Per i gazzettieri agosto è un mese molto parco di argomenti. O meglio, di argomenti ce ne sarebbero quanti se ne vogliono, ma per chi fa giornata riempiendo gli spazi tra una pubblicità e l'altra e sperando che il Dipartimento per l'Editoria non perda in generosità è meglio annàcce cor bemollo, come avrebbe scritto il Belli, e non pestare troppi calli.
La divorante e deliberata deindustrializzazione della penisola italiana ha avuto d'altronde diverse conseguenze. Soprattutto al di fuori del palinsesto dei mass media e dell'agenda delle gazzette, che con la realtà hanno un rapporto che si potrebbe definire piuttosto libero. Ha finalmente tappato la bocca ai sindacati -che hanno roinàho l'ihàglia, lo sanno tutti- e messo a disposizione dei padroni una quantità impressionante di mano d'opera a costi ridicoli; di contro ha contribuito a instradare molte persone verso una piccola imprenditoria di esercizi commerciali che durano lo spazio di un mattino, di startup -che è il nome socialmente decoroso di quanti fanno il giro delle banche col cappello in mano- di "servizi" opinabili se non peggio, e soprattutto di posti dove si cuoce roba, o per lo meno la si taglia in piccole parti prima di metterla nei piatti. Si cuoce roba, o per lo meno la si taglia in piccole parti prima di metterla nei piatti, e si cerca di venderla a un prezzo che va dalle sette alle venti volte quello che vale. Un'esperienza che dipende da location, premium, valore aggiunto e altre cose irritanti che contribuiscono in ogni caso a concretizzare tentativi -per lo più ridicoli- di drenare ulteriore denaro. Una cosa che infastidisce ancora di più quando si rifà al ricordo di antiche spartanità elegiache e vite avventurose mai viste nemmeno in foto: osterie domenicane, locande del viandante, covi di bucanieri e via cianciando.
Di quello che sono stati capaci di fare (e magari di pretendere) col succo di frutta fermentato abbiamo già scritto.
Ad accomunare tutto l'aggregato, la convinzione maturata chissà dove, chissà come e chissà perché che il bacino di potenziali clienti disposti a spendere centinaia di euro per qualcosa che in capo a qualche ora finisce nella fossa biologica sia inesauribile.
Di quello che sono stati capaci di fare (e magari di pretendere) col succo di frutta fermentato abbiamo già scritto.
Ad accomunare tutto l'aggregato, la convinzione maturata chissà dove, chissà come e chissà perché che il bacino di potenziali clienti disposti a spendere centinaia di euro per qualcosa che in capo a qualche ora finisce nella fossa biologica sia inesauribile.
Sul piano gazzettiero la cosa è stata ben accolta, con interi numeri dedicati al lifestyle e al gusto. Solo che le vendite delle gazzette vanno a rotta di collo, cartaceo o digitale che sia, e sarebbe interessante valutare quanta influenza vi abbia la decisione di trattare temi del genere con una cadenza che rasenta la monografia; chissà perché qualcuno dovrebbe separarsi da del denaro per leggere di qualche milanese che vorrebbe imporre con autorevolezza il valore aggiunto della location premium con cui è decisissimo a vendere pasta scondita a trenta euro la porzione. E a separarsi da altro denaro dopo qualche tempo, per compartecipare allo scoramento dello stesso milanese che frigna perché non ci è riuscito. L'insofferenza velenosa che tanti ben vestiti nutrono nei confronti di chiunque non si affretti a corrispondergli cifre ragguardevoli per succo di frutta fermentato e roba cotta fa capire che si tratta di esborsi dovuti, di patenti per l'accesso alla società civile ancora prive di imposizione formale e delle relative sanzioni solo per un malaugurato accidente burocratico.
Insomma, bene che vada il rischio d'impresa è tutta colpa tua.
Ah, e dei sindacati.
E dei giovani che non vogliono lavorare (e ci sarebbe da stupirsi del contrario).
E dei comunisti.
Ovviamente per documentarsi sulla pratica che c'è dietro a tante teorie -pardon, theorie- non occorre essere esperti di marketing. Non occorre nemmeno comprare le gazzette.
Chi scrive ha un aneddoto da aggiungere in proprio, che a differenza della roba delle gazzette il rapporto con la realtà lo ha piuttosto stretto e che rappresenta solo uno dei motivi per cui ritiene i ristoranti dei luoghi da frequentare il meno possibile.
Anni fa ci recammo a cena in un locale sulle colline del Chianti fiorentino.
Un tale che diceva di essere un amico -e finché lo dice soltanto va anche bene- aveva rilevato da tempo una bottega di alimentari e ne aveva fatto un ristorante piuttosto rinomato; turisti nordeuropei molto presenti nella clientela, ottime recensioni, locale curato eccetera.
A notte, al momento del conto, gli dicemmo che ci aspettavamo di fare una buona dormita; avremmo avuto, l'indomani, una giornata piuttosto impegnativa.
Ne avemmo in cambio un'occhiata di sufficienza e l'asserzione che non si capiva da cosa ci si dovesse riposare, visto che non facevamo una sega tutto il giorno.
Parole testuali.
Parole testuali.
Gli mettemmo in mano il centinaio e più euro che gli stakhanov della cucina si erano duramente sudati maneggiando un'affettatrice e un coltello da formaggi (lui stava in sala, in cucina neanche ci aveva messo piede e la cena era stata per lo più a base di assaggi di salumi e pecorini), salutammo e ce ne andammo.
Poi vennero il 2020 e la pandemia, che costrinse la vita sociale a limiti molto rigidi.
Gli si saranno seccati i cespiti?
L'impresa avrà barcollato?
Moglie, figli ("Sta' diritto", "A me mi non si dice" e "Questa casa non è un albergo". Pare quasi di sentirlo, povero brambilla) e tutto il resto si saranno rivelate declinazioni di un unico concetto, quello di soldi in uscita?
Non riusciamo davvero a impietosirci.
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