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20 novembre 2008

Informazione d'"Occidente": completa, obiettiva, imparziale



La home page del "Quotidiano Nazionale" on line, che raggruppa "Il Porno", "Il Resto del Calzino" e "La Fazione" in un unico portale rinnovato non si sa quante volte a causa del suo magagnoso funzionamento, fa per il venti novembre 2008 un importantissimo strappo alla regola.
Da anni, e tutti i giorni, la foto a centro pagina raffigura invariabilmente gendarmi o militari "occidentali" in eroiche operazioni di ripristino dell'ordine democratico ("arrestato negro", "arrestato terrorista", "arrestato rom", "arrestato pedofilo", ...). Oggi pare che la notizia più importante non sia il piombare della crisi finanziaria su un'economia "reale" già malmessa per proprio conto o i centomila scricchiolii sinistri e quotidiani di un "Occidente" vuoto di senso, quanto l'ultima collezione di femmine con poca roba addosso travestita da "calendario". Da "calendario impegnato", addirittura, secondo un format di cui ogni giorno si contano esempi a dozzine.
Venti anni fa, quando i giornali erano solo di carta e si permettevano addirittura una "terza pagina", certo modo di riempire la "prima" era riservato ai rotocalchi da serve o ai quotidiani inglesi come il Daily Mirror, ai tempi considerati già spazzatura per conto proprio. Ci voleva internet perché non uno o due quotidiani, ma tutti, cominciassero ad adottare gli stessi criteri di selezione delle news e la stessa impaginazione. Facile sarebbe fare dietrologia, ipotizzando innanzitutto chissà che mano dietro al generale e voluto, coltivato, cercato e perseguito rincretinimento dei sudditi; a nostro avviso la realtà è molto più terra terra ed è legata a semplici questioni di economia d'esercizio. Perché mai i responsabili di una testata on line dovrebbero dare in pasto all'affannoso ricambio imposto dal funzionamento del media articoli ponderati o inchieste di un qualche significato? Ci sono agenzie di stampa che ti aiutano a meraviglia, con news come quella su raffigurata; ci si mette accanto qualche riga in cui qualcuno si lagna rimpiangendo i tempi in cui i treni arrivavano in orario, e s'è bell'e ffatto giornata. Se poi così facendo si fa anche un favore ai soliti noti della proprietà e del mondo politicante, tanto meglio.
Questo modo di procedere è solo la versione aggiornata di una prassi vecchia chissà quanto, che Giorgio Bocca ebbe già modo di notare nel 1940 e di stigmatizzare per scritto nel 1969, ricordando come gli inviati sulla linea Maginot durante la drôle de guerre avessero finito per riempire le otto pagine dei giornali d'allora di reportages su insignificanti azioni di pattuglia, di note enologiche sulla Mosella o anche di trafiletti in cui si raccontava di orsi giganteschi abbattuti in Alaska. Della tempesta vera che si preparava e che sarebbe durata cinque anni con decine di milioni di vittime, nessun sentore.
Nel corso degli anni il livello di tutta la stampa peninsulare, on line e cartacea, ha adottato in maniera massiccia questa linea editoriale: carne fresca, completa acriticità nei confronti del potere, subordinazione agli interessi economici degli sponsor, continuo sciorinare di mostri mediatici reperiti con ogni mezzo. E quando non si trovano, ci vuol poco ad inventarne uno. Il tutto viene, per qualche strano motivo, chiamato "libertà". Un raffronto con la produzione mediatica di realtà più concrete e più civili, e dunque meno "occidentali" sarebbe, ed è, per lo meno imbarazzante. Proviamo comunque a farlo, e mettiamoci pure un pizzico di malafede, visto che di malafede a carrettate è comunque fatta la "libera" informazione vomitata a getto continuo dai mass media.
Lo stesso venti novembre 2008 la home page del Tehran Times presenta un primo articolo su un incontro di sindaci di città asiatiche a Tehran avente come scopo il rafforzamento della conoscenza e della cooperazione reciproca, l'annuncio della prossima realizzazione di un film tratto da un dramma di Ionesco, l'avvenuta traduzione in inglese del primo volume di una Encyclopaedia Islamica, la consegna di premi letterari ad opere scritte da reduci di guerra, cui seguono notizie di sport, politica interna ed estera in quest'ordine. Nessuno spazio per quella cronaca nera che costituisce l'interesse pressoché unico, insieme alle scosciate di cui sopra, delle testate on line più consultate nello stato che occupa la penisola italiana, i cui sudditi, con ogni probabilità, a stragrande maggioranza non soltanto ignorano chi fosse Ionesco, ma anche dove si trovi Tehran.
I media che abbiamo citato sono fruibili con facilità da milioni di utenti. Sarebbe il caso di chiedersi se sono queste, le basi su cui l'"Occidente" millanta la propria appartenenza ad una civiltà superiore.



15 novembre 2008

Western way of life


Ripresa di un articolo dell'estate 2008, sicuramente ancora attualissimo.




L'immagine si commenterebbe anche da sé; ma aggiungiamoci pure del nostro, e andiamoci giù pesante.
Un enorme ipermercato alle porte di Firenze, stracolmo di roba a poco prezzo e del vociare ebete delle televisioni. La politica di marketing della struttura usa da sempre i volti della clientela per le campagne pubblicitarie, e stavolta, forse proprio volendolo, ha fornito un ritratto perfetto dell'oltremodo orribile quotidianità "occidentale", con particolare riferimento a quella della penisola italiana: "di casa" dalle parti degli ipermercati ci sono obesi ingordi di salsicce, scagionati fino a lunedì mattina dall'affidabilità mendace di quel giaccheccravatta un tempo vestimento della classe dominante e oggi divisa dei sudditi-zerbino. Un volgo impoverito e disperso, incattivito, approssimativo e cialtrone, che molto giustamente teme concorrenti validi anche nel più squinternato di quegli "immigrati" che una politicanza senza più freni addita come causa di ogni male, aveva già nell'incultura uno dei suoi cavalli di battaglia. Adesso, formalmente autorizzato del capitale, può ufficialmente aggiungerci anche lo sbraco, addirittura a prezzo di realizzo.
Almeno fino a lunedì mattina. Poi testa china e silenzio, che c'è da ppaga' i'mmùtuo.

La foto qui sotto, invece, viene da Picasa e mostra chi è "di casa" nella Repubblica Islamica dell'Iran.
Dove i pochi supermercati che ci sono fanno i supermercati, e non si mettono certo a fare a gara con politicanti e gendarmi per insegnarti come dovresti passare le giornate.




06 novembre 2008

Contro il calcio (reprise)



Un palloniere Murdoch-compatible.
Una delle varietà umane meno dotate di senso del ridicolo

Di pallone, qui, si è già trattato qualche tempo fa, trascurando l'aspetto più "politico" della questione, sulla quale un episodio verificatosi a Firenze qualche giorno fa permette di ritornare con qualche proprietà d'argomento.
Uno scambio d'opinioni piuttosto acceso, definito "assalto", "spedizione punitiva" eccetera eccetera del quale abbiamo già fatto cenno ha coinvolto i frequentatori del bar-circolo di una piccola società sportiva. Il gestore si è trincerato istantaneamente dietro la "apoliticità" di un luogo "dove si parla solo di calcio".
Ma sono davvero "apolitici" i luoghi del pallone? La nostra lunga frequentazione di esperti del settore, le esperienze giovanili sul campo, la parte "virtuale" del fenomeno rappresentata dalla sua pervasività mediatica fanno pensare l'esatto contrario.
Se ne potrebbe scrivere molto a lungo, ma limitiamoci a quanto successo a Firenze all'inizio di novembre. La storia non ha mobilitato soltanto i giornali, ma anche qualche blogger di buona memoria che è andato a ripescare un episodio di qualche anno fa. Le grida razziste di alcuni suoi calciatori costarono qualche multa e qualche punto di penalizzazione proprio ad una squadra che fa capo alla società nei cui locali è avvenuto il diverbio. La parte dell'articolo della Gazzetta dello Sport che riporta l'accaduto è interessante, soprattutto laddove questo del razzismo ostentato in campo e fuori viene definito "un malcostume generale". E stiamo parlando di ragazzini in un campo di periferia, dove i "valori" del pallonismo strapagato sono modelli da imitare.
Varie fonti che trattano il brevissimo ed incruento scontro del primo novembre citano un tale, che come palloniere pare che goda di una certa notorietà, come non presente al momento del fatto ma presentissimo alla gendarmeria, al momento dei "riconoscimenti". Il che fa pensare che i protagonisti dell'episodio siano soliti frequentare gli stessi ambienti pallonistici e che le motivazioni di certi risentimenti vadano cercate più in quella maleodorante sentina di piccinerie, vendette trasversali, risse da pollaio, regressioni, battibecchi e traffici scaltri e nebulosi che viene definita "tifo organizzato" che non nella politica militante vera e propria.
Negli ultimi anni il mondo dei pallonieri è entrato in pieno marasma. Dall'Australia Rupert ha mandato a dire che non vuole rompicoglioni tra i piedi: i pallonisti di tutti i colori devono pagare (e molto), comprare il merchandising ufficiale, farsi trattare dai gendarmi come i fellahin palestinesi si fanno trattare da Tsahal e soprattutto non disturbare lo spettacolo facendo quello che hanno sempre fatto. Una vera doccia fredda su anni ed anni di scontri di piazza, locali devastati sul serio, coltellate prese e date, fumogeni, antisemitismo d'accatto e coracci assassini tollerati in nome del denaro. Dalla sera alla mattina centinaia di migliaia di individui adusi a ben altre pratiche, ed in questo autorizzati da una prassi universale che ha nel profitto il suo unico vero limite, han dovuto imparare a recarsi allo stadio come si recherebbero in un negozio di cristalleria, a familiarizzare con quei "terzi tempi" mutuati dal rugby laddove era prassi ordinaria il promettersi -e in qualche caso il mantenere- di squartarsi vivi a vicenda, a cantare canzoncine caste e pure, ad esibire "striscioni privi di scritte offensive". Una moltitudine dai rituali ben definiti e dai comportamenti di consumo ancora più codificati, a cui una miriade di imprenditori fornisce da decenni beni e servizi dalle bandiere colorate agli armamentari nazionalsocialisti che fanno tanto bene alla coesione di gruppo, dalle palestre ai locali dedicati, rischia di trovarsi espulsa dalla sera alla mattina dall'ambiente che l'aveva prodotta. Rischia di trovarsi digiuna di rituali identitari e delle occasioni per praticarli. E i suddetti imprenditori di veder ridimensionato il proprio giro d'affari.
Come rimediare? Da qualche tempo clienti e venditori percolano nelle cosiddette "serie inferiori" i comportamenti finora sperimentati in alto loco. Il terreno è già pronto da anni, secondo quanto siamo andati spiegando. C'è però un problema: se per i venditori non è certo difficile vendere caterve di sciarpe sintetiche delle società di pallone più quotate anche ai pallonieri che vanno a vedere le partite del Borgorosso, la numerosità ridotta delle compagini, gli ambienti anche architettonicamente diversi, mal si prestano alle orge identitarie rispetto a quelli in cui il pallonaggio è nato ed ha prosperato a lungo. Non si può far tanto numero, ecco. Le situazioni in cui origina quella diluizione della responsabilità che ti faceva gettare uno scooter da cima d'una gradinata o che ti faceva contendere un autogrill agli avversari in furibonde battaglie a colpi di prosciutto sottovuoto è diventato difficile trovarle. Molti dei gruppi nati nel pallonismo hanno trovato che l'iconografia e la pratica politica di quella che definiscono "destra radicale" offrono la possibilità di rafforzare in modo gratificante i legami di gruppo e ricreare occasioni per la diluizione di responsabilità su accennata e li hanno adottati in blocco, con un'assimilazione che ha causato un ulteriore impoverimento di simboli e contenuti già nefasti per conto proprio. Lungi dal produrre "idee", anche del tipo più discutibile o ripugnante che si possa concepire, i fasciopallonieri da periferia affollano (per modo di dire) forum telematici i cui utenti esibiscono avatar scelti tra poche decine di soggetti; brancate di foto in seppia della Wehrmacht, rune di varia estrazione ed invenzione, gerarchi in divisa (finiti quasi tutti miserrimamente, ma guai a ricordarglielo e soprattutto a ricordargli il perché)... Ci sono ragazze che posano succinte in nero e con un'arma in mano riportando a mo' di firma motti a contenuto sessuale. Se si pensa che uno dei forum più trafficati prende il nome da un immondo romanzaccio di Filippo Tommaso Marinetti, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a gente la cui massima aspirazione nella vita è recitare da comparse in un remake di Salon Kitty. Unici contenuti rilevabili: autoincensamento reciproco, vacuità pallonistiche, post monosillabici e una ristrettissima rosa di insulti (sempre i soliti quattro o cinque) rivolti ad "avversari politici" in grado di fare di meglio, di sidereamente meglio, anche in questo settore un tempo ritenuto appannaggio di facchini e carrettieri.
Interessi ristrettissimi, cervello in cantina, livello umano su cui sorvolare, competenze zero in tutti i campi dello scibile. L'unico prodotto della coesione di gruppo mantenuta a scapito di tutto il resto dall'adozione di un'iconografia e -fatto non secondario- da modelli di consumo ferreamente limitati è diventato l'azione violenta. La correlazione tra l'intensificarsi degli omicidi a sfondo discriminatorio, gli assalti squadristici, i pestaggi di piazza, le forme più repellenti di bullismo adolescenziale e la blindatura degli stadi decisa praticamente dalla sera alla mattina dopo la morte di un gendarme catanese avvenuta in circostanze ancora poco chiare illustra bene quanto sta accadendo in questi mesi. Bandite dalla loro scena dalla militarizzazione del set dove si gira lo spettacolo che fa guadagnare Rupert Murdoch, la violenza e la sopraffazione come modo abituale di rapportarsi con gli altri diventano pratica consueta in contesti sociali diversi dagli stadi in cui hanno incubato e prosperato in santa pace per decenni, benedette da una lunghissima serie di operatori economici.
E' bene sottolineare anche la natura essenzialmente commerciale del fenomeno in corso. La pratica politica del fasciopallonismo -anzi, dovremmo chiamarla la pratica manesca- ispira gadget a tema che a loro volta ne amplificano le parole d'ordine, oltre a servire al rafforzamento identitario. E questi gadget vengono commercializzati in parte attraverso gli stessi canali e gli stessi operatori che da tanto tempo alimentano a furia di sciarpe e di adesivi l'identitarismo masturbatorio dei pallonieri. L'altra parte arriva diritta via internet dai produttori, gente che in qualche caso ha fondato vere e proprie linee di abbigliamento che stanno dando il loro bravo contributo a rendere ancora più impresentabile una generazione di ventenni già messa male per conto proprio.
Il contesto sociale che si è venuto a creare dovrebbe rendere il mondo palloniero ancora più odioso nella sua interezza: caccia da sotto i riflettori quell'umanità spaventosa che ha accarezzato per decenni e che è diventata impresentabile in un batter di ciglia, e la spinge, ulteriormente retrocessa da tutti i punti di vista, a celebrare nelle strade i propri riti di sangue.



Giornalismo e "libertà"


Messo tempo fa su iononstoconoriana.com, e meritevole di ripresa.

...Nel luglio 2008 "Repubblica" dà ogni giorno spazio ad oziosi "sondaggi" cui tale Ilvo Diamanti fornisce lungo e lacrimoso commento. Da questi "sondaggi" risulta un unico dato interessante: l'allarmismo e la malafede giornalaie sono finalmente riuscite, dopo un decennio di menzogne e di falsità ammannite quotidianamente ai sudditi in una misura mai vista nei trent'anni precedenti, a creare proprio quel clima di allarme sociale e di paura ubiqua che permettono ai professionisti della ciancia e ai politicanti in cravatta di campare praticamente di rendita e di derubricare a crimine qualunque comportamento e qualunque fenomeno sociale non comporti il passaggio di denaro da chi lavora a chi vende fumo.

Il brano che segue è tratto da Incontri con uomini straordinari, scritto da George Ivanovic Gurdjieff ed uscito postumo nel 1960. Gudjieff lo attribuisce ad un "vecchio letterato persiano" che lo avrebbe pronunciato in Persia ai tempi della sua giovinezza. Il contesto cui si fa riferimento, quindi, è quello russo-persiano dell'inizio del XX secolo. Lasciamo al lettore il compito di trarre conclusioni, ferma restando l'ingenuità dell'autore originale, secondo il quale tra "giornalismo" e "detentori di potere" esisterebbe competizione.


Le esigenze della civiltà contemporanea hanno generato un’altra forma molto specifica di letteratura, che viene chiamata giornalismo.
Non posso passare sotto silenzio questa nuova forma letteraria, perché, a parte il fatto che non porta assolutamente nulla di buono per lo sviluppo dell’intelligenza, essa è diventata, a mio avviso, il male dei nostri tempi, nel senso che esercita un’influenza funesta sui rapporti umani. Questo genere di letteratura si è molto diffuso negli ultimi tempi perché — ne sono fermamente convinto — esso corrisponde meglio di ogni altro alle debolezze e alle esigenze determinate negli uomini dalla loro crescente mancanza di volontà. Finisce così per atrofizzare la loro ultima possibilità di acquisire i dati che permettevano loro, finora, di prendere più o meno cura della loro reale individualità - unico mezzo per raggiungere il ricordo di sé, fattore assolutamente indispensabile per il processo di perfezionamento di sé.
Inoltre, questa letteratura quotidiana, priva di princìpi, isola completamente il pensiero degli uomini dalla loro individualità, di modo che la coscienza morale, che di tanto in tanto ancora appariva in loro, adesso ha cessato di partecipare al loro pensiero. E sono ormai privati dei dati che fino a quel momento avevano assicurato loro un’esistenza più o meno sopportabile, non fosse che nel campo dei rapporti personali.
Per sfortuna di noi tutti questo genere di letteratura, che invade ogni anno di più la vita quotidiana degli uomini, fa subire alla loro intelligenza, già molto indebolita, un indebolimento ulteriore, consegnandola inerme a ogni genere di inganni e di errori; essa li mette fuori strada a ogni passo, li distoglie da qualsiasi modo di pensare più o meno fondato e, invece di un giudizio sano, stimola e fissa in loro alcune tendenze indegne, quali: incredulità, ribellione, paura, falso pudore, dissimulazione, orgoglio, e così via.
Per dipingervi in modo sommario tutto il male fatto all’uomo da questa nuova forma di letteratura, vi racconterò alcuni avvenimenti provocati dalla lettura dei giornali: non ho motivo di dubitare della loro veridicità, poiché il caso ha voluto che vi partecipassi.
A Teheran, un mio amico intimo, un armeno, morendo, mi aveva designato come suo esecutore testamentario.
Egli aveva un figlio, già di una certa età, costretto dai suoi affari a vivere con una numerosa famiglia in una grande città europea.
Ora, all’indomani di un pranzo fatale, li trovarono tutti morti, lui e tutti i membri della sua famiglia. Nella mia qualità di esecutore testamentario, dovetti subito recarmi sul luogo della terribile disgrazia.
Venni a sapere che, i giorni precedenti, il padre di questa sfortunata famiglia aveva seguito, su uno dei quotidiani ai quali era abbonato, un lungo servizio su un salumificio modello, in cui venivano preparate, in condizioni igieniche eccellenti, delle salsicce fatte, così si diceva, con prodotti garantiti genuini.
Inoltre, egli non poteva aprire né questo giornale né nessun altro, senza imbattersi in inserzioni che raccomandavano questo nuovo salumificio.
In breve la tentazione divenne irresistibile e, benché le salsicce non piacessero molto — né a lui né d’altronde ad alcuno dei suoi familiari, perché essi erano cresciuti in Armenia, dove non si mangiano salumi —, non poté fare a meno di comprarne. La sera stessa le mangiarono per cena, e furono tutti avvelenati.
Colpito da questo avvenimento straordinario, riuscii in seguito, con l’aiuto di un agente della polizia segreta, a scoprire quanto segue.
Una ditta molto importante aveva comprato a basso prezzo un enorme quantitativo di salsicce destinate all’estero che però, in seguito a un ritardo nella spedizione, era stato respinto. Per sbarazzarsi al più presto dell’intera partita, la ditta in questione non aveva lesinato il denaro ai giornalisti ai quali aveva affidato questa malefica campagna pubblicitaria sui giornali.
Altro esempio: durante uno dei miei soggiorni a Baku, lessi io stesso, per vari giorni di seguito, sui giornali locali che mio nipote riceveva, lunghi articoli le cui colonne occupavano più della metà del giornale, dove si facevano i più sperticati elogi a un’attrice e alle sue prodezze con dovizia di particolari.
Si parlava di lei con tanta insistenza e in termini così esaltati che perfino io, uomo vecchio, mi infiammai, e una sera, lasciando da parte tutti i miei affari e rinunciando alle mie abitudini, andai a teatro per vedere la stella.
E che cosa credete che abbia visto?... Qualcosa che corrispondesse almeno un po’ a ciò che si scriveva su di lei in quegli articoli che riempivano metà del giornale?...
Nulla di simile.
Nel corso della mia vita, avevo incontrato numerosi rappresentanti di quest’arte, alcuni buoni, altri pessimi, e posso dire senza esagerazione che già da molto tempo venivo considerato un conoscitore in materia.
Ora, senza neppure tener conto delle mie concezioni personali sull’arte, ma considerando semplicemente la cosa da un punto di vista ordinario, devo riconoscere che non avevo mai visto nulla di paragonabile a questa celebrità... per la mancanza di talento e l’assenza delle nozioni più elementari circa l’arte di interpretare una parte.
In ogni suo gesto sulla scena c’era una tale mancanza di presenza, come si suol dire, che io personalmente, neppure in uno slancio di altruismo, avrei affidato a questa stella la parte di sguattera in casa mia.
Come venni a sapere in seguito, un certo industriale di Baku — il tipico raffinatore di petrolio, che aveva fatto fortuna — aveva anticipato una bella somma ad alcuni giornalisti, promettendo di raddoppiarla se fossero riusciti a rendere celebre la sua amante, fino a poco tempo prima cameriera presso un ingegnere russo, che egli aveva sedotta in occasione delle sue visite di affari.
Ed ecco un altro esempio.
Leggevo di tanto in tanto, su un giornale tedesco molto diffuso, lunghi panegirici di un certo pittore, e questi articoli mi portarono a pensare che questo artista fosse una specie di fenomeno dell’arte contemporanea.
Siccome mio nipote si era fatto costruire una casa nella città di Baku e aveva deciso, in previsione del suo matrimonio, di farla arredare in modo sontuoso, gli consigliai di non lesinare sul denaro e di mandare a chiamare quell’artista famoso perché dirigesse i lavori di decorazione e dipingesse alcuni affreschi. (Sapevo che quell’anno egli aveva avuto la fortuna di trivellare alcuni pozzi di petrolio ad alta resa che lasciavano sperare in un rendimento ancora migliore). Così le enormi spese sarebbero per lo meno servite ai suoi discendenti, che avrebbero ricevuto in eredità gli affreschi e altre opere di questo maestro eccelso.
Così fece mio nipote. Andò lui stesso a cercare l’illustre artista europeo. E presto giunse il grande pittore, trascinandosi appresso un’intera schiera di assistenti e operai e, così mi sembrò, perfino il proprio harem — nel significato europeo della parola, beninteso. Poi, senza fretta, si mise all’opera.
Il risultato del lavoro di questa celebrità contemporanea fu, innanzitutto, che il matrimonio venne rimandato, e, in secondo luogo, che si dovette spendere parecchio denaro per risistemare tutto, facendo poi ridipingere e decorare le pareti in modo più conforme alla vera pittura da semplici artigiani, persiani questa volta.
Nel caso presente, bisogna rendere giustizia ai giornalisti: fu quasi disinteressatamente che essi aiutarono quel pittore da strapazzo a far carriera, da modesti imbrattacarte quali erano. Come ultimo esempio, vi racconterò una fosca storia di cui fu responsabile uno dei pontefici di quella specie di letteratura contemporanea particolarmente perniciosa.
Nel periodo in cui abitavo nella città di Khorasan, un giorno incontrai a casa di un comune amico due giovani sposi europei, e strinsi amicizia con loro.
Essi si fermarono parecchie volte a Khorasan, ma ogni volta per pochissimo tempo.
Mentre viaggiava in compagnia della giovane moglie, il mio nuovo amico raccoglieva osservazioni e faceva delle analisi per determinare gli effetti della nicotina di vari tipi di tabacco sull’organismo e lo psichismo degli esseri umani.
Avendo raccolto in vari paesi dell’Asia tutte le informazioni di cui aveva bisogno, ripartì per l’Europa con sua moglie e si mise a scrivere un’opera importante in cui esponeva le conclusioni delle sue ricerche.
Ora, per mancanza di esperienza, la giovane donna non aveva ancora imparato a prendere in considerazione l’eventualità che si presentassero ‘periodi neri’, e, durante quei viaggi, aveva dato fondo a tutte le loro risorse. Così, per permettere al marito di portare a termine il suo libro, si vide costretta a lavorare come dattilografa in una grande casa editrice.
Questa casa editrice era frequentata da un certo critico letterario che la incontrava spesso. Innamoratosi di lei, come si suol dire, o semplicemente desideroso di soddisfare la sua concupiscenza, egli tentò di indurla ad avere un legame con lui. Ma lei, da donna onesta che conosceva il proprio dovere, non cedette alle sue proposte.
Mentre in questa sposa fedele di un marito europeo trionfava la morale, quel tipico individuo contemporaneo, sudicio in ogni senso, nutriva, tanto più forte in quanto la sua concupiscenza non era stata soddisfatta, il desiderio di vendetta abituale in gente del suo stampo, cosicche egli riuscì, con i suoi intrighi, a farle perdere il posto senza il minimo motivo. Poi, quando suo marito ebbe terminato e pubblicato la sua opera, per rancore, quel critico si mise a scrivere sui quotidiani di cui era collaboratore e perfino su altri giornali e riviste tutta una serie di articoli in cui dava del libro un’interpretazione assolutamente falsa. In breve, egli lo screditò a tal punto che esso fu un fiasco completo; nessuno si interessò di quel libro né lo comprò. Gli intrighi di uno dei rappresentanti malefici di una letteratura priva di princìpi ebbero questa volta il risultato di spingere un onesto ricercatore a porre fine ai propri giorni. Quando questi ebbe esaurito tutte le sue risorse e non ebbe più neanche di che comprarsi il pane per sé e per la sua cara moglie... dopo essersi messi d’accordo, tutti e due si impiccarono.
I critici letterari, a causa dell’influenza che la loro autorità di scrittori esercita sulla massa degli uomini ingenui e facili da suggestionare, a mio avviso sono mille volte più nocivi di tutti quei mocciosi di giornalisti.
Per esempio, io conoscevo un critico musicale che per tutta la sua vita non aveva mai toccato uno strumento, e che dunque non aveva nessuna coinprensione pratica della musica: non sapeva neppure che cosa fosse un suono, né quale fosse la differenza esistente tra le note do e re. Ciò nonostante, le anomalie inerenti alla civiltà contemporanea gli avevano consentito di occupare un posto di responsabilità come critico musicale, e di diventare successivamente un’autorità per i lettori di un giornale in piena prosperità la cui diffusione era considerevole. I suoi giudizi del tutto incornpetenti avevano finito per inculcare nei lettori opinioni definitive, mentre la musica sarebbe potuta essere per loro ciò che essa è in realtà: una fonte di corretta comnprensione di uno degli aspetti della conoscenza.
Il pubblico non sa mai chi è che scrive. Conosce soltanto il giornale, il quale appartiene a un gruppo di esperti commercianti.
Che cosa sanno esattamente coloro che scrivono su quei giornali, e che cosa succede dietro le quinte della redazione? Il lettore lo ignora completamente. Perciò prende per oro colato tutto ciò che trova sui giornali.
Su questo argomento, la mia convinzione si è andata rafforzando in questi ultimi tempi, ed è diventata salda come roccia e ogni uomo capace di pensare in modo più o meno imparziale può fare la stessa constatazione: coloro che cercano di svilupparsi con i mezzi loro offerti dalla civiltà contemporanea, al massimo riescono ad acquistare una facoltà di pensare degna della prima invenzione di Edison e, in fatto di sensibilità, sviluppano in sé soltanto ciò che Mullah Nassr Eddin avrebbe chiamato “la finezza di sentimenti di una vacca”.
I rappresentanti della civiltà contemporanea, trovandosi a un grado di sviluppo morale e psichico molto inferiore, sono, come dei bambini che giocano col fuoco, incapaci di misurare la forza con la quale si esercita l’influenza della letteratura sulla massa.
Se devo credere all’impressione che mi è rimasta dopo avere studiato la storia antica, le élites delle civiltà di un tempo non avrebbero mai permesso che una simile anomalia continuasse così a lungo.
Ciò che dico d’altronde può venire confermato da informazioni che ci sono giunte circa l’interesse che provavano per la letteratura quotidiana i dirigenti del nostro paese, non tanto tempo fa, nell’epoca in cui eravamo fra le grandi potenze, nell’epoca cioè in cui Babilonia ci apparteneva ed era l’unico centro di cultura universalmente riconosciuto.
Secondo queste informazioni, anche laggiù esisteva una stampa quotidiana, sotto forma di papiri stampati, in quantità limitata, naturalmente. Ma a questi organi letterari potevano collaborare soltanto uomini di una certa età, che fossero qualificati, conosciuti da tutti per i loro sicuri meriti e la loro vita onesta. Esisteva perfino una regola secondo la quale questi uomini venivano ammessi ad adempiere alla loro carica soltanto dopo avere prestato giuramento. Portavano allora il titolo di “collaboratori giurati”, come oggi esistono i membri di una giuria, gli esperti giurati, eccetera.
Oggigiorno, invece, qualsiasi sbarbatello può diventare giornalista, purché sappia esprimersi in modo garbato e, come si dice, letterario.
Ho imparato peraltro a conoscere molto bene lo psichismo di questi prodotti della civiltà contemporanea che sommergono con le loro elucubrazioni quei giornali e quelle riviste, e ho potuto valutare il loro essere perché, per tre o quattro mesi, ho avuto occasione di stare al loro fianco, ogni giorno, nella città di Baku, e di avere con loro frequenti conversazioni.
Mi trovavo a Baku, dove ero andato a passare l’inverno da mio nipote. Un giorno, alcuni giovani vennero a chiedergli una delle grandi sale al pianterreno di casa sua — dove prima aveva avuto intenzione di aprire un ristorante — come sede per la loro Nuova Società degli Uomini di Lettere e Giornalisti.
Mio nipote accolse subito tale richiesta e, a partire dall’indomani, quei giovani si riunirono ogni sera a casa sua per tenervi ciò che essi chiamavano le loro assemblee generali e i loro dibattiti scientifici.
A queste riunioni venivano ammessi anche gli estranei, e siccome io non avevo nulla da fare la sera, e la mia camera si trovava accanto alla sala dove si incontravano, andavo spesso ad ascoltare i loro discorsi. Ben presto alcuni di loro mi rivolsero la parola e, a poco a poco, fra noi si stabilirono rapporti amichevoli.
Per la maggior parte erano ancora giovanissimi.
delicati ed effeminati. In alcuni, i lineamenti del viso rivelavano che i loro genitori probabilmente si erano dedicati all’alcol o ad altre passioni per mancanza di volontà, o che i proprietari di quei visi si abbandonavano di nascosto a cattive abitudini.
Benché Baku sia una piccola città, se la si confronta con la maggior parte delle grandi città della civiltà contemporanea, e benché i campioni di umanità che si riunivano laggiù fossero tutt’al più “uccelli che volano bassi”, non mi faccio scrupolo alcuno a generalizzare mettendo tutti i loro colleghi nello stesso sacco.
E sento di averne il diritto perché più tardi, durante i miei viaggi in Europa, ho spesso incontrato dei rappresentanti di questa letteratura contemporanea, che mi hanno fatto sempre la stessa impressione: quella di somigliarsi tutti come gocce d’acqua.
Erano diversi soltanto per il loro grado di importanza, che dipendeva dall’organo letterario al quale essi collaboravano, cioè dalla fama e dalla diffusione del giornale o della rivista che pubblicava le loro elucubrazioni, o ancora dalla solidità della ditta commerciale alla quale apparteneva quest’organo, con tutti i suoi operai letterari.
Molti fra loro si autodefinivano, non si sa perché, “poeti”. Oggigiorno, in Europa, chiunque scriva una breve assurdità di questo genere:

Verde reseda
rosso mimosa
la divina posa di Lisa
è molle acacia
di pianto intrisa

riceve dalla sua cerchia il titolo di poeta; alcuni fanno perfino stampare questo titolo sul loro biglietto da visita.
Tra questi operai del giornalismo e della letteratura contemporanea lo spirito di corpo è molto sviluppato: essi si sostengono a vicenda e si lodano in ogni occasione in modo esagerato.
Mi sembra anzi che questa caratteristica sia la causa principale della loro proliferazione, della loro falsa autorità sulla massa, e dell’adulazione incosciente e servile dimostrata dalla folla per quelli che si potrebbero definire, con la coscienza a posto, delle perfette nullità.
In queste assemblee, uno di essi saliva sul palco per leggere, ad esempio, qualcosa del genere dei versi che ho appena citati, o per esaminare perché il ministro di questo o quel paese, durante un pranzo ufficiale, si fosse espresso su una certa questione nel tal modo e non nel tal altro. Poi, il più delle volte, l’oratore terminava il suo discorso con una dichiarazione di questo genere:
“Cedo la parola a questo eccellentissimo luminare della scienza del nostro tempo, il signor Tal dei Tali, chiamato nella nostra città per un affare della massima importanza e che ha avuto l’estrema cortesia di voler assistere alla nostra assemblea. Avremo ora il grande piacere di ascoltare la sua incantevole voce”.
E quando questa celebrità saliva a sua volta sul palco, prendeva la parola in questi termini: “Signore e Signori, il mio collega è stato così modesto da chiamarmi celebrità...”. (Va notato per inciso che egli non aveva potuto afferrare ciò che aveva detto il suo collega, poiché era venuto dalla sala accanto, la cui porta era chiusa).
“A dire il vero, se mi si paragona a lui, non sono neppure degno di sedere in sua presenza. Non sono io il luminare, bensì lui: è conosciuto non solo in tutta la nostra grande Russia, ma nell’intero mondo civilizzato. Il suo nome verrà pronunciato con esaltazione dai nostri discendenti, e nessuno dimenticherà mai ciò che egli ha fatto per la scienza e per il bene dell’umanità.
“Se questo fulcro di verità vive oggi in questa città insignificante, non è per caso, sembra, bensì per importanti motivi da lui solo conosciuti. Il suo vero posto non è fra noi, bensì accanto alle antiche divinità dell’Olimpo”.
Ed era soltanto dopo questi preamboli che la nuova celebrità pronunciava alcune assurdità, su un tema di questo genere: Perché i Sirikitsi dichiararono guerra ai Parnakalpi.
Dopo queste assemblee scientifiche, c’era sempre una cena annaffiata da un paio di bottiglie di vino scadente. Molti dei convitati si infilavano in tasca degli antipasti — chi una fetta di salame, chi un’aringa con un pezzo di pane — e se per caso uno di loro veniva colto sul fatto, diceva con aria noncurante: “E per il mio cane: quel briccone ha le sue abitudini, vuole sempre la sua parte quando rincaso tardi”.
L’indomani, si poteva leggere su tutti i giornali locali il resoconto della serata e dei discorsi, scritto in uno stile incredibilmente ampolloso, naturalmente senza che si accennasse mai alla modestia della cena né ai furterelli di fette di salame... per il cane.
E sono queste le persone che scrivono sui giornali a proposito di ogni genere di verità e di scoperte scientifiche. Il lettore ingenuo, che non vede gli scrittori e non conosce il loro modo di vivere, si fa un’opinione sugli avvenimenti e sulle idee secondo i vaneggiamenti di questi letterati da strapazzo che non sono né più né meno che uomini malati e privi di esperienza, che ignorano completamente il vero significato della vita.
Tranne rarissime eccezioni, in tutte le città d’Europa, quelli che scrivono libri o articoli sui giornali appartengono proprio alla specie di questi giovani sventati, che sono diventati tali per motivi ereditari o per loro debolezza specifica.
Per me, non v’è alcun dubbio: fra tutte le cause delle anomalie esistenti nella civiltà contemporanea, la più evidente, quella che occupa il posto predominante, è proprio questa letteratura giornalistica, per l’azione demoralizzante e perniciosa che esercita sullo psichismo degli uomini. Peraltro sono profondamente stupito che nessun ‘detentore di potere’ se ne sia mai accorto, e che ogni Stato consacri quasi più di metà del proprio bilancio al mantenimento della polizia, delle carceri, dei municipi, delle chiese, degli ospedali, ecc... e che paghi innumerevoli funzionari, preti, medici, agenti della polizia segreta, procuratori, agenti per la propaganda, ecc... tutto ciò con l’unico scopo di salvaguardare l’integrità fisica e morale dei suoi cittadini, senza spendere un solo centesimo né intraprendere una qualsiasi azione per distruggere fino alle radici questa causa evidente di ogni genere di crimini e di malintesi.

07 ottobre 2008

Contro il calcio


Divergenze d'opinione in materia di ultras e diffide, Firenze, estate 2008

All'inizio di ottobre i giornali pubblicano la notizia di una retata nel napoletano. Fatta la doverosa tara sulla veridicità delle informazioni, cosa inevitabile in considerazione dell'abituale atteggiamento giornalaro che mescola imprecisioni e sciacallaggio, voglia di linciaggi e malafede in un cocktail micidiale e vergognoso, pare che rappresentanti istituzionali e ultras abbiano coordinato le giornate di scontri di piazza che hanno costellato l'"emergenza" rifiuti nel napoletano, nei primi mesi del 2008.
Da più di un secolo un gioco in cui ventidue tizi in mutande in mezzo ad un campo si contendono a pedate un arnese rotondo che non sta mai fermo costituisce argomento o pretesto per un continuum di relazioni sociali compreso tra la discussione amichevole e la guerra tra stati sovrani (è successo davvero, nel 1969). La pervasività dell'argomento è arrivata al punto che, discorrendone, è ammesso ormai che in alcuni contesti prenda la parola chi si riconosce nel minoritario campione di dissidenti per i quali le sei diagnosi sul menisco di Del Piero o la media gol a partita di Paulo Roberto Cotequinho non hanno alcun interesse, ma qui finisce il diritto al contraddittorio. Guai scoperchiare il calderone di bassezze che non appesta soltanto il calcio televisivo, ma che da decenni ha esteso la sua influenza fino all'ultimo dei campetti di periferia. Non soltanto i (moltissimi) soggetti che traggono a tutti i livelli un utile dal settore, ma anche gli spettatori occasionali, i tifosi per sentito dire che i lavoratori dei mass media scelgono con ogni cura quando devono intervistare qualcuno, dicotomizzano tra i cosiddetti "professionisti" oggetto di attenzione mediatica, riconosciuti come discutibili, ed il mondo di quelli che si chiamavano "amatori" (e che oggi non possono più essere definiti in questo modo, visto che i termini "amatore" ed "amatoriale" fanno pensare soltanto alla pornografia casalinga), considerati, come i ragazzini delle "scuole calcio", praticamente intoccabili: degli idealisti integerrimi che quando giocano ci mettono l'anima.
Chi scrive non è di questa opinione e ritiene che il mondo del calcio sia qualcosa da cui non farsi sfiorare neppure per sbaglio. Una realtà stigmatizzante dove la pretesa distinzione di "valori" e comportamenti tra professionisti mediatici e serie minori non esiste affatto.
Nel 1988, a sedici anni, frequentavamo nientemeno che il circolo ACLI di un paese a sud di Firenze; si potrà immaginare che clima cospirativo e che fervore di attività sovversive. Una sera di tarda primavera, verso le nove, dal campo da calcio dietro il circolo arriva un crescendo di strepiti, strilli e fracasso di varia natura. "Ma che succede là fuori?!" "Come, non lo sai? Tutti i giovedì c'è la partita degli amatori; va sempre a finire che rincorron l'arbitro e gli dànno un monte di botte...". In vent'anni non è che la situazione sia migliorata gran che; nelle giornate di ordinaria amministrazione gli spettatori dei campetti dànno di solito fondo, oggi come ieri, ad una panoplia di insulti degna d'un carrettiere dei bei tempi, che dalla mamma alla Madonna vanno a cercare parenti più o meno lontani e figure più o meno note dell'apparato divino cristiano con uguale e pittoresca disinvoltura. Questo, in giornate di ordinaria amministrazione. Nella pratica un niente, in campo e fuori, basta per passare all'azione contro il primo che càpita, arbitro, giocatore o tifoso che sia. Questo molto in sintesi e senza enumerare alcuno tra le centinaia di episodi -alcuni dei quali d'una violenza inaudita- che si verificano tutti gli anni proprio in serie minori e in campionati di ennesima categoria. Postulare un calcio professionistico discutibile ed uno non professionistico sano per definizione e dunque intoccabile vuol dire ammettere che i due settori siano praticamente stagni. Cosa assolutamente insostenibile per più motivi.
In primo luogo, il calcio televisivo ed il calcio chiacchierato forniscono una prima socializzazione alla materia anche a bambini piccolissimi, in un processo sociale in cui i meccanismi di identificazione nei confronti del campione di turno sono soltanto uno degli aspetti più noti, e probabilmente neppure il più importante. Il calcio mediatico rappresenta terreno comune per il sostenimento di atteggiamenti e di conversazione ed in molti casi è perfino materia di primissima importanza per la costruzione dell'identità personale in soggetti che lo praticano anche attivamente, nella scala in cui questo è loro possibile. Va dunque concepito come un fenomeno unico e senza distinzioni che sono in realtà funzionali solo al mantenimento di un'immagine presentabile e che non danneggi le sue quote di mercato. Anche in tempi in cui i gadget della serie A non avevano ancora appestato i luoghi più remoti del mondo (abbiamo visto maglie del Milan nello Yemen ed in Tagikistan) era facile trovare in giro ragazzini di otto-dieci anni capaci, al lunedi mattina, di ripetere in ordine cronologico tutti i goal degli incontri giocati la domenica precedente. Una nostra conoscenza, coetaneo negli anni Ottanta, accompagnava questo tipo di competenze ad un rapporto pressoché esclusivo con il pallone (solitamente un "Super Tele" rosso o blu) isolandosi dall'ambiente circostante e palleggiando per centinaia di volte tutte in fila, per interi pomeriggi. Non finì gran che bene: anni dopo il solito menisco incrementò di una unità il numero di quelli che se non era che mi facevo male al ginocchio a quest'ora giocavo in serie A. Anni dopo ancora, la diagnosi di un disturbo psichiatrico piuttosto serio mise nel suo caso fine anche alla prospettiva di un'esistenza equilibrata. E questo porta ad un'altra conclusione interessante. Il calcio come alimento per l'immaginario e per la quotidianità di soggetti portatori di potenziali disturbi del comportamento, secondo una prassi abitualmente facilitata dal contesto sociale.
Vito Piazza è stato l'ultimo direttore della scuola speciale Treves de Sanctis di Milano e nel 1992 ha scritto per Baldini & Castoldi un volumetto di racconti sulla sua esperienza. Uno dei protagonisti delle storie è un ragazzo di una quindicina d'anni nato nell'estremo sud della Sicilia. Normalissimo nell'aspetto e nei modi, tanto che Piazza si chiedeva perché mai fosse finito in una scuola destinata a persone di ben altra problematicità. I due scambiano qualche parola: dopo la scuola, il ragazzo giocava a pallone. A San Siro. Insieme a Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea... Tutti campioni di quegli anni che ogni pomeriggio, non avendo altro da fare, andavano a giocare con lui. Cos'era successo? Era successo che le persone con cui questo ragazzo si relazionava abitualmente, coetanei ma non soltanto, per anni e anni lo avevano rinforzato nelle sue convinzioni deliranti, per i motivi più vari. Contribuendo, probabilmente con piena consapevolezza, a ridurre ad un drop out un individuo che al contrario avrebbe avuto bisogno di robustissime iniezioni di realtà.
Al di là del caso limite su riportato, il calcio costituisce argomento monolitico di conversazione, e spesso anche di pratica extrascolastica e poi extralavorativa, di strati amplissimi di una popolazione che finisce in mille modi ad alimentare il gigantesco indotto della macchina mediatica che gli sta dietro, e dalla quale -ripetiamo- la partitella al campetto non è affatto altera res.
Un pomeriggio in un campo di allenamento permette di rendersi conto dell'esistenza consolidata di rapporti venali, di accessi nemmen tanto ritualizzati di aggressività e di competitività demenziale secondo schemi ricalcati sull'esempio mediatico fin dalle prime leve calcistiche per i bambini delle elementari. Sugli spalti si affollano genitori che considerano testualmente la pratica del calcio come una "scuola di vita", dove il vocabolo "vita" va inteso in senso "occidentale" di terreno di scontro nel quale sgomitare è lecito, imbrogliare un dovere, fregarsene di tutto il resto un postulato. Sicché vanno giù pesanti con consigli sanguinari e con propositi truculenti, di pari ferocia rispetto a quelli che è dato sentire negli stadi di prima divisione. I processi di socializzazione mediati dal calcio portano alla formazione di gruppi caratterizzati dalla polarizzazione e dalla diluizione della responsabilità individuale, costruendo in campo (in tutti i campi) e sulle tribune (su tutte le tribune) ambienti in cui può accadere -e spesso accade- di tutto.
La pretesa che la pratica diretta del calcio sia esente dagli immondi vizi del calcio mediatico, dunque, non sta in piedi. Anche perché per gli ultimi trenta e più anni il comportamento degli spettatori fuori e dentro gli stadi, con i report dettagliati di fatti di cronaca quasi sempre improntati a comportamenti piuttosto scomposti per non dir di peggio, ha costituito parte integrante del prodotto mediatico calcio, quello che interagisce quotidianamente, nei processi sociali, con la pratica del gioco e con i fenomeni che la accompagnano in campo e fuori.
La situazione ha conosciuto un peggioramento molto recente.
Negli ultimi anni i soldi che contano -quelli del miliardario australiano Rupert Murdoch- si sono comprati in blocco il format del più importante campionato professionistico. Roba che arriva a pagamento e che crea indotto fino alle yurte kirghise, ai paesini del Senegal. La tutela dell'interesse del signor Murdoch passa attraverso un'esigenza molto elementare: lo spettacolo non deve essere disturbato né nella qualità, né nei tempi. Niente fumogeni, niente striscioni capaci di distogliere clienti sensibili alla correttezza politica e via di questo passo. Gli spettatori devono limitarsi ad un lavoro da comparse. Comparse che per giunta pagano anche, e nemmeno poco. Chiaro che il supporter calcistico, da trent'anni abituato a comportarsi come gli pare e legittimato in questo dalla generale acquiescenza (acquiescenza dovuta sostanzialmente al denaro che i tifosi muovono) accolga molto male la fine della situazione che gli ha fornito praticamente tutto il proprio bagaglio culturale, modelli di consumo per primi. I gruppi strutturati e gerarchici che hanno prosperato nella brodaglia sociale delle periferie, nel nulla culturale tanto diffuso quanto caldeggiato e addirittura apertamente promosso dal potere politico e da quello economico, gli individui che da una vita utilizzano le competenze sociali fornite dal calcio per rapportarsi con quanto rimane dell'esistente vedono ridurre drasticamente l'efficacia degli strumenti con cui hanno costruito la propria realtà. Il prodotto mediatico li espelle: dalla sera alla mattina li trova controproducenti e li mette all'angolo senza misericordia. Un comportamento da figlio ingrato.
Contemporaneamente a questo profondo cambiamento, che ha preso a pretesto la morte di Filippo Raciti e si è tradotto nella militarizzazione degli stadi e dei loro dintorni tale che andare a vedere una partita ricorda un po' l'attraversare il confine tra Palestina ed Israele, i gruppi più o meno formali detti "tifoserie organizzate" hanno cominciato a trasferirsi altrove, cercando occasioni meno blindate e trovandole nelle altre serie del campionato, in cui si sono intensificate le occasioni di intervento per la gendarmeria. Occasioni di intervento che ricevono puntuale copertura mediatica, proprio come prima.
La questione non è soltanto sociopsicologica. Ha anche risvolti economici di primaria importanza ai quali si dovrebbe dedicare uno scritto a parte, così come andrebbe fatto per i rapporti tra mondo del calcio in generale e mondo politico. Lo stesso andrebbe fatto con l'intera costellazione di fenomeni paracalcistici e con la loro funzione di convogliatore dell'aggressività verso obiettivi relativamente poco disturbanti per il potere costituito. Qui è solo il caso di affermare che il calcio nella sua interezza rappresenta a tutti i livelli un vero e proprio ostacolo all'ampliamento delle proprie prospettive ed all'arricchimento dei propri interessi culturali e delle proprie esperienze sociali perché intrappola rapidamente sia il praticante che lo spettatore in un contesto in cui la definizione polarizzata dell'identità con l'aggressività decerebrata che ne consegue e la ripetizione ecoica di quanto riportato dalle fonti mediatiche hanno il sopravvento su tutto il resto, imponendo l'adesione a ruoli semplicistici caratterizzati da poche variabili, i cui valori possono essere rappresentati secondo spietate scale di tipo discreto: ad esempio, in ambienti sociali vastissimi non è ammesso che ad un ragazzino il calcio non interessi. Chi confermasse questo disinteresse rischierebbe di trovarsi nella situazione ritratta in Ovosodo (1997) dove il protagonista Piero Mansani ricorda: "Vivevo in un ambiente che non ammetteva sfumature: un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo e venivi bollato per sempre come finocchio...!". Il calcio va inteso dunque come una possente forza che livella verso il basso grazie alla doppia presenza e alla doppia pressione di fonti mediatiche e di gruppi sociali, come agenzia di formazione di schiavi integrati, di consumatori invece che di individui, di gruppi omogenei spinti alla sostanziale condivisione di meri comportamenti di consumo.

04 ottobre 2008

Da Abdul a Tong


Nel corso degli ultimi mesi è aumentata la copertura mediatica riservata agli episodi classificabili come violenza razziale. L'assassinio praticamente a freddo del milanese Abdul William Guibre e l'aggressione di gruppo avvenuta a Roma ai danni di Tong Hong-shen, lavoratore dallo Xinjang, spiccano in un quadro di tensione quotidiana correntemente e abitualmente alimentata dal circolo vizioso che si innesta tra un operato massmediale da anni oltre il limite del presentabile ed una circolazione sociale delle informazioni per la quale non esiste vergogna più stigmatizzante dell'azzardarsi a disprezzare come meritano la maggior parte dei luoghi comuni.
Ora, più che di aggressioni a sfondo razziale si dovrebbe parlare di aggressioni a sfondo demenziale, in considerazione dell'assoluta inconsistenza delle motivazioni rintracciabili nei contenuti mediatici, che non fa pensare che alla base di questi e di altri episodi esista un piano ideologico fortemente strutturato, tale da andare al di là del corrente "io gli darei fuoco", proposito ampiamente condiviso tra i sudditi dello stato che occupa la penisola italiana e percepito, condiviso ed accettato come proponibile soluzione di ogni controversia, dalla disputa per la viabilità stradale allo scontro armato tra stati sovrani. Un atteggiamento estremamente corrente ed abituale contro il quale nessuno reagisce, anche se in circostanze più civili non sarebbe raro, e nemmeno sgradito, vedere l'aspirante incendiario rischiar forte anche sul piano fisico!
Nel settembre scorso, dopo una settimana lavorativa a Milano -o Arbeitstadt, come l'ha chiamata un amico nella Lingua Tertii Imperii- svoltasi proprio in corrispondenza con l'assassinio di Abdul William Guibre, chi scrive ha verificato su vari organi di stampa il molto spazio dedicato alle reazioni di politicanti il cui problema principale è quello di stigmatizzare eventuali reazioni popolari al perdurante stato di cose; il più delle volte una fantomatica "sinistra" (un areale politico che per i politicanti comincia laddove per un essere rispettoso di sé si colloca il liberalismo classico di stampo cavouriano) è immancabilmente accusata di "strumentalizzare" eventi del genere; una prassi anche questa d'uso corrente e che nel canaio propagandistico che ha preso il posto della comunicazione politica si è rivelata molto produttiva.
I comunicati stampa dei politici, e ancor più i commenti postati dai lettori di quotidiani on-line che ne offrono la possibilità, offrono un quadro realistico della bassezza raggiunta dai sudditi, e che i politici "liberamente" eletti incarnano e sublimano a meraviglia: esiste un settore molto numeroso dell'opinione pubblica che ritiene comprensibile ammazzare qualcuno a colpi di spranga per il furto di un po' di dolci. Basta che la cosa non faccia scendere il valore degli immobili, per carità; quindi fatelo lontani dalle mie finestre e soprattutto state attenti a non sporcare il marciapiede!
Milano è una città occidentale, ossia un inferno sulla terra. Ci si va a lavorare, appunto, essendo praticamente un reato d'opinione il pensare di farvi altro. Spiace soltanto che le forze vive che ancora vi allignano, come gli attivisti che hanno dato luogo al corteo tenutosi pochi giorni dopo l'omicidio, non riescano ad unirsi per lottare veramente contro un "Occidente" che da un bel pezzo ha smesso di essere qualcosa di diverso da un macinatore di esistenze. Una lotta quotidiana, grigia, prosaica, punt'affatto eroica o gioiosa, contro un totalitarismo consumista che dopo averti divorato la vita si impegna a divorarti anche l'anima.