordigno nucleare" cambierà gradatamente, come sostengono al New York Times, fino a diventare una posizione in cui si concede all'Iran solo un arricchimento di portata simbolica, sufficiente perché i negoziatori possano accampare il (falso) merito di aver tutelato il diritto dell'Iran all'energia nucleare, ma non sufficiente a far sì che la produzione energetica corrisponda alle necessità del sistema industriale del paese.
Tutto questo non funzionerà, punto e basta. Non porterà ad una soluzione perché tutto questo è incompatibile con l'arricchimento su scala industriale di cui l'Iran ha bisogno per la produzione di elettricità, dunque i colloqui non falliranno perché ci sono i conservatori che si oppongono per principio a qualsiasi negoziato con gli USA. Chi si oppone ai negoziati in corso non rifiuta di principio le trattative con l'AmeriKKKa, ma rifiuta di trattare sulla base dei termini e dell'orientamento di fondo che i colloqui hanno avuto fino ad oggi (cfr. qui).
Da questa ricostruzione manca un elemento. La cosa non stupisce, perché esso resta nascosto dalla visione che abbiamo analizzato nei dettagli. Come i russi che invocavano migliori relazioni con l'AmeriKKKa e l'Europa hanno visto man mano mancarsi la terra sotto i piedi, fino a trovarsi ai margini della scena politica russa con il trascorrere degli anni, anche in Iran (e in Cina) qualcosa di paragonabile sta spingendo gli iraniani in generale a vedere di buon occhio il fatto di avere legami strategici più stretti con la Russia e con la Cina. Comune ai tre paesi è l'incapacità di trovare il modo di evitare di fare da bersaglio ad un'AmeriKKKa che sta tentando senza soste di riattualizzare i miti della Guerra Fredda, man mano che diventa sempre più chiaro come i filoatlantisti e i liberali stiano venendo indeboliti e marginalizzati in tutto il mondo non occidentale e nella stessa Russia.
Ai russi non interessa più coltivare migliori rapporti con gli Stati Uniti. Ecco per quale motivo la maggior parte degli iraniani pensa che la situazione in Ucraina torni favorevole ai loro interessi: sanno che le conseguenze di questa crisi si tradurranno in un più solido sostegno ed in legami  strategici più stretti con la Russia e con la Cina. Esiste già qualche segnale che indica come gli eventi stiano già spingendo Russia e Cina a sostenere in misura maggiore l'Iran e le sue posizioni: RIA Novosti ad esempio scrive che in Russia si ha in progetto la costruzione di altri otto reattori nucleari in Iran.
E se i colloqui dovessero fallire, sarà l'Iran ad esserne incolpato? Le sanzioni rimarranno in vigore così come sono? La risposta, quasi certa, è "no" in entrambi i casi anche se ovviamente Stati Uniti ed Europa incolperanno l'Iran di tutto. In ogni caso, un completo fallimento dei colloqui influenzerà profondamente l'atteggiamento del Medio Oriente nei confronti dell'AmeriKKKa e del "cinque più uno" e contribuirà ad ancorare l'Iran, la Siria ed anche altri paesi a qualunque polo emergente che sia in grado di guidare la lotta contro l'unipolarismo AmeriKKKano che sta cercando di ripetere all'infinito i miti della Guerra Fredda.