19 giugno 2025

Tel Aviv. Anzi no, Haifa. Un eroe normale, una gatta felice e una torta

 


Questa presa in giro del sionismo da gazzetta e dei temi ricorrrenti nelle produzioni degli hasbaristi mantenuti dal Dipartimento per l'Editoria è stata scritta nel 2010 da Miguel Guillermo Martinez Ball. Quindici anni dopo lo stato sionista ha aggredito la Repubblica Islamica dell'Iran. Che non è rimasta compostamente a prenderle e ha reagito lanciando missili a centinaia e bucando più volte le difese antiaeree. Con danni considerevoli, pare, e non solo sugli asili nido e sui rifugi per micetti abbandonati.
Ora, va detto che chi capitasse su iononstoconoriana.com per la prima volta potrebbe pensare che gli scritti qui pubblicati siano lievemente favorevoli alla Repubblica Islamica dell'Iran. Il che non è vero per niente, perché iononstoconoriana.com è schierato con la Repubblica Islamica dell'Iran nel modo più deciso e inequivocabile.
Chi scrive spera vivamente che la Repubblica Islamica dell'Iran sia un boccone troppo grosso per Bibi, e che Bibi ne finisca strozzato.
E pazienza per Fiamma Nait e Deborah Firenstein.

Il Giornale del Berlusconi Minore, martedì 1 giugno, 2010, sezione Esteri

Mitzi oggi è una gatta felice. Fa le fusa, inarca la schiena e si lascia accarezzare da Ari, che si riposa stanco, nella sua casa di Tel Aviv.
Dalla finestra, nella calda aria della tarda primavera, Ari guarda le scintillanti file di grattacieli che i suoi nonni hanno eretto nel deserto, in una terra senza popolo che sembrava quasi invocare un popolo senza terra. Oggi, Ari non vuole guardare verso il mare. E nemmeno verso le splendide spiagge. I bagnanti, le giovani coppie che si baciano, i bambini spensierati che giocano con le figurine del Milan (anche a Tel Aviv, c'è chi tifa per il Milan e ancora di più per il suo Presidente), non sanno che se possono continuare a godersi la vita in un mondo che li odia, è grazie ad Ari.
Perché Ari custodisce un segreto, che condivide solo con Mitzi e con noi due, e che noi confidiamo a voi.
Ieri mattina lui era in mezzo a quel mare. Non sulle calde spiagge, ma tra le onde alte. Di vedetta, Ari, Shlomo e Gilad. Tre ragazzi normali, tre eroi che si conoscono da sempre.
Non è ancora l'alba, quando vedono comparire una nave immensa, che inalbera la bandiera della Mezzaluna dell'Odio. Una sagoma paurosa come un iceberg, che vorrebbe affondare il piccolo, fragile vascello di Ari, Shlomo e Gilad.
Carica di cemento, dicono che sia la nave, e la parola suona terribile per orecchie come quelle di Ari, giovani ma che non dimenticano come Auschwitz e le Piramidi fossero state costruite proprio con il cemento. Carica di sedie a rotelle, dicono.
Ma Ari sa bene a cosa servono: quei vigliacchi di Chamas prendono i loro stessi figli affetti dalla sindrome di Down (tra gli arabi tale sindrome è diffusa, a causa della loro sporcizia e delle loro ripugnanti abitudini), promettono loro un paradiso pieno di caramelle, se si fanno saltare per aria.
Ari è un ragazzo sensibile, che non farebbe male a una mosca. Ma ricorda bene quello che gli ha insegnato il suo istruttore: ogni volta che spari a un bambino in carrozzella, pensa a quanti bambini continueranno a camminare normalmente grazie al tuo gesto. Per fare del bene a quegli altri bambini, devi a volte avere il coraggio di fare male a te stesso imponendoti di uccidere. E' il sacrificio più grande, che tanti israeliani fanno umilmente. Un sacrificio d'amore.
Dalla sua piccola imbarcazione, guardando attraverso il binocolo a raggi infrarossi, Ari vede i visi di decine, centinaia, migliaia di persone, che si affacciano e scrutano le acque oscure.
Hanno i nasi che fremono eccitati: anche al buio, sentono odore di ebreo. Di un piccolo ebreo, disperso e quasi solo, in mezzo alle onde. Come la terra fragile che Ari improvvisamente si trova a dover difendere, un paese che vorrebbe disperatamente vivere in pace, ma deve sempre difendersi.
Anche contro il cemento e le sedie a rotelle, anche in mezzo al mare, pieno di acqua, di squali e di antisemiti.
Ari, Shlomo e Gilad. Tre ragazzi normali. In quel momento, Ari pensa a Leah. Lei è bella, lui è timido; ma Leah non sa che Ari è anche un eroe.
Ari conosce il proprio dovere. Anche se la nave è carica di terroristi e assassini, deve dare loro una possibilità.
E' quel senso innato di altruismo che hanno tutti gli israeliani, che lo porta a dare il preavviso, anziché affondare l'imbarcazione con un semplice colpo di siluro, come avrebbe fatto chiunque altro alla vista di una nave civile in acque internazionali.
Con voce forte e chiara, grida alla nave: "You dirty son of bitch terroristim, I Israeli man I take you prison every you you tink you do Hitler in my sea I do more bad in your ship!"
Ari sa di aver fatto tutto il possibile per salvare le persone a bordo. Anche se lo odiano, lui comunque pensa prima a loro: gli israeliani sono fatti così. Anche quando sanno che gli altri ne approfitteranno.
Lanciano la fune e si issano a bordo: Ari, Shlomo e Gilad.
Hanno il fiato corto per lo sforzo.
Vedono attorno a loro una selva di visi indemoniati. Dicono di essere pacifisti, ma i ragazzi sanno cosa sono in realtà: schiere di SS e sanguinari macellai muslumaniaci.
Lo sguardo di Ari si fissa per un momento su uno di loro.
E' un ragazzo vestito, anzi mascherato, da cuoco. E' della stessa età di Ari, ma quanto è diverso! Lo sguardo strabico, il labbro contorto da anni di antisemitismo, e tra le mani regge, no, ostenta una torta. Una torta.
Ari riconosce quella torta. Morbida e cremosa. E sa cosa vuol dire.
Capisce il messaggio di odio che quel ragazzo gli sta lanciando.
Ari non dimenticherà mai la scena nel film. Il tavolo con la torta. L'ufficiale nazista, le dita ancora ricoperte di crema, che con i suoi stivali immacolati prendeva a calci una ragazza ebrea. Una ragazza che aveva le stesse lentiggini di Leah.
Fu solo allora, vedendo la torta, che Ari iniziò a sparare.

16 giugno 2025

I tesori archeologici di Gaza in mostra allo Institut du Monde Arabe di Parigi




I danni deliberati che lo Stato Islamico ha causato al patrimonio archeologico siriano sono stati oggetto di diffusa e giustificata esecrazione. Quelli altrettanto deliberati che lo stato sionista ha causato e causa a tutt'oggi al patrimonio archeologico palestinese sono stati al più trattati a margine.
Trésors Sauvés de Gaza - 5000 Ans d'Histoire, allestita presso l'Institut du Monde Arabe di Parigi dal 3 aprile al 2 novembre 2025, aveva tra i suoi obiettivi quello di mettere a disposizione del pubblico reperti e informazioni sul patrimonio archeologico di Gaza. Quelle che seguono sono le traduzioni dal francese della presentazione della mostra e delle descrizioni dei cinque siti più rilevanti.


Introduzione

Fin dalla sua delimitazione nel 1949 il territorio della Striscia di Gaza -365 chilometri quadrati- è stato caratterizzato tanto da un sostanziale isolamento quanto da una estrema densità demografica e edilizia. La sua storia contemporanea è costellata da guerre e crisi umanitarie; il suo glorioso passato di vasto porto mediterraneo ricco grazie ai traffici con l'Arabia ne è stato messo in ombra. Dopo l'attacco terroristico e la presa degli ostaggi da parte di Hamas il 7 ottobre 2023, la Striscia di Gaza ha subito una devastazione fuori dall'ordinario; a causa della guerra e dei bombardamenti ad opera dello stato sionista si è avuto un numero vertiginoso di vittime civili e di sfollati.
I tragici eventi del XX e del XXI secolo fino alla guerra attualmente in corso hanno spazzato via la storia di questa antica oasi, luogo di passaggio e di scambi aperto al mondo: chi mai ricorda che fin dall'età del bronzo Gaza -nata laddove le sabbie e il mare si incontrano- ha avuto un passato dal prestigio ininterrotto?
Le circa cento opere qui presentate consentono uno sguardo attraverso le civiltà cananea, egizia, filistea, neo-assira, babilonese, persiana, ellenistica, romana, bizantina e araba in questa stretta fascia costiera. La ricchezza di questa oasi, un tempo lodata per la sua prosperità e per la piacevolezza delle sue condizioni di vita, ambita per la sua posizione strategica, terra promessa dei commercianti carovanieri e porto delle merci preziose provenienti dall'Arabia, dall'Africa e dal Mediterraneo, è oggi in grave pericolo.
Oggi che il patrimonio di Gaza subisce attacchi senza precedenti e folli speculazioni sul suo futuro minacciano di spazzare via cinquemila anni anni di esistenza, più che mai è necessario conoscere la sua storia.


Un patrimonio in esilio

Nell'autunno 2006 un centinaio di casse contenenti 529 reperti archeologici provenienti da Gaza sono arrivate a Ginevra per la mostra "Gaza, crocevia tra civiltà" (2007). La mostra presentava i reperti arrivati in Francia nel 2000 e 260 opere provenienti dalla collezione privata di Jawdat Khoudary, successivamente donata all'Autorità Nazionale Palestinese. Per diciassette anni le opere che avrebbero dovuto costituire il futuro museo archeologico di Gaza sono rimaste imballate a Ginevra, pronte a partire. Ma non è stato possibile garantire le condizioni per un ritorno in sicurezza nel loro paese d'origine. Mentre il patrimonio culturale palestinese è vittima di distruzioni senza precedenti, le 123 opere presentate oggi rispecchiano la ricca e lunga storia di Gaza, salvaguardata grazie al Musée d'art et d'histoire di Ginevra che conserva la collezione.


1994-2000: le eccezionali scoperte della campagna di scavi franco-palestinesi

Nell'autunno del 2000, l'Institut du Monde Arabe inaugurò la mostra "Gaza mediterranea", che presentava i risultati degli scavi archeologici intrapresi a partire dal 1994. L'iniziativa nasceva dall'accordo di cooperazione franco-palestinese che permise -per la prima volta dopo il ritiro dello stato sionista dalla enclave- al personale della École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), del Centre National de la Recherche Scientifique e del Servizio delle Antichità dell'Autorità Palestinese di indagare quattro siti di grande importanza. I ritrovamenti più rimarchevoli sono stati quelli dell'antico porto di Anthedon, dei mosaici bizantini di Mukheitim (Jabalya) e dell'eccezionale monastero di Sant'Ilarione (Nussayrat), nonché del prestigioso Tali al-Sakan. Gli eccezionali reperti di questa collezione sono stati sotto la responsabilità dell'Institut du Monde Arabe fino al loro arrivo a Ginevra nel 2007.


I - Gaza, cinquemila anni di storia

La tragedia oggi in atto ha contribuito alla cancellazione della plurimillenaria storia di questa prospera oasi ambita da tutti gli imperi della regione. Gaza si trova ai limiti del deserto, affacciata sul mare e sulla lingua di dune costiere che la separa da esso. Punto di confine naturale tra l'Egitto e l'Asia, la zona dello uadi di Gaza (Wadi Ghazza) è l'ultimo luogo sereno prima del deserto inospitale. Gaza e la sua regione sono un'oasi dalla ricca storia commerciale e politica e sono quindi una posta in gioco importante nella rivalità tra chi si trova al potere nella valle del Nilo e chi vi si trova in Mesopotamia. Porto mediterraneo, punto di convergenza delle rotte carovaniere dell'Africa, dell'Arabia e dell'India, la sua posizione strategica secondo Strabone rese l'antica Gaza "la più grande città della Siria", levando volta per volta le brame degli egizi, degli assiri, dei babilonesi, dei persiani, dei greci, dei romani e infine dei mamelucchi e degli ottomani...


L'età del bronzo e del ferro

Sulla strada di Horus, la via che collegava l'Egitto alla Palestina, il passaggio dello uadi a Wadi Ghazza era un luogo strategico. Nelle vicinanze si trovano due importanti siti dell'età del bronzo, Tali al-Sakan (circa 3500-2350 a.C.) e Tali al-'Ajul (circa 1900-1200 a.C.). Già nella prima metà del IV millennio esistevano stabili legami con l'Egitto, prima che esso conquistasse la Palestina meridionale nella prima età del bronzo e dell'organizzazione della provincia egiziana di Canaan nella tarda età del bronzo. Questo periodo corrisponde anche al comparire della città di Gaza nella storia. Fondata probabilmente nella prima metà del III millennio, la città figura per la prima volta nei testi egizi del regno di Thutmose III (1504-1450 a.C.). Qui viene chiamata "Hazattu", da cui deriva l'attuale nome arabo "Ghazza". Qui risiedeva un funzionario reale egiziano incaricato di sorvegliare la regione, ma la città rimaneva un regno il cui re giurava fedeltà al faraone.


Gaza, città filistea nel periodo assiro, persiano ed ellenistico

All'inizio del XII secolo a.C. dei gruppi provenienti probabilmente dal mondo egeo fondarono dei centri commerciali nelle pianure costiere della regione; Gaza divenne così una delle più importanti città-stato della Filistea. Rimase filistea fino all'VIII secolo quando fu conquistata dagli degli Assiri nel 734 a.C. Il re di Gaza iniziò allora a prestare giuramento di fedeltà, riconoscendosi vassallo di Ninive. Con il nuovo impero di Nabucodonosor II Gaza divenne l'avamposto di Babilonia al confine occidentale dell'impero. Nel 539 a.C. il persiano Ciro conquistò Babilonia e fondò l'impero achemenide. Nel corso dei due secoli del periodo persiano Gaza fu la perla del Mediterraneo. Nel corso della conquista della Siria Alessandro Magno impose un crudele assedio alla città, nel 332. Massacri, saccheggi e distruzioni ebbero carattere sistematico e il disastro portò alla ricostruzione di Gaza sotto l'influenza dominante della cultura ellenistica. La città conservò la sua fama e la sua importanza commerciale sotto i successori di Alessandro, i Lagidi e i Seleucidi, che se ne contesero il controllo.


Il periodo romano e bizantino

Nel 97 a.C. Gaza fu conquistata e distrutta dal regno ebraico degli Asmonei e quindi abbandonata: Gaza deserta. Pompeo la conquistò nel 61 a.C. e nella città furono ripristinate le leggi greche. Venne ricostruita una nuova Gaza, dotata di un teatro, di un ippodromo e sicuramente di una palestra e di uno stadio. Nel corso del IV secolo Gaza vede l'insediamento di marinai cristiani provenienti dall'Egitto, in particolare a Maiouma, il porto della città. La città di Gaza e la sua aristocrazia romanizzata rimasero fedeli a Zeus Marnas fino al V secolo, epoca della conversione forzata alla fede cristiana. Una basilica bizantina, l'Eudoxia, fu quindi eretta sulle rovine del Marneion distrutto nel 402. La città ospitava una comunità ebraica di agricoltori, in particolare a Maiouma dove sono stati ritrovati i resti di una sinagoga del V secolo. Il monachesimo si sviluppò nella regione sotto l'impulso di Ilarione (291-371 circa), originario di Gaza. La città divenne un centro attivo della vita cristiana e intellettuale con la famosa scuola di retorica di Procopio di Gaza. Furono costruiti nuovi edifici come il palazzo vescovile, il mercato coperto, le terme e una scuola di mosaicisti di talento che operavano sia in città che nei centri vicini.


Il periodo musulmano

Nel 637 la città fu conquistata dalle armate musulmane. La popolazione era allora in maggioranza cristiana e lo status delle piccole comunità ebraica e samaritana venne rispettato. Così, fino alle crociate, queste comunità continuarono a prosperare in una città che si islamizzava progressivamente. Gaza era ancora una grande città ricca di attività artigianali, di giardini e di vigneti. Diventò un prospero centro di pellegrinaggio perché si diceva che vi fosse sepolto il nonno dell'Inviato. Le crociate aprirono un nuovo periodo di violenze. Gaza venne occupata dai crociati dal 1149 al 1187 e la sua architettura si trasformò. I crociati vi costruirono una grande chiesa romanica, che in seguito divenne la grande moschea al-'Umari. Dopo la conquista da parte dei Mamelucchi (1260-1277) tornò la pace e vennero costruite moschee e edifici commerciali. Nel 1516 Gaza divenne ottomana e la città iniziò a declinare perché le vie commerciali -specie quelle marittime- cambiarono corso.


Gaza fra il 1905 e il 1922, un patrimonio e paesaggi scomparsi

All'inizio del XX secolo il viaggiatore scopriva a Gaza il fascino di altri tempi dell'abitato circondato da piccoli giardini, il pittoresco palmeto tra le dune e il porto da pesca. Le fotografie inedite della collezione della École Biblique et Archéologique Française de Jérusalem (EBAF) sono testimonianze uniche di questi paesaggi scomparsi. Il XX secolo avrebbe infatti portato a Gaza grandi sconvolgimenti. La prima guerra mondiale non risparmiò questo lembo di terra e i bombardamenti inglesi del 1917 costarono a Gaza gran parte del suo patrimonio architettonico. Dopo l'arrivo di sfollati a partire dal 1947 e la fondazione dello stato sionista, Gaza e i suoi dintorni videro un massiccio afflusso di rifugiati a seguito della guerra del 1948-1949. In questo modo quasi duecentomila "naufraghi della storia" sono andati ad aggiungersi agli ottantamila abitanti di questa fascia costiera. Le conseguenze di quella guerra delimitarono i contorni della "Striscia di Gaza", un territorio enclave di 365 chilometri quadrati. La città portuale di Gaza si trova oggi tagliata fuori dal suo entroterra e dalle strade che in passato ne erano state la ricchezza.


II - Un patrimonio in pericolo

Con oltre 2.150.000 abitanti, di cui settecentomila nella città di Gaza (gennaio 2022), la Striscia di Gaza presenta una densità di popolazione tra le più alte della regione. Da oltre venti anni questa zona è sottoposta a un intenso consumo di suolo, associato a una incessante crisi sociale e umanitaria. Gli interventi urbanistici indispensabili e un'urbanizzazione tanto rapida non potevano essere realizzati senza ripercussioni sul patrimonio archeologico, che abbonda in tutta la regione. A fronte della moltitudine di cantieri, dei rischi di distruzione dei siti e delle scoperte casuali, è stata avviata un'archeologia di emergenza e di conservazione. Il progetto Intiqal (Trasmissione) avviato nel 2017 dall'ONG Première Urgence Internationale in collaborazione con il Ministero del Turismo e delle Antichità dell'Autorità Palestina e con l'EBAF, ha collaborato al salvataggio di diversi siti e ha contribuito alla formazione di oltre un centinaio di studenti laureati in archeologia e architettura. Dall'inizio della guerra sono i palestinesi che intervengono per salvare i siti e le collezioni archeologiche minacciati o in grave pericolo e che un domani documenteranno gli effetti del conflitto sul loro patrimonio.

Il progetto Intiqal è sostenuto dal Consolato Generale di Francia a Gerusalemme, dal British Council, dall'UNESCO, dalla Alliance Internationale pour la Protection du Patrimoine e dall'Agence Française de Développement. Al progetto collaborano anche altri partner istituzionali come il Louvre e l'Institut National du Patrimoine.


Dalla crisi umanitaria alla guerra, la creazione di una nuova archeologia

Sulla base di immagini satellitari aggiornate al 17 febbraio 2025 l'UNESCO ha osservato che dall'inizio della guerra nell'ottobre 2023 nella Striscia di Gaza ci sono stati danni a settantasei siti di interesse culturale. Considerate le minacce che gravano su questo patrimonio, l'UNESCO aveva fatto ricorso alla procedura d'urgenza prevista dalla Convenzione sul patrimonio mondiale. Il 26 luglio 2024 il Monastero di Sant'Ilarione è stato inserito nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. Oltre a questo complesso riconosciuto per il suo valore universale, sono oggi censiti dall'UNESCO circa 345 siti, edifici storici e resti di antiche città, ripartiti tra la città di Gaza, Khan Yunis, Dayr el-Balah, Rafah, Beit Hanoun, otto campi profughi e numerosi villaggi.


Agire in tempo di guerra: documentare, spostare, stabilizzare, salvare

Dall'inizio della guerra operatori palestinesi stanno lavorando per documentare, difendere e salvare i beni culturali minacciati nella Striscia di Gaza. Queste iniziative possono essere portate avanti grazie al sostegno di attori locali e internazionali. La Alliance Internationale pour la Protection du Patrimoine, attiva a Gaza dal 2020, sostiene fin dall'inizio del conflitto progetti di emergenza che hanno permesso di mettere al sicuro collezioni museali o private, di documentare e stabilizzare siti e monumenti e di formare professionisti palestinesi per gli interventi di salvataggio.

Queste operazioni, avviate nel momento in cui più intensi erano i bombardamenti, sono andate sviluppandosi durante la fragile tregua. Adesso gli operatori si trovano ad affrontare nuove sfide. Valutare l'impatto del conflitto sul patrimonio e attuarne il salvataggio e la conservazione nella situazione umanitaria e materiale prevalente a Gaza solleva sfide senza precedenti: la gestione delle macerie in zone dove due terzi degli edifici sono distrutti e le infrastrutture essenziali sono scomparse; la messa in sicurezza dell'accesso ai siti vicini alle zone di combattimento sminando aree in cui quasi il 30% delle bombe e degli esplosivi è rimasto sepolto e inesploso saranno sfide colossali e fondamentali per il futuro di Gaza, per la conservazione del suo patrimonio e della sua storia.

I progetti sostenuti dalla Alliance Internationale pour la Protection du Patrimoine a Gaza vengono portati avanti dal Museo Palestinese, dall'organizzazione Riwaq, da Première Urgence Internationale, dal Center far Cultural Heritage Préservation, dalla Mayasem Association for Arts and Culture, dal Centro Iwan e dal Museo di Rafah, in collaborazione con il Ministero del Turismo e delle Antichità dell'Autorità Palestinese.



Antico porto di Anthedon

Scoperto nel 1995 entro la città di Gaza, vicino al campo profughi di Shatteh.
Cittadella neoassira dell'inizio dell'ottavo secolo a.C. e poi città greca nel sesto secolo.
Sito gravemente danneggiato dai bombardamenti. Estensione dei danni ancora da valutare.
Anthedon è il nome greco di una città costiera vicina alla collocazione della Gaza antica. Il sito ha conosciuto il succedersi di diverse civiltà: neoassira, babilonesek persiana, greca e romana, prima di essere improvvisamente abbandonato attorno al 300 d.C. Prima della guerra del 2023 Il sito presentava le rovine di un bastione romano, un muro di mattoni crudi lungo sessantacinque metri, dei quartieri artigiani romani e una serie di ville ellenistiche. Nell'area sono stati scoperti anche pavimenti a mosaico, magazzini, un cimitero romano e strutture fortificate.



Complesso funerario di Mukheitim

Scoperto nel 1996 a Jabalya.
Dalla seconda metà del quinto secolo fino all'ottavo.
Il sito si trova in una zona di combattimento; la struttura che proteggeva i ritrovamenti è crollata in seguito alla distruzione dell'ospedale adiacente lasciando i resti senza protezione.
Tre corpi di fabbrica contigui per circa seciento metri quadri complessivi. Una chiesa bizantina a tre navate, una cappella delle offerte e un complesso battesimale costituito da quattro ambienti. Al centro un fonte cruciforme. Il sito è rilevante per le sue diciassette iscrizioni in greco e i cinquecentocinquanta metri quadrati di mosaici di ispirazione agreste che raffigurano molti personaggi e molti animali.



Monastero di Sant'Ilarione a Nussayrat

Scoperto agli inizi degli anni Novanta sul tell Umm al-'Amr a Nussayrat e indagato dal 1997.
Dal quarto al settimo secolo.
Il 26 luglio del 2024 il sito è entrato a far parte del patrimonio mondiale dell'umanità dell'UNESCO ed è nella lista dei siti minacciati.
Fondato da Ilarione, quello di Nussayrat è uno dei complessi monastici noti più antichi e più importanti del Medio Oriente. Gli ottomilatrecento metri quadri del sito sono suddivisi in un complesso ecclesiastico di quattomilaseicentocinquanta metri quadri con al centro un santuario, e in una foresteria dotata di bagni, per altri tremilaseicento metri quadri circa. Tra gli ambienti ecclesiastici si trovano una chiesa, una cripta, un atrio, dei battisteri, una cappella, le celle, il refettorio e altri locali di servizio.



Villa-museo di Jawdat Khoudary

Gaza città, quartiere di Sheikh Radwan.
Dopo l'inizio della guerra nell'ottobre 2023 l'edificio e il suo giardino sono stati occupati dall'esercito dello stato sionista che li usa come centro di comando. I giardini sono stati interamente spianati per farne un parcheggio per mezzi blindati. Più di quattromila reperti, tra i quali un colonnato bizantino con relativi capitelli sono al momento dispersi o gravemente danneggiati.
A partire dal 1996, per contrastare la vendita e il trafugamento di reperti archeologici da Gaza, Jawdat Khoudary aveva iniziato a raccoglierne fino metterne insieme oltre quattromila. Nel 2006 ne ha inviati oltre duecento in prestito a Ginevra, a sostegno della realizzazione di un grande museo archeologico a Gaza. Con l'arrivo al potere di Hamas il progetto è stato abbandonato e non ci sono più state le condizioni perché i reperti prestati potessero rientrare in sicurezza, sia a causa del blocco imposto dallo stato sionista sia delle guerre che si sono susseguite nella enclave.



Tall al Sakan

Scoperto per caso nel 1998.
Età del bronzo antica, verso il 3400-3000 a.C.
Sito molto danneggiato nel 2017 con la costruzione di un complesso immobiliare. Lavori interrrotti per le pressioni del Ministero del Turismo e delle Antichità dell'Autorità Palestinese e di professionisti del settore archeologico. Nel novembre 2023 si sono avuti altri gravi danni in seguito all'invasione sionista. A tutt'oggi non si hanno notizie sulle condizioni del sito.
Situato a cinque chilometri da Gaza città, rappresenta uno dei primi aggolmerati fortificati noti della regione e uno dei primi insediamenti amministrativi egiziani della zona sudoccidentale della Palestina. Il tell -finito ricoperto da una duna- presenta i resti di un abitato occupato da popolazioni prima egiziane, poi cananee e quindi abbandonato.




05 giugno 2025

Casaggì Firenze. Non per scelta ma per destino



Terra e Appartenenza, Discendenza e Popolo.
Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori, dicono.

Alfonsos, babis, badini, badolla, blatte, breshkagji, broccoli, broscari, cabibi, carcamanos, cifarielli, dagos, digici, digók, espaguetis, garlics, ginos, greaseballs, guidos, guineas, itaka, italiaantje, italianots, italiohn, italiot, katzener, katzelmacher, lianta de gnole, macaroni, maiaramina, makaronarji, makaroniarz, mão de vaca, marinielli, minghiaweisch, mozzarellaniggers, paštari, pepinos, pigne, pizzagang, pizzaman, pizzavreter, pepperoni, polpettos, ritals, scafuri, schinkebròtli, sentas, shitalians, spaghettivreter, spaghettis, spaghettifresser, tanos, tschinggali, tulios, vallish, verräter, wops, zabari.


03 giugno 2025

Alastair Crooke - In una tranquilla mattinata pechinese, il dollaro perde la corona



Traduzione da Strategic Culture, 2 giugno 2025.

Credo che per comprendere la rivoluzione di Trump dobbiamo partire dall'idea che sono le sconfitte a portare alle rivoluzioni.
L'esperienza in corso negli Stati Uniti, anche se non sappiamo esattamente quali ne saranno gli esiti, è una rivoluzione. È una rivoluzione in senso stretto? È una controrivoluzione?
Così ha detto lo storico e filosofo francese Emmanuel Todd nel corso della conferenza tenuta ad aprile a Mosca e intitolata Dalla Russia con amore.
Questa [rivoluzione di Trump] è, a mio avviso, legata a una sconfitta. Diverse persone mi hanno riferito di conversazioni tra membri dell'amministrazione Trump, e quello che colpisce è il fatto che sono consapevoli della sconfitta. Persone come il vicepresidente J.D. Vance e molte altre hanno capito che gli USA hanno perso questa guerra.
Questa consapevolezza della sconfitta, tuttavia, contrasta nettamente con la sorprendente mancanza di consapevolezza degli europei. O meglio, con il loro rifiuto della sconfitta.
Per gli Stati Uniti si tratta fondamentalmente di una sconfitta economica. La politica delle sanzioni ha dimostrato che il potere finanziario dell'Occidente non è onnipotente. Agli statunitensi è stata ricordata la fragilità della loro industria militare. Al Pentagono sanno bene che uno dei limiti alla loro libertà di azione è rappresentato dalla capacità limitata del complesso militare-industriale degli USA". "Che l'AmeriKKKa sia nel mezzo di un serio rivolgimento rivoluzionario, paragonabile alla fine dell'URSS, è una cosa di cui sono in pochi ad avere consapevolezza; sono i nostri preconcetti politici e intellettuali, il più delle volte, a impedirci di vedere la realtà e di interiorizzarne l'importanza.
Todd, sia detto a suo merito, ammette senza indugi questa difficoltà:
Devo ammettere che quando il sistema sovietico è crollato davvero non ero in grado di prevedere la portata dello sconvolgimento e il livello delle sofferenze che questo avrebbe causato alla Russia. La mia esperienza mi ha insegnato una cosa importante: il crollo di un sistema è tanto mentale quanto economico... Non capivo che il comunismo non era solo un'organizzazione economica, ma anche un sistema di credenze, una quasi religione, che strutturava la vita sociale sovietica e russa. Lo sconvolgimento delle credenze avrebbe portato a un disordine psicologico la cui portata andava ben oltre il disordine economico. Oggi in Occidente stiamo arrivando a una situazione dello stesso genere.
Lo sconvolgimento psicologico causato dalla "sconfitta" può spiegare (ma non giustificare) la "strana" incapacità dell'Occidente di comprendere gli eventi mondiali, la dissociazione quasi patologica dal mondo reale che esso manifesta nelle sue parole e nelle sue iniziative, la sua cecità -ad esempio- nei confronti dell'esperienza storica russa e della lunga storia che sta dietro la ribellione sciita in Iran. Eppure, anche se la situazione politica si deteriora... non c'è alcun segno che l'Occidente stia diventando più realista ed è molto probabile che continuerà a vivere nella realtà alternativa che si è costruito fino a quando non ne sarà cacciato bruscamente.
Yanis Varoufakis ha sottolineato che la concreta prospettiva che gli USA subissero una sconfitta economica è stata chiaramente indicata da Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, quando ha affermato che ciò che tiene insieme l'intero sistema globalizzato è stato il massiccio flusso di capitali dall'estero –pari a oltre due miliardi di dollari ogni giorno lavorativo– che ha sostenuto l'agiato stile di vita e la bassa inflazione degli USA.
Oggi, con gli Stati Uniti che si trovano in un'epoca di deficit strutturali insostenibili, Trump si è concentrato sul cuore finanziario del Paese: il mercato dei titoli del Tesoro che è la linfa vitale dell'AmeriKKKa, e il mercato azionario che è il suo portafoglio. Entrambi sono fragili. E qualsiasi pressione esterna potrebbe innescare una reazione a catena.
"In breve, gli USA non hanno più fiducia nel proprio baluardo finanziario. E la Cina non sta più giocando secondo le vecchie regole. Non si tratta solo di una guerra commerciale, ma di una guerra per il futuro della finanza globale", afferma Varoufakis. Ecco perché Trump minaccia di dichiarare guerra a chiunque cerchi di soppiantare o aggirare il monopolio del dollaro statunitense.
I "dazi reciproci" di Trump non hanno mai avuto lo scopo di equilibrare i traffici commerciali. Si tratta piuttosto di un tentativo di ristrutturare gli impegni verso i creditori. "È quello che si fa in caso di fallimento", osserva ironicamente un commentatore. La richiesta di maggiori contributi da parte degli Stati membri della NATO sono proprio un modo per esigere entrate dai creditori, come lo è stato il viaggio di Trump nel Golfo.
L'obiettivo della Nuova Guerra Fredda è innanzitutto quello di soffocare l'ascesa della Cina. Questo obiettivo rappresenta di fatto un terreno comune tra tutte le fazioni dell'establishment: proteggere il sistema del dollaro dal collasso.
L'idea che gli Stati Uniti possano tornare a rivestire l'antica posizione di centro manifatturiero di rilevanza mondiale è in gran parte una narrazione diversiva creata per scopi interni. Nel 1950, la forza lavoro statunitense impegnata nel settore rappresentava il 33,7% dell'economia nazionale, una cifra che oggi è scesa a meno dell'8,4%. Per tornare indietro ci vorrebbe almeno una generazione.
Quindi, consenso sulla Cina a parte, la classe dirigente è divisa: da un lato JD Vance e il team economico di Stephen Miran e Russel Vought, più preoccupati dal rischio che l'eccessiva espansione degli Stati Uniti possa minare la supremazia del dollaro; dall'altro i falchi che sostengono il rafforzamento dell'egemonia del dollaro per mezzo di esplicite dimostrazioni di forza militare.
La ristrutturazione degli impegni verso i creditori spiega anche la fretta di Trump di concludere un "accordo" con la Russia, che potrebbe portare rapide opportunità commerciali e flussi di capitale positivi (e garanzie collaterali) sul conto capitale degli Stati Uniti. Un accordo con l'Iran potrebbe persino portare all'apoteosi del dominio energetico degli Stati Uniti, con nuovi afflussi di entrate che rafforzerebbero la fiducia nel dollaro.
In breve, l'agenda di Trump non contempla una strategia di lungo termine. Essa contempla invece un convogliamento a breve termine della domanda aggregata di dollari come unica valuta richiesta, anche se chi si serve del dollaro non vuole acquistare nulla dal Paese che lo produce.
Il difetto fondamentale è che il rozzo do ut des di Trump sta distruggendo la sua credibilità come attore geopolitico serio e, di conseguenza, sta costringendo gli altri a proteggersi dal dollaro.
In breve, il crollo di credibilità causato dal disprezzo di Trump per la lettura e per i briefing dell'intelligence, nonché dalla sua dipendenza dall'ultima persona che gli ha sussurrato all'orecchio, porta a continui cambiamenti di rotta e a tutti quanti gli altri fa venire voglia di allontanarsi il più possibile dalla imprevedibile Trumplandia.
Emmanuel Todd avverte che la reazione più tipica al crollo del sistema di credenze e dell'atteggiamento che ha animato il paradigma economico "è l'ansia, piuttosto che uno stato di libertà e benessere. Le credenze che hanno accompagnato il trionfalismo occidentale stanno crollando. Ma come in ogni processo rivoluzionario, non sappiamo ancora quale nuova credenza sia la più importante, quale credenza uscirà vittoriosa da questo sfaldarsi".
Sebbene le rivoluzioni siano generalmente distruttive, il loro obiettivo è quello di sfruttare le energie sufficienti per sradicare le istituzioni troppo rigide per adeguarsi alla richiesta di cambiamento che è stata il primo motore della rivoluzione stessa.
In questo contesto, la ricerca di una nuova guerra fredda contro la Cina verte proprio sull'ansia degli Stati Uniti (come sostiene Todd), e in modo particolare sul timore che la costruzione da parte della Cina di una "super autostrada" digitale per il denaro si riveli molto più avanzata della sgangherata carrareccia che è la strada del dollaro statunitense.
Oggi quella super autostrada potrebbe non essere molto trafficata. Questo è vero adesso. Ma già sono iniziati i passaggi dalla vecchia strada alla super autostrada cinese, come Varoufakis fa notare ai cinesi.
Lo establishment statunitense considera la super autostrada cinese un pericolo "chiaro e concreto" alla propria egemonia. L'ansia non riguarda tanto la proprietà intellettuale cinese o il "furto di proprietà intellettuale". È il timore che gli Stati Uniti non riescano a stare al passo con i nuovi ecosistemi finanziari costruiti dalla Cina o con la sofisticatezza dello yuan digitale.
Questa ansia è aggravata, non da ultimo, dal fatto che i signori della Fintech della Silicon Valley sono ai ferri corti con le grandi banche di compensazione di Wall Street (che vogliono preservare i loro sistemi antiquati). La Cina ha un vantaggio in questo senso, poiché il suo settore finanziario e il suo settore tecnologico sono fusi in un unico insieme.
I motivi di tanto timore sono chiari: se la Cina dovesse avere successo, gli Stati Uniti perderebbero l'arma miracolosa del loro dominio monetario.
"Ed ecco la rivoluzione: niente fuochi d'artificio, niente titoli sui giornali occidentali. Solo, in una tranquilla mattinata pechinese il dollaro perde la corona. Le tubature finanziarie del mondo hanno appena subito un cambio di tracciato, e adesso percorrono la [super autostrada] cinese.
Per la prima volta in assoluto il CIPS (Cross-Border Interbank Payment System) cinese ha superato lo SWIFT in termini di volume di transazioni giornaliere. Un banner rosso è apparso sulla sede della Bank of China alle 1:30 del mattino del 16 aprile 2025.
Il CIPS [come riferisce Zerohedge] ha elaborato l'incredibile cifra di 12,8 trilioni di yuan in un solo giorno, pari a circa 1,76 trilioni di dollari USA. Se confermato, tale volume supera il sistema SWIFT, dominato dal dollaro, in termini di volume giornaliero di transazioni transfrontaliere.

21 maggio 2025

Alastair Crooke - La transizione che sta portando a un nuovo ordine mondiale è per lo più incomprensibile per l'Occidente

Negli Stati Uniti, a dire la verità, che ci sia bisogno di cambiare il quadro generale è una cosa di cui hanno preso atto appena adesso.
La leadership europea e coloro che hanno tratto ogni vantaggio dalla finanziarizzazione adesso si lamentano con alterigia della "tempesta" scatenata da Trump sul mondo, e ridicolizzano i fondamenti delle sue iniziative economiche come se fossero qualcosa di astruso e di completamente fuori dalla realtà.
Il che è assolutamente falso.
Come sottolinea l'economista greco Yanis Varoufakis, di come stessero realmente le cose in Occidente e di come fosse necessario un cambiamento generale aveva già parlato con chiarezza l'ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker addirittura nel 2005.
La dura realtà del paradigma economico liberale globalizzato era evidente già allora:
Ciò che tiene insieme il sistema globalizzato è un massiccio e crescente flusso di capitali dall'estero, che supera i 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo e continua a crescere. Questo non ci provoca alcuna sensazione di tensione. Come nazione, non siamo consapevoli del fatto che stiamo prendendo denaro in prestito, né del fatto che stiamo mendicando. Non offriamo nemmeno tassi di interesse attraenti, né dobbiamo offrire ai nostri creditori una protezione contro il rischio che il dollaro scenda.
Per noi è tutto molto comodo. Riempiamo i nostri negozi e i nostri garage con merci provenienti dall'estero, e questa concorrenza è servita da forte calmiere per i prezzi del mercato interno. Questo ha sicuramente contribuito a mantenere i tassi di interesse eccezionalmente bassi, nonostante i nostro risparmi diminuiscano e la crescita sia rapida.
Tutto questo ha fatto comodo anche ai nostri partner commerciali e a chi fornisce capitali. Alcuni, come la Cina [e l'Europa, in particolare la Germania], sono diventati pesantemente dipendenti dall'espansione del nostro mercato interno. E le banche centrali dei paesi emergenti si sono dimostrate per lo più disposte a tenere sempre più dollari. E il dollaro dopotutto è la cosa più vicina a una valuta veramente internazionale che esista al mondo.
Il problema è che questo stato di cose apparentemente comodo non può andare avanti all'infinito.
Appunto. E Trump sta facendo saltare in aria il sistema del commercio per ricominciare da zero. Quei liberali occidentali che oggi digrignano i denti e lamentano l'avvento della "economia trumpiana" semplicemente negano che Trump abbia per lo meno preso atto dell'aspetto più importante che questo stato di cose ha per gli Stati Uniti, vale a dire che esso non può andare avanti all'infinito che che i tempi del consumismo basato sul debito ormai sono finiti già da un pezzo.
È bene ricordare che la maggior parte dei partecipanti al sistema finanziario occidentale in vita loro non hanno conosciuto altro che il confortevole mondo descritto da Volcker. Non c'è da stupirsi che abbiano difficoltà a pensare a qualcosa che esuli dal loro orticello. Questo non vuol dire, ovviamente, che la soluzione di Trump funzionerà. È possibile che la peculiare forma di riequilibrio strutturale promossa da Trump possa in concreto peggiorare le cose.
Ciononostante, una qualche forma di cambiamento sostanziale non è più rimandabile. Altrimenti la scelta sarà tra un lento scivolare verso la bancarotta e un precipitarvi a rotta di collo.
Il sistema globalizzato e basato sul dollaro ha funzionato bene all'inizio, almeno dal punto di vista degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno esportato la loro sovraccapacità produttiva del dopoguerra in un'Europa dollarizzata da pochissimo, che consumava il surplus. Anche l'Europa ha goduto dei vantaggi di un contesto macroeconomico favorevole; i suoi modelli basati sulle esportazioni e garantiti dal mercato statunitense.
La crisi oggi in atto è tuttavia inziata quando il paradigma si è invertito, quando gli Stati Uniti sono entrati in un'era di deficit strutturali insostenibili e quando la finanziarizzazione ha portato Wall Street a costruire una piramide rovesciata di "attività" derivate, fondate su un minuscolo perno di attività reali.
La crisi dovuta a questo squilibrio strutturale è una cosa già grave di per sé. Ma la crisi geostrategica occidentale va ben oltre la semplice contraddizione strutturale tra i flussi di capitali che si riversano in entrata e un dollaro "forte" che sta divorando il cuore del settore manifatturiero statunitense. Essa è infatti strettamente legata al concomitante crollo delle ideologie di base che fanno da sostegno alla globalizzazione liberale.
È proprio questa profonda devozione occidentale all'ideologia -oltre alla bambagia di cui è stato generoso il sistema descritto da Volker- ad aver scatenato un tale fiume di rabbia e di scherno nei confronti dei piani di "riequilibrio" di Trump. Quasi nessun economista occidentale ha qualcosa di positivo da dire a riguardo, ma nessuno nemmeno propone alcuna alternativa praticabile. La loro animosità nei confronti di Trump non fa che sottolineare il fatto che anche la teoria economica occidentale è andata in bancarotta.
Il che significa che a un livello più profondo la crisi geostrategica dell'Occidente implica il crollo di una ideologia archetipica e al tempo stesso quello di un assetto elitario sclerotizzato.
Per trent'anni Wall Street ha venduto castelli in aria in cui il debito non contava. Un'illusione che è appena andata in frantumi.
Qualcuno che capisce che il paradigma economico occidentale e il consumismo iperfinanziarizzato e basato sul debito hanno fatto il loro tempo, e che cambiare è inevitabile, effettivamente c'è. Ma l'Occidente ha investito così tanto nel modello economico “anglosassone” che, per la maggior parte, gli economisti ne sono irretiti. La parola d'ordine è sempre la stessa, vale a dire che "non ci sono alternative".
Il fondamento ideologico del modello economico statunitense si trova innanzitutto nell'opera di Friedrich von Hayek intitolata Verso la schiavitù: qualsiasi intervento governativo nella gestione dell'economia sarebbe una violazione della "libertà" e sarebbe la stessa cosa che il socialismo. Il fondamento archetipico dell'ideologia sarebbe poi nato dall'unione del pensiero di von Hayeck con la Scuola Monetarista di Chicago rappresentata dalla persona di Milton Friedman, che avrebbe scritto la versione statunitense di Verso la schiavitù. E che -ironicamente- sarebbe stata intitolata Capitalismo e libertà.
L'economista Philip Pilkington scrive che l'illusione di Hayek per cui mercati e "libertà" sarebbero la stessa cosa, in sintonia con la corrente libertaria profondamente radicata negli Stati Uniti, "si è diffusa al punto da saturare completamente il discorso pubblico":
Tra persone ben educate e in pubblico, si può certamente essere di sinistra o di destra, ma si sarà sempre neoliberisti per un verso o per l'altro; altrimenti, semplicemente, non ci sarà consentito partecipare al dibattito. Ogni paese può avere le sue peculiarità... ma in linea di massima seguono tutti un modello simile: il neoliberismo basato sul debito è innanzitutto una teoria su come riorganizzare lo Stato per garantire il successo dei mercati e del loro attore principale, che sono le moderne società per azioni.
Ecco quindi il punto fondamentale: la crisi della globalizzazione liberale non può comportare il mero riequilibrio di una struttura fallimentare. Lo squilibrio è comunque inevitabile quando tutte le economie perseguono allo stesso modo, tutte insieme e tutte contemporaneamente, il modello anglosassone "aperto" basato sulle esportazioni.
No, il problema più grande è che è crollato anche il mito archetipico per cui quando gli individui (e gli oligarchi) perseguono ciascuno il massimo del proprio utile individuale -grazie alla magia della mano invisibile del mercato- i loro sforzi combinati finiscono nel loro insieme per andare a beneficio della comunità nel suo complesso (Adam Smith).
In effetti l'ideologia a cui l'Occidente si aggrappa con tanta tenacia, secondo cui la motivazione umana è utilitaristica e solo utilitaristica, è un'illusione. Come hanno sottolineato filosofi della scienza come Hans Albert, la teoria della massimizzazione dell'utilità esclude a priori la presa in considerazione del mondo reale, cosa che rende la teoria non verificabile.
Il fatto paradossale è che Trump è comunque il primo di tutti i massimizzatori utilitaristi! È quindi il profeta di un ritorno all'era dei magnati statunitensi del XIX secolo, o è il sostenitore di un ripensamento ancora più radicale?
Insomma, l'Occidente non può passare a una struttura economica diversa -come potrebbe essere un modello "chiuso" a circolazione interna- proprio perché dal punto di vista ideologico ha investito oltremodo nei fondamenti filosofici di quella attuale, tanto che metterli in discussione sembra essere la stessa cosa che tradire i valori europei e i valori libertari che negli Stati Uniti hanno un valore fondante. E che derivano dalla Rivoluzione francese.
Il fatto è che oggi come oggi in Occidente il concetto dei "valori" ateniesi che esso rivendica è screditato quanto la sua teoria economica ha perso credito tanto nel resto del mondo, quanto presso una parte significativa di una popolazione irritata e disillusa.
In buona sostanza, non si vada a cercare presso le élite europee una visione coerente del nuovo ordine mondiale che si sta affermando. Esse sono in piena crisi e sono troppo occupate a cercare di salvarsi dal crollo della sfera occidentale e dalla temuta punizione da parte dei loro elettori.
La nuova era segna anche la fine della vecchia politica: le dicotomie dei "rossi contro i blu" e della "destra contro sinistra" stanno perdendo di significato. E si stanno già formando nuove identità politiche e nuove aggregazioni, anche se la loro definizione è ancora incerta.

16 maggio 2025

Spaghetti, pallone e campi di concentramento



Verso la fine degli anni Ottanta la propaganda politica illustrava e vantava i successi dell'economia. Lo stato che occupa la penisola italiana era (dicevano) la sesta o quinta potenza economica mondiale. L'agenda "occidentalista" era patrimonio di qualche vecchio ringhioso e un ricco milanese che di lì a qualche anno avrebbe fondato un partito per non finire in galera faceva ancora il ricco milanese che poteva evitare di finire in galera senza andare a decidere il destino di tantissime persone che non desideravano affatto il suo interessamento.
Nel 2025 lo stato che occupa la penisola italiana è sparito da certe classifiche -o meglio, vi figura eccome ma è bene non farle vedere troppo in giro- e il ricco milanese che aveva fondato un partito per non finire in galera è morto. Prima di morire però ha passato una trentina d'anni a dare visibilità, cariche e agibilità politica ai migliori alfieri dell'agenda "occidentalista" oggi comunemente condivisa. Alfieri che aveva personalmente tirato fuori dalle fogne. I risultati sono stati eccezionali: dopo tanti anni e tantissimo logorante e assiduo impegno la propaganda politica non illustra e non vanta i successi dell'economia. Illustra e vanta i campi di concentramento.
Uno di questi campi di concentramento si trova nella Repubblica d'Albania ed è stato argomento di molti telegazzettini. Anita Likmeta è nata a Durrës e potrebbe essere tacciata di filocomunismo solo dai gazzettieri più ligi e dai più repellenti tra i buoni a nulla che usano le "reti sociali" per sporcare ovunque. In "L'aquila nera, una storia rimossa del fascismo in Albania" si esprime sull'argomento in termini che difficilmente troveranno posto in televisione.
Oggi l'Albania non combatte più per l'Europa. Oggi l'Albania è la sua discarica. Nell'estate del 2024, il governo italiano ha reso ufficiale ciò che per anni si è cercato di mascherare dietro la retorica della cooperazione internazionale: il primo sbarco di migranti sulle coste albanesi non è stato un atto di accoglienza, ma di espulsione. Il 16 ottobre, sedici uomini provenienti dal Bangladesh e dall'Egitto, intercettati nel Mediterraneo, sono stati trasferiti a Shëngjin sotto sorveglianza militare. Non più vite in fuga, non più persone in cerca di futuro, ma un problema logistico da dislocare altrove, lontano dagli occhi, dal cuore e dalla coscienza collettiva. L'accordo prevede fino a 36.000 trasferimenti all'anno: un flusso continuo di esseri umani trattati come scarti, destinati a essere ammassati in centri di detenzione oltre il confine europeo, in un limbo amministrativo senza volto né voce. L'Albania di oggi è l'angolo dimenticato dove si scaricano gli affari sporchi, gli accordi mai dichiarati, i progetti senza futuro. La terra che nessuno difende e tutti vogliono controllare. Siamo rimasti una frontiera, ma non una che si protegge: una che si sfrutta, che si vende al miglior offerente.

10 maggio 2025

Firenze. Il Comitato cittadini attivi San Jacopino difende orgoglioso i bottegoni Esselunga



Il Comitato cittadini attivi San Jacopino è una roba da Libro dei Ceffi che si premura di specificare di essere apolitico, il che significa che politico lo è eccome, almeno dai tempi dell'islamofoba da taschino Francesca Lorenzi.
Nel maggio 2025 sul Libro dei Ceffi è comparsa questa convocazione.
Sit-in
Giovedi 15 maggio 2025
ore 18:15
Insieme per la sicurezza
per chiedere al governo fiorentino e forze
dell'ordine più sicurezza e presidi
Basta spaccio, basta degrado
basta furti e sciacalli nei
supermercati Esselunga
Più telecamere di sicurezza
Presidio delle forze dell'ordine interforze
Basta scippi, aggressioni, spaccate .

Ritrovo davanti Esselunga via Galliano
Giardino Galliano Palazzo INPS Via Toselli
Siete tutti invitati comitati, associazioni gruppi FB A
Partecipare per la nostra sicurezza portate striscioni

Comitato cittadini attivi
San Jacopino
Dal che veniamo a sapere che non solo esiste un governo fiorentino, ma che se uno ha bisogno di sostanze contenenti i principi attivi della cannabis sativa, del papaver somniferum, dello erythroxylum coca o altre ancora può rivolgersi ai bottegoni Esselunga, pur presidiati da ladri e canes aurei che magari richiedono qualche precauzione.
A proposito di precauzioni, chi ha redatto il volantino deve conoscere molto bene i suoi polli e in un "paese" dove basta usare decentemente il congiuntivo per rischiare di essere aggrediti fisicamente da qualche ciabattona diplomata alla scuola della vita ha pensato bene di non correre rischi inutili. Ha ridotto all'osso i segni di interpunzione e nell'originale ha evitato anche quella noiosa e incomprensibile alternanza tra maiuscole e minuscole con cui scrivono i tuttologi tridosati con il siero. Tra i risultati più simpatici uno ibis redibis non morieris in bello in cui pare di capire che portando striscioni si contribuisca alla sicurezza
Una iniziativa importante e costruttiva, dalle consegne chiare. Perché mai non plaudire a un contributo così rilevante per la vita politica e sociale di Firenze.
Abbiamo più volte ricordato come a Firenze ci sia un bottegone ogni cinquecento metri, come il signor Caprotti e i suoi eredi siano stati protagonisti in negativo di alcuni pessimi episodi della vita economica locale, e di come il fatto che adesso anche l'unico ruolo accordato ai sudditi con una qualche buona grazia, che è quello di consumatori, sia messo in discussione non solo e non tanto dagli individui problematici attirati da quella che si è voluta ad ogni costo ergere a rilevantissima agenzia socializzatrice non istituzionale, ma anche e soprattutto dalla devastazione dei redditi in corso da oltre trent'anni, che nulla e nessuno intende -e neppure può- fermare. Il democratismo rappresentativo può trovare qualche legittimazione solo ripetendo l'unico copione che conosce, che è quell'accanimento contro le figure marginali in cui sono specializzate moltissime gazzette e cui oggi danno volenterosa mano anche figure di un livello chissà perché ritenuto superiore. C'è anche l'intelligenza artificiale, con cui trattare foto di tagliagole più o meno melaninodotati -a metà strada tra la realtà e l'allucinazione a contenuto persecutorio- a beneficio dell'idiozia naturale dell'elettorato di riferimento.
Il bottegone nella sua vera essenza fa ottima figura in un film del 1978 che lo ritrae come ambiente ideale per dei morti viventi.
In un film del 1978, è bene ripetere.
In altre parole, il bottegone costituisce una realtà tale, e si pone in un contesto tale, che le persone serie possono al massimo meravigliarsi del fatto che chi vi entra brandendo una scure rappresenti l'eccezione.
Che la vita "occidentale" sia sovvertita al punto che qualcuno si senta in dovere di manifestare per difendere un posto del genere, meraviglia ancora meno.

08 maggio 2025

Alastair Crooke - Donald Trump, il campione degli accordi che non conclude accordi



Traduzione da Strategic Culture, 5 maggio 2025.

La versione corrente, sia in Ucraina che in Iran, è che il presidente Trump vuole arrivare a un accordo. In tutti e due i casi la cosa è fattibile, ma sembra che Trump sia comunque riuscito a mettersi con le spalle al muro. Trump tiene a presentare la sua amministrazione come un qualcosa di più spiccio, di più cattivo e di molto meno incline ai sentimentalismi. Essa aspira ad affermarsi, a quanto sembra, anche come qualcosa di più centralizzato, coercitivo e radicale.
In politica interna definire l'ethos trumpiano in questi termini può anche essere fondato. In politica estera tuttavia Trump tergiversa. Il motivo non è chiaro, ma è una cosa che offusca le sue prospettive nei tre settori fondamentali per le sue aspirazioni di "pacificatore": l'Ucraina, l'Iran e Gaza.
Certamente Trump deve la sostanza del suo mandato al dilagante malcontento economico e sociale piuttosto che alla sua pretesa di essere un pacificatore; tuttavia gli obiettivi chiave della politica estera rimangono importanti per mantenere un buon livello di consenso e di inziativa.
Si potrebbe rispondere che nei negoziati internazionali un presidente ha bisogno di circondarsi di personalità determinate ed esperte in grado di sostenerlo. E Trump di queste personalità non ne dispone.
Prima mandare il suo inviato Witkoff a parlare con il presidente Putin, pare che il generale Kellogg abbia presentato a Trump una proposta di armistizio in stile Versailles, basata sull'idea che la Russia fosse alle corde: il piano era formulato in termini che sarebbero stati più appropriati a una capitolazione. La proposta di Kellogg sottintendeva anche l'idea che Trump avrebbe fatto a Putin un "grande favore", a toglierlo dal pantano ucraino in cui era andato a cacciarsi. Ed è proprio questa la linea che Trump ha adottato a gennaio. Dopo aver affermato che la Russia aveva perso in guerra un milione di uomini, Trump aveva aggiunto che "con il suo rifiutare ogni accordo, Putin sta distruggendo la Russia". Disse anche che l'economia russa era "alla rovina" e, cosa ancora più significativa, che avrebbe preso in considerazione l'ipotesi di imporre sanzioni o dazi alla Russia. In un successivo post su Truth Social, Trump ha scritto: "Farò alla Russia, la cui economia sta crollando, e al presidente Putin, un FAVORE davvero grosso".
Debitamente imbeccato dai suoi, il presidente potrebbe aver pensato di offrire a Putin un cessate il fuoco unilaterale e, in men che non si dica, di arrivare rapidamente ad un accordo che avrebbe ascritto a proprio merito. Tutte le premesse su cui si basava il piano Kellogg -il fatto che la Russia soffrisse per le sanzioni e che la guerra ormai in stallo fosse costata enormi perdite- erano false. Nessuno nell'entourage di Trump ha quindi svolto le dovute verifiche sulla strategia di Kellogg? Sembra che -per pigrizia- abbiano preso come modello la guerra di Corea, senza stare neanche a chiedersi se si trattasse di un paragone appropriato o meno.
Nel caso della guerra di Corea il cessate il fuoco lungo la linea del fronte precedette le considerazioni politiche, che arrivarono solo in un secondo momento. E che a tutt'oggi permangono irrisolte.
Con questo insistere anzitempo per un cessate il fuoco immediato durante i colloqui con i funzionari russi a Riyadh, Trump li ha invitati a rifiutare. Soprattutto perché gli uomini di Trump non avevano un piano concreto su come attuare un cessate il fuoco, e si sono limitati a dare per scontato che tutti i dettagli potessero essere affrontati a posteriori. Insomma, la questione è stata presentata a Trump come una facile vittoria.
Cosa che non era.
Il risultato era ovvio: il cessate il fuoco è stato rifiutato. Se al lavoro ci fosse stata gente davvero competente non si sarebbe arrivati a tanto. Nessuno dei funzionari di Trump ha sentito cosa aveva detto Putin il 14 giugno dell'anno scorso, quando aveva esposto con molta chiarezza al Ministero per gli Affari Esteri la posizione russa su un cessate il fuoco, posizione da allora regolarmente ribadita? A quanto pare no.
Eppure, quando l'inviato di Trump Witkoff è tornato dal lungo incontro con il presidente Putin per riferire sulla spiegazione dettagliata fornitagli di persona da quest'ultimo sul perché un qualsiasi cessate il fuoco avrebbe dovuto essere preceduto da un inquadramento politico -a differenza di quanto accaduto in Corea- il generale Kellogg gli avrebbe seccamente ribadito che "gli ucraini non accetteranno mai".
Fine della discussione, a quanto pare. Nulla di fatto.
La situazione è rimasta la stessa, nonostante diversi altri voli diretti a Mosca. A Mosca si attendono conferme sul fatto che Trump è in grado di consolidare la sua posizione e di prendere la situazione in pugno. Fino a quel momento, Mosca è pronta ad agevolare un "ravvicinamento delle posizioni", ma non approverà un cessate il fuoco unilaterale. E nemmeno Zelensky.
A rimanere incomprensibile è come mai Trump non interrompa i flussi di armi e di intelligence statunitensi verso Kiev e non dica agli europei di togliersi dai piedi. Kiev dispone forse di una qualche forma di potere di veto? Gli uomini di Trump non hanno capito che gli europei sperano semplicemente di ostacolare l'obiettivo di Trump, che è quello di normalizzare le relazioni con la Russia? Sarà il caso che comincino a capirlo.
Sembra che il "dibattito" -se così si può chiamarlo- all'interno dell'amministrazione Trump abbia in gran parte escluso i dati reali. Si è svolto ad un livello normativo elevato, dove certi fatti e certe verità sono semplicemente dati per scontati.
Forse ha pesato molto una dinamica analoga al fenomeno dei costi irrecuperabili: più si continua con una linea di condotta -non importa quanto stupida- meno si è disposti a cambiarla. Cambiarla sarebbe interpretato come riconoscere l'errore, e riconoscere l'errore è il primo passo verso la perdita del potere.
E c'è un parallelo nei colloqui con l'Iran.
Trump ha in mente di arrivare a un accordo negoziato con l'Iran che raggiungerebbe il suo obiettivo di un Iran senza armi nucleari. Obiettivo che sarebbe esso stesso tautologico, dato che la comunità dei servizi statunitensi ha già stabilito che l'Iran non possiede armi nucleari.
Come si fa a fermare una cosa che non esiste? Beh, l'intenzione è un concetto estremamente difficile da definire. Quindi, l'entourage di Trump riparte dall'inizio, dal punto fermo originario stabilito dalla Rand Organisation per cui non esiste alcuna differenza qualitativa tra l'arricchimento dell'uranio a fini pacifici e quello a fini militari. Quindi, non dovrebbe essere consentito alcun arricchimento.
Solo che l'Iran l'uranio lo arricchisce, grazie alla concessione di Obama nell'ambito del JCPOA, che lo ha permesso sia pure con alcune limitazioni.
Circolano molte idee su come quadrare il cerchio, ovvero il rifiuto dell'Iran di rinunciare all'arricchimento e l'impossibilità di Trump di usare le parole come armi. Nessuna di queste idee è nuova: importare in Iran materie prime arricchite; esportare l'uranio altamente arricchito dall'Iran in Russia (cosa già fatta nell'ambito del JCPOA) e chiedere alla Russia di costruire l'impianto nucleare iraniano per alimentare l'industria locale. Il problema è che la Russia lo sta già facendo. Un impianto è già in funzione e un altro è in costruzione.
Anche lo stato sionista naturalmente ha avanzato le sue proposte: eliminare alla radice tutte le infrastrutture di arricchimento e le capacità missilistiche dell'Iran.
Solo che l'Iran non accetterà mai.
Quindi, la scelta è tra un sistema di ispezioni e sorveglianza tecnica, implementato in un accordo simile al JCPOA -che non farà la felicità né dello stato sionista né la leadership istituzionale ad esso vicina- o un'azione militare.
Il che ci riporta all'entourage di Trump e ai disaccordi all'interno del Pentagono.
Pete Hegseth ha fatto avere all'Iran questo messaggio, pubblicato su un suo account sui social:
Vediamo il vostro sostegno LETALE agli Houthi. Sappiamo esattamente cosa state facendo. Sapete molto bene di cosa è capace l'esercito statunitense e siete stati avvertiti. Ne pagherete le CONSEGUENZE nel momento e nel luogo da noi scelti.
Chiaramente, Hegseth è un frustrato. Come ha osservato Larry Johnson:
Gli uomini di Trump si sono mossi sulla base di [un'altra] falsa supposizione, ovvero che i collaboratori di Biden non abbiano compiuto seri sforzi per distruggere l'arsenale di missili e di droni degli Houthi. I sostenitori di Trump credevano di poter bombardare gli Houthi fino a sottometterli. Invece, gli Stati Uniti stanno dimostrando a tutti i paesi della regione i limiti della loro potenza navale e aerea... Nonostante più di seicento sortite di bombardamento, gli Houthi continuano a lanciare missili e droni contro le navi statunitensi nel Mar Rosso e contro obiettivi all'interno dello stato sionista.
Pare che gli uomini di Trump si siano prima cacciati in un conflitto con lo Yemen e poi in un negoziato complicati con l'Iran, ancora una volta senza aver controllato di essere tutti d'accordo sullo Yemen. Si tratta davvero di un ragionamento di gruppo?
In una situazione di incertezza come quella attuale, la solidarietà viene vista come un fine in sé e nessuno vuole essere accusato di "indebolire l'Occidente" o di "rafforzare l'Iran". Se devi sbagliare, meglio sbagliare in compagnia del maggior numero possibile di persone.
Lo stato sionista lascerà correre? Sta lavorando alacremente con il generale Kurilla (il generale statunitense al comando del CENTCOM) nel bunker sotto il Dipartimento della Difesa, preparando piani per un attacco congiunto contro l'Iran. Lo stato sionista sembra molto impegnato in questa occupazione.
Tuttavia, l'ostacolo fondamentale al raggiungimento di un accordo con l'Iran è ancora più cruciale, in quanto -così come è attualmente concepito- l'approccio degli Stati Uniti ai negoziati viola tutte le regole su come avviare un trattato di limitazione degli armamenti.
Da un lato c'è lo stato sionista, che ha armi nucleari e la capacità per lanciarle con sottomarini, aerei e missili. Lo stato sionista il ricorso alle armi nucleari lo ha anche minacciato, sia recentemente a Gaza sia durante la prima guerra in Iraq, in risposta ai missili Scud di Saddam Hussein.
A mancare, qui, è un minimo di principio di reciprocità. Si dice che l'Iran minaccia lo stato sionista, quando è lo stato sionista a minacciare regolarmente l'Iran. E lo stato sionista ovviamente vuole che l'Iran sia neutralizzato e disarmato, mentre insiste per non dover rendere conto di niente: niente trattato di non proliferazione, niente ispezioni dell'AIEA, nessuna ammissione.
I trattati di limitazione agli armamenti avviati da JF Kennedy e da Krusciov derivavano dal successo dei negoziati con cui gli Stati Uniti ritirarono i propri missili dalla Turchia prima che la Russia ritirasse i propri da Cuba.
Deve essere chiaro a Trump e Witkoff che proposte sbilanciate come quella che rivolgono all'Iran non hanno alcuna relazione con le realtà geopolitiche e sono quindi prima o poi destinate al fallimento. La squadra di Trump si sta mettendo con le spalle al muro da sola, costringendosi ad un'azione militare contro l'Iran di cui poi dovrà assumersi la responsabilità.
Trump questo non lo vuole, l'Iran non lo vuole. Quindi, si è approfondita la questione? L'esperienza dello Yemen è stata presa in considerazione nella sua interezza? Quelli di Trump hanno pensato a qualche via d'uscita? Un modo innovativo per uscire da questo dilemma e di ripristinare almeno in parte una parvenza di trattato di limitazione degli armamenti come lo si intende in modo classico potrebbe essere l'avanzare l'idea, da pare di Trump, che è giunto il momento che lo stato sionista aderisca al trattato di non proliferazione e che sottoponga le sue armi all'ispezione dell'AIEA.
Trump lo farà? No.
Il motivo è ovvio.
La trasformazione degli USA voluta da Trump passa dal ricostruire gli USA innanzitutto.

29 aprile 2025

Alastair Crooke - Trump e il disastroso piano Kellogg per l'Ucraina




Traduzione da Strategic Culture, 28 aprile 2025.

A Washington la politica intesa come guerra è un endemismo. Ma il numero delle vittime al Pentagono ha iniziato a salire vertiginosamente. Tre dei principali consiglieri del segretario alla Difesa Hegseth sono stati sospesi e poi licenziati. La guerra continua, e adesso nel mirino c'è lo stesso segretario. La cosa è importante perché l'attacco a Hegseth arriva nel mezzo di un feroce dibattito interno all'amministrazione Trump sulla politica nei confronti dell'Iran. I falchi vogliono l'eliminazione definitiva di tutte le capacità nucleari e militari dell'Iran, mentre molti "moderati" mettono in guardia contro un'escalation militare; secondo quanto riferito, Hegseth era tra coloro che mettevano in guardia contro un intervento in Iran.
I recenti licenziamenti al Pentagono sono stati tutti identificati come appartenenti all'ala dei dubbiosi. Uno di questi, Dan Caldwell, ex consigliere capo di Hegseth e veterano dell'esercito, ha scritto un post in cui criticava aspramente i falchi, e successivamente è stato licenziato. In seguito è stato intervistato da Tucker Carlson. In particolare, Caldwell descrive in termini durissimi le guerre statunitensi in Iraq e in Siria ("criminali"). Questo atteggiamento negativo nei confronti delle guerre precedenti sembra essere un tema ricorrente tra i veterani statunitensi di oggi.
A quanto pare i tre membri dello staff del Pentagono sono stati licenziati non per aver divulgato informazioni riservate, ma sostanzialmente per aver dissuaso Hegseth dal sostenere la guerra contro l'Iran; i sostenitori dello stato sionista invece a quella guerra non hanno affatto rinunciato.
Le arroventate linee di frattura che dividono falchi e “repubblicani” tradizionalisti si ritrovano anche per la questione dell'Ucraina, anche se l'appartenenza alle fazioni può cambiare leggermente. I sostenitori dello stato sionista e i falchi statunitensi in generale si ritrovano sia a sostenere la guerra contro la Russia sia ad avanzare posizioni perentorie nei confronti dell'Iran.
Il commentatore conservatore Fred Bauer osserva che quanto a impulsi bellicisti, in Trump se ne trovano di contrastanti:
Influenzato dalla guerra del Vietnam della sua giovinezza... Trump sembra profondamente contrario ai conflitti militari a lungo termine, ma allo stesso tempo ammira una politica fatta di forza e di spavalderia. Una cosa che vuol dire eliminare i generali iraniani, lanciare attacchi aerei contro gli Houthi e aumentare il budget della difesa a mille miliardi di dollari.
Se le pressioni per la sua rimozione dovessero avere successo e Hegseth dovesse uscire di scena, la contesa potrebbe diventare ancora più feroce. E c'è già una prima vittima: la speranza di Trump di porre rapidamente fine al conflitto in Ucraina non esiste più.
Questa settimana il team di Trump (comprese entrambe le fazioni in lotta, Rubio, Witkoff e il generale Kellogg) si è riunito a Parigi con vari rappresentanti europei e ucraini. Durante l'incontro la delegazione statunitense ha avanzato una proposta di cessate il fuoco unilaterale russo-ucraino.
In aeroporto a riunioni terminate Rubio ha detto con chiarezza che il piano per un cessate il fuoco era un'iniziativa statunitense "da prendere o lasciare". Le varie parti -la Russia, Kiev e i membri europei della "coalizione dei volenterosi"- avevano solo pochi giorni per accettarlo, altrimenti gli Stati Uniti si sarebbero "chiamati fuori" e della guerra se ne sarebbero lavati le mani.
Il quadro presentato, secondo quanto riferito, è quasi -forse al 95%- identico a quello proposto a suo tempo dal generale Kellogg: si tratta, cioè, sempre del suo piano, reso noto per la prima volta nell'aprile 2024. Sembra che Trump abbia fatto propria questa "formula Kellogg", anche se all'epoca era nel pieno della campagna elettorale e difficilmente poteva seguire da vicino i complicati dettagli della guerra in Ucraina.
Al generale Kellogg è verosimile che si debba anche l'ottimismo con cui Trump considera possibile mettere termine alle ostilità in Ucraina con uno schiocco di dita, ovvero attraverso l'applicazione di limitate pressioni asimmetriche e minacce su entrambi i belligeranti, e secondo i tempi decisi a Washington.
In sostanza il piano era frutto del consenso vigente negli ambienti governativi sul fatto che gli USA avrebbero potuto arrivare a imporre una soluzione negoziata, con condizioni in linea con gli interessi statunitensi e ucraini.
Le ipotesi implicite nel piano di Kellogg erano che la Russia fosse altamente vulnerabile alla minaccia di sanzioni (la sua economia era percepita come fragile), che avesse subito perdite insostenibili e che la guerra fosse in una fase di stallo. Kellogg ha quindi convinto Trump che la Russia avrebbe accettato prontamente i termini proposti per il cessate il fuoco, sebbene questi si fondassero su ipotesi palesemente errate circa la Russia e le sue presunte debolezze.
L'influenza di Kellogg, con i suoi fallaci presupposti, si è resa fin troppo evidente in gennaio quando Trump, dopo aver affermato che la Russia aveva perso un milione di uomini (in guerra), ha proseguito dicendo che "Putin sta distruggendo la Russia, col suo rifiutare un accordo", aggiungendo -apparentemente come se fosse un'osservazione a margine- che Putin potrebbe aver già deciso di "non accettare un accordo". Trump disse anche che l'economia russa è "alla rovina" e -cosa ancora più significativa- che avrebbe preso in considerazione l'ipotesi di imporre sanzioni o dazi alla Russia. In un successivo post su Truth Social, Trump ha scritto: "Farò un grande FAVORE alla Russia, la cui economia è in crisi, e al presidente Putin".
Tutte le ipotesi di Kellogg erano prive di qualsiasi fondamento nella realtà. Eppure Trump sembra averle accettate senza riserve. E nonostante i tre lunghi incontri personali successivi di Steve Witkoff con il presidente Putin, in cui Putin ha ripetutamente affermato che non avrebbe accettato alcun cessate il fuoco fino a quando non fosse stato concordato un inquadramento politico, i sostenitori di Kellogg hanno continuato a dare per scontato che la Russia sarebbe stata costretta ad accettare la mano che Kellogg le tendeva, viste le (presunte) gravi "battute d'arresto" subite in Ucraina.
Se le cose stanno così, non sorprende che i termini del quadro per un cessate il fuoco delineati da Rubio questa settimana a Parigi sembrassero più quelli che si rivolgerebbero a una controparte sul punto di capitolare, piuttosto che a uno Stato che prevede di raggiungere i propri obiettivi con mezzi militari.
In sostanza, il piano Kellogg mirava a ottenere una "vittoria" degli Stati Uniti a condizioni in linea con la volontà di mantenere aperta l'opzione di continuare contro la Russia una guerra di logoramento.
Ma cosa prevede il piano Kellogg? In sostanza, mira a congelare la situazione lungo la linea del fronte. All'Ucraina non sarebbe impedito in via definitiva un ingresso nella NATO, ma piuttosto di rinviare l'adesione a un lontano futuro. Non sono previsti limiti alle dimensioni di un futuro esercito ucraino né restrizioni al tipo o alla quantità di armamenti a disposizione delle forze ucraine. Anzi, dopo il cessate il fuoco gli Stati Uniti potrebbero al contrario riarmare, addestrare e sostenere militarmente delle future forze armate. Insomma, si tratterebbe di tornare ai tempi del dopo Maidan del 2014. Inoltre l'Ucraina non cederebbe alcun territorio alla Russia ad eccezione della Crimea, che sarebbe riconosciuta dagli Stati Uniti come russa (l'unica concessione a Witkoff?); la Russia eserciterebbe un mero "controllo" sulle quattro regioni che attualmente rivendica, ma solo fino alla linea del fronte; i territori al di là del fronte rimarrebbero sotto il controllo ucraino (si veda qui per la "mappa di Kellogg"). La centrale nucleare di Zaporizhya sarebbe territorio neutrale, controllato e gestito dagli Stati Uniti. Non viene fatto alcun riferimento alle città di Zaporizhya e di Kherson, che la Russia considera costituzionalmente proprio territorio ma che si trovano oltre la linea del fronte.
A quanto pare il piano non delineava alcuna soluzione politica e lasciava all'Ucraina la libertà di rivendicare tutti i suoi ex territori ad eccezione della Crimea.
Il territorio ucraino a ovest del fiume Dnieper sarebbe però diviso in tre zone, rispettivamente di responsabilità britannica, francese e tedesca. Cioè gestite dalle forze della NATO. In ultimo, non sono previste garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti.
Rubio ha successivamente fatto avere i dettagli del piano al ministro degli Esteri russo Lavrov, il quale ha risposto con calma che qualsiasi piano per un cessate il fuoco dovrebbe avere come primo obiettivo la risoluzione delle cause alla base del conflitto.
Witkoff si reca a Mosca questa settimana per presentare a Putin un piano chiaramente votato al fallimento e per cercare di ottenere il suo consenso. Gli europei e gli ucraini si riuniranno mercoledì prossimo a Londra per formulare una loro risposta a Trump.
Cosa succederà adesso? È ovvio che il piano Kellogg non scioglierà certo le ali al vento. La Russia non lo accetterà e probabilmente nemmeno Zelensky, anche se gli europei cercheranno di convincerlo sperando di "mettere Mosca in difficoltà" facendo fare alla Russia la figura del guastafeste principale. Secondo quanto riferito, Zelensky ha già respinto la clausola sulla Crimea.
Gli europei potrebbero scoprire che il fatto che non siano previste garanzie di sicurezza o di sostegno da parte degli Stati Uniti rappresenta una pietra tombale per la loro aspirazione di dispiegare truppe in Ucraina nel contesto del cessate il fuoco. Trump si laverà davvero le mani dell'Ucraina? Probabilmente no, dato che la leadership istituzionale neoconservatrice degli Stati Uniti dirà a Trump che farlo indebolirebbe la narrativa ameriKKKana della "pace attraverso la forza". Trump potrebbe adottare una posizione di sostegno "a bassa intensità", dichiarando che quella "non è mai stata la sua guerra" intanto che cerca una "vittoria" contro la Russia sul fronte commerciale.
In buona sostanza che Kellogg non ha servito bene il suo padrone. Gli Stati Uniti hanno bisogno di intrattenere con la Russia delle relazioni che funzionano. I sostenitori di Kellogg hanno contribuito nel presentare a Trump una raffigurazione della Russia gravemente errata. Putin è un attore serio, che dice ciò che pensa e pensa ciò che dice.
Il colonnello Macgregor riassume così:
Trump tende a vedere il mondo attraverso la lente degli accordi. [Porre fine alla guerra in Ucraina] non è una questione di accordi. Si tratta della vita e della morte di nazioni e popoli. Non c'è alcun interesse per una sorta di accordo a breve termine che conferisca a Trump o alla sua amministrazione l'aura della grandezza. Non ci sarà alcuna vittoria personale per Donald Trump in tutto questo. Non succederà mai.