1979, Rivoluzione Islamica in Iran (fonte: Payvand.com)
Quando i giovani di Tehran, l’avanguardia della Rivoluzione Islamica incombente, si riversarono nelle strade durante il tumultuoso inverno del 1978, le ingorgarono scandendo il nome di un uomo. Non era il nome di un religioso, non era il nome dell’Imam Khomeini, ma quello di un malinconico insegnante e lecturer universitario: il dottor Ali Shariati. Di quest’uomo Jean Paul Sartre disse una volta “Io non seguo alcuna religione, ma se ne seguissi una sarebbe quella di Shariati”. Quest’uomo malinconico fornì alla rivoluzione la sua ideologia di mobilitazione di massa e fu per lui che i giovani si riversarono per le strade.
La repressione dell’Islam e la distruzione del califfato iniziate da Mustafa Kemal, che avevano spinto Sayyid Qutb a predicare l’avanguardismo rivoluzionario fino al momento della sua esecuzione nel 1966, avevano sconvolto il mondo sunnita e si erano ripercosse ovunque in esso, ma avevano avuto un certo impatto anche sugli sciiti. Il lavoro di scrittura di Qutb a partire dal 1948, ma soprattutto l’opera La giustizia sociale nell’Islam1, aveva finito per coincidere con il verificarsi di proteste di massa in tutto il mondo musulmano a seguito della spartizione della Palestina, che avevano finito col conferire particolare risonanza alle sue parole.
Gli scritti di Qutb dei primi anni Cinquanta avevano preparato il terreno ad una ideologia rivoluzionaria potenzialmente davvero in grado di portare a cambiamenti concreti. Ma furono gli avvenimenti iracheni ed il confronto tra Najaf, centro dell’insegnamento religioso sciita, e Baghdad, centro del potere statale, che contribuirono a dare forma alle seguenti tappe della sua evoluzione. Anche più significativo fu l’intreccio di relazioni che si sviluppò tra le eminenti personalità islamiche che visitarono Najaf in questo periodo, o che vi abitarono. Questo confluire di potenzialità si trasformò in una centrifuga che produsse la struttura fondamentale per le ideologie dei movimenti rivoluzionari che si sarebbero sviluppati in Iraq, in Iran ed in Libano.
Fu questo intreccio di relazioni a porre il seme di una politica intesa nel senso in cui la intende l’Islam sciita. Ma un evento più di ogni altro, l’uccisione da parte di Saddam Hussein di uno dei più eminenti pensatori islamici e capo del movimento attivo a Najaf, costituì il punto di partenza per rinnovate lotte. L’assassinio del religioso sciita Mohammed Baqir Sadr e di sua sorella nel 1980 fece sì che la lotta islamica si estendesse a tutto il Medio Oriente e che assumesse la coloritura del pensiero sciita2.
Dall’inizio degli anni Cinquanta, i sunniti Fratelli Musulmani di cui Sayyid Qutb era una delle figure principali era stabilmente presente in tutte le principali città irachene. Ad essi afferivano studenti universitari e delle scuole secondarie, avvocati, ingegneri, medici e burocrati di livello basso e medio. Una militanza attiva e di buona cultura, attirata dai Fratelli Musulmani per l’ideologia del movimento e per il suo aspetto internazionalista. Ovviamente l’ideologia si basava quasi esclusivamente sul pensiero di intellettuali e di ideologi islamici sunniti, soprattutto Qutb ed Hassan al Banna, il capo dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Gli aderenti ai Fratelli in Iraq erano prevalentemente sunniti, ma l’organizzazione aveva attratto anche un piccolo ma significativo numero di attivisti sciiti. Nonostante gli aderenti sciiti fossero pochi rispetto ai sunniti, i Fratelli esercitarono sugli sciiti un’influenza che andò oltre i rapporti numerici, grazie alla loro costanza ed alla loro unicità. In quel periodo gli sciiti non avevano, in proprio, riferimenti ideologici o politici. La rinascita intellettuale che si verificò presso certi ambienti intellettuali e religiosi sciiti di Najaf tra il 1950 ed il 1980, di cui Sayyed Baqir Sadr costituì un’epitome, fu dunque fortemente influenzata ai suoi inizi da ideologi sunniti3, tra i quali primeggiava Sayyid Qutb.
La relativa aridità del pensiero politico sciita di quel tempo era il risultato di un precedente giro di vite autoritario; l’ultima volta che il clero sciita era riuscito ad esercitare una vera opposizione politica era stato attorno al 1923 e 1924. La questione era finita malissimo per i religiosi, con i più famosi tra i loro leader di Najaf mandati in esilio all’estero dalle autorità britanniche.
Questa brutta esperienza aveva condotto gli sciiti a fare scena muta in politica, e ad un quietismo che era durato per trent’anni, fino alla fine degli anni Cinquanta. A quel tempo, l’aperta ostilità nei confronti di Najaf da parte di Saddam Hussein e la prospettiva di una totale marginalizzazione degli sciiti causata dal fatto che i comunisti stavano facendo breccia tra giovani sciiti sempre più laicizzati stavano minacciando di oblio la città e le sue scuole religiose. L’influenza dell’ideologia rivoluzionaria sunnita esposta da Qutb e da altri pensatori dei Fratelli Musulmani, in un momento di scoraggiante riflusso, sembrò offrire ad alcuni giovani religiosi l’opportunità di una riforma e di una rinascita.
La repressione dell’Islam e la distruzione del califfato iniziate da Mustafa Kemal, che avevano spinto Sayyid Qutb a predicare l’avanguardismo rivoluzionario fino al momento della sua esecuzione nel 1966, avevano sconvolto il mondo sunnita e si erano ripercosse ovunque in esso, ma avevano avuto un certo impatto anche sugli sciiti. Il lavoro di scrittura di Qutb a partire dal 1948, ma soprattutto l’opera La giustizia sociale nell’Islam1, aveva finito per coincidere con il verificarsi di proteste di massa in tutto il mondo musulmano a seguito della spartizione della Palestina, che avevano finito col conferire particolare risonanza alle sue parole.
Gli scritti di Qutb dei primi anni Cinquanta avevano preparato il terreno ad una ideologia rivoluzionaria potenzialmente davvero in grado di portare a cambiamenti concreti. Ma furono gli avvenimenti iracheni ed il confronto tra Najaf, centro dell’insegnamento religioso sciita, e Baghdad, centro del potere statale, che contribuirono a dare forma alle seguenti tappe della sua evoluzione. Anche più significativo fu l’intreccio di relazioni che si sviluppò tra le eminenti personalità islamiche che visitarono Najaf in questo periodo, o che vi abitarono. Questo confluire di potenzialità si trasformò in una centrifuga che produsse la struttura fondamentale per le ideologie dei movimenti rivoluzionari che si sarebbero sviluppati in Iraq, in Iran ed in Libano.
Fu questo intreccio di relazioni a porre il seme di una politica intesa nel senso in cui la intende l’Islam sciita. Ma un evento più di ogni altro, l’uccisione da parte di Saddam Hussein di uno dei più eminenti pensatori islamici e capo del movimento attivo a Najaf, costituì il punto di partenza per rinnovate lotte. L’assassinio del religioso sciita Mohammed Baqir Sadr e di sua sorella nel 1980 fece sì che la lotta islamica si estendesse a tutto il Medio Oriente e che assumesse la coloritura del pensiero sciita2.
Dall’inizio degli anni Cinquanta, i sunniti Fratelli Musulmani di cui Sayyid Qutb era una delle figure principali era stabilmente presente in tutte le principali città irachene. Ad essi afferivano studenti universitari e delle scuole secondarie, avvocati, ingegneri, medici e burocrati di livello basso e medio. Una militanza attiva e di buona cultura, attirata dai Fratelli Musulmani per l’ideologia del movimento e per il suo aspetto internazionalista. Ovviamente l’ideologia si basava quasi esclusivamente sul pensiero di intellettuali e di ideologi islamici sunniti, soprattutto Qutb ed Hassan al Banna, il capo dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Gli aderenti ai Fratelli in Iraq erano prevalentemente sunniti, ma l’organizzazione aveva attratto anche un piccolo ma significativo numero di attivisti sciiti. Nonostante gli aderenti sciiti fossero pochi rispetto ai sunniti, i Fratelli esercitarono sugli sciiti un’influenza che andò oltre i rapporti numerici, grazie alla loro costanza ed alla loro unicità. In quel periodo gli sciiti non avevano, in proprio, riferimenti ideologici o politici. La rinascita intellettuale che si verificò presso certi ambienti intellettuali e religiosi sciiti di Najaf tra il 1950 ed il 1980, di cui Sayyed Baqir Sadr costituì un’epitome, fu dunque fortemente influenzata ai suoi inizi da ideologi sunniti3, tra i quali primeggiava Sayyid Qutb.
La relativa aridità del pensiero politico sciita di quel tempo era il risultato di un precedente giro di vite autoritario; l’ultima volta che il clero sciita era riuscito ad esercitare una vera opposizione politica era stato attorno al 1923 e 1924. La questione era finita malissimo per i religiosi, con i più famosi tra i loro leader di Najaf mandati in esilio all’estero dalle autorità britanniche.
Questa brutta esperienza aveva condotto gli sciiti a fare scena muta in politica, e ad un quietismo che era durato per trent’anni, fino alla fine degli anni Cinquanta. A quel tempo, l’aperta ostilità nei confronti di Najaf da parte di Saddam Hussein e la prospettiva di una totale marginalizzazione degli sciiti causata dal fatto che i comunisti stavano facendo breccia tra giovani sciiti sempre più laicizzati stavano minacciando di oblio la città e le sue scuole religiose. L’influenza dell’ideologia rivoluzionaria sunnita esposta da Qutb e da altri pensatori dei Fratelli Musulmani, in un momento di scoraggiante riflusso, sembrò offrire ad alcuni giovani religiosi l’opportunità di una riforma e di una rinascita.
La nostra filosofia
Sadr e la rete di pensatori che esisteva a Najaf risposero con entusiasmo, nonostante le cautele ed un certo scetticismo espresse da una parte del clero più anziano. Baqir Sadr fondò nel 1957 il primo movimento sciita rivoluzionario: un’organizzazione clandestina che si era organizzata a compartimentazione per motivi di sicurezza: Hezb al Da’wa4. Baqir Sadr pubblicò il suo libro La nostra filosofia nel 19595. In esso analizzava le radici della filosofia occidentale che conducevano al marxismo, e le poneva a confronto ed a contrasto con la tradizione islamica della filosofia. A questo scritto seguì La nostra economia, in cui l’autore fece la stessa cosa per quanto riguardava l’economia6. A seguito di questo Sadr ricevette dal governo del Kuwait l’incarico di stabilire in che modo la ricchezza derivante dal petrolio del paese potesse essere gestita attenendosi a principi islamici. Dedicandosi a questo compito Sadr produsse un importante scritto sulla finanza islamica che è a tutt’oggi alla base del funzionamento delle moderne banche islamiche. Grazie alle sue opere, Sadr diventò il principale teorico della rinascita islamica. Un terzo libro, La nostra società islamica, non venne mai pubblicato come tale, anche se elementi del pensiero di Sadr sull’argomento apparvero in vari articoli pubblicati all’epoca.
Sadr non accettò il concetto secondo il quale il primato della proprietà privata sarebbe giustificato a sufficienza partendo dalla nozione di “diritto individuale”. Pensò invece che sia la proprietà privata che la proprietà pubblica abbiano pari giustificazione, ma che i diritti ed i doveri di quanti ne godono vengano dopo l’imperativo divino di una società umana guidata secondo giustizia, compassione ed equità. Respinge anche l’ipotesi che questo renda l’economia islamica indistinguibile dalla socialdemocrazia, affermando che i concetti di capitalismo e di socialismo appartengano al naturale retaggio dell’ideologia occidentale, laddove l’economia islamica sorge invece da una visione che privilegia le richieste etiche e comportamentali imposte da una società islamica; per questo l’economia islamica trova giustificazione all’interno di un sistema di pensiero indipendente dagli altri.
La nostra filosofia presentava una miglior comprensione ed una visione più prossima a quella marxista. Il libro di Sadr rappresentava una dettagliata critica verso la più sofisticata espressione della filosofia materialista all’epoca fruibile nel mondo arabo, ma che oggi, nel mondo post marxista, può sembrare un po’ invecchiata. Come notato da Chibli Mallat, un’appendice alla prima edizione rivela le fonti marxiste di Sadr. Si tratta di uno sforzo notevole, per venire da quello che era uno studioso ed un giurista sciita7. La sua iniziativa pionieristica contribuì alla decisione, presa dalle università iraniane postrivoluzionarie, di abbracciare sia la filosofia islamica che quella tradizionale.
L’organizzazione clandestina Al-Da’wa fu concepita come una risposta sciita agli accadimenti del tempo, con particolare riferimento alla prevalente attenzione verso il marxismo diffusa tra i giovani sciiti. Molte delle principali opere di Al Sadr si compendiano di una critica ragionata del marxismo e del socialismo, e del tentativo di sviluppare un sistema di pensiero interamente islamico.
Gli sciiti di Al-Da’wa non si ritirarono interamente dai Fratelli Musulmani o da Hezb al Tahrir8; alcuni membri di Al-Da’wa rimasero profondamente influenzati da Qutb nel corso di tutti gli anni Sessanta9, facendo propri alcuni principi chiave radicali del suo pensiero.
Il fatto stesso che un eminente religioso sciita come Al Sadr si desse all’ideologia politica era già, all’epoca, qualcosa di rivoluzionario di per sé. Com’era prevedibile, il suo atteggiamento suscitò la dubbiosa opposizione dei religiosi appartenenti alla generazione più anziana, tra i quali l’ayatollah al-Khoei, guida del quietista Ayatollah Sistani che avrebbe in seguito assunto la guida dei seminari sciiti durante l’occupazione dell’Iraq nel 2003.
Baqir Sadr fu il più brillante religioso sciita della sua epoca, avendo ultimato i suoi studi al seminario di Najaf a venticinque anni: qualcosa che non si era mai visto prima. A molti buoni studenti il completamento degli studi richiedeva la maggior parte della vita. Certamente, doveva aver ereditato quella intelligenza per cui la sua famiglia era famosa.
I Sadr erano una famiglia rispettata. Erano di origine libanese e potevano far risalire il loro lignaggio fino al Profeta: da qui il titolo di Sayyed. In essa figurano molti studiosi insigni: il padre di Sadr era stato Ayatollah, il nonno Grande Ayatollah. Si trattava di una famiglia il cui prestigio e la cui influenza, in Iraq ed oltre, erano immensi: un cugino più anziano di Sadr aveva diretto la rivolta antibritannica degli anni ’20. Egli stesso era invece il suocero di Moqtada Sadr, attuale leader dell’Esercito del Mahdi in Iraq, e cugino del Grande Ayatollah Mohammed Sadeq Sadr, ucciso insieme a due dei suoi figli da Saddam Hussein nel 1999. Era anche cugino dell’imam Musa Sadr, uno dei primi ad esercitare influenza sulla mobilitazione sciita in Libano che avrebbe portato alla formazione di Hezbollah.
La generazione più anziana dei religiosi fu molto grata a Sadr per aver contrastato con successo l’influenza comunista, ma continuò a rifuggire dall’impegno politico, memore delle conseguenze della ribellione del 1920. Quando l’attrito tra Baghdad e Najaf aumentò, con la presa del potere da parte del partito Baath, alcuni religiosi più anziani tentarono di contrastare l’azione del circolo di Najaf.
I risultati del lavoro del circolo di Najaf durante gli anni Sessanta furono palpabili ed avevano riguardato la mobilitazione politica e l’opposizione all’ingiustizia ed ai soprusi. Gli autori che avevano diffuso le loro opere a partire da Najaf sarebbero diventati i leader delle successive tappe della rivoluzione politica sciita.
La filosofia politica di Mohammed Baqir Sadr, nota come “governo del popolo”, esplicitò la sua concezione di stato islamico moderno. Con la sua padronanza del Corano, unita ad un innovativo approccio all’esegesi coranica ripartito per materie, Sadr dimostrò che la facoltà di governarsi è “un diritto conferito all’intera umanità” e spiegò che “dare ordine al mondo e prendersi cura degli umani affari” era un obbligo imposto da Dio alla specie umana.
Si trattava di un grosso passo avanti per la teoria politica islamica. Sadr statuì che la legittimazione del governo di uno stato islamico viene dal popolo, e non dai religiosi. Sadr spiegò che nel corso della storia erano esistiti due ruoli: l’uomo, che eredita la terra e vi sta come un amministratore, ed il Profeta, che agisce come un guardiano sull’amministrazione che l’uomo esercita su ciò che ha ereditato.
Sadr non accettò il concetto secondo il quale il primato della proprietà privata sarebbe giustificato a sufficienza partendo dalla nozione di “diritto individuale”. Pensò invece che sia la proprietà privata che la proprietà pubblica abbiano pari giustificazione, ma che i diritti ed i doveri di quanti ne godono vengano dopo l’imperativo divino di una società umana guidata secondo giustizia, compassione ed equità. Respinge anche l’ipotesi che questo renda l’economia islamica indistinguibile dalla socialdemocrazia, affermando che i concetti di capitalismo e di socialismo appartengano al naturale retaggio dell’ideologia occidentale, laddove l’economia islamica sorge invece da una visione che privilegia le richieste etiche e comportamentali imposte da una società islamica; per questo l’economia islamica trova giustificazione all’interno di un sistema di pensiero indipendente dagli altri.
La nostra filosofia presentava una miglior comprensione ed una visione più prossima a quella marxista. Il libro di Sadr rappresentava una dettagliata critica verso la più sofisticata espressione della filosofia materialista all’epoca fruibile nel mondo arabo, ma che oggi, nel mondo post marxista, può sembrare un po’ invecchiata. Come notato da Chibli Mallat, un’appendice alla prima edizione rivela le fonti marxiste di Sadr. Si tratta di uno sforzo notevole, per venire da quello che era uno studioso ed un giurista sciita7. La sua iniziativa pionieristica contribuì alla decisione, presa dalle università iraniane postrivoluzionarie, di abbracciare sia la filosofia islamica che quella tradizionale.
L’organizzazione clandestina Al-Da’wa fu concepita come una risposta sciita agli accadimenti del tempo, con particolare riferimento alla prevalente attenzione verso il marxismo diffusa tra i giovani sciiti. Molte delle principali opere di Al Sadr si compendiano di una critica ragionata del marxismo e del socialismo, e del tentativo di sviluppare un sistema di pensiero interamente islamico.
Gli sciiti di Al-Da’wa non si ritirarono interamente dai Fratelli Musulmani o da Hezb al Tahrir8; alcuni membri di Al-Da’wa rimasero profondamente influenzati da Qutb nel corso di tutti gli anni Sessanta9, facendo propri alcuni principi chiave radicali del suo pensiero.
Il fatto stesso che un eminente religioso sciita come Al Sadr si desse all’ideologia politica era già, all’epoca, qualcosa di rivoluzionario di per sé. Com’era prevedibile, il suo atteggiamento suscitò la dubbiosa opposizione dei religiosi appartenenti alla generazione più anziana, tra i quali l’ayatollah al-Khoei, guida del quietista Ayatollah Sistani che avrebbe in seguito assunto la guida dei seminari sciiti durante l’occupazione dell’Iraq nel 2003.
Baqir Sadr fu il più brillante religioso sciita della sua epoca, avendo ultimato i suoi studi al seminario di Najaf a venticinque anni: qualcosa che non si era mai visto prima. A molti buoni studenti il completamento degli studi richiedeva la maggior parte della vita. Certamente, doveva aver ereditato quella intelligenza per cui la sua famiglia era famosa.
I Sadr erano una famiglia rispettata. Erano di origine libanese e potevano far risalire il loro lignaggio fino al Profeta: da qui il titolo di Sayyed. In essa figurano molti studiosi insigni: il padre di Sadr era stato Ayatollah, il nonno Grande Ayatollah. Si trattava di una famiglia il cui prestigio e la cui influenza, in Iraq ed oltre, erano immensi: un cugino più anziano di Sadr aveva diretto la rivolta antibritannica degli anni ’20. Egli stesso era invece il suocero di Moqtada Sadr, attuale leader dell’Esercito del Mahdi in Iraq, e cugino del Grande Ayatollah Mohammed Sadeq Sadr, ucciso insieme a due dei suoi figli da Saddam Hussein nel 1999. Era anche cugino dell’imam Musa Sadr, uno dei primi ad esercitare influenza sulla mobilitazione sciita in Libano che avrebbe portato alla formazione di Hezbollah.
La generazione più anziana dei religiosi fu molto grata a Sadr per aver contrastato con successo l’influenza comunista, ma continuò a rifuggire dall’impegno politico, memore delle conseguenze della ribellione del 1920. Quando l’attrito tra Baghdad e Najaf aumentò, con la presa del potere da parte del partito Baath, alcuni religiosi più anziani tentarono di contrastare l’azione del circolo di Najaf.
I risultati del lavoro del circolo di Najaf durante gli anni Sessanta furono palpabili ed avevano riguardato la mobilitazione politica e l’opposizione all’ingiustizia ed ai soprusi. Gli autori che avevano diffuso le loro opere a partire da Najaf sarebbero diventati i leader delle successive tappe della rivoluzione politica sciita.
La filosofia politica di Mohammed Baqir Sadr, nota come “governo del popolo”, esplicitò la sua concezione di stato islamico moderno. Con la sua padronanza del Corano, unita ad un innovativo approccio all’esegesi coranica ripartito per materie, Sadr dimostrò che la facoltà di governarsi è “un diritto conferito all’intera umanità” e spiegò che “dare ordine al mondo e prendersi cura degli umani affari” era un obbligo imposto da Dio alla specie umana.
Si trattava di un grosso passo avanti per la teoria politica islamica. Sadr statuì che la legittimazione del governo di uno stato islamico viene dal popolo, e non dai religiosi. Sadr spiegò che nel corso della storia erano esistiti due ruoli: l’uomo, che eredita la terra e vi sta come un amministratore, ed il Profeta, che agisce come un guardiano sull’amministrazione che l’uomo esercita su ciò che ha ereditato.
Infine, io voglio, in nome di tutti voi ed in nome dei valori in cui credete, che si faccia in modo che il popolo abbia l’autentica opportunità di esercitare il proprio diritto di governare il paese tenendo elezioni in cui un consiglio che rappresenti la ‘umma (il popolo) [inteso come “comunità di credenti”, N.d.T.] possa davvero affermarsi10.
Questo pensiero innovativo aiutò a sostenere la mobilitazione popolare della Rivoluzione Iraniana e l’ultima opera di Sadr, scritta nel 1979, adombra con chiarezza la costituzione iraniana che sarebbe entrata in vigore alla fine del 1979. Sadr aveva elaborato il su ricordato concetto di amministrazione per proporre un sistema elettorale diretto e popolare, affinché fossero cariche elettive sia quelle del parlamento che quella del presidente, mentre il ruolo di guardiani di tutto il sistema sarebbe spettato agli studiosi islamici, esperti per la loro conoscenza della legge. In questa concezione il ruolo di guardiano può essere considerato omologo, ad esempio, al ruolo della Corte Suprema statunitense intesa come custode dei valori della costituzione statunitense e come arbitro legale sulle questioni sociali.
Le conseguenze della rinascita intellettuale di Najaf
Dagli anni Settanta in poi, come risultato del crescente séguito di islamici che aveva preso ad interessarsi alle sue opere, Sadr venne arrestato varie volte dai baathisti e torturato, ma dopo ogni rilascio continuò sempre il suo lavoro. Nel 1977, dopo un’insurrezione a Najaf, fu condannato al carcere a vita, ma venne rilasciato due anni dopo a causa della sua popolarità. In quest’ultimo caso, nel giugno del 1979, venne arrestato e messo ai domiciliari mentre stava preparandosi per andare a Tehran ad incontrare Khomeini e rimase agli arresti fino all’aprile 1980, quando fu portato a Baghdad. Si dice a Najaf che Sadr riuscì a sfuggire al suo destino all’epoca della prima detenzione a giugno grazie al fatto che sua sorella corse tra la folla urlando “Stanno rapendo il vostro imam”. Quando scoppiarono nuovi disordini in aprile, il governo ridusse al silenzio la sorella portando via da Najaf anche lei.
Anche la sorella Amina Sadr bint al-Huda venne imprigionata, torturata ed uccisa. Si dice che Sadr sia stato ucciso conficcandogli in testa un chiodo di ferro e poi bruciandolo11. Durante la intifada irachena del marzo 1991, circa undici anni dopo, immagini di Sadr vennero portate in corteo nelle città dell’Iraq meridionale, fino a quando la rivolta non venne brutalmente sedata da Saddam Hussein. Anni dopo, durante l’esecuzione di Saddam Hussein, si udirono alcune guardie sciite levare il grido di “Lunga vita a Mohammad Baqir Sadr!”12.
L’uccisione ed il martirio di Baqir Sadr nel 1980 ad opera di Saddam Hussein fece ripiombare per forza di cose le scuole di Najaf nelle loro precedenti condizioni, in cui vigevano posizioni apolitiche e quietiste. Tuttavia la rinascita intellettuale di Najaf ed il modo in cui si era conclusa, con l’uccisione di Baqir, sparse realmente il risveglio sciita in aree fondamentali del medio Oriente ed anche oltre: in Iran, in Libano, in Kuwait, in Pakistan, in India ed in Sudan nel corso dei dieci anni che seguirono. Uno sguardo di insieme alle più importanti figure del movimento islamico del periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta mostra che tutte senza eccezioni avevano studiato a Najaf, vi avevano vissuto o vi si erano recati in visita.
La rinascita culturale e politica di Najaf e la nascita di quello che sarebbe diventato l’impegno politico dell’Islam sciita si avvalsero anche di un altro elemento -e la città accolse un residente in più- senza il quale l’Islam sciita non avrebbe assunto carattere universale nella sfida che esso presenta oggi all’Occidente.
Nel 1964, Ruhollah Khomeini giunse in esilio a Najaf. Dapprincipio mantenne un basso profilo e non si schierò apertamente a fianco del circolo che vi si riuniva. Dal 1964 e fino alla morte del suo più importante protettore, l’Ayatollah Muhsin al-Hakim, avvenuta nel 1970, Khomeini poté contare su una certa immunità, ma dal 1968 con l’arrivo al potere del partito Baath e con le tensioni tra esso e Najaf, fu costretto alla massima circospezione per quanto riguardava la politica irachena. Nondimeno, nel 1970 provocò uno shock nei suoi discepoli tenendo loro le sue famose lezioni sul wilayat al-fiqh (l’autorità spirituale del giureconsulto) e sul governo islamico.
La definizione di wilayat al-fiqh data da Khomeini, che era certamente retorica ed imprecisa, mancava delle linee guida di una costituzione per assumere completezza. Proprio il compnente di cui i rivoluzionari iraniani del 1978 sentiranno maggiormente l’impellenza. Fu Baqir Sadr, scrivendo poche settimane prima che Khomeini tornasse in Iran per guidare la rivoluzione, che anticipò gli elementi chiave della costituzione iraniana del 1979. Pochi mesi dopo baqir Al Sadr morì, ed il regime di Baghdad cancellò qualunque cosa lo riguardasse su cui riuscì a mettere le mani: ma la sua morte, così com’era successo con Sayyid Qutb, infuse energia agli islamici in tutto il Medio Oriente.
Anche la sorella Amina Sadr bint al-Huda venne imprigionata, torturata ed uccisa. Si dice che Sadr sia stato ucciso conficcandogli in testa un chiodo di ferro e poi bruciandolo11. Durante la intifada irachena del marzo 1991, circa undici anni dopo, immagini di Sadr vennero portate in corteo nelle città dell’Iraq meridionale, fino a quando la rivolta non venne brutalmente sedata da Saddam Hussein. Anni dopo, durante l’esecuzione di Saddam Hussein, si udirono alcune guardie sciite levare il grido di “Lunga vita a Mohammad Baqir Sadr!”12.
L’uccisione ed il martirio di Baqir Sadr nel 1980 ad opera di Saddam Hussein fece ripiombare per forza di cose le scuole di Najaf nelle loro precedenti condizioni, in cui vigevano posizioni apolitiche e quietiste. Tuttavia la rinascita intellettuale di Najaf ed il modo in cui si era conclusa, con l’uccisione di Baqir, sparse realmente il risveglio sciita in aree fondamentali del medio Oriente ed anche oltre: in Iran, in Libano, in Kuwait, in Pakistan, in India ed in Sudan nel corso dei dieci anni che seguirono. Uno sguardo di insieme alle più importanti figure del movimento islamico del periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta mostra che tutte senza eccezioni avevano studiato a Najaf, vi avevano vissuto o vi si erano recati in visita.
La rinascita culturale e politica di Najaf e la nascita di quello che sarebbe diventato l’impegno politico dell’Islam sciita si avvalsero anche di un altro elemento -e la città accolse un residente in più- senza il quale l’Islam sciita non avrebbe assunto carattere universale nella sfida che esso presenta oggi all’Occidente.
Nel 1964, Ruhollah Khomeini giunse in esilio a Najaf. Dapprincipio mantenne un basso profilo e non si schierò apertamente a fianco del circolo che vi si riuniva. Dal 1964 e fino alla morte del suo più importante protettore, l’Ayatollah Muhsin al-Hakim, avvenuta nel 1970, Khomeini poté contare su una certa immunità, ma dal 1968 con l’arrivo al potere del partito Baath e con le tensioni tra esso e Najaf, fu costretto alla massima circospezione per quanto riguardava la politica irachena. Nondimeno, nel 1970 provocò uno shock nei suoi discepoli tenendo loro le sue famose lezioni sul wilayat al-fiqh (l’autorità spirituale del giureconsulto) e sul governo islamico.
La definizione di wilayat al-fiqh data da Khomeini, che era certamente retorica ed imprecisa, mancava delle linee guida di una costituzione per assumere completezza. Proprio il compnente di cui i rivoluzionari iraniani del 1978 sentiranno maggiormente l’impellenza. Fu Baqir Sadr, scrivendo poche settimane prima che Khomeini tornasse in Iran per guidare la rivoluzione, che anticipò gli elementi chiave della costituzione iraniana del 1979. Pochi mesi dopo baqir Al Sadr morì, ed il regime di Baghdad cancellò qualunque cosa lo riguardasse su cui riuscì a mettere le mani: ma la sua morte, così com’era successo con Sayyid Qutb, infuse energia agli islamici in tutto il Medio Oriente.
Cambiare il significato del linguaggio
La rinascita di Najaf, come notato da Chibli Mallat13, era un fenomeno intellettuale che coinvolgeva essenzialmente dei giuristi, ed il suo prodotto letterario era fatto sostanzialmente da testi di legge. Può anche aver significato moltissimo per i circoli religiosi sciiti, ma rimaneva elitarista ed inaccessibile al grande pubblico. Se l’idea era quella di uscire dal piccolo circolo di coloro che vi aderivano, era necessario mobilitare il pubblico. La particolare intuizione di Ali Shariati, ed il suo contributo alla Rivoluzione Iraniana, consisterono proprio nella messa a punto di un’ideologia per la mobilitazione.
Shariati era convinto che l’Islam costituisse il più efficiente mezzo di comunicazione con i suoi compatrioti iraniani. Ma la questione centrale, quella che dovette risolvere per se stesso, era se l’Islam fosse una vera ideologia rivoluzionaria ammorbidita ed oscurata nei secoli da religiosi conservatori e da autorità interessate, o se invece era un sistema di credenze, i cui aspetti sociali ed economici erano impraticabili e nel miglior caso fuori dai costumi correnti14.
Durante il tempo passato a Parigi negli anni Sessanta Shariati lesse avidamente le produzioni di tutte le scuole del pensiero occidentale contemporaneo, e giunse alla paradossale conclusione che l’Islam poteva essere riscoperto attraverso le idee di intellettuali occidentali il cui messaggio radicale e progressista era a prima vista antiislamico, ma nell’essenza era invece il rispecchiarsi dell’immagine dell’Islam autentico, prima che diventasse rammollito ed offuscato nel corso del tempo.
Dalle sue letture Shariati trasse la conclusione che non era l’Islam ad essere superato, e che l’Islam sciita possedeva di per sé la quintessenza di tutte le scuole del pensiero progressista occidentale: “Tutto quello che Pascal, Marx e Sartre hanno dato all’Europa si può trovare nell’Islam sciita, sotto il nome di Ali”15. Fu Sartre a restituire il complimento più tardi, quando disse che se avesse dovuto scegliere una religione avrebbe scelto quella di Shariati.
Shariati iniziò in Francia un progetto di ricerca insieme ad Abolhassan Bani-Sadr; era il 1963 e c’era da capire, ricorrendo alle fonti originarie, se l’Islam come veniva praticato dal clero era l’Islam autentico, o se il suo messaggio liberatorio e progressista era stato oscurato da loro, come Shariati sospettava. I due erano d’accordo di impegnarsi per far rivivere, in questo caso, l’autentica ideologia islamica16.
Se invece l’Islam sciita si fosse rivelato una versione precedente del pensiero occidentale liberatorio e progressista, inglobata in un paradigma differente, secondo i due avrebbe presentato anche un vantaggio in più. Shariati pensava che gli aderenti alla sinistra avevano sempre parlato di popolo e di masse, ma che se fossero andati nei villaggi dei poveri cercando di levare la gente per la rivoluzione parlando loro nel nome di Marx, sarebbero stati mandati via a suon di risate. Provate invece a chiamarli all’unità ed alla vendetta in nome di Hussein, il nipote del Profeta, ed essi si leveranno immediatamente.
La conclusione cui arrivarono le ricerche congiunte di Shariati e Bani-Sadr fu che l’Islam del clero era incompatibile con l’Islam autentico, rivoluzionario e progressista. Shariati continuò a fare ricerche ed a formulare un’ideologia; Bani-Sadr divenne il primo presidente dell’Iran postrivoluzionario.
Fra tutti i suoi mentori intellettuali d’Occidente, Shariati si esaltò soprattutto per gli scritti di Frantz Fanon, il cui I dannati della Terra appassionò a tal punto lui ed i suoi amici che lo tradussero dal francese al persiano. Fu dalla traduzione che Shariati ed i suoi amici fecero del titolo del libro, mustad’afin-e-Zamin, che Khomeini trasse la sua parola d’ordine a sostegno degli oppressi e dei diseredati17.
Da Fanon, con cui Shariati ebbe scambi diretti in merito al ruolo dell’Islam, fu rafforzata la sua convinzione che ogni individuo di un terzo modo colonizzato o semicolonizzato dovesse tornare a se stesso, dovesse cercare gli elementi culturali appropriati e poi creare un “uomo nuovo”, basato su una “nuova idea” e su una “nuova storia”. Da Sartre e dall’esistenzialismo trasse invece ispirazione per il concetto di libertà di scelta individuale e per il diritto dell’individuo alla ribellione18.
Jacques Berque spiegò a Shariati come vedere il mondo attraverso una prospettiva sociologica; gli insegnò anche a trasformare il significato reale delle parole per far diventare concetti ridondanti e passivi degli energici strumenti di cambiamento. Questo fu il concetto fondamentale, ripreso ed utilizzato poi da Khomeini, da Musa al-Sadr e da Fadlallah; un concetto oggi ben compreso da Sayyed Hassan Nasrallah e da Hezbollah.
Berque suggerì che se anche le parole avevano un significato univoco ed eterno, il loro intento poteva essere trasformato nel tempo, ripartendo in modi differenti il loro contesto: “Si possono cambiare le parole da mezzi passivi per chiacchiere fini a se stesse e da strumenti di pura stupefazione in strumenti per i cambiamenti sociali e politici”19. Shariati considerò dunque ciascuna parola contemplata nel vocabolario di ogni musulmano e la reinterpretò. Parole e concetti che risuonavano di rassegnazione, fatalismo ed autocommiserazione furono trasformati in potenti e dinamici concetti pronti ad entrare in azione.
Di solito Shariati viene tenuto ai margini in tutti i trattati occidentali, come un attivista che ha usato il concetto laico marxista di lotta di classe, ed il linguaggio marxista, per mobilitare i giovani di Tehran. Questa ottica eurocentrica implica che Shariati sia stato costretto a rinforzare la debole attrattiva dell’Islam unendolo, in modo inappropriato, al linguaggio marxista laico occidentale.
In realtà Shariati si impegnò in un progetto strategico che consisteva nel ridefinire l’Islam sciita come movimento rivoluzionario; lo si doveva fare sotto traccia, sotto il naso di un clero ostile e conservatore che si era espresso in senso contrario alle sue idee anche se i religiosi cercarono di avvalersi del successo che ebbe nell’allontanare dai giovani iraniani le sirene del marxismo.
Shariati non era un giurista e non aveva la possibilità di sfidare la teologia sciita sul suo stesso terreno. Fu costretto a camminare sul filo, tra un clero ostile da una parte e la sospettosa SAVAK, la polizia segreta dello Shah, dall’altra. La SAVAK si chiedeva se Shariati stesse davvero sfidando i marxisti, o se stesse fomentando la rivoluzione, e rimase incerta tra le due conclusioni.
Shariati non poté sfidare direttamente l’establishment clericale iraniano, e dunque reinterpretò le parole per dare ai propositi dell’Islam una forma strategica tale che permettesse loro di diventare strumenti di mobilitazione e di cambiamento, anziché essere quelli che Musa al-Sadr avrebbe più tardi descritto come un “rituale” ufficiato da “devianti” uomini di religione che avevano trasformato l’Islam da “movimento, vitalità e lavoro… in quello che esso è oggi. Adesso, Islam significa letargia e rinuncia”20.
Nel tentativo di creare un’ideologia fatta di giustizia sociale e di rivoluzione Shariati non ebbe bisogno di impegnarsi in quello che in Occidente potrebbe essere descritto come il “rinnovamento” dell’Islam sciita. Le origini e l’etica dell’Islam sciita erano esattamente quelli dell’attivismo radicale, della lotta contro la tirannia e della battaglia per la giustizia sociale.
Il retaggio rivoluzionario dell’Islam sciita
A causa della sua stessa storia l’Islam sciita costituisce una setta dal carattere maggiormente rivoluzionario rispetto a quello sunnita. Islam sciita ed Islam sunnita non solo vedono la storia islamica, la teologia e le materie legali in modo diverso, ma ciascuno di essi possiede un ethos diverso che si traduce in un approccio specifico a che cosa significhi essere un musulmano. Questa differenza di temperamento e di filosofia deriva direttamente dalla crisi di successione che seguì la morte del Profeta nel 632 d C.
La maggior parte della piccola congrega di seguaci del Profeta Muhammad dopo la sua morte –per la quale non era stato deciso niente in anticipo- si rifece a quanto si era soliti fare in questi casi secondo la tradizione tribale. Un consiglio di anziani avrebbe scelto il più autorevole e rispettato e gli avrebbe affidato il ruolo di guida della comunità.
Questo gruppo fu l’antesignano dei sunniti, “coloro che seguono la tradizione”. Alcuni dei suoi sostenitori trovarono giustificazione nel detto del Profeta secondo cui “la mia comunità non si accorderà mai su cose errate”. Questo gruppo non era alla ricerca di alcuna qualità particolare al di là dell’esperienza e del rispetto, di un “paio di mani sicure” che guidassero la comunità in modo abile e virtuoso.
Un altro gruppo, una minoranza che sarebbe diventata antesignana degli sciiti, credette che il successore del Profeta (questo il significato di Califfo) dovesse impersonare delle qualità speciali, al di là dell’accordo tribale e del consenso. Pensarono che agli esseri umani servisse più di un “paio di mani sicure” che continuassero a guidarli; essi avevano bisogno di qualità di leadership divinamente ispirate ed innate, senza le quali il vero significato e l’intento dell’Islam potevano finire oscurate, e che fosse più probabile che esse derivassero dalla appartenenza alla discendenza del Profeta anziché emergere da un’elezione consensuale. Questo gruppo si schierò con Ali, il genero e cugino del Profeta. Il nome Shi’a significa “partigiani di Ali”.
Alla fine prevalse l’idea dell’accordo, e Ali perse le elezioni per chi dovesse guidare la comunità. Ali fu sconfitto per tre volte prima di essere finalmente eletto nel 656. Il periodo in cui la carica era stata detenuta da altri, prima del successo di Ali, era stato tutt’altro che tranquillo. Il secondo califfo fu ucciso da un prigioniero di guerra, mentre, fatto più notevole, il terzo califfo e predecessore di Ali fu ucciso da un gruppo di soldati musulmani che si erano ammutinati.
La cosa sconvolse la comunità. Ali finalmente ebbe accesso al Califfato, ma la sua durata in carica fu funestata dalle conseguenze derivanti dall’assassinio del suo predecessore.
Tra Ali ed il governatore di Damasco iniziò una guerra civile che finì soltanto quando Ali venne ucciso da estremisti inferociti che accusavano sia lui che il governatore della crisi in atto.
A differenza di Ali, il governatore sopravvisse all’ira degli estremisti e brigò per ottenere il Califfato. I sunniti decisero di accettare questo accesso al califfato da parte di un governatore che mancava di ogni legittimità religiosa; non era stato eletto e non aveva alcun legame di sangue con il Profeta. Iniziò così la dinastia degli Omayyadi, nota in tutto il mondo; re e conquistatori, più che custodi delle rivelazioni del Profeta, che Qutb avrebbe dipinto in modo negativo.
L’episodio segnò un punto di non ritorno. Accettando la dinastia ereditaria degli Omayyadi i sunniti fecero il loro compromesso storico con il potere, che gli sciiti respinsero ed aborrirono compatti. L’Islam sunnita abbracciò quello che sarebbe divenuto il suo tradizionale atteggiamento pragmatico e l’idea di accettare un dominatore mondiale che mantenesse l’ordine, proteggesse i territori islamici e lasciasse la teologia agli studiosi.
Dopo la morte di Ali, gli sciiti rifiutarono questo vergognoso compromesso con il pragmatismo e rifiutarono l’autorità dei califfi. Gli sciiti pensavano che le peculiari qualità per la guida necessaria all’Islam non sarebbero emerse da un qualche sforzo collettivo per un consenso di compromesso. La leadership del Profeta era stata metafisica, appartenente ad un ordine di cose che non era quello di un qualunque saggio tribale. Ed una leadership con elementi divini e metafisici poteva persistere, credevano gli sciiti, soltanto in appartenenti alla linea di sangue della sua famiglia: attraverso Hussein, figlio di Ali e nipote di Muhammad per tramite di sua figlia Fatima.
Quando il figlio del governatore, Yazid, ebbe ucciso Hussein –discendente diretto del Profeta- ed i suoi compagni a Kerbala nel 680 d. C., il fatto cristallizzò Hussein come epitome del martirio e come vittima manifesta di un oltraggioso abuso di potere contro gli sciiti. L’assassinio fu per gli sciiti qualche cosa di assolutamente esecrabile, perché commesso da un uomo che aveva avuto accesso al califfato per via della successione ereditaria e non perché fosse stato eletto o perché fosse dotato di chissà quali virtù spirituali. Yazid era figlio dell’uomo che aveva prevaricato Ali, che gli sciiti consideravano il vero successore del Profeta, ed aveva carpito la sua carica.
Il rifiuto di Hussein di riconoscere e di accettare il potere illegittimo di Yazid, il suo rifiuto di accettare il fatto che la sua ribellione contro l’imposizione militare era senza speranza –il suo gruppo era molto sottodimensionato- ed anzi il perseverare in essa, il suo rifiuto di tollerare l’ingiustizia, sono tutte cose che iscrivono l’Islam sciita nel ruolo della resistenza morale e religiosa contro un potere illegittimo e contro l’oppressione, e che elevano il concetto di “vera” leadership islamica ad essere un qualcosa d’altro rispetto alla mediocrità di un potere politico che si presenta come temporale e pragmatico.
Un capo di Hezbollah ed erudito sciita ha rivelato all’autore di essere convinto che se Hussein non fosse stato ucciso a Kerbala la storia dell’Islam avrebbe avuto uno sviluppo molto diverso; credeva che le conquiste sanguinose e l’espansione imperiale dell’Islam non si sarebbero mai verificate sotto una leadership sciita.
I sunniti, avendo fatto il loro compromesso storico con i re e con il potere temporale, hanno assunto il carattere di una maggioranza naturale e con esso una perdurante convinzione di avere il diritto di comandare. Per usanza, hanno sempre messo maggiore enfasi sulla personale adozione degli aspetti esteriori dell’Islam e su un approccio pragmatico nei confronti del mondo.
Per contrasto, gli sciiti –che sono spesso stati una minoranza perseguitata- si sono rivelati inclini allo studio della filosofia ed alla ricerca del primo significato metafisico del Corano piuttosto che alla sua interpretazione letterale; sono rimasti convinti che il messaggio del Profeta riguardasse dei principi, non il pragmatismo, e che rappresentasse una chiamata alla lotta, per gli uomini e per le donne, contro l’ingiustizia sociale e le tirannie di tutti i tipi.
La maggior parte della piccola congrega di seguaci del Profeta Muhammad dopo la sua morte –per la quale non era stato deciso niente in anticipo- si rifece a quanto si era soliti fare in questi casi secondo la tradizione tribale. Un consiglio di anziani avrebbe scelto il più autorevole e rispettato e gli avrebbe affidato il ruolo di guida della comunità.
Questo gruppo fu l’antesignano dei sunniti, “coloro che seguono la tradizione”. Alcuni dei suoi sostenitori trovarono giustificazione nel detto del Profeta secondo cui “la mia comunità non si accorderà mai su cose errate”. Questo gruppo non era alla ricerca di alcuna qualità particolare al di là dell’esperienza e del rispetto, di un “paio di mani sicure” che guidassero la comunità in modo abile e virtuoso.
Un altro gruppo, una minoranza che sarebbe diventata antesignana degli sciiti, credette che il successore del Profeta (questo il significato di Califfo) dovesse impersonare delle qualità speciali, al di là dell’accordo tribale e del consenso. Pensarono che agli esseri umani servisse più di un “paio di mani sicure” che continuassero a guidarli; essi avevano bisogno di qualità di leadership divinamente ispirate ed innate, senza le quali il vero significato e l’intento dell’Islam potevano finire oscurate, e che fosse più probabile che esse derivassero dalla appartenenza alla discendenza del Profeta anziché emergere da un’elezione consensuale. Questo gruppo si schierò con Ali, il genero e cugino del Profeta. Il nome Shi’a significa “partigiani di Ali”.
Alla fine prevalse l’idea dell’accordo, e Ali perse le elezioni per chi dovesse guidare la comunità. Ali fu sconfitto per tre volte prima di essere finalmente eletto nel 656. Il periodo in cui la carica era stata detenuta da altri, prima del successo di Ali, era stato tutt’altro che tranquillo. Il secondo califfo fu ucciso da un prigioniero di guerra, mentre, fatto più notevole, il terzo califfo e predecessore di Ali fu ucciso da un gruppo di soldati musulmani che si erano ammutinati.
La cosa sconvolse la comunità. Ali finalmente ebbe accesso al Califfato, ma la sua durata in carica fu funestata dalle conseguenze derivanti dall’assassinio del suo predecessore.
Tra Ali ed il governatore di Damasco iniziò una guerra civile che finì soltanto quando Ali venne ucciso da estremisti inferociti che accusavano sia lui che il governatore della crisi in atto.
A differenza di Ali, il governatore sopravvisse all’ira degli estremisti e brigò per ottenere il Califfato. I sunniti decisero di accettare questo accesso al califfato da parte di un governatore che mancava di ogni legittimità religiosa; non era stato eletto e non aveva alcun legame di sangue con il Profeta. Iniziò così la dinastia degli Omayyadi, nota in tutto il mondo; re e conquistatori, più che custodi delle rivelazioni del Profeta, che Qutb avrebbe dipinto in modo negativo.
L’episodio segnò un punto di non ritorno. Accettando la dinastia ereditaria degli Omayyadi i sunniti fecero il loro compromesso storico con il potere, che gli sciiti respinsero ed aborrirono compatti. L’Islam sunnita abbracciò quello che sarebbe divenuto il suo tradizionale atteggiamento pragmatico e l’idea di accettare un dominatore mondiale che mantenesse l’ordine, proteggesse i territori islamici e lasciasse la teologia agli studiosi.
Dopo la morte di Ali, gli sciiti rifiutarono questo vergognoso compromesso con il pragmatismo e rifiutarono l’autorità dei califfi. Gli sciiti pensavano che le peculiari qualità per la guida necessaria all’Islam non sarebbero emerse da un qualche sforzo collettivo per un consenso di compromesso. La leadership del Profeta era stata metafisica, appartenente ad un ordine di cose che non era quello di un qualunque saggio tribale. Ed una leadership con elementi divini e metafisici poteva persistere, credevano gli sciiti, soltanto in appartenenti alla linea di sangue della sua famiglia: attraverso Hussein, figlio di Ali e nipote di Muhammad per tramite di sua figlia Fatima.
Quando il figlio del governatore, Yazid, ebbe ucciso Hussein –discendente diretto del Profeta- ed i suoi compagni a Kerbala nel 680 d. C., il fatto cristallizzò Hussein come epitome del martirio e come vittima manifesta di un oltraggioso abuso di potere contro gli sciiti. L’assassinio fu per gli sciiti qualche cosa di assolutamente esecrabile, perché commesso da un uomo che aveva avuto accesso al califfato per via della successione ereditaria e non perché fosse stato eletto o perché fosse dotato di chissà quali virtù spirituali. Yazid era figlio dell’uomo che aveva prevaricato Ali, che gli sciiti consideravano il vero successore del Profeta, ed aveva carpito la sua carica.
Il rifiuto di Hussein di riconoscere e di accettare il potere illegittimo di Yazid, il suo rifiuto di accettare il fatto che la sua ribellione contro l’imposizione militare era senza speranza –il suo gruppo era molto sottodimensionato- ed anzi il perseverare in essa, il suo rifiuto di tollerare l’ingiustizia, sono tutte cose che iscrivono l’Islam sciita nel ruolo della resistenza morale e religiosa contro un potere illegittimo e contro l’oppressione, e che elevano il concetto di “vera” leadership islamica ad essere un qualcosa d’altro rispetto alla mediocrità di un potere politico che si presenta come temporale e pragmatico.
Un capo di Hezbollah ed erudito sciita ha rivelato all’autore di essere convinto che se Hussein non fosse stato ucciso a Kerbala la storia dell’Islam avrebbe avuto uno sviluppo molto diverso; credeva che le conquiste sanguinose e l’espansione imperiale dell’Islam non si sarebbero mai verificate sotto una leadership sciita.
I sunniti, avendo fatto il loro compromesso storico con i re e con il potere temporale, hanno assunto il carattere di una maggioranza naturale e con esso una perdurante convinzione di avere il diritto di comandare. Per usanza, hanno sempre messo maggiore enfasi sulla personale adozione degli aspetti esteriori dell’Islam e su un approccio pragmatico nei confronti del mondo.
Per contrasto, gli sciiti –che sono spesso stati una minoranza perseguitata- si sono rivelati inclini allo studio della filosofia ed alla ricerca del primo significato metafisico del Corano piuttosto che alla sua interpretazione letterale; sono rimasti convinti che il messaggio del Profeta riguardasse dei principi, non il pragmatismo, e che rappresentasse una chiamata alla lotta, per gli uomini e per le donne, contro l’ingiustizia sociale e le tirannie di tutti i tipi.
La mobilitazione sociale ed una ideologia di equilibrio
Questo retaggio radicale di attivismo rappresentava per Shariati l’autentico Islam sciita che stava cercando di restituire alla vita, togliendone la polvere e gli strati di tinta che vi si erano accumulati nel corso del tempo. Il suo intento era quello di riordinare i componenti originari della tradizione islamica sciita in armonia con altre parti del patrimonio filosofico persiano e sufi. Lo scopo di tutto questo era creare un’ideologia di equilibrio che potesse da un lato rispondere alle necessità imposte alla gente dal benessere quotidiano ed alle necessità della società in genere, rispettando al tempo stesso i bisogni etici, filosofici, estetici e metafisici delle persone, ed al tempo stesso avesse il potere di mobilitare una società intera.
Non si trattava soltanto di un nuovo vocabolario, di un “nuovo parlare” islamico. Shariati pensava ad una ideologia che avesse anche dei significati importanti per la vita moderna. In breve, pensava che le società moderne sane ed armoniose dovessero preoccuparsi tanto del benessere materiale quanto delle necessità di ordine sociale e metafisico. Questo concetto era di derivazione marxista e socialista; un’ideologia islamica avrebbe dovuto pensare sia al benessere materiale che alle necessità sociali delle persone, sia a fare da bussola per aiutarle ad orientarsi nella vita.
Dagli anni successivi all’uccisione di Hussein l’Islam sciita era finito per scivolare in una mentalità puramente difensiva ed impregnata di vittimismo. Non che a questo modo di vedere le cose mancassero i buoni motivi: gli sciiti troppo spesso nella storia avevano fatto la parte della minoranza perseguitata. Ma il ruolo di vittime storiche aveva anche indotto in essi passività mista ad un atteggiamento di persistente rassegnazione; solo il finale arrivo del redentore, del Mahdi, li avrebbe liberati dal loro stato di minoranza emarginata e diseredata.
Secondo Shariati, ideologizzare l’Islam permetteva di risvegliare la coscienza del popolo perché esso “entrasse in azione”; consentiva di scuoterne il giogo e di mobilitarlo in un movimento di liberazione che facesse nascere qualcosa di energico e di determinato. Ciò che aveva reso attraente l’Islam per coloro che lo avevano abbracciato non erano solo il Corano ed il concetto di resurrezione, ma la sua profonda dedizione alla giustizia sociale ed alla leadership rivoluzionaria. Shariati tentò di esorcizzare il prevalente Islam di orientamento monarchico e clericale auspicando una rivoluzione sociale che scatenasse un miracoloso “guizzo di energia”.
Pensava che i mattoni di una mobilitazione fossero costituiti da individui consapevoli ed attenti. Ogni individuo andava rafforzato enfatizzando l’importanza della volontà e della determinazione come motori della rivoluzione sociale, e facendo sì che adottasse i pregi dell’agire disinteressato e del ragionamento scientifico e razionale. L’essere umano ideale è armato di ideologia, di senso di giustizia e di un “ferro” che rappresenta il potenziale militare. Senza armi, dichiarò Shariati, la consapevolezza e la fede da sole erano incapaci di condurre ad una società ideale.
In questa prospettiva la leadership doveva assumere caratteri sia rivoluzionari che democratici; sottolineandone gli aspetti temporali e sociopolitici, Shariati la definì ugualitaria. “Le cose di ieri vanno comprese come cose che appartengono al passato; quelle di oggi vanno comprese secondo un modo moderno di intenderle”21.
L’essenza della “Islamistica” di Shariati aveva poco a che vedere con l’Islam sciita maggioritario, clericale e borghese, tipico dei religiosi conservatori; ma ai giovani piaceva ed essi accorrevano a migliaia alle sue lezioni, paralizzando il traffico in interi quartieri di Tehran.
La sua popolarità e la sua interpretazione dell’Islam che diventava sempre più radicale gli attirarono le ire delle scuole sciite di orientamento conservatore. Ci fu chi cercò di far bandire i suoi libri, ma gli studiosi di scienze religiose che cercarono di avvicinare l’Ayatollah Ruhollah Khomeini per averne l’appoggio rimasero sorpresi quando gli sentirono dire che lui quei libri li aveva letti, e che non vi aveva trovato nulla che contraddicesse l’Islam. Dovettero rinunciare e ritirarsi in silenzio.
Khomeini non sostenne mai Shariati apertamente, anche se fece propri molti dei suoi slogan e delle sue definizioni; ma il suo sostegno, sia pure discreto, c’era; e c’era anche il sostegno, quasi unanime ma sempre discreto, di quanti facevano parte delle frequentazioni dell’Imam.
In alcuni dei concetti che espresse Shariati non fu originale; su un terreno più propriamente attinente il diritto, quelli di Najaf gli avevano già preparato il terreno, mentre gli studiosi sciiti furono veloci a limitare il credito dovuto a Shariati a quanto attiene il campo della mobilitazione, asserendo che fu grazie a Khomeini e ad altri, come il collega di Shariati Mortaza Motahhari, che furono gettate le basi delle istituzioni dello stato islamico.
Fu l’Imam Khomeini a definire il concetto di Rivoluzione Islamica come un movimento popolare sostanzialmente non violento, basato sulla mobilitazione delle masse e sulla legittimazione popolare. E fu un amico di Shariati, Musa al-Sadr, cugino di Mohammed Baqir Sadr, a portare i concetti di mobilitazione politica e di risveglio in Libano, e a plasmare quello che sarebbe diventato Hezbollah assieme a Sayyed Fadlallah, proveniente dal gruppo di Najaf.
Non si trattava soltanto di un nuovo vocabolario, di un “nuovo parlare” islamico. Shariati pensava ad una ideologia che avesse anche dei significati importanti per la vita moderna. In breve, pensava che le società moderne sane ed armoniose dovessero preoccuparsi tanto del benessere materiale quanto delle necessità di ordine sociale e metafisico. Questo concetto era di derivazione marxista e socialista; un’ideologia islamica avrebbe dovuto pensare sia al benessere materiale che alle necessità sociali delle persone, sia a fare da bussola per aiutarle ad orientarsi nella vita.
Dagli anni successivi all’uccisione di Hussein l’Islam sciita era finito per scivolare in una mentalità puramente difensiva ed impregnata di vittimismo. Non che a questo modo di vedere le cose mancassero i buoni motivi: gli sciiti troppo spesso nella storia avevano fatto la parte della minoranza perseguitata. Ma il ruolo di vittime storiche aveva anche indotto in essi passività mista ad un atteggiamento di persistente rassegnazione; solo il finale arrivo del redentore, del Mahdi, li avrebbe liberati dal loro stato di minoranza emarginata e diseredata.
Secondo Shariati, ideologizzare l’Islam permetteva di risvegliare la coscienza del popolo perché esso “entrasse in azione”; consentiva di scuoterne il giogo e di mobilitarlo in un movimento di liberazione che facesse nascere qualcosa di energico e di determinato. Ciò che aveva reso attraente l’Islam per coloro che lo avevano abbracciato non erano solo il Corano ed il concetto di resurrezione, ma la sua profonda dedizione alla giustizia sociale ed alla leadership rivoluzionaria. Shariati tentò di esorcizzare il prevalente Islam di orientamento monarchico e clericale auspicando una rivoluzione sociale che scatenasse un miracoloso “guizzo di energia”.
Pensava che i mattoni di una mobilitazione fossero costituiti da individui consapevoli ed attenti. Ogni individuo andava rafforzato enfatizzando l’importanza della volontà e della determinazione come motori della rivoluzione sociale, e facendo sì che adottasse i pregi dell’agire disinteressato e del ragionamento scientifico e razionale. L’essere umano ideale è armato di ideologia, di senso di giustizia e di un “ferro” che rappresenta il potenziale militare. Senza armi, dichiarò Shariati, la consapevolezza e la fede da sole erano incapaci di condurre ad una società ideale.
In questa prospettiva la leadership doveva assumere caratteri sia rivoluzionari che democratici; sottolineandone gli aspetti temporali e sociopolitici, Shariati la definì ugualitaria. “Le cose di ieri vanno comprese come cose che appartengono al passato; quelle di oggi vanno comprese secondo un modo moderno di intenderle”21.
L’essenza della “Islamistica” di Shariati aveva poco a che vedere con l’Islam sciita maggioritario, clericale e borghese, tipico dei religiosi conservatori; ma ai giovani piaceva ed essi accorrevano a migliaia alle sue lezioni, paralizzando il traffico in interi quartieri di Tehran.
La sua popolarità e la sua interpretazione dell’Islam che diventava sempre più radicale gli attirarono le ire delle scuole sciite di orientamento conservatore. Ci fu chi cercò di far bandire i suoi libri, ma gli studiosi di scienze religiose che cercarono di avvicinare l’Ayatollah Ruhollah Khomeini per averne l’appoggio rimasero sorpresi quando gli sentirono dire che lui quei libri li aveva letti, e che non vi aveva trovato nulla che contraddicesse l’Islam. Dovettero rinunciare e ritirarsi in silenzio.
Khomeini non sostenne mai Shariati apertamente, anche se fece propri molti dei suoi slogan e delle sue definizioni; ma il suo sostegno, sia pure discreto, c’era; e c’era anche il sostegno, quasi unanime ma sempre discreto, di quanti facevano parte delle frequentazioni dell’Imam.
In alcuni dei concetti che espresse Shariati non fu originale; su un terreno più propriamente attinente il diritto, quelli di Najaf gli avevano già preparato il terreno, mentre gli studiosi sciiti furono veloci a limitare il credito dovuto a Shariati a quanto attiene il campo della mobilitazione, asserendo che fu grazie a Khomeini e ad altri, come il collega di Shariati Mortaza Motahhari, che furono gettate le basi delle istituzioni dello stato islamico.
Fu l’Imam Khomeini a definire il concetto di Rivoluzione Islamica come un movimento popolare sostanzialmente non violento, basato sulla mobilitazione delle masse e sulla legittimazione popolare. E fu un amico di Shariati, Musa al-Sadr, cugino di Mohammed Baqir Sadr, a portare i concetti di mobilitazione politica e di risveglio in Libano, e a plasmare quello che sarebbe diventato Hezbollah assieme a Sayyed Fadlallah, proveniente dal gruppo di Najaf.
Al di là della rivoluzione politica
L’Imam Khomeini non seguì Shariati nel rifarsi al pensiero occidentale, da usare come catalizzatore per far evolvere le idee sulla rivoluzione e sulla sua guida, nonostante le sue posizioni fossero vicine a quelle degli scritti di Shariati. Seguì invece Baqir Sadr nel ritrarre il Corano come il diretto ispiratore delle sue idee; ma fu anche profondamente influenzato da Mulla Sadra (1571-1640) e da Ibn Al-Arabi (1160-1240).
In contrasto con l’immagine austera ed autoritaria diffusa in Occidente, le principali fonti di influenza sul suo pensiero raccontano aspetti di Khomeini che in Occidente sono poco conosciuti. Christian Bonaud ha messo in luce in che modo, nel periodo immediatamente seguente alla rivoluzione, Khomeini scelse di impostare la propria interpretazione del Corano secondo linee che facevano un ricorso sostanziale alla gnosi, ovvero alla metafisica. L’idea che un capo che ha appena mobilitato con successo un popolo, messo in piedi una rivoluzione e spodestato lo Shah si dedicasse immediatamente dopo a lezioni sulla purificazione di sé e sul percorso dell’anima, per Bonaud fu quasi una rivelazione22.
Il riferimento a Mulla Sadra era indubbio: Khomeini era profondamente influenzato dalle sue idee. Sadra era un pensatore i cui scritti hanno esercitato una grossa influenza sulla filosofia persiana degli ultimi trecento anni. L’analisi del Viaggio in quattro tappe di Sadra compiuta da Khomeini23 non si presenta come una ottusa speculazione accademica, ma fu concepita dal suo autore per mettere in luce le idee di Sadra come direttamente connesse alla rivoluzione ed al ruolo guida che Khomeini aveva assunto in essa.
Sadra aveva fondato una scuola di metafisica ad Esfahan, in cui si era formulata l’unitarietà di tre strumenti di analisi e di pensiero. Il primo di questi era la metodologia del pensiero teorico allo stato puro, del pensiero discorsivo e del pensiero analitico; il secondo era quello della conoscenza intuitiva o derivata metafisicamente, ed il terzo era quello della conoscenza rivelata, nella forma degli insegnamenti del Corano. Si trattava in altre parole dell’integrazione di tre distinte categorie di pensiero.
Sadra introdusse una nuova introspezione filosofica nel rapporto con la natura del reale, attraverso un approccio esistenzialista che ha preceduto quello di Jean Paul Sartre di diversi secoli. L’unità della creazione da lui dedotta ha importanza cruciale nella prospettiva islamica dello scopo dell’esistenza, ed è riuscita ad accordare i metodi del ragionamento filosofico come sono giunti dai filosofi greci con gli insegnamenti dell’Islam. La filosofia di Sadra ha offerto, secondo Khomeini, una risposta valida alla prevalente corrente occidentale “modernista” che non è stata capace di superare i ristretti limiti del metodo empirico e scientifico.
Anche il concetto di “moto sostanziale” sviluppato da Sadra ebbe una grossa rilevanza per la rivoluzione. Basando la sua argomentazione sulla premessa che tutto quanto esiste sottostà ad una continua trasformazione e ad un continuo cambiamento, Sadra statuì che una riforma politica non era concepibile come separata dalla spiritualità. L’esistenza era qualcosa di dinamico e non di statico: la politica e la spiritualità, in quanto parti dell’esistente, dovevano anch’esse andare incontro a mutamenti. Sadra sostenne con fermezza che la verità non potesse essere imposta; era per questo aspramente critico verso l’intolleranza dei religiosi islamici, che accusava di pervertire la spiritualità. Khomeini condivideva questa conclusione, e si scontrava spesso con i suoi austeri colleghi per la loro tendenza, come egli la considerava, a vivere nel medio evo.
Nel Viaggio in quattro tappe, di cui Khomeini scrisse un commento compiutamente elaborato, Sadra descrisse l’esercizio mistico cui un leader deve sottoporsi prima di poter iniziare ad agire per la trasformazione del mondo corrente. Deve sottoporsi alla disciplina necessaria: un capo deve spogliarsi del suo io. L’orgoglio e l’attaccamento devono venire meno, ed egli deve aprirsi all’intuizione esoterica.
Si trattava di un esercizio che poteva condurre un leader verso un tipo di intuizione spirituale o di rivelazione simile a quello degli Imam. E fu questo tipo di leadership che rese l’Islam quell’entità dinamica e cangiante che aveva mobilitato e trasformato il mondo nel settimo secolo ed in quelli che erano seguiti. Nel suo ultimo messaggio al popolo iraniano, nel 1989, Khomeini lo pregò di continuare gli studi nel campo della conoscenza noto come irfan, la gnosi teorica, perché non avrebbe potuto esistere alcuna vera Rivoluzione Islamica senza che vi fosse anche una trasformazione spirituale24.
Alla luce di quanto affermato da Khomeini nei suoi scritti di commento, è chiaro che il suo concetto di leadership islamica è molto distante dallo stereotipo occidentale che presenta il suo concetto di wilayat-i-fiqh, ossia di autorità spirituale del giureconsulto, come una pastoia legalistica e retrograda nei confronti delle aspirazioni popolari al cambiamento.
Il suo concetto di leadership, derivato da Sadra, era invece opposto: era dinamico, riformista e con lo sguardo rivolto al futuro. La realtà che molti in Occidente trovano difficile da accettare è il fatto che Khomeini era una figura carismatica e di grande complessità, che aveva valorizzato e compreso l’importanza della partecipazione popolare: fece propria la giustificazione di Mohammed Baqir Sadr del suffragio elettorale: “gli affari del paese devono essere amministrati sulla base della pubblica opinione, espressa con il mezzo delle elezioni”25. Oltre a questo, secondo suo figlio Ahmad “ciò che rese [Khomeini] Imam, e che condusse alla storica vittoria del movimento islamico, era il fatto che egli combatté la retrograda, stupida, pretenziosa e reazionaria casta clericale.”26 Probabilmente è il fatto che le idee di Khomeini sulla natura della leadership sono tanto estranee al concetto occidentale di leader politico a renderle così difficili da comprendere.
Nella visione di Khomeini, la massiccia mobilitazione popolare e la sollevazione avrebbero richiesto una guida rivoluzionaria forte, attiva, dall’immaginazione e dall’intuizione vivaci. Una guida di questo genere era necessaria, per trasformare radicalmente la mentalità delle masse schierate a battaglia. Questo è un concetto osservabile nello Hezbollah di oggi. Nei messaggi che Sayyed Hassan Nasrallah indirizza al popolo egocentrismo, pretenziosità e dogmatismo spiccano per la loro assenza. Concezioni come questa hanno portato l’Islam lontano dagli iniziali propositi che erano emersi in Egitto dopo l’ultima guerra europea, e che facevano riferimento ad una rivoluzione islamica condotta da piccole avanguardie armate clandestine.
In contrasto con l’immagine austera ed autoritaria diffusa in Occidente, le principali fonti di influenza sul suo pensiero raccontano aspetti di Khomeini che in Occidente sono poco conosciuti. Christian Bonaud ha messo in luce in che modo, nel periodo immediatamente seguente alla rivoluzione, Khomeini scelse di impostare la propria interpretazione del Corano secondo linee che facevano un ricorso sostanziale alla gnosi, ovvero alla metafisica. L’idea che un capo che ha appena mobilitato con successo un popolo, messo in piedi una rivoluzione e spodestato lo Shah si dedicasse immediatamente dopo a lezioni sulla purificazione di sé e sul percorso dell’anima, per Bonaud fu quasi una rivelazione22.
Il riferimento a Mulla Sadra era indubbio: Khomeini era profondamente influenzato dalle sue idee. Sadra era un pensatore i cui scritti hanno esercitato una grossa influenza sulla filosofia persiana degli ultimi trecento anni. L’analisi del Viaggio in quattro tappe di Sadra compiuta da Khomeini23 non si presenta come una ottusa speculazione accademica, ma fu concepita dal suo autore per mettere in luce le idee di Sadra come direttamente connesse alla rivoluzione ed al ruolo guida che Khomeini aveva assunto in essa.
Sadra aveva fondato una scuola di metafisica ad Esfahan, in cui si era formulata l’unitarietà di tre strumenti di analisi e di pensiero. Il primo di questi era la metodologia del pensiero teorico allo stato puro, del pensiero discorsivo e del pensiero analitico; il secondo era quello della conoscenza intuitiva o derivata metafisicamente, ed il terzo era quello della conoscenza rivelata, nella forma degli insegnamenti del Corano. Si trattava in altre parole dell’integrazione di tre distinte categorie di pensiero.
Sadra introdusse una nuova introspezione filosofica nel rapporto con la natura del reale, attraverso un approccio esistenzialista che ha preceduto quello di Jean Paul Sartre di diversi secoli. L’unità della creazione da lui dedotta ha importanza cruciale nella prospettiva islamica dello scopo dell’esistenza, ed è riuscita ad accordare i metodi del ragionamento filosofico come sono giunti dai filosofi greci con gli insegnamenti dell’Islam. La filosofia di Sadra ha offerto, secondo Khomeini, una risposta valida alla prevalente corrente occidentale “modernista” che non è stata capace di superare i ristretti limiti del metodo empirico e scientifico.
Anche il concetto di “moto sostanziale” sviluppato da Sadra ebbe una grossa rilevanza per la rivoluzione. Basando la sua argomentazione sulla premessa che tutto quanto esiste sottostà ad una continua trasformazione e ad un continuo cambiamento, Sadra statuì che una riforma politica non era concepibile come separata dalla spiritualità. L’esistenza era qualcosa di dinamico e non di statico: la politica e la spiritualità, in quanto parti dell’esistente, dovevano anch’esse andare incontro a mutamenti. Sadra sostenne con fermezza che la verità non potesse essere imposta; era per questo aspramente critico verso l’intolleranza dei religiosi islamici, che accusava di pervertire la spiritualità. Khomeini condivideva questa conclusione, e si scontrava spesso con i suoi austeri colleghi per la loro tendenza, come egli la considerava, a vivere nel medio evo.
Nel Viaggio in quattro tappe, di cui Khomeini scrisse un commento compiutamente elaborato, Sadra descrisse l’esercizio mistico cui un leader deve sottoporsi prima di poter iniziare ad agire per la trasformazione del mondo corrente. Deve sottoporsi alla disciplina necessaria: un capo deve spogliarsi del suo io. L’orgoglio e l’attaccamento devono venire meno, ed egli deve aprirsi all’intuizione esoterica.
Si trattava di un esercizio che poteva condurre un leader verso un tipo di intuizione spirituale o di rivelazione simile a quello degli Imam. E fu questo tipo di leadership che rese l’Islam quell’entità dinamica e cangiante che aveva mobilitato e trasformato il mondo nel settimo secolo ed in quelli che erano seguiti. Nel suo ultimo messaggio al popolo iraniano, nel 1989, Khomeini lo pregò di continuare gli studi nel campo della conoscenza noto come irfan, la gnosi teorica, perché non avrebbe potuto esistere alcuna vera Rivoluzione Islamica senza che vi fosse anche una trasformazione spirituale24.
Alla luce di quanto affermato da Khomeini nei suoi scritti di commento, è chiaro che il suo concetto di leadership islamica è molto distante dallo stereotipo occidentale che presenta il suo concetto di wilayat-i-fiqh, ossia di autorità spirituale del giureconsulto, come una pastoia legalistica e retrograda nei confronti delle aspirazioni popolari al cambiamento.
Il suo concetto di leadership, derivato da Sadra, era invece opposto: era dinamico, riformista e con lo sguardo rivolto al futuro. La realtà che molti in Occidente trovano difficile da accettare è il fatto che Khomeini era una figura carismatica e di grande complessità, che aveva valorizzato e compreso l’importanza della partecipazione popolare: fece propria la giustificazione di Mohammed Baqir Sadr del suffragio elettorale: “gli affari del paese devono essere amministrati sulla base della pubblica opinione, espressa con il mezzo delle elezioni”25. Oltre a questo, secondo suo figlio Ahmad “ciò che rese [Khomeini] Imam, e che condusse alla storica vittoria del movimento islamico, era il fatto che egli combatté la retrograda, stupida, pretenziosa e reazionaria casta clericale.”26 Probabilmente è il fatto che le idee di Khomeini sulla natura della leadership sono tanto estranee al concetto occidentale di leader politico a renderle così difficili da comprendere.
Nella visione di Khomeini, la massiccia mobilitazione popolare e la sollevazione avrebbero richiesto una guida rivoluzionaria forte, attiva, dall’immaginazione e dall’intuizione vivaci. Una guida di questo genere era necessaria, per trasformare radicalmente la mentalità delle masse schierate a battaglia. Questo è un concetto osservabile nello Hezbollah di oggi. Nei messaggi che Sayyed Hassan Nasrallah indirizza al popolo egocentrismo, pretenziosità e dogmatismo spiccano per la loro assenza. Concezioni come questa hanno portato l’Islam lontano dagli iniziali propositi che erano emersi in Egitto dopo l’ultima guerra europea, e che facevano riferimento ad una rivoluzione islamica condotta da piccole avanguardie armate clandestine.
La rivoluzione e la fine del gap intellettuale
Non abbiamo qui l’obiettivo di presentare un’analisi del perché gli eventi in Iran presero poi la piega che hanno preso. Si tratta di una materia complessa, e fatta per gli storici. Qui si voleva soltanto sottolineare il vasto spaziare del pensiero, dalle prime fasi della rivoluzione che sembrano aver influenzato l’atteggiamento degli iraniani nei confronti delle sue fasi successive, fino alla sua influenza sull’Islam in generale. Le importanti ripercussioni sociali di una mobilitazione popolare di massa vengono approfonditi nel quarto capitolo.
Comunque la Rivoluzione Iraniana venga considerata in Occidente, il suo significato è chiaro per chi si interessa di Islam, almeno secondo l’ayatollah Fadlallah, uno di coloro che presero parte al circolo di Najaf, che come studioso islamico gode di autorevolezza e legittimazione in Libano, in Iraq ed in Pakistan. La Rivoluzione Iraniana, secondo Fadlallah, ha avuto un’importanza di assoluto rilievo perché ha chiuso i conti con la “diffusa percezione di un’inferiorità di quanto era locale rispetto ai corrispettivi d’Occidente” e per quello che ha permesso di fare per “affrancare l’umana volontà da una condizione di sottomissione a poteri iniqui, aggressivi o infedeli, e per la trasformazione di questo potenziale liberato in un programma concreto e propositivo, dominato da una interpretazione onnicomprensiva della Sharia islamica nelle sue dimensioni economiche, politiche e sociali”27.
Era proprio questa trasformazione che per Michel Foucault, che camminava per le strade di Tehran nelle prime fasi della rivoluzione, costituiva la risposta ad una domanda che gli esperti in Europea andavano ripetendo senza sosta: “Sappiamo che cosa non vogliono, ma ancora non sappiamo che cosa vogliono”28.
Foucault pose a persone di tutti gli strati sociali la stessa domanda: “Che cosa vuoi?”. “Durante la mia permanenza in Iran io non sentii mai pronunciare, nemmeno una volta, la parola rivoluzione; quattro volte su cinque, in compenso, la risposta che ricevevo era un governo islamico”.
Foucault concluse che l’idea espressa nelle affermazioni che caldeggiavano l’avvento di un governo islamico non consisteva con la richiesta della creazione di uno stato rigidamente teocratico. Secondo Foucault la fuga dal legalismo clericale e dalle strutture della passività erano esattamente quello cui “Shariati, che aveva esortato un pubblico che era il suo e che poteva essere misurato in termini di migliaia di persone, che morì come un martire, braccato, mentre i suoi libri erano all’indice” aveva dedicato la sua vita. Shariati aveva considerato il suo lavoro come un tentativo di riconciliare la libertà d’azione con i limiti imposti dai precetti islamici.
Per gli iraniani impegnati nella rivoluzione, pensò Foucault, l’espressione “governo islamico” metteva l’accento sulla realtà spirituale delle persone. Ritornando ad una dimensione spirituale, ebbe a dire, “gli iraniani potevano non soltanto mutare l’ordinamento politico del paese, ma anche cambiare se stessi ed il loro modo di essere, le loro relazioni con gli altri, con le cose, con l’eternità e con Dio”29.
La liberatoria esperienza del ritorno a quel periodo esaltante e vitale, quello dei tempi del Profeta, quando l’esperienza religiosa precedeva la mera obbedienza ad una serie di norme, fa pensare gli iraniani non considerassero la Sharia come un’eredità costrittiva e ristretta: “il governo islamico ha promesso di rompere con le strutture dell’identità personale, dell’economia, della società e della politica che secondo loro costituivano ‘l’ineluttabilità del loro destino’”30. L’Islam sciita poteva avanzare questa prospettiva di una continua ed attiva creazione di un sistema politico grazie alla propria apertura verso gli aggiornamenti delle leggi operati dalla ragione; ma anche, ed in misura più importante, per la sua prospettiva di un rinnovamento radicale e di una nuova rivelazione che doveva avvenire tramite l’imamato.
La Rivoluzione Iraniana aveva messo meglio a fuoco la visione islamica delle cose: idee che erano state messe in moto dall’Egitto, tramite Mohammed Baqir Sadr, per arrivare ai rivoluzionari tramite il contributo di Ali Shariati. Elementi costitutivi di essa erano la costruzione di una comunità giusta, equa e compassionevole, intesa sia come esperienza di vita attraverso cui gli uomini potessero attingere al gusto del divino, sia come adempimento della volontà divina secondo la quale gli uomini avrebbero dovuto comportarsi in questo modo gli uni verso gli altri.
La comunità avrebbe dovuto essere libera di eleggere i propri capi e di governarsi, ma la costruzione di una società realmente giusta avrebbe richiesto anche una vigilanza, ed una guida forte, rivelatrice e dinamica. Gli aspetti sociali ed economici della vita sarebbero rimasti liberi, ma erano contingenti rispetto alla necessità di agire secondo giustizia e con rispetto verso gli altri. Si trattava di una società coesa ed in perenne mobilitazione il cui esempio era dato dalla responsabilità interpersonale che i suoi appartenenti avrebbero avuto gli uni verso gli altri, ed in cui il legame diretto tra la fornitura di un servizio a qualcun altro e l’aspettativa di una sua immediata restituzione era spezzato.
Non sorprende che questi concetti, nati dapprincipio nel pensiero e negli scritti sunniti e di cui si era fatto carico, conferendo loro una coloritura sciita, Baqir Sadr con il suo circolo, abbiano finito per completare il circolo all’indomani di una rivoluzione, ritornando ad influenzare l’ambiente sunnita. L’essenza della divisione dell’Islam tra gli sciiti “partigiani di Ali” e i sunniti “fedeli alla tradizione” e loro controparte, era storicamente centrata sull’affermazione sciita secondo cui l’Islam pretendeva la giustizia e che non era possibile una società giusta senza un governo giusto, diretto dalla rivelazione coranica.
Ma nel 1923 il califfato era stato abolito, e la comunità sunnita dei credenti, o ‘Umma, era diventata qualcosa di slegato dal territorio. Aveva perso la sua definizione in termini geografici, aveva il califfo che ne era il capo simbolico, ed aveva perso le proprie istituzioni. In altre parole, la tradizionale pretesa sunnita del “diritto a comandare” era stata vuotata del suo significato. La Umma era stata privata del proprio territorio e della propria struttura. Fu costretta ad una forma di globalizzazione involontaria da un antipatico leader politico, Mustafa Kemal, deciso a distruggere i simboli dell’unità pan-musulmana.
Lo shock dell’abolizione del califfato fece venire meno il tradizionale atteggiamento accomodante verso il potere tipico dell’Islam sunnita. Il califfato poteva anche essere diventato qualcosa di inconsistente e di debole, ma aveva mantenuto le sue vestigia di legittimità: In termini islamici i nuovi leader politici laici ed occidentalizzati non ne avevano invece alcuna. E lo spazio a disposizione per il pragmatismo e la condiscendenza sunnita si ridusse di conseguenza.
Fu Sayyid Qutb ad iniziare la demolizione dei millequattrocento anni di coesione sunnita attorno ai “cesari” del mondo secolare. Con un atto reciso e decisivo di rottura nei confronti del passato, Qutb aveva definito senza mezzi termini questo pragmatico compromesso storico nei confronti del potere come jahiliyya, ignoranza, ed aveva esortato le società islamiche a vedere la loro guida in Dio, anziché in qualche cesare secolare ed occidentalizzato.
Il suo messaggio fece breccia attraverso il quietismo sunnita. Qutb affermò la necessità di opporsi non soltanto alla jahiliyya¸ma anche all’ingiustizia, ai governanti corrotti ed alla mentalità laica e modernizzatrice. Limitarsi a pregare e ad assumere un atteggiamento passivo non era sufficiente. Perché una visione islamica del mondo potesse prendere forma, era necessario che i musulmani compissero un più convinto sforzo di carattere rivoluzionario. Il pensiero laico e modernista era una minaccia per l’Islam; quasi tutti gli studiosi islamici oggi sarebbero d’accordo con Qutb su questo punto.
Questa virata dell’Islam sunnita verso la costruzione di una identità che si definiva in base alla resistenza contro l’egemonia occidentale e si concretizzava in termini di lotta per la giustizia sociale, ha inevitabilmente condotto i sunniti a percorrere molti passi, in senso ideologico, verso la moderna concezione sciita dell’Islam.
Sunniti e sciiti adesso trovano un terreno comune, nonostante le loro differenze in termini storici, in due aree dense di signficato: il rifiuto di continuare con gli atteggiamenti accomodanti nei confronti di quelli che Fadlallah definì “poteri iniqui, aggressivi o infedeli”, e la propensione a credere che una lotta rivoluzionaria sia necessaria per riformare la società e per la giustizia sociale.
In quest’ottica, aver visto l’Iran ed Hezbollah agire come avanguardie di questa rivoluzione non risulta sorprendente; e non sorprende nemmeno il fatto che movimenti sunniti come Hamas vengano accostati all’Iran e ad Hezbollah, perché sciiti e sunniti condividono adesso dei principi comuni, nonostante le molte differenze ed i molti antagonismi che ancora li separano.
Quando Hamas si fa sostenitore di una nuova identità musulmana centrata sulla lotta per un governo giusto ed efficiente e su una serie di assunti etici su cui basare la trasformazione sociale, si trova più vicino ad alla prospettiva sciita, che considera l’Islam come un movimento rivoluzionario basato sulla lotta per la giustizia. Questo non significa che Hamas sia diventato un movimento sciita, cosa che i suoi detrattori laici sono soliti rimproverargli. Non lo è diventato, e mantiene la sua netta identità di movimento nazionale palestinese di ispirazione sunnita.
Tuttavia questo avvicinarsi delle posizioni intellettuali tra movimenti come il sunnita Hamas e lo sciita Hezbollah è molto significativo, nonostante la cosa sia messa in ombra dal conflitto settario generato dall’occupazione dell’Iraq. Le schermaglie settarie tolgono alla vista il modo in cui il nuovo attivismo rivoluzionario di un movimento come Hamas ha contribuito a renderlo distante dai Fratelli Musulmani che ne erano alla radice, e lo abbia fatto avvicinare alle posizioni intellettuali tipiche del pensiero sciita.
La direzione del flusso di influenza tra i principali movimenti sunniti, sotto l’impatto dell’ostilità statunitense ed europea nei confronti dei movimenti islamici, ha finito per invertirsi. Adesso è più probabile che sia Hamas a fare in futuro da modello per i Fratelli Musulmani, piuttosto che questi ultimi a fare da modello e ad influenzare Hamas, nonostante i fondamenti del pensiero dei Fratelli costituiscano a tutt’oggi una sorta di sigillo di legittimità per la grande maggioranza dei credenti sunniti.
Per gli sciiti, la loro rivoluzione del 1979 in Iran ha rappresentato una rottura definitiva rispetto al precedente atteggiamento vittimista e di disimpegno quietista dalla vita politica attiva, nell’attesa che il ritorno finale del Mahdi rimettesse le cose a posto. Per i sunniti, il nuovo Islam politicamente attivo rappresenta una sorta di cambio di direzione, rispetto alla difesa apologetica dell’Islam dei modernisti ottocenteschi come Jamal ad-din al-Afghani (1838-1897), che cercavano di attualizzare l’Islam leggendo nelle scritture nuove necessità e nuovi cambiamenti, e adoperandosi per rabberciare cambiamenti in una vecchia tradizione che l’Occidente aveva sconfitto. I nuovi islamisti avrebbero dovuto lavorare, secondo le parole di Musa Sadr, per togliere dall’Islam “la polvere dei secoli”31.
Comunque la Rivoluzione Iraniana venga considerata in Occidente, il suo significato è chiaro per chi si interessa di Islam, almeno secondo l’ayatollah Fadlallah, uno di coloro che presero parte al circolo di Najaf, che come studioso islamico gode di autorevolezza e legittimazione in Libano, in Iraq ed in Pakistan. La Rivoluzione Iraniana, secondo Fadlallah, ha avuto un’importanza di assoluto rilievo perché ha chiuso i conti con la “diffusa percezione di un’inferiorità di quanto era locale rispetto ai corrispettivi d’Occidente” e per quello che ha permesso di fare per “affrancare l’umana volontà da una condizione di sottomissione a poteri iniqui, aggressivi o infedeli, e per la trasformazione di questo potenziale liberato in un programma concreto e propositivo, dominato da una interpretazione onnicomprensiva della Sharia islamica nelle sue dimensioni economiche, politiche e sociali”27.
Era proprio questa trasformazione che per Michel Foucault, che camminava per le strade di Tehran nelle prime fasi della rivoluzione, costituiva la risposta ad una domanda che gli esperti in Europea andavano ripetendo senza sosta: “Sappiamo che cosa non vogliono, ma ancora non sappiamo che cosa vogliono”28.
Foucault pose a persone di tutti gli strati sociali la stessa domanda: “Che cosa vuoi?”. “Durante la mia permanenza in Iran io non sentii mai pronunciare, nemmeno una volta, la parola rivoluzione; quattro volte su cinque, in compenso, la risposta che ricevevo era un governo islamico”.
Foucault concluse che l’idea espressa nelle affermazioni che caldeggiavano l’avvento di un governo islamico non consisteva con la richiesta della creazione di uno stato rigidamente teocratico. Secondo Foucault la fuga dal legalismo clericale e dalle strutture della passività erano esattamente quello cui “Shariati, che aveva esortato un pubblico che era il suo e che poteva essere misurato in termini di migliaia di persone, che morì come un martire, braccato, mentre i suoi libri erano all’indice” aveva dedicato la sua vita. Shariati aveva considerato il suo lavoro come un tentativo di riconciliare la libertà d’azione con i limiti imposti dai precetti islamici.
Per gli iraniani impegnati nella rivoluzione, pensò Foucault, l’espressione “governo islamico” metteva l’accento sulla realtà spirituale delle persone. Ritornando ad una dimensione spirituale, ebbe a dire, “gli iraniani potevano non soltanto mutare l’ordinamento politico del paese, ma anche cambiare se stessi ed il loro modo di essere, le loro relazioni con gli altri, con le cose, con l’eternità e con Dio”29.
La liberatoria esperienza del ritorno a quel periodo esaltante e vitale, quello dei tempi del Profeta, quando l’esperienza religiosa precedeva la mera obbedienza ad una serie di norme, fa pensare gli iraniani non considerassero la Sharia come un’eredità costrittiva e ristretta: “il governo islamico ha promesso di rompere con le strutture dell’identità personale, dell’economia, della società e della politica che secondo loro costituivano ‘l’ineluttabilità del loro destino’”30. L’Islam sciita poteva avanzare questa prospettiva di una continua ed attiva creazione di un sistema politico grazie alla propria apertura verso gli aggiornamenti delle leggi operati dalla ragione; ma anche, ed in misura più importante, per la sua prospettiva di un rinnovamento radicale e di una nuova rivelazione che doveva avvenire tramite l’imamato.
La Rivoluzione Iraniana aveva messo meglio a fuoco la visione islamica delle cose: idee che erano state messe in moto dall’Egitto, tramite Mohammed Baqir Sadr, per arrivare ai rivoluzionari tramite il contributo di Ali Shariati. Elementi costitutivi di essa erano la costruzione di una comunità giusta, equa e compassionevole, intesa sia come esperienza di vita attraverso cui gli uomini potessero attingere al gusto del divino, sia come adempimento della volontà divina secondo la quale gli uomini avrebbero dovuto comportarsi in questo modo gli uni verso gli altri.
La comunità avrebbe dovuto essere libera di eleggere i propri capi e di governarsi, ma la costruzione di una società realmente giusta avrebbe richiesto anche una vigilanza, ed una guida forte, rivelatrice e dinamica. Gli aspetti sociali ed economici della vita sarebbero rimasti liberi, ma erano contingenti rispetto alla necessità di agire secondo giustizia e con rispetto verso gli altri. Si trattava di una società coesa ed in perenne mobilitazione il cui esempio era dato dalla responsabilità interpersonale che i suoi appartenenti avrebbero avuto gli uni verso gli altri, ed in cui il legame diretto tra la fornitura di un servizio a qualcun altro e l’aspettativa di una sua immediata restituzione era spezzato.
Non sorprende che questi concetti, nati dapprincipio nel pensiero e negli scritti sunniti e di cui si era fatto carico, conferendo loro una coloritura sciita, Baqir Sadr con il suo circolo, abbiano finito per completare il circolo all’indomani di una rivoluzione, ritornando ad influenzare l’ambiente sunnita. L’essenza della divisione dell’Islam tra gli sciiti “partigiani di Ali” e i sunniti “fedeli alla tradizione” e loro controparte, era storicamente centrata sull’affermazione sciita secondo cui l’Islam pretendeva la giustizia e che non era possibile una società giusta senza un governo giusto, diretto dalla rivelazione coranica.
Ma nel 1923 il califfato era stato abolito, e la comunità sunnita dei credenti, o ‘Umma, era diventata qualcosa di slegato dal territorio. Aveva perso la sua definizione in termini geografici, aveva il califfo che ne era il capo simbolico, ed aveva perso le proprie istituzioni. In altre parole, la tradizionale pretesa sunnita del “diritto a comandare” era stata vuotata del suo significato. La Umma era stata privata del proprio territorio e della propria struttura. Fu costretta ad una forma di globalizzazione involontaria da un antipatico leader politico, Mustafa Kemal, deciso a distruggere i simboli dell’unità pan-musulmana.
Lo shock dell’abolizione del califfato fece venire meno il tradizionale atteggiamento accomodante verso il potere tipico dell’Islam sunnita. Il califfato poteva anche essere diventato qualcosa di inconsistente e di debole, ma aveva mantenuto le sue vestigia di legittimità: In termini islamici i nuovi leader politici laici ed occidentalizzati non ne avevano invece alcuna. E lo spazio a disposizione per il pragmatismo e la condiscendenza sunnita si ridusse di conseguenza.
Fu Sayyid Qutb ad iniziare la demolizione dei millequattrocento anni di coesione sunnita attorno ai “cesari” del mondo secolare. Con un atto reciso e decisivo di rottura nei confronti del passato, Qutb aveva definito senza mezzi termini questo pragmatico compromesso storico nei confronti del potere come jahiliyya, ignoranza, ed aveva esortato le società islamiche a vedere la loro guida in Dio, anziché in qualche cesare secolare ed occidentalizzato.
Il suo messaggio fece breccia attraverso il quietismo sunnita. Qutb affermò la necessità di opporsi non soltanto alla jahiliyya¸ma anche all’ingiustizia, ai governanti corrotti ed alla mentalità laica e modernizzatrice. Limitarsi a pregare e ad assumere un atteggiamento passivo non era sufficiente. Perché una visione islamica del mondo potesse prendere forma, era necessario che i musulmani compissero un più convinto sforzo di carattere rivoluzionario. Il pensiero laico e modernista era una minaccia per l’Islam; quasi tutti gli studiosi islamici oggi sarebbero d’accordo con Qutb su questo punto.
Questa virata dell’Islam sunnita verso la costruzione di una identità che si definiva in base alla resistenza contro l’egemonia occidentale e si concretizzava in termini di lotta per la giustizia sociale, ha inevitabilmente condotto i sunniti a percorrere molti passi, in senso ideologico, verso la moderna concezione sciita dell’Islam.
Sunniti e sciiti adesso trovano un terreno comune, nonostante le loro differenze in termini storici, in due aree dense di signficato: il rifiuto di continuare con gli atteggiamenti accomodanti nei confronti di quelli che Fadlallah definì “poteri iniqui, aggressivi o infedeli”, e la propensione a credere che una lotta rivoluzionaria sia necessaria per riformare la società e per la giustizia sociale.
In quest’ottica, aver visto l’Iran ed Hezbollah agire come avanguardie di questa rivoluzione non risulta sorprendente; e non sorprende nemmeno il fatto che movimenti sunniti come Hamas vengano accostati all’Iran e ad Hezbollah, perché sciiti e sunniti condividono adesso dei principi comuni, nonostante le molte differenze ed i molti antagonismi che ancora li separano.
Quando Hamas si fa sostenitore di una nuova identità musulmana centrata sulla lotta per un governo giusto ed efficiente e su una serie di assunti etici su cui basare la trasformazione sociale, si trova più vicino ad alla prospettiva sciita, che considera l’Islam come un movimento rivoluzionario basato sulla lotta per la giustizia. Questo non significa che Hamas sia diventato un movimento sciita, cosa che i suoi detrattori laici sono soliti rimproverargli. Non lo è diventato, e mantiene la sua netta identità di movimento nazionale palestinese di ispirazione sunnita.
Tuttavia questo avvicinarsi delle posizioni intellettuali tra movimenti come il sunnita Hamas e lo sciita Hezbollah è molto significativo, nonostante la cosa sia messa in ombra dal conflitto settario generato dall’occupazione dell’Iraq. Le schermaglie settarie tolgono alla vista il modo in cui il nuovo attivismo rivoluzionario di un movimento come Hamas ha contribuito a renderlo distante dai Fratelli Musulmani che ne erano alla radice, e lo abbia fatto avvicinare alle posizioni intellettuali tipiche del pensiero sciita.
La direzione del flusso di influenza tra i principali movimenti sunniti, sotto l’impatto dell’ostilità statunitense ed europea nei confronti dei movimenti islamici, ha finito per invertirsi. Adesso è più probabile che sia Hamas a fare in futuro da modello per i Fratelli Musulmani, piuttosto che questi ultimi a fare da modello e ad influenzare Hamas, nonostante i fondamenti del pensiero dei Fratelli costituiscano a tutt’oggi una sorta di sigillo di legittimità per la grande maggioranza dei credenti sunniti.
Per gli sciiti, la loro rivoluzione del 1979 in Iran ha rappresentato una rottura definitiva rispetto al precedente atteggiamento vittimista e di disimpegno quietista dalla vita politica attiva, nell’attesa che il ritorno finale del Mahdi rimettesse le cose a posto. Per i sunniti, il nuovo Islam politicamente attivo rappresenta una sorta di cambio di direzione, rispetto alla difesa apologetica dell’Islam dei modernisti ottocenteschi come Jamal ad-din al-Afghani (1838-1897), che cercavano di attualizzare l’Islam leggendo nelle scritture nuove necessità e nuovi cambiamenti, e adoperandosi per rabberciare cambiamenti in una vecchia tradizione che l’Occidente aveva sconfitto. I nuovi islamisti avrebbero dovuto lavorare, secondo le parole di Musa Sadr, per togliere dall’Islam “la polvere dei secoli”31.
La politica dell’Islam sciita
Questo è l’Islam sciita inteso in senso politico. Non rappresenta un processo formale, non riguarda la conversione da una setta ad un’altra, e non è un qualcosa di direttamente agganciato al governo iraniano, controllato o diretto da esso.
Lo sciismo politico, a grandi linee, è rappresentato dai concetti di mobilitazione e di ideologia attivistica e rivoluzionaria discussi da Sayyid Qutb, fatti propri e adattati dal circolo di najaf; tradotti in mobilitazione popolare da Shariati, ed infine portati al loro sbocco rivoluzionario da Khomeini. Si è poi evoluto sotto la direzione di Sayyed Hassan Nasrallah in una più articolata forma di mobilitazione che rispetta i limiti delle potenzialità intrinseci al concetto stesso di mobilitazione popolare.
Hamas ha sviluppato da questa tensione attivistica un proprio programma di mobilitazione, adoperando simboli ed iconografie che si adattino al suo sentire sunnita. L’ideologia di Hamas ha caratteri distintivi propri, che riflettono il suo germogliare dai Fratelli Musulmani, ma la sua visione della società è probabilmente più avventurosa e sperimentale di quella di altri movimenti islamici, riflettendo in questo la natura variegata dell’elettorato palestinese.
Le idee si stanno ancora evolvendo, sia rispetto agli avvenimenti sia rispetto alla brutta esperienza sofferta dai movimenti musulmani che hanno tentato di ottenere riforme passando dai processi elettorali. L’esperienza elettorale di Hamas in Palestina, e l’incessante repressione dei Fratelli Musulmani in Egitto, in Giordania ed in altri paesi hanno avuto il loro impatto.
Mentre gli elementi che li costituiscono si interrogano sul valore del percorrere la via del processo elettorale, i movimenti islamici moderati possono avere difficoltà a controllarne la radicalizzazione. Molto dipenderà dall’indirizzo culturale che i pensatori iraniani ed i vertici di Hamas e di Hebollah decideranno di seguire. E’ probabile, comunque, che non assisteremo ad alcun ritorno di un avanguardismo armato separato dalla legittimazione popolare, mentre è probabile un’ulteriore evoluzione dell’ideologia centrata sulla mobilitazione popolare di massa.
Per coloro che vivono in Occidente e che temono per le risposte vaghe e prive di mordente che le preoccupazioni in materia di ingiustizia e di polverizzazione sociale hanno nei paesi occidentali, l’esperienza che gli islamici hanno compiuto trovando la forza di reagire nelle idee di Sartre, di Berque e soprattutto di Fanon, fa nascere l’interrogativo del se il circolo possa chiudersi, con attivisti politici occidentali che a loro volta trovano in idee proprie dell’Islam l’energia per rinvigorire il loro attivismo.
Lo sciismo politico, a grandi linee, è rappresentato dai concetti di mobilitazione e di ideologia attivistica e rivoluzionaria discussi da Sayyid Qutb, fatti propri e adattati dal circolo di najaf; tradotti in mobilitazione popolare da Shariati, ed infine portati al loro sbocco rivoluzionario da Khomeini. Si è poi evoluto sotto la direzione di Sayyed Hassan Nasrallah in una più articolata forma di mobilitazione che rispetta i limiti delle potenzialità intrinseci al concetto stesso di mobilitazione popolare.
Hamas ha sviluppato da questa tensione attivistica un proprio programma di mobilitazione, adoperando simboli ed iconografie che si adattino al suo sentire sunnita. L’ideologia di Hamas ha caratteri distintivi propri, che riflettono il suo germogliare dai Fratelli Musulmani, ma la sua visione della società è probabilmente più avventurosa e sperimentale di quella di altri movimenti islamici, riflettendo in questo la natura variegata dell’elettorato palestinese.
Le idee si stanno ancora evolvendo, sia rispetto agli avvenimenti sia rispetto alla brutta esperienza sofferta dai movimenti musulmani che hanno tentato di ottenere riforme passando dai processi elettorali. L’esperienza elettorale di Hamas in Palestina, e l’incessante repressione dei Fratelli Musulmani in Egitto, in Giordania ed in altri paesi hanno avuto il loro impatto.
Mentre gli elementi che li costituiscono si interrogano sul valore del percorrere la via del processo elettorale, i movimenti islamici moderati possono avere difficoltà a controllarne la radicalizzazione. Molto dipenderà dall’indirizzo culturale che i pensatori iraniani ed i vertici di Hamas e di Hebollah decideranno di seguire. E’ probabile, comunque, che non assisteremo ad alcun ritorno di un avanguardismo armato separato dalla legittimazione popolare, mentre è probabile un’ulteriore evoluzione dell’ideologia centrata sulla mobilitazione popolare di massa.
Per coloro che vivono in Occidente e che temono per le risposte vaghe e prive di mordente che le preoccupazioni in materia di ingiustizia e di polverizzazione sociale hanno nei paesi occidentali, l’esperienza che gli islamici hanno compiuto trovando la forza di reagire nelle idee di Sartre, di Berque e soprattutto di Fanon, fa nascere l’interrogativo del se il circolo possa chiudersi, con attivisti politici occidentali che a loro volta trovano in idee proprie dell’Islam l’energia per rinvigorire il loro attivismo.
1 Sayyid Qutb, Social Justice in Islam, trad. T.R. Hamid Algar, North Haledon, NJ: Islamic Publications International, 2000.
2 Chibli Mallat, The Renewal of Islamic Law: Mohammad Baqer as-Sadr, Najaf and the Shi’i International, Cambridge: Cambridge University Press, 1993.
3 Nel 1954 Hezb al'Tahrir, che era stato fondato a Gerusalemme dallo sceicco al'Nabahani, aprì alcune sedi in Iraq e prese ad influenzare il pensiero islamico propagandando l'obiettivo della presa del potere, nella prospettiva di una restaurazione del califfato. Nonostante l'opposizione sciita al precedente califfato sunnita, della formazione fecero parte anche appartenenti all'Islam sciita.
4 Hezb al-Da’wa è lo stesso partito che ha oggi in Iraq un ruolo di primo piano.
5 Baqir Sadr, Falsafatuna, Qom: Ansariyan Publications, 1959.
6 Baqir Sadr, Iqtisaduna, Qom: Ansariyan Publications, 1960.
7 Chibli Mallat, ‘Muhammad Baqer as-Sadr’, in Ali Rahnema (ed.), Pioneers of Islamic Revival, London: Zed Books, 2005, p. 261.
8 Cfr. nota 2.
9 Jamal Sankari, Fadlallah: The Making of a Radical Shi’ite Leader, London: Al-Saqi, 2005, p. 71.
10 Mohammed Baqir Sadr, Principles of Islamic Jurisprudence, London: Islamic College for Advanced Studies (ICAS), 2003, p. 15.
11 Anthony Shadid, Night Draws Near: Iraq’s People in the Shadow of America’s War, New York: Henry Holt, 2005, p. 164.
12 Articolo dal sito della CNN, consultato nell’agosto 2008: http://www.cnn.com/2007/WORLD/meast/01/03/saddam.execution/index.html
13 Chibli Mallat, ‘Muhammad Baqer as-Sadr’, p. 258.
14 Ali Rahnema, An Islamic Utopian: A Political Biography of Ali Shari’ati, London: I.B. Tauris, 1998, p. 129.
15 Ali Shari’ati, Collected Works, vol. 2, p. 51, citato in Ali Rahnema, An Islamic Utopian, p. 128.
16 Ibid., p. 130.
17 Ervand Abrahamian, Khomeinism: Essays on the Islamic Republic, Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1993, p. 47.
18 Ibid., p. 127.
19 Ibid., p. 126.
20 Musa Sadr, in un discorso pronunciato a Beirut nel maggio 1967.
21 Ali Shariati, Collected Works, vol. 16, p. 212.
22 Christian Bonaud, L’Imam Khomeyni, un gnostique meconnu du XXe siècle, Editions al-Bouraq, 1997, p. 20.
23 Mulla Sadra, The Fourfold Journey, 9 voll-, ed. R. Lutfi et al., Tehran and Qom: Shirkat Dar al-Ma’arif al Islamiyyah, 1958–69.
24 Karen Armstrong, Islam: A Short History, London: Phoenix, 2001, p. 103.
25 Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, articolo 6.
26 Baker Moin, Khomeini: Life of the Ayatollah, London: I.B. Tauris, 1999, p. 276.
27 Jamal Sankari, Fadlallah, p. 181.
28 Michel Foucault, Le Nouvel Observateur, 16–22 October 1978.
29 ‘Iran: The Spirit of a World without Spirit’, intervista di Claire Briere e Pierre Blanchet, in Michel Foucault, Politics, Philosophy and Culture: Interviews and Other Writings 1977–1984, trad. Alan Sheridan, ed. Lawrence Kritzman, New York: Routledge, 1990.
30 Ibid., pp. 250–60.
31 Fouad Ajami, The Vanished Imam: Musa Al Sadr and the Shia of Lebanon, Ithaca, NY: Cornell University Press, 1986, p. 90.
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