07 ottobre 2008

Contro il calcio


Divergenze d'opinione in materia di ultras e diffide, Firenze, estate 2008

All'inizio di ottobre i giornali pubblicano la notizia di una retata nel napoletano. Fatta la doverosa tara sulla veridicità delle informazioni, cosa inevitabile in considerazione dell'abituale atteggiamento giornalaro che mescola imprecisioni e sciacallaggio, voglia di linciaggi e malafede in un cocktail micidiale e vergognoso, pare che rappresentanti istituzionali e ultras abbiano coordinato le giornate di scontri di piazza che hanno costellato l'"emergenza" rifiuti nel napoletano, nei primi mesi del 2008.
Da più di un secolo un gioco in cui ventidue tizi in mutande in mezzo ad un campo si contendono a pedate un arnese rotondo che non sta mai fermo costituisce argomento o pretesto per un continuum di relazioni sociali compreso tra la discussione amichevole e la guerra tra stati sovrani (è successo davvero, nel 1969). La pervasività dell'argomento è arrivata al punto che, discorrendone, è ammesso ormai che in alcuni contesti prenda la parola chi si riconosce nel minoritario campione di dissidenti per i quali le sei diagnosi sul menisco di Del Piero o la media gol a partita di Paulo Roberto Cotequinho non hanno alcun interesse, ma qui finisce il diritto al contraddittorio. Guai scoperchiare il calderone di bassezze che non appesta soltanto il calcio televisivo, ma che da decenni ha esteso la sua influenza fino all'ultimo dei campetti di periferia. Non soltanto i (moltissimi) soggetti che traggono a tutti i livelli un utile dal settore, ma anche gli spettatori occasionali, i tifosi per sentito dire che i lavoratori dei mass media scelgono con ogni cura quando devono intervistare qualcuno, dicotomizzano tra i cosiddetti "professionisti" oggetto di attenzione mediatica, riconosciuti come discutibili, ed il mondo di quelli che si chiamavano "amatori" (e che oggi non possono più essere definiti in questo modo, visto che i termini "amatore" ed "amatoriale" fanno pensare soltanto alla pornografia casalinga), considerati, come i ragazzini delle "scuole calcio", praticamente intoccabili: degli idealisti integerrimi che quando giocano ci mettono l'anima.
Chi scrive non è di questa opinione e ritiene che il mondo del calcio sia qualcosa da cui non farsi sfiorare neppure per sbaglio. Una realtà stigmatizzante dove la pretesa distinzione di "valori" e comportamenti tra professionisti mediatici e serie minori non esiste affatto.
Nel 1988, a sedici anni, frequentavamo nientemeno che il circolo ACLI di un paese a sud di Firenze; si potrà immaginare che clima cospirativo e che fervore di attività sovversive. Una sera di tarda primavera, verso le nove, dal campo da calcio dietro il circolo arriva un crescendo di strepiti, strilli e fracasso di varia natura. "Ma che succede là fuori?!" "Come, non lo sai? Tutti i giovedì c'è la partita degli amatori; va sempre a finire che rincorron l'arbitro e gli dànno un monte di botte...". In vent'anni non è che la situazione sia migliorata gran che; nelle giornate di ordinaria amministrazione gli spettatori dei campetti dànno di solito fondo, oggi come ieri, ad una panoplia di insulti degna d'un carrettiere dei bei tempi, che dalla mamma alla Madonna vanno a cercare parenti più o meno lontani e figure più o meno note dell'apparato divino cristiano con uguale e pittoresca disinvoltura. Questo, in giornate di ordinaria amministrazione. Nella pratica un niente, in campo e fuori, basta per passare all'azione contro il primo che càpita, arbitro, giocatore o tifoso che sia. Questo molto in sintesi e senza enumerare alcuno tra le centinaia di episodi -alcuni dei quali d'una violenza inaudita- che si verificano tutti gli anni proprio in serie minori e in campionati di ennesima categoria. Postulare un calcio professionistico discutibile ed uno non professionistico sano per definizione e dunque intoccabile vuol dire ammettere che i due settori siano praticamente stagni. Cosa assolutamente insostenibile per più motivi.
In primo luogo, il calcio televisivo ed il calcio chiacchierato forniscono una prima socializzazione alla materia anche a bambini piccolissimi, in un processo sociale in cui i meccanismi di identificazione nei confronti del campione di turno sono soltanto uno degli aspetti più noti, e probabilmente neppure il più importante. Il calcio mediatico rappresenta terreno comune per il sostenimento di atteggiamenti e di conversazione ed in molti casi è perfino materia di primissima importanza per la costruzione dell'identità personale in soggetti che lo praticano anche attivamente, nella scala in cui questo è loro possibile. Va dunque concepito come un fenomeno unico e senza distinzioni che sono in realtà funzionali solo al mantenimento di un'immagine presentabile e che non danneggi le sue quote di mercato. Anche in tempi in cui i gadget della serie A non avevano ancora appestato i luoghi più remoti del mondo (abbiamo visto maglie del Milan nello Yemen ed in Tagikistan) era facile trovare in giro ragazzini di otto-dieci anni capaci, al lunedi mattina, di ripetere in ordine cronologico tutti i goal degli incontri giocati la domenica precedente. Una nostra conoscenza, coetaneo negli anni Ottanta, accompagnava questo tipo di competenze ad un rapporto pressoché esclusivo con il pallone (solitamente un "Super Tele" rosso o blu) isolandosi dall'ambiente circostante e palleggiando per centinaia di volte tutte in fila, per interi pomeriggi. Non finì gran che bene: anni dopo il solito menisco incrementò di una unità il numero di quelli che se non era che mi facevo male al ginocchio a quest'ora giocavo in serie A. Anni dopo ancora, la diagnosi di un disturbo psichiatrico piuttosto serio mise nel suo caso fine anche alla prospettiva di un'esistenza equilibrata. E questo porta ad un'altra conclusione interessante. Il calcio come alimento per l'immaginario e per la quotidianità di soggetti portatori di potenziali disturbi del comportamento, secondo una prassi abitualmente facilitata dal contesto sociale.
Vito Piazza è stato l'ultimo direttore della scuola speciale Treves de Sanctis di Milano e nel 1992 ha scritto per Baldini & Castoldi un volumetto di racconti sulla sua esperienza. Uno dei protagonisti delle storie è un ragazzo di una quindicina d'anni nato nell'estremo sud della Sicilia. Normalissimo nell'aspetto e nei modi, tanto che Piazza si chiedeva perché mai fosse finito in una scuola destinata a persone di ben altra problematicità. I due scambiano qualche parola: dopo la scuola, il ragazzo giocava a pallone. A San Siro. Insieme a Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea... Tutti campioni di quegli anni che ogni pomeriggio, non avendo altro da fare, andavano a giocare con lui. Cos'era successo? Era successo che le persone con cui questo ragazzo si relazionava abitualmente, coetanei ma non soltanto, per anni e anni lo avevano rinforzato nelle sue convinzioni deliranti, per i motivi più vari. Contribuendo, probabilmente con piena consapevolezza, a ridurre ad un drop out un individuo che al contrario avrebbe avuto bisogno di robustissime iniezioni di realtà.
Al di là del caso limite su riportato, il calcio costituisce argomento monolitico di conversazione, e spesso anche di pratica extrascolastica e poi extralavorativa, di strati amplissimi di una popolazione che finisce in mille modi ad alimentare il gigantesco indotto della macchina mediatica che gli sta dietro, e dalla quale -ripetiamo- la partitella al campetto non è affatto altera res.
Un pomeriggio in un campo di allenamento permette di rendersi conto dell'esistenza consolidata di rapporti venali, di accessi nemmen tanto ritualizzati di aggressività e di competitività demenziale secondo schemi ricalcati sull'esempio mediatico fin dalle prime leve calcistiche per i bambini delle elementari. Sugli spalti si affollano genitori che considerano testualmente la pratica del calcio come una "scuola di vita", dove il vocabolo "vita" va inteso in senso "occidentale" di terreno di scontro nel quale sgomitare è lecito, imbrogliare un dovere, fregarsene di tutto il resto un postulato. Sicché vanno giù pesanti con consigli sanguinari e con propositi truculenti, di pari ferocia rispetto a quelli che è dato sentire negli stadi di prima divisione. I processi di socializzazione mediati dal calcio portano alla formazione di gruppi caratterizzati dalla polarizzazione e dalla diluizione della responsabilità individuale, costruendo in campo (in tutti i campi) e sulle tribune (su tutte le tribune) ambienti in cui può accadere -e spesso accade- di tutto.
La pretesa che la pratica diretta del calcio sia esente dagli immondi vizi del calcio mediatico, dunque, non sta in piedi. Anche perché per gli ultimi trenta e più anni il comportamento degli spettatori fuori e dentro gli stadi, con i report dettagliati di fatti di cronaca quasi sempre improntati a comportamenti piuttosto scomposti per non dir di peggio, ha costituito parte integrante del prodotto mediatico calcio, quello che interagisce quotidianamente, nei processi sociali, con la pratica del gioco e con i fenomeni che la accompagnano in campo e fuori.
La situazione ha conosciuto un peggioramento molto recente.
Negli ultimi anni i soldi che contano -quelli del miliardario australiano Rupert Murdoch- si sono comprati in blocco il format del più importante campionato professionistico. Roba che arriva a pagamento e che crea indotto fino alle yurte kirghise, ai paesini del Senegal. La tutela dell'interesse del signor Murdoch passa attraverso un'esigenza molto elementare: lo spettacolo non deve essere disturbato né nella qualità, né nei tempi. Niente fumogeni, niente striscioni capaci di distogliere clienti sensibili alla correttezza politica e via di questo passo. Gli spettatori devono limitarsi ad un lavoro da comparse. Comparse che per giunta pagano anche, e nemmeno poco. Chiaro che il supporter calcistico, da trent'anni abituato a comportarsi come gli pare e legittimato in questo dalla generale acquiescenza (acquiescenza dovuta sostanzialmente al denaro che i tifosi muovono) accolga molto male la fine della situazione che gli ha fornito praticamente tutto il proprio bagaglio culturale, modelli di consumo per primi. I gruppi strutturati e gerarchici che hanno prosperato nella brodaglia sociale delle periferie, nel nulla culturale tanto diffuso quanto caldeggiato e addirittura apertamente promosso dal potere politico e da quello economico, gli individui che da una vita utilizzano le competenze sociali fornite dal calcio per rapportarsi con quanto rimane dell'esistente vedono ridurre drasticamente l'efficacia degli strumenti con cui hanno costruito la propria realtà. Il prodotto mediatico li espelle: dalla sera alla mattina li trova controproducenti e li mette all'angolo senza misericordia. Un comportamento da figlio ingrato.
Contemporaneamente a questo profondo cambiamento, che ha preso a pretesto la morte di Filippo Raciti e si è tradotto nella militarizzazione degli stadi e dei loro dintorni tale che andare a vedere una partita ricorda un po' l'attraversare il confine tra Palestina ed Israele, i gruppi più o meno formali detti "tifoserie organizzate" hanno cominciato a trasferirsi altrove, cercando occasioni meno blindate e trovandole nelle altre serie del campionato, in cui si sono intensificate le occasioni di intervento per la gendarmeria. Occasioni di intervento che ricevono puntuale copertura mediatica, proprio come prima.
La questione non è soltanto sociopsicologica. Ha anche risvolti economici di primaria importanza ai quali si dovrebbe dedicare uno scritto a parte, così come andrebbe fatto per i rapporti tra mondo del calcio in generale e mondo politico. Lo stesso andrebbe fatto con l'intera costellazione di fenomeni paracalcistici e con la loro funzione di convogliatore dell'aggressività verso obiettivi relativamente poco disturbanti per il potere costituito. Qui è solo il caso di affermare che il calcio nella sua interezza rappresenta a tutti i livelli un vero e proprio ostacolo all'ampliamento delle proprie prospettive ed all'arricchimento dei propri interessi culturali e delle proprie esperienze sociali perché intrappola rapidamente sia il praticante che lo spettatore in un contesto in cui la definizione polarizzata dell'identità con l'aggressività decerebrata che ne consegue e la ripetizione ecoica di quanto riportato dalle fonti mediatiche hanno il sopravvento su tutto il resto, imponendo l'adesione a ruoli semplicistici caratterizzati da poche variabili, i cui valori possono essere rappresentati secondo spietate scale di tipo discreto: ad esempio, in ambienti sociali vastissimi non è ammesso che ad un ragazzino il calcio non interessi. Chi confermasse questo disinteresse rischierebbe di trovarsi nella situazione ritratta in Ovosodo (1997) dove il protagonista Piero Mansani ricorda: "Vivevo in un ambiente che non ammetteva sfumature: un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo e venivi bollato per sempre come finocchio...!". Il calcio va inteso dunque come una possente forza che livella verso il basso grazie alla doppia presenza e alla doppia pressione di fonti mediatiche e di gruppi sociali, come agenzia di formazione di schiavi integrati, di consumatori invece che di individui, di gruppi omogenei spinti alla sostanziale condivisione di meri comportamenti di consumo.

05 ottobre 2008

Asia centrale, agosto 2008



Nella foto, gli avanzati laboratori linguistici per l'apprendimento della lingua inglese a disposizione dei cittadini kirghisi.

Il piccolo pullman Mercedes -non traballante, non vecchio, non maltenuto, questo blog non ama i luoghi comuni- che ci sta portando da Osh a Bishkek si ferma in mezzo alla piana; si scende, ci si guarda un po' in giro, si fanno due passi per sgranchirsi un po'. La strada è ancora lunga e la giornata anche.
Siamo in un quadrivio: due strade che si incrociano formando quattr'angoli da novanta e quattro quadranti cartesiani. Nel primo, un distributore di benzina chiuso. Nel secondo, prato. Idem nel terzo. Nel quarto, la notevole eccezione di qualche pecora.
Arriva un signore sui cinquanta o sessant'anni vestito all'uso locale: stivali alti di cuoio, giubba con cintura, ak kalpak ricamato. Tutti i denti visibili sono d'oro. "Hello, how are you?". Si risponde, si scambiano nomi e si riassumono situazioni coniugali e stati civili, secondo la cortesia centroasiatica. Visto il luogo e il personaggio, sarebbe logico aspettarsi che la conversazione languisse dopo i convenevoli... se non che il nostro interlocutore mostra una conoscenza della lingua inglese piuttosto approfondita che lo mette in grado di discorrere d'un sacco di cose e di questioni; all'autista però la cosa interessa -diciamo- in modo un tantinello relativo; c'è da andar via. "Where did you learn english? You are fluent!" "Here!". Here. Sotto il Tien Shan.
Giorni dopo, in Tagikistan. Nel paese ci sono diverse sorgenti termali e sulla strada lungo il confine afghano ci fermiamo in un Sanatorium con sale comuni e da pranzo, camere, divani enormi, tendaggi pesanti e quanto di meglio si potesse desiderare in fatto di eleganza ai tempi di Breznev. Una pausa gradita, ché è qualche giorno che siamo in giro per una strada sterratissima a mezza costa. Una ragazzina sui tredici anni ha voglia di parlare un po'; altro scambio di convenevoli come sopra, ed altrettanta se non migliore padronanza dell'inglese. "I have never been out of Tadjikistan, never left Korog district", dice. E racconta anche un'altra cosa interessante. La scuola tagika insegna in russo e in tagiko, e l'inglese è materia corrente per tutti. Il che permette di concludere, con buona approssimazione, che i quattordicenni di un paese che per tre quarti della sua estensione non ha un metro di terra coltivabile ed in cui gli abitanti di zone grandi quanto la Toscana sono vissuti per anni grazie agli aiuti dell'Aga Khan (c'è il suo ritratto in molte case) hanno la possibilità di padroneggiare con sicurezza almeno tre lingue, l'una diversissima dall'altra.
In altre parole, in piena Asia centrale, in località che i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana non saprebbero da che parte cominciare per trovarle su una carta, esistono persone cui le circostanze di vita per lo meno scomode, giusto per non esagerare con gli aggettivi, non hanno impedito di sviluppare competenze di assoluto rispetto. Il sistema di istruzione sovietico? L'ascolto di Voice of America? Chi lo sa. La cosa dà da pensare. Dà da pensare soprattutto che in Asia centrale l'ignoranza sia percepita come uno handicap grave, come qualcosa di cui per lo meno vergognarsi. L'esatto contrario di quello che succede da anni nella penisola italiana, in cui l'incultura, la scortesia, la bassezza, lo sporco anche morale vengono percepiti come valori da difendere, trovano ogni sorta di giustificazione ed in estesi settori produttivi aiutano tranquillamente a far carriera.
La guerra dichiarata contro "quelli che ci portan via il lavoro" nasconde anche e soprattutto realtà come quella di cui si è data breve nota. Ma abbiamo ragione di pensare che il riflettere sulla questione sia ormai fuori della portata del comune sentire, roba da poeti se non da "comunisti".


04 ottobre 2008

Da Abdul a Tong


Nel corso degli ultimi mesi è aumentata la copertura mediatica riservata agli episodi classificabili come violenza razziale. L'assassinio praticamente a freddo del milanese Abdul William Guibre e l'aggressione di gruppo avvenuta a Roma ai danni di Tong Hong-shen, lavoratore dallo Xinjang, spiccano in un quadro di tensione quotidiana correntemente e abitualmente alimentata dal circolo vizioso che si innesta tra un operato massmediale da anni oltre il limite del presentabile ed una circolazione sociale delle informazioni per la quale non esiste vergogna più stigmatizzante dell'azzardarsi a disprezzare come meritano la maggior parte dei luoghi comuni.
Ora, più che di aggressioni a sfondo razziale si dovrebbe parlare di aggressioni a sfondo demenziale, in considerazione dell'assoluta inconsistenza delle motivazioni rintracciabili nei contenuti mediatici, che non fa pensare che alla base di questi e di altri episodi esista un piano ideologico fortemente strutturato, tale da andare al di là del corrente "io gli darei fuoco", proposito ampiamente condiviso tra i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana e percepito, condiviso ed accettato come proponibile soluzione di ogni controversia, dalla disputa per la viabilità stradale allo scontro armato tra stati sovrani. Un atteggiamento estremamente corrente ed abituale contro il quale nessuno reagisce, anche se in circostanze più civili non sarebbe raro, e nemmeno sgradito, vedere l'aspirante incendiario rischiar forte anche sul piano fisico!
Nel settembre scorso, dopo una settimana lavorativa a Milano -o Arbeitstadt, come l'ha chiamata un amico nella Lingua Tertii Imperii- svoltasi proprio in corrispondenza con l'assassinio di Abdul William Guibre, chi scrive ha verificato su vari organi di stampa il molto spazio dedicato alle reazioni di politicanti il cui problema principale è quello di stigmatizzare eventuali reazioni popolari al perdurante stato di cose; il più delle volte una fantomatica "sinistra" (un areale politico che per i politicanti comincia laddove per un essere rispettoso di sé si colloca il liberalismo classico di stampo cavouriano) è immancabilmente accusata di "strumentalizzare" eventi del genere; una prassi anche questa d'uso corrente e che nel canaio propagandistico che ha preso il posto della comunicazione politica si è rivelata molto produttiva.
I comunicati stampa dei politici, e ancor più i commenti postati dai lettori di quotidiani on-line che ne offrono la possibilità, offrono un quadro realistico della bassezza raggiunta dai sudditi, e che i politici "liberamente" eletti incarnano e sublimano a meraviglia: esiste un settore molto numeroso dell'opinione pubblica che ritiene comprensibile ammazzare qualcuno a colpi di spranga per il furto di un po' di dolci. Basta che la cosa non faccia scendere il valore degli immobili, per carità; quindi fatelo lontani dalle mie finestre e soprattutto state attenti a non sporcare il marciapiede!
Milano è una città occidentale, ossia un inferno sulla terra. Ci si va a lavorare, appunto, essendo praticamente un reato d'opinione il pensare di farvi altro. Spiace soltanto che le forze vive che ancora vi allignano, come gli attivisti che hanno dato luogo al corteo tenutosi pochi giorni dopo l'omicidio, non riescano ad unirsi per lottare veramente contro un "Occidente" che da un bel pezzo ha smesso di essere qualcosa di diverso da un macinatore di esistenze. Una lotta quotidiana, grigia, prosaica, punt'affatto eroica o gioiosa, contro un totalitarismo consumista che dopo averti divorato la vita si impegna a divorarti anche l'anima.


03 ottobre 2008

Presentazione


Il blog che state leggendo è nato nell'ottobre 2008, su consiglio di un blogger di buona competenza, in appoggio a iononstoconoriana.com, a sua volta risalente a poco più di un anno prima. Il blog ed il sito sono stati messi in piedi non certo "da un gruppo di cittadini" che vorrebbe anche dare ad intendere di essere svincolato da qualunque appartenenza politica, ma da un solo cittadino nato e cresciuto a Firenze che svincolato da qualunque appartenenza politica lo è sul serio, e che ovviamente è totalissimamente privo di sponsor e/o finanziamenti ed assolutamente non desideroso di ottenerne. Non troverete dunque banner pubblicitari, link assurdi, questue, inviti alla donazione ed altra roba del genere. Né qui, né altrove.
Nel sito suddetto si svolge opera di divulgazione, informazione e sensibilizzazione contro la criminalizzazione dell'Islam e contro l'idealizzazione dell'"Occidente", contro ogni tipo di allarmismo legato ad una sua pretesa "islamizzazione" e contro la foia securitaria e "legalista" di chi identifica nei poveri un pericolo e nella pretesa ripulitura del mondo una fonte di voti e di reddito. Siamo inoltre mossi dal ragionevole dubbio che l'"Occidente", specie nella sua incarnazione americanistica, mandolinesca e spaghettara che imperversa nella penisola italiana, non possieda neanche un grammo della coerenza che sarebbe necessaria per dettare lezioni di libertà o di "democrazia" a qualcun altro.
Per questo compito ci si avvale, su iononstoconoriana.com, di recensioni di libri, resoconti di viaggio, documenti fotografici e quant'altro possa servire, senza discriminare le fonti per la loro provenienza culturale o politica; la vagliatura della stampa quotidiana, ai cui episodi più macroscopici per ignoranza e/o malafede si risponde coi dovuti toni sarcastici ed in modo "non giornalistico" -ossia facendo opportunamente decantare gli avvenimenti, onde ripulirli da effetti recency, manipolazioni più o meno esplicite ed altre cose del genere- contribuirà a costituire una parte importante del contenuto. Questo blog assolve alla funzione di potenziare la visibilità del sito ed ospita in genere contenuti meno ponderati, meno documentati e più legati alla quotidianità, soprattutto a quella mediatica ma non solo.
Se molti contenuti di iononstoconoriana.com fanno esplicito riferimento ad una controparte dal dominio quasi identico, ed anzi le confutazioni di quanto su esso pubblicato sono tra i principali motivi per cui il sito è stato messo in piedi,, questa sede accoglie invece materiali di parecchio minore pretesa.
Abbiamo la convinzione radicata che non servano, nel facilissimo compito costruttivo che ci proponiamo, competenze eccessivamente specifiche e che skills di livello universitario in geopolitica, storia e sociologia della comunicazione siano ampiamente sufficienti alla bisogna.
Naturalmente non si vuole una lira da nessuno perché lo hosting costa due palanche (quello del blog addirittura niente) ed il tempo libero è libero per definizione. Son ben accetti invece contributi al contenuto, nelle forme e nello spirito di cui sopra.
Il sito ed il blog NON sono stati presentati in alcuna prestigiosa sede, né accademica né istituzionale, ed il loro realizzatore non ha goduto di alcun rinfresco post-presentazione a base di spumante tiepido e pezzi dolci dell'altro ieri. Se ne hai le tasche piene dell'"Occidente" e della sua "libertà", sei capitato nel posto giusto.