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12 maggio 2015

Alastair Crooke - L'intervento saudita in Yemen va verso il fallimento. In Medio Oriente la bilancia del potere pende verso Est.



Traduzione da Huffington Post.

L'Arabia Saudita ha annunciato la fine della campagna militare nello Yemen, eppure gli attacchi aerei contro Ansar Allah e contro le formazioni dell'esercito yemenita alleatesi con l'ex Presidente Saleh continuano, sia pure su scala minore. Senza la minima ironia un giornale saudita ha titolato "missione compiuta". Cosa sta succedendo, insomma?
Tutti i dettagli non li conosciamo, ma è chiaro che c'è voluto un grosso sforzo diplomatico per far smettere l'Arabia Saudita di agire in totale rimessa. Una rimessa che comprende anche le immagini di civili morti nei bombardamenti -ampiamente diffuse nei mass media mediorientali- il definitivo logorarsi di qualunque residuale rapporto col Presidente yemenita Hadi, il fallimento nella costruzione di quella forza di intervento sunnita di cui si è tanto parlato, e il fatto che è ormai chiaro che mentre l'Arabia Saudita poteva anche avere un obiettivo come il ripristino al potere dell'ex Presidente, non aveva alcun piano per raggiungerlo.
Come conseguenza di tutto questo, l'Arabia Saudita si è trovata isolata. Iran, Oman e Russia hanno alacremente lavorato sul piano politico, al tempo stesso cercando di mettere un freno ad Ansar Allah. Gli Stati Uniti hanno cercato sommessamente di far desistere i sauditi dall'andare avanti con la loro campagna di attacchi aerei, che hanno avuto poco effetto sull'efficienza militare di Ansar Allah e di Saleh, ma hanno reso infernale la vita della maggior parte degli abitanti delle città yemenite, le cui perdite stimate assommano a più di mille tra morti e feriti.
I militari statunitensi si sono mostrati molto scettici fin dall'inizio sui bombardamenti sauditi; hanno fornito assistenza per l'individuazione dei bersagli più che altro per ridurre i danni collaterali causati da bombardamenti fatti a casaccio. Gli alti quadri statunitensi si sono espressi, più che giustamente, in modo molto dubbio sui vantaggi di un'invasione terrestre; anzi, hanno giustamente considerato lo Yemen come un ginepraio, in cui l'Arabia Saudita rischiava di cacciarsi senza poterne uscire.
Ci si potrebbe chiedere allora perché mai gli Stati Uniti hanno accordato pubblico sostegno all'Arabia Saudita ed alla sua coalizione. Dovrebbe essersi trattato di una decisione tesa sostanzialmente a bilanciare i progressi fatti nei negoziati sul nucleare con l'Iran, di un modo per rassicurare gli alleati sunniti più che di una decisione presa tenendo presenti le sue implicazioni strategiche di più ampia portata. Nelle cronache e nei corridoi della politica occidentale, si fa riferimento allo Yemen come ad una guerra per interposti contendenti -cosa che non è vera- che rischia di far esplodere le tensioni settarie se non si pone ad essa qualche limite -e questo è vero- ma che dopotutto non ha una grande importanza strategica.
Come si è arrivati alla fine dei bombardamenti? Il Presidente Putin ha parlato al telefono con re Salman. Il contenuto della telefonata non è stato reso pubblico, ma è verosimile che il Presidente russo, con l'approvazione di alti funzionari a Washington, abbia detto senza giri di parole al re saudita di farla finita con la guerra aerea e di cercare una soluzione politica. Forse Putin è stato capace di capitalizzare sul mancato veto russo al Consiglio di Sicurezza dell'ONU nei confronti di una risoluzione sullo Yemen dal sapore molto unilaterale, e se ne è servito per rendere ancor più convincenti le sue parole. In ogni caso, in Medio Oriente la Russia sta di nuovo aiutando l'AmeriKKKa a togliersi le castagne dal fuoco e non c'è dubbio che nel far questo la Russia abbia agito in stretta coordinazione con Tehran, da cui la notizia di un possibile cessate il fuoco è trapelata ore prima che esso venisse formalmente dichiarato. In poche parole, fatta eccezione per pochissimi paesi della regione, Riyadh poteva contare su un sostegno molto debole per la propria azione, nonostante le dichiarazioni rese in pubblico.
Lo Yemen minaccia di trasformarsi in una grossa umiliazione per l'Arabia Saudita. L'ambizioso progetto di mettere insieme un nuovo esercito di coalizione sunnita per mettere un limite all'influenza iraniana in Medio Oriente si è bruscamente arenato. Dapprima ci sono state le inattese defezioni della Turchia e del Pakistan ed una sensibile mancanza di entusiasmo da parte dell'Egitto, che per partecipare ha chiesto una cifra ingente, dell'Iraq, il cui Primo Ministro ha criticato senza mezzi termini l'impresa, e della Giordania. Ancora peggio, negli ultimi tempi i sauditi hanno iniziato a sospettare il principe Mohammed bin Zayed, degli Emirati Arabi Uniti, di abboccamenti con Ali Saleh per arrivare alle loro spalle ad una soluzione politica rispettosa dei suoi interessi. Si ricorderà che bin Zayed avrebbe cospirato anche con Tuwaijri, il più stretto collaboratore di re Abdullah, perché la linea di successione dinastica saltasse proprio Salman. Cosa ancor più significativa, in questa nuova fase il regno saudita sembra ancora difettare di uno straccio di piano su come arrivare agli obiettivi che si è prefissato e che ha sbandierato con tanta profusione di retorica.
Simon Henderson dello Washington Institute ha scritto in un articolo intitolato "Il giovinastro inesperto dell'Arabia Saudita" [Mohammed bin Salman]: "Nella maggior parte degli altri paesi, un capo militare o un ministro della difesa che non riescono a giungere ad un risultato definito rappresenterebbero una sconfitta politica. Se in Arabia Saudita questo non succede, è perché Re Salman si trova probabilmente sotto pressione da parte di principi più anziani, che stanno puntando a mutamenti assai più radicali".
Il punto essenziale è in ciò che questo fallimento può rivelare sulle condizioni in cui si trova la regione, checché ne pensi Henderson.
Graham Fuller, ex vicepresidente dello U.S. National Intelligence Council, ha scritto:
Nessuno ricorda il vecchio concetto geopolitico in uso ai tempi della Guerra Fredda sugli stati della cintura nord? Erano la Turchia, l'Iran e il Pakistan; a volte si considerava anche l'Afghanistan. Si trovavano alla frontiera meridionale dell'Unione Sovietica e in Occidente li si considerava un potenziale baluardo contro un'aggressione sovietica diretta a sud, verso il Medio Oriente. Forse oggi stiamo assistendo alla rinascita di questo costrutto, ma stavolta esso non si presenterà affatto unito contro la Russia. Anzi, i tre paesi presentano una calda sintonia con molti aspetti della concezione politica "euroasiatica" russa e cinese.
Il conflitto in Ucraina ha spinto la Russia e la Cina ad intensificare i propri sforzi per essere meno vulnerabili nei confronti della supremazia militare con cui l'AmeriKKKa tutela il proprio dominio del governo finanziario mondiale. La guerra nello Yemen, in qualche modo, ha reso più chiare certe dinamiche mediorientali. La bilancia del potere ha smesso di pendere dalla solita parte, e sta seguendo un moto già visto in passato.
I tre paesi fondamentali della regione (Iran, Turchia ed Egitto), oltre al Pakistan, si stanno rivolgendo ad est, ciascuno con i suoi motivi. In Occidente non si capisce ancora appieno quanto abbia influito su questo fenomeno l'iniziativa cinese della "nuova via della seta", che prevede anche il pieno coinvolgimento russo. I paesi mediorientali notano che la Cina si sta muovendo con molta serietà per realizzare vasti progetti infrastrutturali tra Asia ed Europa. Hanno fatto caso anche a quello che è successo con la Asia Infrastructure Investment Bank, con il mondo che si affolla al suo ingresso e l'evidentissimo disappunto degli Stati Uniti. I paesi del Medio Oriente vogliono essere della partita.
Non è stato solo per la cattiva gestione da parte dei sauditi e per le pressioni che hanno esercitato che la "grande iniziativa sunnita" volta ad arginare l'Iran ha ottenuto pochi consensi. E' stato anche per la consapevolezza del fatto che il denaro -almeno quello destinato a diventare infrastruttura- oggi passa per la Cina, e che un Iran magari libero da sanzioni diventerà un attore di primo piano in questo nuovo schema economico e politico. Invece di schierarsi con qualche fragile monarchia mediorientale, gli stati sovrani hanno preferito pensare al futuro.

13 aprile 2015

Alastair Crooke - Mentre la guerra di prossimità tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell'Iran diventa guerra vera, l'AmeriKKKa resta paralizzata.


Traduzione da Conflicts Forum di un articolo scritto per lo Huffington Post.

In Medio Oriente, finalmente, ci siamo arrivati. Dopo guerre su guerre, comprese quelle in Afghanistan e in Iraq, gli Stati Uniti non hanno più alcuna intenzione di intervenire militarmente nei molti ed intricati conflitti della regione. Se mai, vogliono rimettere in pari le maggiori potenze regionali per arrivare ad una situazione in cui gli antagonismi si equilibrino, e lasciare che se la vedano tra loro.  "Sono problemi settari vostri, vedetevela voi". Un editorialista saudita ha descritto in questo modo l'atteggiamento ameriKKKano alle rimostranze dei sauditi sulle iniziative degli Houthi nello Yemen.
Gli ameriKKKani sperano che se mai si arriverà ad una tale situazione di equilibrio sarà possible tirarsi fuori da quel ginepraio mediorientale che tutte le volte pare capace di tirarli per i capelli dentro alle sue dispute micidiali. A Washington si pensa che l'intervento delle forze speciali sia invece un'altra questione: con quelle, le operazioni finanziarie, i droni e la guerra delle comunicazioni telematiche gli Stati Uniti possono influire sulla situazione indirizzandola in un modo piuttosto che in un altro a seconda di come cambiano gli interessi. I colloqui sul nucleare servono a comprendere l'Iran all'interno del gioco di equilibri.
Mi sono già chiesto se nel Medio Oriente di oggi un simile approccio sia costruttivo, visto che gli attori statali e nono statali che vi operano possono semplicemente decidere di tirarsi fuori dai giochi e dalle regole non scritte che consentono di mantenere questo equilibrio. Così ha fatto l'Arabia Saudita, che sta facendo pressioni sulla Turchia perché faccia allo stesso modo. Gli ultimi avvenimenti fanno pensare che invece che verso un equilibrio si stia andando verso una confusa prova di forza, inevitabile per far sì che i contorni di un nuovo Medio Oriente possano trovare definizione, che per qualcuno potrebbe anche rivelarsi un disastro senza rimedio.
Continuerò ad essere sincero, notando che nelle condizioni in cui si trova oggi l'AmeriKKKa sul piano interno, l'idea di disimpegnarsi è stata probabilmente la miglior opzione disponibile in un ventaglio di possibilità tutte negative. Solo che una buona scelta sul piano razionale puà non essere, o non essere per il momento, una buona scelta sul piano psicologico. Alla psiche può servire un po' più di tempo per rimettersi in quadro, e di solito perché si arrivi a questo aggiustamento occorre che certi ego un po' troppo pompati soffrano qualche lezione dolorosa.
La bozza di accordo tra "cinque più uno" e Repubblica Islamica dell'Iran contiene più incertezze che altro, e potrebbe anche rivelarsi insostenibile per l'Iran che ha fatto ampie concessioni in cambio di benefici che a giudicare dai primi documenti disponibili sono piuttosto vaghi. Comunque, è certo che non servirà a calmare le paranoie dei sauditi. L'Arabia Saudita continua a credere che l'Iran stia fomentando ovunque l'insurrezione sciita contro l'attuale stato di cose, e che stia cercando di portare tutto il Medio Oriente dentro i confini di un nuovo impero persiano.
Non è verosimile che la maggior parte dei sauditi creda davvero che l'Iran covi ambizioni imperiali ed espansionistiche: da mezzo millennio l'Iran non invade territori altrui. E' più probabile che i sauditi siano in apprensione perché sanno bene che in Iran il sanguinoso saccheggio di Karbala ad opera degli wahabiti nel 1801-1802 non è stato dimenticato, al pari della indiscriminata distruzione dei santuari sciiti allora e dopo, della denigrazione degli sciiti alla stregua di apostati degni solo di essere ammazzati, dell'incitamento dello jihadismo radicale contro gli sciiti e della repressione delle popolazioni sciite in tutto il Golfo Persico.
I sauditi non temono certo di verdersi arrivare i carri armati iraniani alla frontiera. I sauditi temono la portata rivoluzionaria dei concetti espressi dal pensiero sciita ed il contagio che potrebbe derivarne; è il pensiero sciita che i sauditi temono, e che stanno cercando di delegittimare e di isolare.


Uno strumento affidabile: lo jihadismo sunnita

Questa crescente psicosi nei confronti dell'Iran, che deriva dal pur parziale riavvicinamento dell'AmeriKKKa all'Iran, un risultato fuori di questione lo ha ottenuto: la breve sintonia dei sunniti con la battaglia occidentale contro lo jihadismo e l'estremismo che aveva caratterizzato gli ultimi mesi è finita. La prova di forza ora in corso impone di tornare all'utilizzo del vecchio, affidabile arnese che consiste nell'incendiare lo jihadismo sunnita.
Il fatto è che l'Iran e i suoi alleati non lo permetteranno. Iran, Hezbollah, le milizie sciite irachene, l'esercito siriano e le milizie Houthi cercheranno di rispondere infliggendo una sconfitta di vaste proporzioni a qualunque tentativo di riattizzare lo jihadismo sunnita nelle rispettive aree di competenza. Il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ne ha parlato in un discorso il ventisette marzo. Nasrallah ha parlato senza mezzi termini: nell'imminenza dell'accordo sul nucleare, in Iran non si pensa più che si possa arrivare a comporre il dissidio coi sauditi. Secondo Nasrallah l'Arabia Saudita ha scelto di fare pressione ad ogni livello contro l'Iran e contro i suoi alleati: il suo discorso lascia intendere che vi sarà una risposta altrettanto forte. Invece di trovare un proprio equilibrio, il Medio Oriente si sta avviando ad ulteriori e drammatici rovesci nella situazione politica.
In mezzo a tutto questo digrignare di denti, l'AmeriKKKa è effettivamente messa fuori gioco dalla sua politica defilata oltre che dall'aver investito politicamente nella guerra allo Stato Islamico, con tutte le contraddizioni e le tensioni che questo comporta. In Iraq, per esempio, la guerra contro lo Stato Islamico è guidata dall'Iran e dalle alleate milizie sciite. Nello Yemen gli Houthi sostenuti dall'Iran sono impegnati in scontri sanguinosi contro Al Qaeda. Nel primo caso l'AmeriKKKa riconosce implicitamente il contributo iraniano. Nel secondo, invece, appoggia i bombardamenti contro chi combatte gli jihadisti, apparentemente sulla base del fatto che un fiancheggiatore dell'Iran non può permettersi di minacciare una fondamentale via di approvvigionamento petrolifero. 
L'AmeriKKKa è in pratica immobilizzata, presa fra il martello di alleati infingardi e profondamente compromessi in un modo o nell'altro con i sunniti radicali, e l'incudine dei limiti imposti dalla sua linea politica di sempre, che le impediscono qualunque autentico avvicinamento agli autentici avversari dello Stato Islamico che sono l'Esercito Arabo Siriano, Hezbollah, le milizie Houthi ed irachene.


"Strappate via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani!"

"Dobbiamo rimettere le mani nelle cose che contano. La posta in gioco, oggi, è questa". Si pensi che la frase viene da Jamal Khashoggi, un esperto editorialista saudita ed ex consigliere governativo che l'ha riferita al NY Times. "L'Arabia Saudita sta prendendo le iniziative necessarie a strappar via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani, in tutto il Medio Oriente". A suo dire, l'operazione sta conseguendo dei successi anche senza l'aiuto degli AmeriKKKani.
L'articolo del Times così prosegue: "L'Arabia Saudita e la Turchia", afferma Khashoggi, "hanno sostenuto la coalizione di gruppi jihadisti [Jabhat al Nusra, Al Qaeda] che poco tempo fa ha preso la città siriana di Idlib: la prima vittoria importante dopo molti mesi, contro il governo del Presidente Bashar al Assad... a prendere Idlib sono stati appartenenti alla coalizione jihadista: si tratta di un risultato importante, e credo che vedremo anche più di questo" ha aggiunto Kashoggi, affermando che "il coordinamento tra i servizi segreti turchi e sauditi non è mai stato buono come oggi".
Khashoggi si riferisce agli sforzi collettivi che per iniziativa dei servizi segreti turchi e con il sostegno del Qatar e dell'Arabia Saudita sono riusciti a mettere in campo migliaia di jihadisti in una coalizione che è finita col provocare il ritiro tattico dell'esercito siriano da quei quartieri di Idlib il cui controllo, già precario, richiedeva l'utilizzo di lunghe linee di rifornimento. Si può dire che nel più ampio contesto della guerra in corso, non si tratta di un evento molto significativo.
Nonostante questo, il fatto ha una grossa importanza simbolica. Turchia ed Arabia Saudita hanno cooperato per facilitare la presa di Idlib da parte di Jabhat al Nusra che è il braccio siriano di Al Qaeda, qualcosa che fa di Idlib il contraltare alla città di Raqqa, centro di potere dello Stato Islamico. Adesso, vari eminenti esperti sia del Golfo che occidentali ci vengono a raccontare che, anche se si tratta di Al Qaeda, siamo comunque davanti all'espressione di uno jihadlismo pragmatico che "potrebbe diventare un alleato nella lotta contro lo Stato Islamico". Soltanto pochi mesi fa, sostenere una cosa del genere avrebbe praticamente portato diritti ad un interrogatorio con qualche funzionario dei servizi occidentali. Ma come cambiano le cose, col tempo!
Il desiderio dei sauditi di "strappare via il tappeto da sotto i piedi degli iraniani" sta avendo effetti anche in Iraq. The Times ha scritto che i sauditi avrebbero avvertito Washington "di non permettere alle milizie spalleggiate dall'Iran di impadronirsi di parti del territorio troppo vaste nel corso dei combattimenti contro lo Stato Islamico. Questo, secondo alcuni diplomatici arabi impegnati nei colloqui". Detto altrimenti, va bene sconfiggere lo Stato Islamico, ma senza esagerare.
Al centro della nuova politica assertiva dell'Arabia Saudita c'è ovviamente la guerra nello Yemen. La campagna di bombardamenti aerei contro il movimento Houthi chiamato Ansar Allah e contro le forze armate fedeli all'ex presidente Saleh altro non è che il modo, molto personale, in cui il ministro della difesa saudita Principe Mohammed bin Salman ha deciso di fare quello che secondo alcuni sauditi l'AmeriKKKa dovrebbe fare e invece non sta facendo.
I bombardamenti voluti da bin Salman per adesso sono stati accolti con entusiasmo in certi ambienti del Golfo. Il co-reggente di bin Salman Muhammad bin Nayef invece non ha fatto commenti. Bin Nayef è considerato un rivale di bin Salman ed è possibile che se ne stia aspettando tranquillamente che le sue iniziative si risolvano in un fallimento. Decidere di imitare l'AmeriKKKa sia nelle iniziative che nella maniera di condurle, vale a dire puntando tutto sul potere di fuoco, è una mossa imprudente, e le forti emozioni che nascono dalle riprese degli attacchi aerei trasmesse in televisione spesso si raffreddano quando si capisce che non servono a gran che.
L'ottimismo, tuttavia, è arrivato a punte tali che il commentatore saudita Khashoggi scrive:

Ora che l'operazione Tempesta Decisiva ha preso il via, occorre che qualcuno tenga d'occhio la situazione. Quello che è successo sta fissando una nuova regola nella scienza della risoluzione delle crisi e se le cose vanno bene altre potenze regionali troveranno il coraggio di applicare la stessa soluzione anche in altri contesti.
I siriani hanno invocato un approccio dello stesso tipo dopo che l'operazione è cominciata, perché si sono accorti che esiste una chiara somiglianza tra la loro situazione e quella dello Yemen, ed hanno sperato che il loro delegittimato presidente e il suo governo venissero colpiti da una serie di attacchi come quelli di Tempesta Decisiva.
Khashoggi prosegue citando le affermazioni del consigliere del Presidente Erdoğan Ibrahim Kalin, che avrebbe detto "...Sì, ci sono sia delle somiglianze che delle differenze con la situazione siriana. Sia in Yemen che in Siria, in ogni caso, i problemi, le circostanze e vli avveersari sono gli stessi. L'operazione saudita può essere ripetura in Siria: è una cosa cui dobbiamo pensare".
Il fatto essenziale sta nel vedere se l'operazione nello Yemen avrà successo oppure no. Al di là della propaganda, l'Arabia Saudita non sembra per niente vicina a raggiungere il suo obiettivo, che è quello di riportare al potere l'ex Presidente Hadi: il suo mandato è scaduto e sul terreno può contare su una rappresentanza politica debole. La campagna di attacchi aerei ha a mala pena impedito che le forze di Ansar Allah e di Saleh estendessero il loro controllo sulla maggior parte del territorio del paese. Spesso, le campagne di bombardamenti aerei riescono solo a far sì che un paese faccia fronte comune contro un nemico esterno. Nello Yemen pare sia successo proprio questo.


Chi li mette gli anfibi sul terreno?

E poi? Ci sarà un'invasione, condotta da una forza militare araba coordinata? E' chiaro che questa forza di invasione non è stata certo messa a punto nei dettagli prima di iniziare a bombardare. Tutto questo sa più di propaganda che di pianificazione seria ed accurata. Gli Houthi e i loro alleati stanno continuando a combattere per Aden: l'Arabia Saudita sembra sia stata colta di sorpresa e sta cercando in giro qualcuno che occupi la città portuale. Né gli Stati Uniti né il Pakistan sembrano disponibili a farsi carico della cosa.
La riluttanza dei sauditi a compiere un'invasione di terra potrebbe anche venire meno. Se succede, ci saranno conseguenze di ampia portata. Se i sauditi falliscono nel pacificare lo Yemen, la cosa indebolirà ulteriormente l'autorevolezza e l'identità dei sunniti. Chissà che sia l'Iran che l'AmeriKKKa non abbiano proprio fatto un calcolo del genere: lasciare che bin Salman vada avanti per la sua strada, aspettando che, come probabilmente accadrà, gli passi la voglia di risolvere con certi sistemi le crisi regionali. Chissà che anche Mohammad bin Naif non abbia fatto le stesse considerazioni.
Certo, se l'idea di una forza di coalizione sunnita si rivela una chimera e se lo Yemen per i sauditi diventa un fallimento, assisteremo di sicuro, come diretta conseguenza, ad un rinfocolarsi della guerra jihadista in Siria ed in Iraq. La solita panacea.
In questo contesto, le parole di Nasrallah suonano appropriate più che mai. Nasrallah ha detto senza dirlo che le vecchie regole del gioco hanno smesso di valere quando l'Arabia Saudita ha attaccato lo Yemen. Se nello Yemen verranno dislocate truppe saudite, di terra o d'aria che siano, allora perché mai le milizie e l'esercito iracheni dopo aver riconquistato Tikrit non dovrebbero per ipotesi proseguire verso la frontiera siriana, attaccare da nord assieme all'esercito siriano, farsi strada attraverso il paese e chiudere lo Stato Islamico in una sacca?
Si tratta solo di un'idea...

22 settembre 2014

La situazione nello Yemen. L'Arabia Saudita teme una manovra a tenaglia dello Stato Islamico.


Combattente sciita Houthi nel nord dello Yemen, marzo 2014 (Fonte: Al Alam)

Traduzione da Conflicts Forum.

Il Primo Ministro si è dimesso, il governo è stato sciolto, le strade di Sana'a sono piene di decine di migliaia di manifestanti sciiti Houthi e dei loro alleati sunniti; ci sono posti di blocco nelle strade, ed il Presidente ad interim Abed Rabbo Hadi traballa perché le sue proposte per risolvere la crisi e per arrivare alla formazione di un nuovo governo sono state respinte in blocco dai manifestanti, che pensano che "non siano abbastanza". Un portavoce degli Houthi ha detto che il lancio di grida rituali dai tetti della capitale, avvenuto all'imbrunire del 4 settembre, avrebbe segnato l'inizio della "terza fase dell'escalation" e che stava a testimoniare il rifiuto totale da parte degli sciiti dell'aumento dei prezzi del carburante (che come al solito era compreso nel programma di "riforme" del Fondo Monetario Internazionale) e del "governo corrotto".
In poche parole il gruppo tribale Houti, cui Hadi appartiene (e che prende il nome da Hussein al Houti, ucciso dal governo nel 2004 quando iniziò la guerra lunga sei anni contro la repressione dell'allora presidente Saleh che aveva cercato di spazzare via il movimento), ha passato un periodo di sostanziale rinascita; un rinnovamento che è bastato a far sì che il movimento acquistasse la supremazia nel nord dello Yemen, nei governatorati di Sa'da e di Amran e di fatto anche nella capitale, anche se per adesso non si può dire che la città sia a tutti gli effetti caduta nelle loro mani. Il gruppo sciita degli Zaidi costituisce una minoranza rimarchevole in uno Yemen a maggioranza sunnita: si parla del quaranta o quarantacinque per cento della popolazione; nelle regioni collinose del nord, e nella zona di Sanaa, costituiscono una solida maggioranza. Nel rovesciamento del Presidente Saleh, avvenuto nel 2012, hanno avuto un ruolo fondamentale.
Nonostante le voci che circolano, secondo cui gli Houthi stanno cercando di impadronirsi del governo o di portare a termine un colpo di stato, il movimento si è comportato con cautela nell'avanzare pretese. Non vuole guidare l'esecuitivo, e neppure sta cercando di occupare qualche ministero. Il movimento Houthi vuole soltanto che vengano ritirati gli aumenti nel prezzo del combustibili -circa il 15%- e che i prezzi tornino quelli che erano prima del 2011. Inoltre, vuole che venga cancellato il progetto governativo di un nuovo assetto territoriale basato sulla creazione di sei unità federate. Gli Houthi respingono anche il progetto del Presidente ad interim Hadi per un governo di unità nazionale, che gli permetterebbe di accaparrarsi tutti  i ministeri chiave, sia pure con l'appoggio di rappresentanti provenienti dal sud e degli stessi Houthi. La maggior parte dei manifestanti pensa che l'iniziativa di Hadi sia "un'altra trovata delle solite" e che sia dunque inaccettabile. Gli Houthi hanno preso in mano le redini della protesta e ne hanno così ampliato la base, anche se un gruppo tribale fedele a Hadi, gli Harith, è sceso in strada a Sana'a in sostegno al Presidente.
Gli Houthi sono diventati gli arbitri della situazione dopo aver rintuzzato gli sforzi di Saleh di ispirare a posizioni wahabite il governatorato di Sa'ada in cui gli Houthi sono maggioranza, allontanando gli imam Zaidi e sostituendoli con altri di orientamento wahabita. Nel 2009 hanno respinto un attacco della Guardia di Frontiera dell'Arabia Saudita, pare infliggendole gravi perdite, ed in séguito hanno sconfitto anche il Partito Islah, vicino ai Fratelli Musulmani; secondo commentatori ben informati, politicamente quella dello Islah è ormai un'organizzazione finita.
Gli Houthi, detti anche Ansar Allah, sono parte degli sciiti Zaidi e credono che i musulmani dovrebbero rispondere solo ai loro imam, come hanno fatto per oltre mille anni dal momento che il ruolo guida degli imam è venuto meno solo nel 1962. In ogni caso, non ci sono grosse differenze ideologiche tra gli Zaidi e la maggioranza Shafi'i di orientamento sunnita; entrambi i gruppi hanno convissuto in pace ed hanno pregato nelle stesse moschee per centinaia di anni; molti sunniti Shafi' i si sono chierati con gli Houthi nel loro rifiuto dei Fratelli Musulmani e dello Islah, e nel loro rifiuto dei salafiti.
In Arabia Saudita si teme che gli Houthi, facendo in concreto carta straccia dell'accordo di transizione che sei paesi del Golfo Persico sono riusciti ad imporre allo Yemen e che in pratica consentiva di rimanere in piedi al vecchio stato di cose dei tempi di Saleh sotto un nuovo Presidente ad interim, contribuiranno ad inasprire l'instabilità, mineranno la determinazione del governo ad impegnarsi nella lotta agli elementi ostili all'Arabia Saudita, e consentiranno al Da'ish, lo Stato Islamico, di farsi largo nello Yemen. Lo Stato Islamico potrebbe così fare pressioni sul regno saudita da due parti, l'Iraq e lo Yemen.
Oltre a questa preoccupazione, i sauditi temono anche che l'affermarsi del gruppo sciita degli Houthi sveli tutta la rete di sostenitori che hanno messo in piedi, con ogni cura, foraggiandola e finanziandola nel corso degli anni. Oltre a questo, i sauditi temono che la il deciso attivismo degli Houthi e il loro sentimento antigovernativo finiscano per insitgare gli ismaeliti, che dell'islam sciita sono un'altra corrente e che vivono in una zona strategica di confine un tempo yemenita che i sauditi hanno fatto propria, spingendoli ad emulare il loro rinato attivismo.
La campagna favorevole ai salafiti nel nord del paese, che i sauditi hanno sostenuto, è già stata inficiata dagli Houthi, anche se sono ancora attivi in altre regioni dello Yemen altri movimenti salafiti favorevoli all'Arabia Saudita ed al Qatar. Il Partito Islah, anch'esso finanziato in qualche caso dall'Arabia Saudita ed in qualche altro -a detta degli stessi sauditi- dal Qatar, adesso è spaccato in correnti che propendono per l'Arabia Saudita ed in correnti che propendono per il Qatar, ed è debole. I gruppi tribali sunniti del sud costituiscono un fronte apertamente ostile verso l'Arabia Saudita e verso il governo di Sana'a, ed in questo sono vicini agli Houthi; per i sauditi costituiscono una realtà ampiamente fuori controllo, proprio come gli ismaeliti.
Se il governo di Sana'a finirà per cadere in mani sciite, che ne sarà delle forze che fino ad oggi hanno posto un freno ad Al Qaeda e che effettivamente riescono a tenere i piedi sul terreno, in cui costituiscono a tutti gli effetti una testa di ponte? I timori sauditi sono di questo genere. Oggi come oggi, i sauditi possono contare su qualcuno che nello Yemen tiene a bada Al Qaeda, ma questo non significa che abbiano il predominio sul paese, o anche soltanto su meno della metà di esso. Il Da'ish cercherà di cooptare il ramo yemenita della cosiddetta Al Qaeda, che potrebbe anche prestarsi a stringere un'alleanza col califfo di Mossul? Se questo succedesse, i sauditi si ritroverebbero con lo Stato Islamico appostato ai limiti del ventre molle del loro paese. Adesso è questione di tempo, anche se forse la miglior contromisura contro il Da'ish consisterebbe, sia per i sauditi che per i loro alleati occidentali, nel prestare orecchio alle richieste degli sciiti Houthi anziché dipingerli come militanti radicali.

02 maggio 2012

Yemen - La misera utopia di Al Qaeda e la sua battaglia per il consenso


Colpisce il divario crescente tra il sistema di controllo totale che è divenuto la norma in "Occidente" e la letterale dissoluzione dello Stato in molte aree del resto del mondo, in cui l'umanità si riorganizza nei modi più vari.

Traduzione da The Guardian.


Ghaith Abdul Ahad, dallo Yemen meridionale, scrive degli jihadisti che assieme alla sharia portano acqua ed elettricità gratuite

lunedi 30 aprile 2012

Sventola la bandiera nera: combattenti jihadisti ad un posto di blocco nella città di Azzan, nello Yemen meridionale. La zona, in cui sono fioriti gli emirati jihadisti di recente proclamazione, è controllata da affiliati ad Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP). Foto di Ghaith Abdul Ahad per The Guardian.

Sulla strada che da Aden va verso est abbiamo visto la bandiera nera di Al Qaeda dopo aver superato di poche centinaia di metri l'ultimo posto di blocco dell'esercito. Sventolava in cima ad un edificio parzialmente demolito da delle esplosioni. Da questo punto in poi, in direzione delle regioni interne del paese, qualunque cosa segnalasse una presenza governativa yemenita è scomparsa. In questa zona sorgono emirati jihadisti di recente proclamazione, alla cui testa si trovano affiliati ad Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), la sezione yemenita del movimento fondato da Osama bin Laden.
L'AQAP esiste da anni in questo territorio brullo e montagnoso, ma nel corso degli ultimi dodici mesi i jihadisti sono scesi dagli altopiani, a prendere il controllo delle città in pianura. Si stanno dando da fare per edificare qui un'utopia qaedista in cui la sicurezza è garantita dagli jihadisti, la giustizia segue la legge della shari'a e anche la distribuzione dell'elettricità e dell'acqua sono regolate dall'emiro.
Azzan fino ad un anno fa era solo una cittadina di mercato nella provincia di Shabwa. Adesso rappresenta uno dei tre emirati islamici proclamati nello Yemen meridionale. Quando noi del Guardian l'abbiamo raggiunta abbiamo visto l'accesso alla città difeso da più di una dozzina di combattenti muniti di mezzi blindati sottratti alle forze governative. Tre giovani jihadisti ci sono venuti incontro e ci hanno portati nel punto in cui il figlio diciassettenne del leader spirituale dell'AQAP, Anwar Al Awlaki, è stato ucciso, probabilmente da un drone americano. Lo stesso Awlaki è stato ucciso in un altro attacco lo scorso anno.
In un negozietto a fianco della strada alcuni giovani lavorano ai computer, copiando i sermoni di Awlaki, del capo di Al Qaeda Ayman Al Zawahiri e di altri nomi familiari del jihad mondiale. Un poster sul muro pubblicizza un film chiamato The survivors che mostra i racconti dei capi sopravvissuti agli attacchi dei droni.
La vecchia stazione di polizia della cittadina è stata trasformata in un tribunale che segue la legge sacra. Dentro, il giudice siede in una stanza sulle cui pareti campeggiano i simboli del tribunale jihadista: una bandiera nera, un kalashnikov ed un lungo bastone usato per le punizioni corporali. Il giudica apre un taccuino, per mostrarci come il sistema giudiziario di Al Qaeda abbia risolto quarantadue casi in due settimane.
"Ci sono persone che si rivolgono a noi da regioni che non siamo noi a controllare, e che ci chiedono di risolvere i loro problemi", spiega. "Il sistema giudiziario basato sulla legge sacra è veloce e incorruttibile. Riusciamo a risolvere entro un giorno la maggior parte delle cause."
In quest'opera di giustizia gli è mai capitato di tagliare mani?
"Tagliare la mano ad un ladro non serve a punire il ladro, ma ad ammonire tutto il resto della società", afferma. Dirigendoci cento miglia ad ovest di Azzan arrivamo nel centro di un altro emirato islamico, Jaar. I combattenti jihadisti ci vengono incontro con un blindato catturato di recente, con la loro insegna appena dipinta sopra e munito di bandiera nera.
Ci facciamo strada attraverso l'affollato mercato e passiamo banchi di verdure e di piolli vivi, intanto che fucilieri in moto pattugliano le strade polverose e sconnesse. Molti degli edifici della città sembrano esser stati ridotti in macerie da qualche attacco aereo.
In questa landa desolata, l'AQAP ed i suoi ppartenenti stanno cercando di costruire una società nuova. A differenza di quanto fatto in Somalia, in Iraq ed in Afghanistan, nello Yemen essi stanno cercando di instaurare la legge sacra conquistando il cuore e la razionalità delle persone.
A Jaar l'amministrazione jihadista ha abolito le tasse, fornito acqua ed elettricità gratuitamente e sistemato le fognature. Sono le sue autocisterne a distribuire acqua nei villaggi e nei campi dei beduini. Gente che vive nel deserto attorno alla cittadina racconta che i jihadisti hanno connesso i loro villaggi alla rete elettrica per la prima volta in assoluto. L'amministrazione islamica ha persino lasciato che le persone continuassero a masticare lo stimolante qat. Hanno solo insistito affinché il mercato del qat si svolgesse fuori dalla città.
Uno jihadista giovane e dall'aria timida di nome Fouad ci conduce in un edifico abbandonato, dove ci sono cose da mangiare sparse sul pavimento. "Mangiate, mangiate, questi sono tempi di abbondanza", dice spezzettando con le grosse dita tozze della carne di montone.
"I tempi sono cambiati, le cose vanno molto meglio" dice Fouad, "Sono finiti i giorni in cui pativamo ogni pena e ci dovevamo nascondere sulle montagne".
Un altro combattente vestito all'uso afghano si siede con noi, ma il suo pancione e le giberne stracolme gli impediscono di mettersi in ginocchio e di prendere il riso con le mani, così si limita a raccogliere un osso e a tenerlo inclinato, succhiandolo come farebbe un bambino contento e facendolo fischiare.
"Sia reso grazie ad Allah", dice il combattente.
Fouad una volta studiava inglese alla facoltà di lettere dell'università di Sana'a, ma adesso si veste e si atteggia come uno jihadista. In testa porta un grosso fazzoletto bianco tirato sulla fronte, che mantiene in ombra le sue fattezze emaciate. Parla sottovoce in arabo classico, ma quello che dice è roba dei nostri giorni ed ha poco a che fare con le caverne dell'Afghanistan.
"I mass media si sforzano di ritrarre i mujahedin come degli ignoranti falliti, che si mettono su questa strada perché sono dei reietti della società", dice. "In realtà molti mujahedin hanno studiato ed hanno anche dei diplomi superiori, ma hanno abbandonato gli studi per prendersi cura del loro paese. Hanno visto il loro paese insultato e costretto sotto l'oppressione, e credono che sia loro dovere intraprendere questo percorso".
Secondo Fouad la "democrazia", un vocabolo che per lui indica i leader arabi autocratici che nei loro paesi tengono elezioni truccate ha mostrato di non funzionare.
"La democrazia ha fallito nel mondo arabo", afferma. "Ha fallito in Tunisia, ha fallito in Egitto, ha fallito in Libia, ha fallito nello Yemen. La gente su questo è d'accordo".
"La democrazia ci ha portato soltanto ingiustizia, ignoranza, arretratezza e il desiderio di scimmiottare l'occidente. Ed i primi a rivoltarsi contro questi governi ignobili sono stati i mujahedin. All'inizio la gente non li seguiva perché lo stato di polizia era forte. La gente li temeva. Alla fine, però, ha cominciato a ribellarsi quando ha visto che si trattava di scegliere tra l'ingiustiza e la schiavitù da una parte e la libertà dall'altra. Così la gente si è ribellata. E noi sosteniamo ogni rivoluzione, come faceva lo sceicco Osama".
"Anche noi abbiamo tratto benefici da queste rivoluzioni. Ci hanno portato la libertà, siamo potuti scendere in campo aperto".
Secondo Fouad le rivoluzioni hanno indebolito gli stati di polizia e gli jihadisti si sono mostrati in grado di trarre profitto dalla situazione. "Siamo riusciti a prendere il controllo di certe città e di certe regioni. Siamo riusciti a parlare alla gente della nostra missione. Tutto questo è successo durante l'ultima rivoluzione".
"Abbiamo cercato fin da principio di arrivare a controllare città e regioni. Controllare il territorio con la legge sacra è il nostro obiettivo fondamentale. Nient'altro. Vogliamo solo servire il popolo, dando ad esso quello che per tanto tempo gli è mancato".
Gli jihadisti avevano già cercato di prendere Jaar svariate volte, riuscendo in qualche caso a tenere la città per qualche settimana prima di venirne cacciati. Ma lo scorso anno la rivoluzione che ha rovesciato il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha scavato delle divisioni nell'esercito e messo un reparto contro l'altro indebolendo così le forze di sicurezza. Gli jihadisti hanno tratto vantaggio dalla cosa e stavolta pare che abbiano avuto un duraturo successo.
Un muezzin chiama alla preghiera e tutta la città inizia a dirigersi verso la moschea.
Fouad cammina con noi attraverso il mercato, facendoci notare la perfezione e la devozione di una città dove i negozianti lasciano le loro botteghe incustodite intanto che si recano a pregare.
"Guardate: le merci vengono lasciate incustodite e nessuno ruba", dice.
Che cosa succede a chi non vuole prendere parte alla preghiera?
"Ci limitiamo a prenderlo in disparte e ad ammonirlo su uqanto la preghiera sia importante", spiega.
E se qualcuno proprio non vuole saperne?
"Allora li rinchiudiamo da qualche parte in un posto tranquillo e gli diamo da leggere delle cose, fino al momento in cui non capisce fino a che punto si trovava nel torto".
Fouad ci chiede, scusandosi con un sorriso gentile, di dargli i cellulari. Poi veniamo bendati e portati in macchina a vedere i detenuti.
Quando Fouad ci toglie la benda dagli occhi ci troviamo davanti ad un piccolo complesso di costruzioni circondato da uomini pesantemente armati; alcuni portano i sarong locali, altri il salwar kameez. Due tra di loro tengono il viso coperto con la kefiah.
Montano la guardia davanti a porte di metallo chiuse con un lucchetto. Ci portano nella prima stanza, dove una dozzina di soldati catturati siede sul pavimento, i piedi nudi legati con catene di metallo nuove fiammanti con un piccolo lucchetto di rame. Sono stanchi, alcuni hanno la barba lunga.
C'è un uomo in mezzo alla stanza che parla con voce monotona mentre i militari lo stanno a sentire: "Siamo soldati, abbiamo combattuto per difendere il nostro paese... abbiamo combattuto valorosamente fino a quando non siamo rimaasti senza munizioni... adesso chiediamo al fratello presidente di prendere in considerazione la nostra situazione e di ottemperare alle richieste dei nostri fratelli di Ansar al Sharia e di scambiare noi con i loro prigionieri..."
Ci portano in un'altra cella, dove un altro soldato in piedi racconta una storia molto simile mentre intanto qualcuno lo riprende con una telecamera.
Nella quarta sala chiediamo ad uno degli uomini accovacciati sul pavimento quale trattamento venga loro riservato. "Ci trattano come detenuti. Come detenuti", ripete fissandomi ad occhi bene aperti. Dopo la visita ai prigionieri, un uomo acquattato per terra e carico di armi ci dice: "Sono dei poveracci, gli danno un caricatore per uno, vale a dire... quanto? Trenta proiettili? Ognuno di noi invece porta dieci caricatori: quanti proiettili sono? Fate il calcolo: e poi pensate che noi possiamo anche rifornirci durante la battaglia; usiamo Google Maps e mandiamo degli esploratori in avanscoperta prima di attaccare. Loro sono dei poveracci".
In macchina, sulla via del ritorno, un uomo che per il suono della voce si capisce essere il comandante, dice: "Chiediamo una risposta al governo, e che si proceda con lo scambio dei prigionieri".
E cosa succede se il governo non si mostra d'accordo?
"La Shari'a ci concede tre modi per trattarli: rilasciarli, cosa che non faremo, scambiarli o ucciderli", dice. Più tardi possiamo andare un po' da soli in giro per Jaar. C'è un contadino con il viso incorniciato da una sottile barba bianca che sta todnando dai campi che ci sono nei pressi della città. Cosa ne pensa del governo degli jihadisti?
"Hanno preso tre uomini da tre posti diversi e gli hanno tagliato la mano", dice.
Avevano rubato? "Sì, ma che cosa? Un condizionatore d'aria, un po' di roba varia... ma adesso a Jaar nessuno si azzarda nemmeno ad alzare la voce, figuriamoci a rubare. Questa città è diventata un posto tranquillo: persino al mercato non c'è nessuno che urla. Al Qaeda ha imposto la sicurezza, ma se sospettano che qualcuno stia facendo la spia, lo fanno sparire".
I terreni fertili attorno a Jaar sembrano deserti. I canali di irrigazione, lasciati quasi un anno senza cure, si sono asciugati e la terra giallastra è crepata e polverosa. Laddove crescevano i manghi e le papaya, adesso ci sono alberi rinsecchiti e mulinanti nuvole di polvere.
Molta gente se n'è andata per i bombardamenti dell'artiglieria governativa e per gli attacchi aerei. Decine di migliaia di profughi si ammucchiano nelle scuole di Aden, dove vivono tra immondizie non raccolte, fogne a cielo aperto e povertà.
"La gente se ne è andata: ogni famiglia ha lasciato un solo figlio maschio a casa, e tutti gli altri sono scappati ad Aden", spiega il vecchio contadino.
Faisal è tra i fuggitivi. Una mattina l'anno scorso si è svegliato e ha scoperto che i jihadisti avevano preso il controllo della città. "Non fu sparato un solo colpo", dice.
Gli abitanti cercarono di formare dei cortei per le strade di Jaar, protestando contro l'occupazione della città. Qualcuno gli ha sparato addosso e la folla ha finito per disperdersi. Allora Faisal si è unito ad una carovana di profughi alla volta di Adent, dove adesso vive in un campo di raccolta.
Pochi mesi dopo la conquista di Jaar gli jihadisti si sono spinti nella vicina città di Zinjibar. Hanno circondato la caserma della polizia e quella dei servizi. Le forze delle temute unità di sicurezza del governo centrale hanno abbandonato subito il campo; il giorno successivo anche l'esercito ha fatto lo stesso. Gli jihadisti vincitori hanno saccheggiato i depositi delle armi pesanti e i magazzini di munizioni. I pesanti bombardamenti e i combattimenti verificatisi a Zinjibar nei mesi successivi hanno spedito ad Aden altre decine di migliaia di profughi, col risultato che Aden ha oggi l'aspetto di una città assediata.
A marzo le infittite schiere degli jihadisti hanno ottenuto un'altra vittoria tattica nell'attacco ad un accampamento militare alla periferia della stessa Aden. Invece di attaccare le ben protette trincee e le postazioni dei tank, gli jihadisti si sono mossi lungo un sentiero di montagna ed hanno preso l'esercito alle spalle. in poche ore hanno ucciso centoottantadue soldati, ne hanno presi prigionieri settantadue, hanno fatto razzia di armi e sono scomparsi.
A Sana'a e ad Aden sono stati in parecchi a non credere che l'esercito dello Yemen potesse essere così facilmente sconfitto da una banda tribale. Dov'erano le unità antiterrorismo appoggiate dagli americani?
Ad Aden, The Guardian ha incontrato un giovane tenente dai capelli corti e dai baffi appena accennati. Ancora prendeva la paga dell'esercito ma era più di un mese che non indossava l'uniforme. Faceva parte del corpo di ricognizione della venticinquesima brigata corazzata, quella che nel corso dell'ultimo anno ha preso parte a quasi tutti gli scontri nella provincia di Abyan.
"Ci sono parecchie teorie della cospirazione sul perché abbiamo perso Zinjibar", diceva. "Molti pensano che Saleh abbia fatto un accordo coi jihadisti, ma la verità è più semplice: gli alti gradi dell'esercito sono putrefatti e corrotti. Perché mai un soldato dovrebbe combattere, se è a Sana'a che l'eserito è in dissoluzione?
"Sapete in quanti sono stati ad attaccare quell'accampamento? Qualcosa tra i cinquantacinque e i sessantacinque uomini".
La stima che il tenente fa della forza degli jihadisti corrisponde a quello che ci ha detto Fouad. Per vent'anni le vicende della provincia di Abyan e di altre zone dello Yemen meridionale si sono intrecciate strettamente alla storia dello jihad mondiale. In migliaia sono andati a combattere in Afghanistan. In seguito nuove ondate di yemeniti jihadisti sono partiti per l'Afghanistan, per l'Iraq e la Somalia, e Abyan ha rappresentato uno dei percorsi preferiti per i giovani sauditi che cercavano di ottenere addestramento militare per poi raggiungere l'Iraq. "I nostri comandanti hanno un nuovo modo di comandare, nuove tattiche ed un nuovo modo per finanziarsi" diceva Fouad. "L'esercito dello Yemen è molto più debole di quanto si pensi. Non hanno alcuna ragione per combattere. [L'esercito] combatte solo per denaro e il denaro è comunque a servizio degli interessi stranieri, che i soldati ne siano consapevoli o meno. Loro seguono gli ordini dei loro comandanti".
"Noi invece abbiamo imparato", diceva Fouad.