sabato 4 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte II, Capitolo 4 - Una rivoluzione sociale


"Il libero mercato non rappresenta un veicolo per la modernizzazione. E’ un qualcosa che appartiene al mondo di John Locke, non al nostro" (John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London, 2007). Foto da DeviantArt.

Thomas Macaulay, nella sua famosa Storia dell’Inghilterra, indica quali sono le due principali forze che operano in modo che la storia si muova nella direzione giusta per la costruzione di un mondo migliore. Il corollario implicito all’analisi di Macaulay è che assecondare il cammino della storia sarebbe sia nostro dovere che nostro interesse. Comincia spiegando
…in che modo, dall’auspicata congiunzione di ordine e di prosperità quale mai gli annali delle umane vicende hanno fornito esempio [simile]… un gigantesco sviluppo del commercio ha dato origine ad una potenza marittima a paragone della quale ogni altra potenza marittima antica o moderna diventa insignificante1.
Piacevole, la narrativa di Macaulay. Parla di un mondo migliore dal punto di vista intellettuale, sociale ed economico, che emerge naturalmente dai difformi elementi delle lotte del passato. Secondo Macaulay si tratta di una storia di generali miglioramenti in tutti gli aspetti della vita, che “a meno che non prenda un grosso abbaglio… susciteranno riconoscenza in tutti gli animi religiosi, e speranza nei cuori dei patrioti”2.
Questa visione ottimistica aveva, ed ha a tutt’oggi, una cosa che colpisce: che questo emergere di una nuova forza benevola si sarebbe verificato non ad opera di un disegno umano, ma attraverso l’imperscrutabile e graduale lavoro della Provvidenza. Questa concezione della storia protestante e laico-moderna è servita per gli ultimi duecento anni come “studio investigativo delle impronte digitali lasciate dalla mano invisibile”, e dal momento che alla mano invisibile la cultura anglofona attribuisce poteri straordinari, a molti anglofoni questa visione appare ancora come l’ovvia ed indiscutibile forma possibile per il cammino della storia3.
Includere il concetto che considera il lavoro di una mano invisibile all’interno dei principi generali della storia riflette, sia dal punto di vista religioso che da quello laico, il credere nell’esistenza di un ordine che sorge spontaneamente dal libero ed incontrollato gioco di forze naturali ed apparentemente incontenibili. Il far propria la convinzione che il mondo sia fatto in modo che questo libero muoversi finisca per realizzare una ordinata e più alta configurazione della società è rintracciabile in tutte le sfere del pensiero occidentale, ed è un modo per ribadire alcuni dei più potenti convincimenti spirituali dell’etica protestante puritana4.
Questa stessa idea aveva armato i ribelli guidati da Cromwell nella loro lotta contro la monarchia in Inghilterra. Fece da sostegno alla lotta dei protestanti contro la comunità religiosa del cattolicesimo romano. Su di essa si basò il concetto di democrazia; fa da fondamento al concetto occidentale di diritti dell’uomo e dei diritti delle donne, e rappresenta ancora oggi il bastione su cui poggia l’ostilità dell’Occidente nei confronti dell’Islam.
Si tratta di una concezione della storia che contempla il lento e graduale avanzare del progresso in una società libera in quanto forza dominante nel conformare la società inglese e quella americana. In questa ottica, le stesse forze e gli stessi potenziali sarebbero allo stato latente in tutte le società, se solo se ne rimuovessero i polverosi laccioli rappresentati dall’illiberalismo e dalle limitazioni.
Cromwell ed i suoi seguaci puritani nel XVII secolo non si consideravano dei modernizzatori intenti a mettere a punto una rivoluzionaria concezione della storia. Non erano contro la tradizione: anzi, se ne consideravano dei difensori. Le loro idee erano state messe insieme attingendo ad un immaginario passato della storia anglosassone. Ma il loro affannoso rifarsi al passato, in cerca di tracce della storia del VII e dell’VIII secolo nei trattati di storia romana, li fornì di una nuova narrativa e di una identità propria. Si trattava di una riproposizione di componenti culturali e storiche del passato che aveva anche il compito di dare al mondo una visione utopistica globale nei con cui affrontare il futuro.
La nuova narrativa rappresentava una visione che affondava le sue radici in un passato tanto splendido quanto immaginario, in cui i liberi yeomen (contadini indipendenti) dell’Inghilterra avevano combattuto per quelle istituzioni e per quelle leggi che sarebbero emerse nel settimo e nell’ottavo secolo dai turbolenti confronti e scontri fra tribù germaniche progenitrici del mondo anglosassone.
Da questi scontri tribali ai limiti della guerra civile emersero istituzioni, costumi e leggi della società anglosassone. Questo non si sarebbe verificato in virtù di un disegno prefissato, ma sarebbe accaduto spontaneamente, come se fosse il frutto della mano della divina Provvidenza, che lavorava non vista. Era questa eredità storica, secondo Cromwell, che aveva reso gli anglosassoni una gente libera e combattiva, decisa a respingere il feudalesimo importato con la conquista normanna. Ed a questa storia di “tradizione” anglosassone di libertà Cromwell si rifece, quando sfidò il diritto divino dei re d’Inghilterra ed organizzò la propria ribellione contro la “moderna” importazione dell’autoritarismo e dell’assolutismo di re Carlo.
Simili idee non erano soltanto patrimonio inglese. Quest’epoca immaginaria sassone fatta di libertà e felicità intese come frutto dell’ordine naturale introdotto dalla mano invisibile della Provvidenza assunse particolare interesse anche per l’americano Thomas Jefferson. Per tutta la vita fu un sostenitore degli studi anglosassoni, sulla base dei quali giunse a credere che le leggi dell’epoca anglosassone fossero basate sul diritto naturale.  A suo dire, la malevola conquista dell’Inghilterra da parte dei normanni vi introdusse i re, i preti, il feudalesimo e tutto l’apparato di corruzione e tirannia in quello che era l’idilliaco mondo anglosassone5.
Secondo John Adams la grande medaglia degli Stati Uniti tratteggiata da Thomas Jefferson aveva due facce, rappresentate da una parte da
…i figli di Israele nel deserto, guidati da una nuvola di giorno e da una colonna di fuoco di notte [verso la terra promessa loro da Dio];  dall’altra, Hengist e Horsa, i capi sassoni dai quali abbiamo avuto l’onore di discendere, ed i cui principi politici e la cui forma di governo abbiamo fatta nostra6.
Da questo passato immaginario è derivata la consolidata certezza che davvero esistesse una differenza tra il retaggio anglosassone fatto di uomini liberi, con le loro istituzioni e la loro cultura di libertà, contrapposto alla tirannia e all’illiberalismo prima dei normanni, con i loro re, il loro feudalesimo e i loro preti, e poi della illiberale Spagna cattolica e della cattolica Francia, con il loro assolutismo, il terrore giacobino e la megalomania napoleonica. Questa concezione si sarebbe evoluta nell’idea di società aperta, con le sue libertà personali ed i suoi liberi mercati, contrapposta alle società “chiuse” della religione statica e dell’illiberalismo.
Il mondo protestante, fin dall’epoca in cui Cromwell definiva un impero del male la Spagna cattolica, ha tutte le volte etichettato i propri nemici come illiberali e assolutisti, o come totalitaristi e nemici della libertà. Il fatto che sia l’Inghilterra che l’America abbiano entrambe vinto tutte le guerre contro i loro nemici illiberali nel corso degli ultimi trecento anni, uscendone non come semplici potenze vincitrici, ma come superpotenze mondiali, ha rafforzato la loro convinzione che fosse volere della Provvidenza che uomini e donne si comportassero secondo il modello anglosassone degli uomini liberi che rispettavano il principio secondo il quale si doveva lasciar agire la mano invisibile affinché, alla sua maniera, curasse nel miglior modo gli interessi di tutti.
Questo sentire spinse Abbott Lawrence a scrivere nel 1850, mentre era ambasciatore statunitense a Londra, che “se gli anglosassoni di Gran Bretagna e degli Stati Uniti si comportano lealmente gli uni nei confronti degli altri e tutti e due nei confronti della causa dell’umana libertà, possono dare a tutto il mondo non solo la loro lingua, ma anche le loro leggi, e sconfiggere il potere di tutti i despoti che esistono sulla faccia della Terra”7.
Non è certo stato un caso se i seguaci di Cromwell del XVII secolo si sono messi a cercare i tempi idilliaci fatti di presunta libertà nella storia del VII secolo per sostenere la loro ribellione contro re Carlo I d’Inghilterra. La spinta ad adottare una narrativa ed una nuova identità desunte da quell’epoca passata veniva loro da un altro conflitto: la lotta religiosa tra protestantesimo e cattolicesimo.


L’etica dell’individuale

Il punto fondamentale della trasformazione di valori che emerse da questo conflitto tra confessioni cristiane era, come abbiamo visto nel primo capitolo, la reinterpretazione del significato della storia del patriarca Abramo. Ali Shariati ha tentato di dare un nuovo significato ed un nuovo senso al martirio dell’Imam Hussein, intesto come simbolo di supremo sacrificio personale davanti al principio della giustizia; allo stesso modo, cinquecento anni prima, Martin Lutero aveva dato un nuovo significato alle vicende di Abramo.
Lutero aveva descritto come condizione per la salvezza non il pentimento per i propri peccati, ma la fedele ed immediata risposta di Abramo alla chiamata di Dio. La salvezza per mezzo della sola fede, che è il principale assunto del protestantesimo, fu definita partendo dalla reinterpretazione della vicenda di Abramo, cui Lutero ed i suoi seguaci cedettero.
L’atto di fede di Abramo che si prepara a sacrificare il figlio simboleggia la libertà di scelta: il fare una scelta personale. Simboleggiava la natura individualistica e personale della fede, contrapposta ai legami comunitari cementati dalla religione; simboleggiava l’abbracciare incondizionatamente i mutamenti; e simboleggiava il pronto accogliere l’invito al viaggio verso un futuro ignoto in una nuova terra, senza alcun riguardo per le conseguenze che questo avrebbe avuto sul piano sociale e personale.
Procedere su questo cammino individuale richiedeva al fedele di obbedire all’esortazione di utilizzare i talenti personali elargiti da Dio. Una simile chiamata conferì nuova dignità e nuova importanza alle questioni economiche: pose le basi per la sintesi dell’etica protestante e del capitalismo nascente, collegandole alla rivelazione della volontà divina. Avere successo nei commerci significava trovarsi nel favore e nella grazia d’Iddio.
Man mano che l’etica protestante del lavoro e del risparmio si affermava, nacquero il capitale e le abitudini lavorative che hanno fatto crescere il capitalismo. Questo originò la diffusa credenza secondo cui l’economia del libero mercato rappresentava una nuova chiamata proveniente da Dio. Si venne a creare un circolo virtuoso di credenze: il prosperare di una comunità testimoniava con più forza la grazia divina, e questo conduceva sempre più persone ad abbracciare il capitalismo.
L’accento posto dai protestanti sulla relazione personale tra uomo e Dio, concretizzata da un atto di scelta individuale e sulla realizzazione di un’impresa personale, si coniugava bene con l’immaginata era del benessere anglosassone. E fu questa coppia di concetti che i seguaci di Cromwell misero in campo, a costruire la grande narrativa che giustificasse la loro ostilità per il monarca inglese Carlo I e per le potenze cattoliche illiberali. Essa si accordava bene anche agli interessi di una classe di mercanti e commercianti capitalisti inglesi in piena ascesa.
La narrativa anglosassone centrata su un ordine determinante che era intrinseco allo sviluppo della loro storia era sostenuta dalla convinzione protestante che ordine ed istituzioni potessero emergere naturalmente e più o meno spontaneamente a partire dai cambiamenti. Sulla base di questa convinzione, i protestanti consideravano se stessi come emulatori dell’atto di fede compiuto da Abramo. Come Abramo, stavano impegnandosi in un viaggio verso una terra promessa migliore dell’attuale. Fidarsi di questo istinto rifletteva l’essenza del protestantesimo: l’accettazione dei cambiamenti voluti dalla Provvidenza e la fede per i risultati di questo invisibile processo. 
La credenza in un ordine naturale capace di materializzarsi come per opera di una mano invisibile ha dominato l’immaginario occidentale per secoli, e non è rimasta patrimonio esclusivo dei protestanti o delle persone religiose. Scienza ed empirismo, nel XIX secolo, sembravano confermare la possibilità che, al di là dell’apparente disordine dell’universo, si potesse osservare un ordine razionale intrinseco alla natura dell’universo fisico, piuttosto che dovuto alla mano della Provvidenza. La filosofia positivista, che nega ogni validità al pensiero deduttivo ed alla metafisica, ha introdotto nel laicismo questa credenza in un ordine naturale e progressivo cui si è giunti empiricamente, ma che da ogni altro punto di vista è ad essi analoga.
In questa concezione del mondo, politici e legislatori avevano il compito di mettere questo ordine, già presente, in condizioni di esplicarsi rimuovendo gli ostacoli alla sua manifestazione. In particolare, il ruolo del politico non era assolutamente quello di imporre alcuna grande visione ad una società uniformata e caotica. Leggi ed istituzioni, che si evolvessero o che venissero illustrate e scoperte da un attento studio scientifico, non venivano considerate il risultato di applicazione pratica di vaste ed onnicomprensive costruzioni astratte8.


La mano invisibile

Dove andava la scienza, l’economia seguiva a ruota. Adam Smith, nel suo La ricchezza delle nazioni pubblicato nel 1776, statuì ancora una volta l’azione della mano invisibile come base della sua teoria economica. Quella stessa mano portava ordine e soddisfaceva al meglio gli interessi dell’umanità, e lo faceva partendo dalle azioni prive di coordinamento, e guidate dall’interesse, di una moltitudine di acquirenti e venditori che venivano incontro gli uni agli altri grazie ai meccanismi del libero mercato.
Questa concezione ispirò la “Grande Trasformazione” in Inghilterra. Fece del libero mercato il principio organizzativo della società, al quale gli stati-nazione, la politica, le strutture comunitarie e le istituzioni dovevano essere subordinati. In pratica, l’agire di singoli esseri umani educati, controllato solo dalla loro percezione del proprio benessere personale, avrebbe prodotto una società ordinata ed armoniosa, risultato della combinazione delle loro scelte personali esenti da costrizioni. E’ stata questa la visione utopistica che, a partire dal XIX secolo, è stata esportata nelle società musulmane, e ad esse imposta.
Il concetto di libero mercato inteso come alla base di un “ordine naturale” può anche essere una delle più durevoli e radicate teorie della storia dell’uomo, ma è anche un mito. Un mito attorno al quale è andata modellandosi la vita politica occidentale, ma pur sempre un mito.
Certo, Smith e gli economisti classici credevano in un progresso inteso come stadi di sviluppo, e non nelle più tarde teorie alla Milton Friedman che contemplavano uno shock culturale ed un disorientamento che avrebbero prodotto una civiltà commerciale basata sugli scambi del libero mercato.  Avevano anche le idee chiare sulle pecche dell’economia di mercato. Smith si è sempre riferito al mercato, ovvero al “sistema della libertà naturale”, come spesso lo chiama, considerandolo un’utopia; Smith voleva affermare che si trattava probabilmente del miglior sistema a disposizione, ma non che esso fosse privo di seri difetti. Era impressionato dall’efficienza dei mercati, ma anche timoroso delle loro licenze sul piano morale9.
Ad esempio, i lavoratori non avrebbero più avuto bisogno di una buona cultura per portare a termine i compiti semplici e ripetitivi che l’organizzazione industriale della produzione avrebbe loro richiesto; Smith intravide anche la prospettiva dei sobborghi poveri ed anonimi che sarebbero cresciuti attorno alle fabbriche, cosa che non avrebbe incoraggiato i comportamenti virtuosi. Capì che con l’andare del tempo questo avrebbe rappresentato un rischio per la stessa civiltà commerciale. Economisti più moderni sono tornati a rifarsi all’idea di libero mercato in modo assolutista, ma nonostante essa venga presentata come derivante dalla ricerca scientifica, in realtà rimane una dottrina le cui affondano nel terreno della fede religiosa.
Una dottrina sempre considerata come Dio in persona che opera per mezzo del sentire umano: la ragione ha poco o nulla a che vedere con un simile processo. Il mercato non si è sviluppato perché gli esseri umani ne hanno capito i vantaggi. Si è sviluppato come se fosse frutto degli istinti assegnati da Dio agli uomini. Nel 1840 in Inghilterra Richard Cobden fece una campagna elettorale vittoriosa contro le leggi protezioniste sulle granaglie, usando lo slogan “Il libero commercio è la legge divina internazionale”10.
Di primo acchito poteva anche suonare bene: ma semplicemente non corrispondeva al vero.
Il libero mercato è una costruzione dei poteri statali. Se Adam Smith aveva dimostrato che il benessere umano era perfezionato dal lavoro del libero mercato, da questo dicendeva il fatto che era necessario rendere l’azione dei mercati il più libera possibile. Per arrivare a questo, l’Inghilterra del XIX secolo dovette assistere alla distruzione deliberata dei mercati che avevano profonde radici sociali e che vivevano da secoli, e la liberazione di questi mercati dai limiti ad essi imposti da politica e società. Lo scopo era quello di sottrarre i mercati dalla pur minima possibilità di limitazione che ad essi potesse imporre la politica.
In Inghilterra il libero mercato si affermò grazie ad una compresenza di circostanze storiche favorevoli: il recupero della narrativa sulla libertà anglosassone e l’individualismo protestante, uniti al potere privo di controllo di un Parlamento in cui la maggior parte del popolo inglese non aveva rappresentanza.
Ma il libero mercato, in Inghilterra, durò appena il tempo di una generazione.
Dal 1870 in avanti la sua esistenza fu gradualmente regolata per mezzo di leggi. All’epoca della prima guerra mondiale, esso aveva virtualmente cessato di esistere, inteso nella sua forma più estrema. Si era arenato sullo scoglio della perdurante necessità umana di avere sicurezza economica: il libero mercato, puramente e semplicemente, non soddisfaceva le necessità umane, compresa la necessità di libertà personale. Il libero mercato venne considerato come un caso estremo dottrinale o anche come un anacronismo fino a quando non fu riscoperto dalla Nuova Destra nel corso degli anni Ottanta11.
L’utilizzo del potere statale per far muovere il libero mercato, e per spezzare ogni continuità sociale in modo da promuovere la mobilità lavorativa non era certo espressione di “libere scelte individuali combinate insieme per giungere ad una società armoniosa”. La mano invisibile si era rivelata un mito, ed il libero mercato si era rivelato un nemico della democrazia, come pochi politici moderni riconoscono implicitamente nelle loro dichiarazioni ,secondo le quali limiti alla democrazia possono essere necessari per arrivare ad una ulteriore liberalizzazione.
I danni causati dal libero mercato a tutte le altre istituzioni sociali e al benessere degli esseri umani innescarono movimenti politici di contrasto in Inghilterra ed in tutta Europa, che ne causarono il radicale mutamento. La conseguenza normale dell’implementazione del libero mercato non era rappresentata dall’insediarsi di un governo democratico stabile, come assicuravano i suoi fautori, ma da un’evanescente insicurezza. Una pioggia di provvedimenti legislativi, provocata da diverse conseguenze dell’azione del libero mercato, contribuì a regolarlo nuovamente, in modo che il suo impatto sulle altre istituzioni sociali e sui bisogni umani fosse attenuato. Come nota il professor John N. Gray, “Il libero mercato non rappresenta un veicolo per la modernizzazione. E’ un qualcosa che appartiene al mondo di John Locke, non al nostro”12.
John N. Gray si spinge anche oltre: in Black Mass suppone che quando l’Occidente insegna ai Musulmani che devono riformarsi e modernizzarsi, ovvero devono adottare il libero mercato e lo stato centrale forte che è necessario a tutelarlo, pare che lo faccia cancellando dalla questione un aspetto fondamentale di essa. Sembra che gli occidentali siano tanto presi da quest’idea da sorvolare sul fatto che “ovunque è stato fatto il tentativo di imporre un modello di sviluppo occidentale in paesi che occidentali non erano, esso ha sempre implicato il terrore di massa”13. I fautori del libero mercato si sono esibiti in un’incredibile e criminosa mancanza di compartecipazione alle perdite causate dai loro esperimenti umani. Ai nostri lettori questa può sembrare una conclusione eccessivamente severa, ma se si prende in considerazione quanto hanno dovuto passare la Turchia e l’Iran, ci si rende conto che forse è una conclusione equilibrata.


Il retaggio di un mito

Per le società musulmane il mito della mano invisibile non ha significato soltanto stravolgimenti sociali ed instabilità su vasta scala: come abbiamo visto per il caso turco, ha significato anche terrore, massacri, pulizia etnica e sofferenze. L’adozione di questo mito ha avuto come risultato una fitta campagna di laicizzazione forzata e di repressione dell’Islam condotta in tutto il Medio Oriente in nome dell’edificazione degli stati-nazione, che come concezione sono essi stessi una derivazione dall’idea di mano invisibile.  Scrivendo oltre duecento anni fa, Johann Herder denunciò le conseguenze del colonialismo e dei traffici europei in tutto il mondo. “Queste terre non grideranno prima o poi vendetta, chi più chi meno?”, ed aggiungeva anche “Abbiamo empiamente preteso che attraverso queste azioni offensive nei confronti di tutto il mondo passasse la realizzazione dei fini ultimi della Provvidenza”14.
John N. Gray conclude che “l’Europa del XX secolo è stata essa stessa teatro di delitti di stato privi di qualunque precedente; il terrore è entrato a far parte dell’Occidente moderno”15; qualcosa di cui possono testimoniare la pulizia etnica ed i massacri che hanno accompagnato la nascita dei “forti” stati-nazione in Europa. E’ difficile non considerare le mire utopistiche ad ispirazione religiosa del XIX e del XX secolo come le prime responsabili per la completa cancellazione di ogni senso di rimorso o di contrizione per le sanguinose conseguenze di questa politica.
La storia così intesa ed i suoi risultati rappresentano per i musulmani la realtà della “modernità” occidentale. Una delle conseguenze del non riuscire a cogliere come gli eventi degli ultimi duecento anni sono apparsi agli occhi dei musulmani, ed il grado cui essi hanno percepito la loro tragedia secondo modalità radicalmente diverse dalla istintiva chiusura occidentale nei confronti di questi aspetti, è data dalla profonda mancanza di comprensione dei motivi e delle intenzioni della loro maniera di intendere l’economia.
Gli islamici stanno a tutti gli effetti costruendo una propria narrativa islamica, diversa ed antitetica a quella della mano invisibile. Come i sostenitori di Cromwell avevano costruito un proprio concetto di libertà attingendo ad epoche remote, così gli islamici hanno costruito una propria visione delle cose rifacendosi al Corano e ai principi che esso riflette e che, come il Corano stesso specifica, non sono altro che un semplice richiamo di verità a tutti note16.
L’economia islamica non è un tentativo di competere con il sistema occidentale in termini di velocità e volume di crescita. Il suo scopo, come vuole il Corano, è quello di ricondurre gli esseri umani ad alcune di queste “antiche verità” che essi hanno perso di vista. E la prima di queste verità a tutti nota è che quello della mano invisibile è un mito. Non esiste alcuna natura infusa agli uomini da Dio per cui le loro libere scelte personali, guidate dalla pura e semplice ricerca del personale benessere, avrebbero finito per combinarsi producendo una società ordinata ed armoniosa.
L’Islam parte da una concezione molto diversa della natura umana; ed eccoci di nuovo al punto da cui eravamo partiti. Nell’Islam, l’essere umano è caratterizzato da una tendenza innata all’egoismo ed alla prevaricazione degli altri. Una società conforme a criteri di giustizia deve proteggere quanti ne siano vulnerabili dall’egoismo e dalla prevaricazione che si annidano nelle usanze e nelle pratiche correnti delle collettività umane, ed allo stesso modo la società stessa deve essere protetta dall’azione di individui prevaricatori che mostrino le stesse caratteristiche.
Questa consapevolezza di base guida lo sforzo compiuto dagli esperti islamici di condurre la società umana lontano da una viziata utopia occidentale che non concepisce nulla di più alto che il diventare ancora più influente, e di condurla invece verso un’altra verità antica, che afferma che la felicità e l’armonia per gli esseri umani dipendono più dal lottare e dal sacrificarsi per un ideale che non dall’accumulare beni materiali.
Un’altra antica verità è contenuta nel messaggio cranico sulla relazione individuale dell’uomo con Dio. Questa relazione non emerge istantaneamente da un singolo atto di fede, come San Paolo suggerisce ai cristiani. Essa si consolida lentamente dall’esperienza del vivere secondo la prescrizione divina, che vuole che gli uomini si comportino gli uni con gli altri secondo giustizia, equità e compassione. La graduale comprensione di Dio viene anche dal ricercare la sua presenza nella storia e dall’affrontare i contenuti esoterici del Corano tramite la ragione, l’immaginazione e l’intuizione: il tutto per meglio comprendere la realtà dell’essere.
In sostanza, questa verità subordina l’aspetto personale ad altri due. Da una parte, è attraverso il proprio comportamento ed attraverso l’esperienza del vivere in mezzo ad altri che si comportano allo stesso modo, che si procede sulla via della comprensione. Questo implica un’ottica centrata sulla comunità, anziché sul percorso personale nella relazione con Dio. In secondo luogo, la introspezione riflessiva sull’essere, che è la via verso la comprensione dell’unicità dell’uomo rispetto all’uomo, rispetto alla natura e rispetto all’universo, implica il porre dei limiti a quanto attiene alla sfera personale. Arrivare a comprendere la propria natura di esseri in relazione con gli altri e con l’ambiente circostanze fa diminuire il senso del sé individuale.
La conoscenza di Dio, o la relazione con Dio, si raggiungono ponendo dei limiti all’ego, al nafs, anziché privilegiandolo come in Occidente, dove l’individualismo è diventato il cardine dell’organizzazione politica, economica e sociale. Si tratta di un concetto di fede molto diverso da quello dei cristiani, che lascerebbe posto alla concezione occidentale di “società chiuse”, che assumerebbero questo loro carattere dalla natura presuntamente costrittiva della fede tradizionale; un’argomentazione già mossa a suo tempo contro il cattolicesimo, percepito come immobilista.
In concreto, laddove l’economia occidentale ha tentato di liberalizzare le strutture del mercato e di proteggerle dall’azione e dalle limitazioni della politica e della società, gli islamici si sono rifatti a questa “antica verità” per richiedere che le attività economiche e sociali fossero di nuovo sottoposte a qualche regola, per arrivare alla costruzione di una società equa ed in grado di comportarsi secondo giustizia.
Secondo una prospettiva islamica non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato nella proprietà privata, nel mercato o nel commercio: lo stesso Profeta era un commerciante. Ma gli islamici insistono sul fatto che il mercato dovrebbe avere radici comunitarie e dovrebbe essere subordinato alle aspirazioni che una comunità islamica avanza in materia di comportamenti. Si tratta di una prospettiva opposta a quella del pensiero europeo del XIX secolo, che si poneva invece lo scopo di stravolgere e di distruggere le comunità socialmente radicate.
Un’altra argomentazione importante nel Corano è quella che ha a che fare con la generosità e con il concedere. “I giusti sono coloro che danno del cibo, anche se questo può costargli caro, al povero, all’orfano ed al prigioniero”17.  Si raccolgono offerte dai singoli individui “anche se queste possono costar loro care” tanto perché essi possano “mondarsi e purificarsi”18 quanto per venire incontro alle necessità immediate dei poveri. In altre parole, il sacrificio rappresenta una componente fondamentale dell’umano rapportarsi con il possesso materiale. Per evitare di attaccarsi smodatamente alle cose possedute, uno deve staccarsene, sacrificandone una parte.
L’idea coranica del dare si accompagna anche ad una considerazione tutta particolare sulla circolazione dei beni all’interno di una società. Difende il concetto del dare ai meno fortunati per un secondo e distinto motivo: “non fate sì che [beni e denaro] diventino qualcosa che circola soltanto fra i ricchi che ci sono tra di voi”19. In altre parole, una cattiva circolazione della ricchezza è quella in cui essa circola, ed in misura sempre maggiore, soltanto tra i ricchi, mentre una buona circolazione della ricchezza è quella in cui essa circola tra ricchi e poveri. La circolazione del denaro intesa in questo modo si fonda su atti di generosità e di servizio per i poveri20.
Il Corano sviluppa ulteriormente l’idea suggerendo che equità e giustizia richiedano di evitare le grandi disparità. Il Corano presenta il dare come un meccanismo di ridistribuzione che aiuterebbe a prevenire il verificarsi di queste disparità eccessive, in quanto contribuirebbe a diffondere il senso di distacco dai beni materiali tra i benestanti e a prevenire quell’accumulo di ricchezza che porta al monopolio ed al dominio sugli altri.
In questo contesto, il Corano presenta anche l’idea che gli atti di servizio e di sacrificio per gli altri membri della comunità devono essere tenuti separati da qualunque aspettativa di un “ritorno” diretto o comunque collegato ad essi. Alla fine, il benefattore otterrà comunque ricompensa per le proprie azioni. All’atto del dare nessuno deve attendersi di ricevere -e non deve ricevere- alcunché in cambio; qualcosa in cambio gli verrà dal complesso intrecciarsi di atti di generosità e di altruismo interni ad una comunità in cui tutti seguono un simile modo di comportarsi, in base ai propri mezzi. Alla fine, ogni donatore riceverà un servizio o un aiuto, un ricambio che non può predire ma che finirà comunque per arrivargli, grazie alla cultura di reciprocità che la comunità ha fatto propria.
Il Corano, quindi, non vuole affatto presentare un concetto alternativo di “mano invisibile” comunque operante in una comunità, ma portare nel campo dell’economia i principi dell’altruismo e dell’attenzione per gli altri piuttosto che quello della massimizzazione dei profitti.
Chiedersi se l’economia islamica sarebbe efficiente dal punto di vista della produzione come quella di modello occidentale significa cercare di paragonare arance e mele. Il modello occidentale presenta una teoria economica generale, che almeno dal 1870 a questa parte è stata esaminata nei dettagli. L’Islam non presenta alcuna teoria onnicomprensiva.
L’Islam si limita a proporre i principi ed i sistemi, derivati dall’asserzione di Muhammad sulle “verità che sono a tutti note”, tramite i quali l’attività economica può essere ricondotta al settore che le è proprio, quello di un’importante sfera dell’attività umana  che deve essere soggetta a regole peer evitare che il mostro a due teste dell’avidità umana e del desiderio di potere arrivi a danneggiare le delicate strutture di una comunità ispirata ad equità e giustizia.
Questo fa pensare ad una questione diversa rispetto a quella di quale sia il sistema tecnicamente più efficiente. Il sistema economico islamico è una risposta a ciò che l’Islam considera le conseguenze negative del sistema economico occidentale in termini di benessere umano e di felicità autentica. Il suo principale intendimento è quello di ripensare il significato di “più alto interesse umano”. Gli islamici vogliono che il loro sistema venga giudicato sulla base di principi, occidentali o islamici che siano, che siano ispirati a giustizia e ad umano benessere. 
I commentatori occidentali tengono il concetto fondamentale rappresentato dai principi islamici come se fosse null’altro che lo sforzo meramente tecnico di modellare gli strumenti finanziari occidentali per renderli compatibili con la legge islamica. Questo modo di intendere le cose viene probabilmente rafforzato dal fatto che gli economisti musulmani spesso lavorano per banche occidentali e per istituzioni finanziarie che sono interessate a vendere prodotti finanziari occidentali sui mercati del Medio Oriente. Questa immagine ha rafforzato la sensazione che i principi dell’economia islamica manchino di sostanza e che siano per lo più una serie di escamotage tecnici messi in piedi per aggirare il problema della compatibilità con la legge islamica.
Quello che in Occidente è difficile far capire è che gli islamici stanno tentando di sviluppare un sistema di carattere etico, e non un teorema che spieghi meglio i meccanismi della produzione e del mercato. Gli islamici sono interessati a cambiare radicalmente le relazioni etiche tra gli attori economici; sono interessati a stabilire una struttura di valori morali che regoli queste relazioni e, come obiettivo politico, ad orientare gli equilibri economici perché siano favorevoli agli individui ed alle imprese di piccola scala, e sfavorevoli ai monopoli ed alle concentrazioni economiche di grande scala nel settore commerciale.
Perseguire quest’ultimo obiettivo non è cosa che derivi da qualche teoria in grado di affermare che la produzione di piccola scala sia la più efficiente; deriva piuttosto da obiettivi di tipo etico: impedire che la concentrazione del potere economico finisca per esercitare qualche forma di dominio sugli esseri umani. Questo fa parte di un proposito di più ampia portata, quello di esigere che le attività economiche vengano considerate come soltanto una delle componenti della complessa dimensione umana; la condizione umana viene concepita come vincolata e come parte integrante di un più ampio esistere che racchiude il mondo in cui viviamo. Rappresenta una componente che dovrebbe essere guidata per mantenere la coesione e la capacità di una comunità di sopportare sforzi improvvisi, e comunque in quanto parte di una vita bilanciata e pluridimensionale.
In altre parole, si tratta di un tentativo, in corso di evoluzione, di riconfigurare l’economia come dinamica etica positiva capace di rafforzare una comunità, piuttosto che lasciare che essa continui a comportarsi come una forza centrifuga, spingendo gli individui ad isolarsi nel perseguimento dei loro utili materiali e separando la “crema” ricca dal “latte” povero.  
Nell’Islam sono stati sviluppati tre filoni principali di questa reinterpretazione dell’economia intesa come strumento utile alla coesione sociale piuttosto che come forza centrifuga che agisce contro di essa. E le questioni che riguardano l’ammissibilità degli strumenti finanziari occidentali per la legge islamica non hanno un ruolo preminente in nessuno di essi.
Il punto chiave per cui l’Islam differisce dall’Occidente, come abbiamo già considerato nelle pagine precedenti di questo capitolo, sta in un concetto fondamentale: nell’analisi che l’Islam compie della motivazione umana. Nelle economie occidentali si considera che gli esseri umani agiscano razionalmente quando cercano di massimizzare la somma del loro benessere personale e materiale. Nell’economia occidentale classica, questo perseguire individualmente il proprio interesse viene diventa qualcosa di positivo, come abbiamo visto, grazie all’azione della mano invisibile.


“La nostra economia islamica”

I principi dell’economia islamica prendono le mosse, come abbiamo visto, da una visione della natura umana più pragmatica ed amara. In La nostra economia Baqir Sadr sosteneva che gli uomini, sul piano economico, sono dominati dal loro primordiale istinto di amore egoistico; per quanto “razionale” possa essere una persona, gli esseri umani sono portati all’avidità ed alla smania di dominio, e anche a comportarsi in modo predatorio e privo di attenzione nel loro utilizzo delle risorse ambientali.
Per riflettere la reale natura umana, l’economia islamica cerca di realizzare una struttura etica di norme che ponga dei limiti alle azioni individuali e a quelle dello stato nel campo dell’agire economico. Cerca una distribuzione del reddito che non permetta disparità di misura tale da causare antagonismo e divisione sociale, e cerca di definire in modo netto ciò che è di proprietà pubblica e ciò che può diventare di proprietà privata, nonché i doveri e le responsabilità di ciascun tipo di proprietà. Per esempio, le risorse naturali di una nazione appartengono alla sfera pubblica e non a quella privata. I principi dell’Islam cercano anche di riformare le istituzioni, soprattutto le istituzioni finanziarie, perché riflettano questi principi etici.
Nel fissare una struttura di principi etici, l’economia islamica si basa sulla interiorizzazione di quanto preteso da Dio in materia di giustizia e di rispetto, e su una serie dettagliata di regole per garantire l’una e l’altro. Ai moderni occhi occidentali, il richiamo ad una cultura fatta di altruismo, di rispetto per gli altri e di un ethos basato sulla generosità può sembrare troppo idealistico, ma riflette le idee e le aspirazioni che puntano a mobilitare gli esseri umani per dare vita ad un cambiamento rivoluzionario.
Nei principi predicati da Baqir Sadr, lo stato ha un ruolo che è differente sia dal modello occidentale, che insiste sulla necessità che esso rinunci ad imporre qualunque obiettivo generale alla società preferendo che un “ordine” emerga naturalmente da essa, sia dal punto di vista marxista secondo cui lo stato dovrebbe controllare ogni aspetto dell’attività economica.
A differenza dell’economia classica, che evita di formulare un qualunque progetto onnicomprensivo, il progetto islamico si sviluppa proprio fissando degli obiettivi generali. In La nostra economia Sadr sostiene che lo stato dovrebbe impartire una direzione alle attività economiche,  ma a differenza di quanto sostiene il marxismo non dovrebbe cercare di estendere il proprio controllo anche alla microeconomia; un governo islamico fa da guardiano degli obiettivi generali, lasciando però alla privata impresa dei singoli individui il compito di raggiungerli.
La funzione del governo è quella di sovrintendere e di regolare, ma Sadr proponeva che esercitando questa funzione il governo operasse a tutto campo per mettere a punto un sistema di controllo alla luce degli eventi ed in accordo con le circostanze in cui si trovava lo stato.  In altre parole, non esiste un solo modello di economia islamica; ogni stato islamico avrebbe seguito e dovuto seguire un percorso pragmatico di messa a punto e di identificazione del mix di attività pubbliche e private che meglio venisse caso per caso incontro alle necessità del momento. Sadr affermava anche, altrettanto chiaramente, che la cosa più importante è che il governo segua con attenzione la crescita dell’economia affinché da questa derivi un accrescimento del benessere di tutti i cittadini.
Come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, Mohammed Baqir Sadr, nel suo libro sull’economia islamica, considerava l’economia come parte di un più ampio progetto di un sistema sociale interamente islamico. Il comportamento di un sistema economico islamico, sosteneva, non avrebbe potuto essere giudicato fin quando la realizzazione di uno stato islamico non fosse giunta a compimento, condizione in cui l’intera gamma dei comportamenti socioeconomici umani sarebbe stata determinata secondo l’Islam. Fin quando non fosse emersa una soluzione che mettesse un limite all’amore egotistico dell’uomo e lo indirizzasse verso processi socialmente più benefici, in modo da alleviare le tensioni esistenti tra una élite che controlla le risorse e quanti non hanno accesso a nessuna di esse, lo sfruttamento umano e la mobilitazione sociale che sarebbe comunque stato possibile raggiungere avrebbero portato soltanto ad ulteriori disastri. Sadr credeva peraltro che l’ordine sociale dell’Occidente poggiasse su pilastri logori.
Sadr specificò tre componenti della proposta islamica: la fine delle varie forme di manifesta oppressione che si verificano nella ineguale distribuzione delle risorse economiche; la disciplina dell’istinto umano diretto all’accumulazione per uso personale, e l’utilizzo consapevole delle risorse del pianeta per soddisfare le svariate necessità di tutto il genere umano.
Come abbiamo già avuto modo di notare, il dare rappresenta un argomento centrale nel Corano, e l’Islam ha sviluppato regole precise per le oblazioni caritatevoli. Il tenere da parte una parte del proprio reddito per darla a chi è meno fortunato -richiesto ad ogni musulmano- ed il khums, il devolvere in opere di carità un quinto del proprio reddito come si vuole tra gli sciiti, servono sia a tutelare i più svantaggiati sia come deliberata azione di ridistribuzione che è altra cosa rispetto alle tasse propriamente dette. Si tratta di un qualcosa che ricorda come gli esseri umani non siano altro che gli affidatari del mondo materiale, che non è di loro proprietà ed al quale dovrebbero evitare di attaccarsi eccessivamente.
La ridistribuzione del reddito riflette anche l’ingiunzione coranica secondo la quale il denaro in economia dovrebbe circolare in senso verticale, piuttosto che in orizzontale su piani separati. La circolazione orizzontale del denaro tra persone ricche rischia di determinare un accumulo di risorse presso la élite commerciale, danneggiando tutti. Una considerazione simile a questa aveva spinto Lord Keynes, il principale economista dell’inizio del XX secolo, a suggerire qualcosa di simile indagando le cause della recessione economica. Pensò che quando la circolazione del denaro in una economia inizia a rallentare, facendo crescere la concentrazione della ricchezza detenuta da poche mani, questo porti i produttori di beni in condizioni di non poter percepire il reddito necessario ad acquistare altri beni. In termini keynesiani si assiste ad un calo della domanda, di cui la recessione sarebbe il risultato.
L’Islam possiede legislazioni complete e dettagliate in merito al diritto ereditario personale, e cerca anche di assicurare che le persone non accumulino sproporzionate quantità di ricchezza. Gli islamici riconoscono che l’ineguaglianza esiste, ma pensano anche che si debba tollerarla solo nella misura in cui da essa anche i meno favoriti possono trarre di che essere tutelati nel modo appropriato dalla società. Il concetto chiave è ancora una volta quello di coesione comunitaria, ed il progresso viene definito dal punto di vista della collettività nel suo insieme piuttosto che come il risultato dell’aggregarsi di bisogni egoistici individuali.


I punti deboli del sistema finanziario

La critica del sistema finanziario occidentale, invece, è più sviluppata. In breve gli islamici criticano il fatto che in Occidente si faciliti la creazione di nuovo denaro nel sistema bancario commerciale, conosciuto nel vocabolario economico come M3. Questa maggiorazione alla massa monetaria di una nazione è qualcosa che non ha nulla a che vedere né con una emissione vera e propria di denaro, né con l’aumento della massa monetaria disponibile in una certa nazione, stabilita dalla banca centrale su decisione governativa; operazioni del genere sono gestite dalle banche centrali.
La capacità di “creare” nuovo denaro, che va ad assommarsi alla disponibilità totale di denaro in una nazione, è il risultato dell’aver accettato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’esistenza di un sistema basato sulla riserva bancaria frazionaria al posto del vecchio sistema a base aurea.
Il sistema basato sulla riserva bancaria frazionaria alle banche che operano nel settore commerciale privato di prestare lo “stesso” denaro varie volte, garantendolo soltanto con una piccola riserva che rappresenta una frazione del totale dei nuovi prestiti erogati. Il poter prestare ripetutamente denaro per importi molto superiori al valore della effettiva raccolta ha permesso al settore bancario privato di inflazionare la massa di denaro circolante per creare nuova moneta. Teoricamente la cosa doveva essere regolata dalle banche centrali, ma, come si è rivelato fin troppo evidente nelle crisi finanziarie occidentali, in realtà si è tradotta in un’esplosione di liquidità di dimensioni inaudite, e nell’indebitamento di persone ed imprese. Lo stesso meccanismo ha anche stimolato la tendenza alla concentrazione del potere economico nelle mani di una ristretta élite.
Gli islamici pensano che per un po’ di tempo questa ingente iniezione di liquidità di tipo M3 abbia nutrito il boom dei consumi, ed abbia anche creato pericolosi squilibri nel sistema finanziario, tali da minacciarne la stabilità. Ritengono anche che una cultura fondata sul credito libero, sempre mandata avanti da una creazione esponenziale di M3, abbia condotto ad un indebitamento di massa che a sua volte porta allo sfruttamento ed alla costruzione di una rete moderna di impedimenti all’interno del sistema economico.
Scuramente è vero che il sovra indebitamento personale sta adesso minacciando la stabilità del sistema, e che sta anche facendo nascere nuove forme di “schiavitù”. Gli islamici illustrerebbero i meriti che avrebbe un ritorno ad un sistema finanziario basato su uno standard di qualche genere, come lo era in passato la base aurea, che metta dei limiti alla creazione di denaro operata dalle banche centrali e che impedisca di ricorrere alla riserva bancaria frazionaria.
La condanna islamica dell’interesse sui prestiti si riferisce tanto ai problemi strutturali che i tassi di interessi fissi causano ad un sistema economico quanto alla riprovazione per la pratica dell’usura. Con una struttura finanziaria dominata dal tasso di interesse fisso, ogni attività che raggiunge, ad esempio, un tasso di incremento sul capitale del quindici per cento, laddove i tassi di interesse possono trovarsi ad esempio al sette, secondo gli islamici potrebbe accedere a prestiti di milioni, o miliardi, piuttosto che ad una somma di modesto valore.
Questo concorrere di grosse masse di liquidità e di costo del denaro conveniente e a tasso fisso ha costituito il carburante che ha alimentato la debordante prosperità che ha fatto sì che attività economiche sempre meno numerose si concentrassero nelle mani di un gruppo sempre più ristretto.
L’obiezione che gli islamici portano a questo concentrarsi del potere commerciale e finanziario nelle mani di una ristretta e potente élite economica fa riferimento in primo luogo all’indebolimento delle imprese più piccole e dell’iniziativa individuale implicito nel dirigere il sistema economico affinché favorisca le grandi concentrazioni di potere, ed in secondo luogo all’impatto negativo ed improntato allo sfruttamento che le relazioni di potere che ne risultano vengono ad avere sui singoli individui.
L’effetto dei tassi fissi di interesse in un’economia moderna, secondo questa ottica, è essenzialmente quello di dirigere il sistema finanziario verso una pratica di grossi prestiti e di crescenti indebitamenti, a spese della piccola impresa. Le imprese veramente grandi si trovano in condizione di accedere a prestiti più alti, con i tassi fissi; e più grosso è il prestito, più facilmente e  più a buon mercato esso viene concesso. Questo incentiva le ditte che già sono grandi a sottoscrivere vistosi prestiti e a comprare le ditte più piccole. Anticipare piccole somme ad imprenditori alle prime armi è sia rischioso che costoso da monitorare, cosa che la rende un’attività poco appetibile.  Gli islamici invece si pronuncerebbero per un sistema di prestiti centrato su micro finanziamenti equi che permetterebbero a coloro che li erogano di ottenere un cointeresse nell’attività, della quale si assumerebbero anche i corrispondenti rischi.
Il concetto di base è che le piccole imprese in genere non hanno la capacità di pagare interessi ad inizio attività o quando le cose vanno male, e che gli erogatori di prestiti dovrebbero assumersi i rischi per quanto riguarda gli anni di durata del prestito, ed i benefici negli anni in cui l’attività va meglio. Il pagamento degli interessi in questo modo si basa essenzialmente sul beneficio dell’accumulazione di capitale, anziché sullo sviluppo personale e sulla possibilità di fornire garanzie.
I principi economici islamici costituiscono una critica pungente nei confronti della finanza occidentale, al commercio ed alle teorie sullo sviluppo. Il libero mercato ha sempre rappresentato per i musulmani un qualche cosa che si basa sul potere dello stato e che resta popolare soltanto fin quando il boom economico riesce a mascherare il suo più profondo impatto. Un impatto che è rappresentato dalla crescente sottomissione degli individui e della loro libertà alle relazioni di potere imposte da una piccola e sempre più dominante élite economica: qualcosa che comporta anche l’insicurezza economica per i singoli individui.


Da statico a dinamico

Nel 1972, quando tenne a Tehran le sue prime lezioni di islamistica, Ali Shariati descrisse l’ideologizzazione dell’Islam come qualcosa in grado di attivare le energie intellettuali e sociali che avrebbero risvegliato e mobilitato il popolo, e come qualcosa in grado di sfociare nella creazione di un movimento di liberazione. Questo processo, disse, avrebbe portato alla nascita di una entità dinamica,dotata di significato e rivolta ad obiettivi precisi, che si sarebbe rifatta soltanto a concetti religiosi, filosofici e letterari di utilizzo comune ai giorni d’oggi21. Shariati stava a tutti gli effetti sottolineando l’importanza di riassemblare in una maniera nuova i valori reperibili nei trascorsi culturali, perché facessero da sostegno ad un mutamento radicale dell’ordine delle cose presente.
Quando Shariati bacchettava l’ordine delle cose presente non si riferiva soltanto al laicismo; il suo era anche un attacco alle “religioni false ed istituzionalizzate, svuotate dal contenuto ideologico autentico della loro dottrina, sostituito da riti e rituali”22.
Questo pensiero rifletteva la convinzione di Shariati secondo la quale la natura autenticamente rivoluzionaria dell’Islam sciita era stata temperata e pacificata nel corso degli anni da religiosi in cerca di un accordo con il potere costituito.
Shariati ed il suo seguito di sostenitori volevano che la loro ideologia di liberazione dell’Islam non fosse soltanto una concezione del mondo, ma anche una filosofia della storia, un paradigma sociologico, una dottrina etica e, in definitiva, una missione sociale. Shariati stava in effetti ridefinendo ciò che era propriamente politico: l’obiettivo generale sul piano sociale e comportamentale che corrispondeva al pretendere la costruzione di una comunità improntata al senso di giustizia ridefiniva invece ciò che era propriamente sociale, non soltanto in termini di quella che poteva essere intesa come la mera fornitura di servizi migliori, ma come una vibrante esortazione alla rivoluzione23.
Questa ideologia doveva basarsi sul corpus di conoscenze già esistente nell’Islam ed al tempo stesso esserne pervasa. Il suo credo era rappresentato da una concezione del mondo inteso come società conforme a criteri di giustizia. Secondo Shariati questo comportava una ridefinizione dell’individuo, della società e della vita umana in tutti i suoi aspetti. Questo avrebbe fornito delle risposte a domande precise: “In che condizioni si trova l’uomo? Che cosa si può fare? In che condizioni dovrebbe trovarsi?”24 In altri termini, la sfera del comportamento sociale doveva diventare il veicolo per ridefinire l’individuo e per ricollegarlo ai valori culturali del passato che ne avrebbero soddisfatto le esigenze di oggi. Rifacendoci alla dicotomia di Platone, si trattava di un passo verso la ridefinizione della democrazia nei termini della città di Clinia, anziché in quelli del porto di Atene.
Nella sua lezione sul martirio, la prima in cui esprime il suo sostegno per una teoria rivoluzionaria, Shariati afferma che quando l’autorità, cieca nei confronti della giustizia vera, sottomette il popolo tramite la costrizione, il denaro, la paura e l’inganno, soltanto la scelta consapevole del martirio può rompere il silenzio ed esporre il governo alla vergogna25.
Shariati ed anche Sadr, dunque, mettono gli obiettivi della società in un ordine opposto a quello occidentale. Nelle società occidentali le politiche sociali sono state adottate allo scopo di moderare l’impatto del libero mercato nei confronti degli elementi più deboli della società. Ma nonostante i suoi sforzi in questo senso, la società democratica occidentale resta centrata sull’idea che sia la libera interazione di scelte personali, in un contesto relativamente libero da impedimenti, a portare ad un ordine naturale e a soddisfare al meglio gli interessi di tutta l’umanità. Lo fa sul piano economico, facendo incontrare domanda ed offerta attraverso i meccanismi del libero mercato. In altre parole, gli sforzi compiuti dai socialdemocratici per alleviare gli effetti più negativi dei meccanismi del mercato erano mossi da buone intenzioni, ma mal diretti perché la questione del comportamento umano non veniva neppure messa in discussione.
Shariati e Sadr, seppure da differenti punti di vista, affermavano che non si trattava di tutelare un po’ meglio di quanto già non si facesse coloro che rimanevano stritolati dal sistema. Affermavano che il tentativo socialdemocratico di riconciliare obiettivi sociali di un qualche genere ad un sistema economico basato sulla figura di un “attore razionale” intento a trarre il massimo profitto per la propria situazione rappresentava una riconciliazione destinata al fallimento. Le istanze islamiche in materia di comportamenti umani, che invocavano la giustizia e la libertà dalla dominazione, non erano riconciliabili con l’individualismo laico e con l’umana brama di possesso.
Il problema dunque non erano i meccanismi del mercato come tali, ma la natura umana. Cercare di tarare al meglio il funzionamento dei meccanismi del mercato non costituiva una risposta; a meno che una rivoluzione non avesse sostituito gli obiettivi del mercato con degli obiettivi etici, e sottomesso l’avidità umana ad un controllo di tipo morale, l’ingiustizia e la sopraffazione avrebbero continuato ad esistere.
Per Shariati l’unica via d’uscita consisteva in una insurrezione che toccasse i nervi scoperti del popolo iraniano, risvegliandolo per mezzo di un processo sociale e politico fatto di messaggio e di spada. I combattenti islamici per la libertà avrebbero combattuto “uno jihad sociale ed ideologico ed uno ijtehad scientifico e razionale”. Con il termine ijtehad, che propriamente indica la dottrina sciita del rinnovamento e della modernizzazione delle leggi facendo ricorso al ragionamento critico, Shariati stava pensando ad una rivoluzione rivolta al futuro, anche se la sua riscoperta identità culturale si rifaceva al passato islamico.
Molti in Occidente, musulmani compresi, troveranno questo approccio troppo combattivo e troppo dicotomico, e preferiranno rifarsi al miscuglio di libero mercato e di politiche socialdemocratiche che sussiste nelle società occidentali. In fondo, sostengono i critici, fin dagli anni Ottanta Gran Bretagna e Stati Uniti possono aver adottato politiche economiche neoliberali, sotto l’influenza della Nuova Destra; tuttavia altri paesi, come quelli scandinavi, hanno cercato di trovare una via di mezzo tra le politiche di promozione del libero mercato e quelle di promozione degli obiettivi sociali.
Il punto di vista di Baqir Sadr è che tentativi del genere rappresentano una falsa riconciliazione di due dinamiche, gli obiettivi politico-sociali come la giustizia da una parte, e l’equità e gli interessi personali dall’altra, che in realtà vanno in direzioni opposte. Alla base di questa tensione non ci sono i meccanismi del mercato, ma la stessa natura umana, l’amore egotistico istintivo che porta l’uomo ad assicurare la sopravvivenza solo a se stesso. Un istinto del genere è normale, serve alla sopravvivenza. Quando però viene lasciato libero di agire senza alcun controllo di tipo morale, presto o tardi l’accumulo di risorse economiche si trasforma in varie forme di relazioni di potere economico e politico che portano allo sfruttamento ed alla sopraffazione. Non c’è bisogno di abolire la proprietà privata, o i meccanismi del mercato: si devono invece cambiare i valori sociali correlati al possesso della ricchezza ed alla proprietà privata.
L’unico modo di allentare questa tensione consiste nel far sì che gli uomini si comportino gli uni verso gli altri secondo giustizia, compassione e rispetto: non perché sono costretti a farlo, ma perché sono sinceramente convinti che in ultima analisi comportarsi in questo modo sia davvero nell’interesse dell’uomo stesso.  Ecco per quale motivo l’Islam rappresenta un elemento essenziale per risolvere la contraddizione inerente i rapporti tra sociale e privato, afferma Sadr.


La mancanza di affinità tra libero mercato e democrazia

In Europa il problema del conciliare l’uno con l’altra è ben noto. Dopo gli iniziali successi negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, il tentativo europeo di riconciliare economia di mercato e forma democratica di governo ha cominciato a regredire. La socialdemocrazia continua ad esistere, ma i governi di questo orientamento non hanno sulla vita economica quella incisività di azione che riuscivano ad esercitare negli anni del dopoguerra.
Libero mercato e democrazia sono due attori in competizione tra di loro, piuttosto che due partner. Paradossalmente, l’ascesa della Nuova Destra ha eroso e pesantemente danneggiato quella stessa democrazia nel cui nome affermava di agire. In Inghilterra il Primo Ministro Tatcher ha perseguito politiche che hanno indebolito le garanzie sociali e le forme di autogoverno che esistevano negli ordini professionali ed in altre istituzioni. Introdusse il concetto di mercato, o concetti analoghi ad esso, come “strumenti di controllo” in tutti i campi di azione del governo, agevolando in questo modo la dissoluzione degli ultimi resti dell’ordine sociale che avevano aiutato la società civile a reggersi nel corso del XIX secolo26.
La Nuova Destra ha diffuso un’etica individualista centrata sulla responsabilità personale, ma al tempo stesso ha propugnato tipi di struttura capitalistica estremi, ampiamente dipendenti dalla liberalizzazione del denaro e da un ampio utilizzo del credito. In questo mondo neoliberale le virtù puritane originarie di Calvino, fatte di risparmio e di progettazione del futuro, non diventavano solo degli orpelli fastidiosi ma venivano intese come vere e proprie pastoie per la crescita dei consumi. Questo si è concretizzato nella proposta di un simulacro di “vita brillante” tagliato a misura sulla mobilità continua permessa dagli scatti di carriera tipici del capitalismo moderno. Al tempo stesso, ha anche definito quella che è stata definita l’era della post politica. “Non esiste nulla di simile ad una società”, affermò una volta la signora Tatcher. “Esistono solo gli individui”. “Ah, e le loro famiglie, ovviamente”. Con quest’ultima frase aggiunta quasi come se fosse frutto di un ripensamento. Era la volta della “politica brillante”: un mondo in cui ogni cosa è permessa, purché sia possibile presentarla come piacere individuale, in un universo dominato dalla libertà di scelta.
Con questo si era giunti davvero ad una ricomposizione, ma era una ricomposizione tra una élite sempre più ricca e potente ed il rimanente del popolo, ottenuta fabbricando con lo stampo individui in cui veniva inculcato un falso senso di giustizia sociale che avrebbe dovuto provenire dalla “armonia” dei piaceri privati soddisfatti in un clima in cui dominava un edonismo pacificato. Non era una composizione tra sociale e privato: per qualcosa di simile pare non esserci più spazio, dopo che la competizione tra economia di mercato e democrazia si è risolta in una netta vittoria dell’economia di mercato proprio in quest’ultima fase.
Le lezioni di Shariati ai giovani di Tehran, e le riflessioni di Sadr, hanno segnato con chiarezza una rottura fondamentale con il passato e con il pensiero sciita risalente ad un’epoca in cui le questioni che riguardavano questo mondo e le questioni che riguardavano l’altro erano tenute separate. Fino a quel momento la tradizione sciita era fatta di cerimonie che erano essenzialmente delle espressioni di lutto in cui le vite degli imam erano narrate da un religioso o da un altro personaggio devoto, che mischiavano dolore ed empatia per le sofferenze terrene che essi avevano sperimentato indicandole come prezzo per la loro beatitudine eterna nell’aldilà.
Il ruolo della religione era quello di guidare il credente sulla corretta via per l’aldilà, piuttosto che provvedere alcunché per le circostanze immediate e terrene. Suggerire che l’Islam avesse una dimensione sociale, che dovesse provvedere al benessere dei fedeli, poteva suonare come un grido che levasse il popolo all’insurrezione e  molti appartenenti allo establishment religioso, attenti a far sì che il loro Islam non venisse inteso in senso liberale, democratico o socialista da nessuno, lo percepirono come qualcosa di oltraggioso.
Gli studenti e gli attivisti, comunque, volevano soltanto gridare a gran voce la valenza sociale della loro rivoluzione e fare in modo che il popolo li seguisse. Shariati credeva che fare nuovamente dell’Islam qualche cosa di vivo fosse possibile soltanto se si convincevano le persone che la soluzione ai loro bisogni materiali quotidiani ed ai loro problemi poteva venire anche dalla religione. Se si poteva arrivare a far questo, speravano gli attivisti, l’Islam avrebbe potuto essere trasformato in un’ideologia capace di fornire soluzioni reali ai problemi della vita concreta. Questa concezione dell’Islam come ideologia socialmente rivoluzionaria è diventata la chiave di volta dell’attivismo politico che si richiama all’Islam sciita ed ha un’influenza pervasiva e spesso sottovalutata, nonostante l’esperimento iraniano sia stato macchiato dal sangue di una guerra contro l’Iraq e da quello della reazione interna al paese.
Sia Shariati che suo padre prima di lui, Mohammed Taki, si consideravano alle prese con i marxisti in un’epica battaglia. Mohammed Baqir Sadr fece proprio questo atteggiamento, e scrisse le sue opere principali come dirette confutazioni del marxismo. Questo però richiese a tutti loro di familiarizzare con la dottrina marxista. Questa confidenza porto Shariati ad una conclusione inattesa: il marxismo non costituiva affatto quella minaccia inesorabile contro l’Islam che molti percepivano; lo studio del marxismo che Shariati aveva portato avanti per proprio conto lo aveva al contrario convinto che l’Islam possedesse già al suo interno le soluzioni a tutti i problemi sociali, politici ed economici che i musulmani dovevano affrontare nel mondo contemporaneo, e che si trattava soltanto di farle emergere dagli strati di polvere che le avevano ricoperte.
Allo stesso modo dello establishment religioso, anche i marxisti si sentirono oltraggiati dalle lezioni di Shariati, anche se per motivi differenti. I marxisti consideravano l’opera degli studenti islamici e degli attivisti, al tempo delle sollevazioni per rovesciare lo Shah, come un tentativo di “islamizzare” la loro concezione marxista. A tutt’oggi le relazioni tra la sinistra laica ed il movimento islamico sono rese amare dal fatto che gli islamici si siano permessi di fare proprio il concetto di rivoluzione sociale.
I marxisti compresero comunque il potenziale rivoluzionario di quello che gli attivisti iraniani stavano tentando di fare: gli islamici avevano impugnato una spada per colpire le politiche sociali, considerandola uno strumento per trasformare le relazioni sociali all’interno di uno stato nazionale.
Shariati e i suoi volevano afferrare e ridefinire la sfera del sociale come il terreno in cui l’Islam doveva dispiegarsi, piuttosto che come il contesto in cui avrebbero dovuto trovare applicazione i servizi di previdenza concessi da uno stato nazionale di tipo occidentale sensibile al problema. Speravano dunque di trasformare l’Islam in un’idea internazionalista, capace di fornire soluzioni per tutti i popoli oppressi in entrambi i campi del benessere materiale e delle necessità metafisiche.
Gli slogan degli studenti iraniani sfidarono il significato tradizionale attribuiti a determinati eventi e la narrativa di certe vicende, e dettero di essi una nuova interpretazione che ne enfatizzava il significato politico e sociale. La loro lettura degli eventi sottolineava il potenziale di radicale cambiamento politico ad essi intrinseco: “Dobbiamo entrare in azione: pregare come Zeynab e resistere all’ingiustizia come l’imam Hussein”. Così Shariati parlava agli studenti, mentre condannava al tempo stesso, come ipocrita ed ingannatrice, una religione pietrificata che considerava pacificatrice, depoliticizzata e centrata sui rituali.


La giustizia: superare l’umana fallibilità

Un elemento fondamentale per realizzare una società organizzata secondo giustizia era quello di fare in modo che la legge non costituisse più, come pensavano gli islamici, il terreno d’azione di nozioni ed interessi umani ed ondivaghi. Per questo si doveva orientarne il campo in modo che fosse il più vicino possibile alle richieste che Dio avanza in materia di comportamento umano; si doveva riaffermare la validità della legge islamica. Khomeini, avendo statuito che la legge è la base della giustizia, pensò che una volta che il popolo avesse consolidato la propria rivoluzione ci sarebbe stato ancora bisogno di interventi attivi, di un’azione affermativa, secondo quella che oggi è la terminologia corrente. La giustizia sociale, sosteneva Khomeini, deve informare di sé il carattere e la natura del governo; le politiche governative devono dunque essere al servizio della giustizia sociale, piuttosto che le sue padrone.
Adottando queste posizioni in materia di politiche governative, Khomeini stava a tutti gli effetti reinterpretando il loro ruolo all’interno dello stato nazione in un modo nuovo: il governo non doveva essere il braccio che agiva a tutela degli interessi di una élite potente, facendo al tempo stesso finta che gli interessi di quest’ultima coincidessero con la volontà collettiva di individui sovrani e ne fossero fedelmente rappresentativi. Le politiche governative dovevano diventare il catalizzatore lo strumento per innescare e promuovere un mutamento comportamentale di massa, allo scopo di condurre alla costruzione di una società organizzata secondo criteri di giustizia. Le politiche governative venivano quindi interpretate come un tentativo di recuperare l’azione di governo affinché servisse gli interessi di tutti gli uomini.
L’esperienza liberatoria rappresentata per gli iraniani dell’epoca contemporanea  dalla promessa che avrebbero rivissuto l’eccitazione e l’atmosfera dell’era del Profeta, un tempo in cui l’esperienza religiosa aveva la precedenza sulle questioni di mera obbedienza alle leggi codificate, fece pensare che la Shari’a non venisse considerata dagli iraniani come il costrittivo ed angusto retaggio del passato che essa rappresenta in Occidente: “Il governo islamico promise cambiamenti di rottura nei campi dell’identità personale, dell’economia, della società e della politica, che per gli iraniani significavano il poter diventare padroni del proprio destino”27.
L’Islam sciita poté avanzare una prospettiva di continua ed attiva creazione di un ordine politico grazie al fatto che contemplava la possibilità dell’aggiornamento delle leggi tramite l’uso del ragionamento. Ma anche, cosa più importante, perché aveva dalla sua la prospettiva di un rinnovamento radicale e di rivelazioni sempre nuove grazie all’imamato. La volontà di rifarsi a soluzioni derivate dall’uso dell’intuizione a fronte di quelle derivate dal ragionamento deduttivo e sillogistico permise ai leader islamici di sfuggire alla condizione in cui si ritrova chi vive prigioniero del passato e dei precedenti passati.
Quello di leadership intrinseco all’imamato costituiva un approccio estremamente dinamico ed innovativo. Shariati pensò che l’attrattiva che l’Islam aveva per la gente poggiasse tanto sulla prospettiva dell’imamato inteso come una leadership rivoluzionaria quanto sulla sua brama di giustizia28.
Anche Khomeini, come abbiamo già visto, era convinto che la rivoluzione avrebbe avuto bisogno di una forte guida rivoluzionaria che potesse contare su quelle risorse in materia di rivelazioni che avevano reso così innovativa l’istituzione dell’imamato. E’ probabile che il suo intento di proteggere la rivoluzione e di farla procedere abbia avuto parte importante nella sua difesa del wilayat-i-fiqh. Quando fu lui a ricoprirne la carica, il popolo lo onorò alla fine con il titolo di Imam.
Anche se l’Iran, per una serie di complicate ragioni, ha perso qualcuna delle sue capacità di innovazione, la capacità di agire in modo innovativo si può vedere con chiarezza al giorno d’oggi esibita nel pensiero creativo ed innovatore espresso dai vertici di Hezbollah. La Rivoluzione Iraniana aveva realmente ridefinito l’Islam come un’entità dinamica e rivolta al futuro, capace di affrontare i cambiamenti; Khomeini estese queste caratteristiche anche alla forma di governo, che concepì non come regolatore passivo, ma come partecipante attivo alla lotta per la trasformazione della società.
Cercando di suscitare la capacità del corpo sociale di resistere ai traumi ed infondendo in esso energia, Khomeini suggerì l’idea che una mente passiva e soggiogata potesse essere sostituita da “una mente indipendente”; questo però non sarebbe successo se le persone fossero rimaste rinchiuse nel loro fatalismo, se si fossero “accontentate dicendo che così voleva Iddio”. Invece, Khomeini andava dicendo loro: “Siete voi a dovere agire!” L’invocazione di “una mente indipendente” riecheggia l’opinione dei critici teorici secondo la quale la fine dell’oscurantismo nella società potesse verificarsi solo passando dall’attività della ragione umana, ed attraverso il pensiero critico. La Scuola di Francoforte sosteneva che soltanto permettendo lo sviluppo di mentalità razionali ed indipendenti una comunità può identificare gli aspetti innovatori, e capaci di infondere energia, insiti nella società moderna, e differenziarsi da comunità dominate dall’irrazionalità e dall’arretratezza.
Sunniti e sciiti fanno entrambi riferimento alla prima comunità musulmana alla Mecca. Quando il Profeta Muhammad decise, nel 622, di allontanarsi insieme alla piccola comunità di credenti dal clima ostile e persecutorio della Mecca cercando rifugio a Medina, fu seguito da coloro che avevano deciso di unirsi a lui. Abbandonarono ogni bene terreno in cambio della sottomissione (“Islam”) a Dio e al suo messaggero. Rinunciarono alla loro condizione sociale privilegiata, alla loro affiliazione tribale, alla loro casa e ai loro possedimenti, e furono accolti dai neoconvertiti di Medina, che offrirono a quanti provenivano dalla Mecca una parte di tutti i loro beni.
Ecco in cosa consiste la risposta islamica all’enfasi posta dai calvinisti e dai protestanti sulla storia di Abramo e del suo andare incontro ai cambiamenti. Come abbiamo visto, è stata la reinterpretazione delle vicende di Abramo, cui molti occidentali fanno riferimento come ad un punto di svolta, che ha trasformato l’Occidente in una società “dinamica” ed “aperta”, intesa come contrapposta ad una società chiusa in cui una religione cristallizzata mantiene gli appartenenti incatenati ai suoi precetti ed alle sue tradizioni. Shariati ed i giovani studenti usarono la metafora del profeta e del suo viaggio di metamorfosi tra Mecca e Medina come esempio del fatto che anche i musulmani si trovavano nella necessità di dover affrontare un cambiamento. E questo cambiamento era esemplificato dal viaggiare da una Mecca immobilizzata da un modo desueto di pensare, ad una Medina in cui la comunità islamica sarebbe fiorita ed avrebbe prosperato.
Gli islamici guardano all’atto di lasciare la Mecca compiuto da Muhammad come ad un momento di trasformazione caratterizzato dall’accettazione incondizionata del cambiamento e dalla sottomissione alla volontà divina. A differenza di quanto avviene per la narrazione cristiana, questo atto di sottomissione non comporta la salvezza di per sé: alla salvezza si giunge ancora vivendo e comportandosi come una comunità che ha rotto con i vecchi schemi di comportamento. Si giunge alla salvezza vivendo nel modo che Dio ha richiesto.
Abbiamo sostenuto qui che l’economia occidentale, che si presenta come laica ed universale, non è in realtà né l’una né l’altra cosa. Le idee che vi stanno dietro riflettono alcuni degli istinti più profondi del cristianesimo. Abbiamo anche sostenuto che queste due concezioni non sono rigidamente in competizione tra loro sul piano delle teorie economiche, ma che sono inconciliabili dal punto di vista delle concezioni diametralmente opposte che presentano circa l’”essenza dell’uomo”. Questi diversi approcci fanno sì che gli islamici considerino il paradigma dello stato-nazione in modo completamente diverso da come esso viene visto in Occidente.
Abbiamo cercato di illustrare qui l’allontanarsi dell’Islam da un atteggiamento statico e passivo, alla volta del recupero dell’etica rivoluzionaria che lo contraddistingueva agli inizi. Nel precedente capitolo avevamo esplorato l’evoluzione di una ideologia politica. In questo, abbiamo cercato di mostrare in che modo quella ideologia politica, e di conseguenza tutte le istituzioni governative e statali, vengono intese come collaboratori nella lotta per la rivoluzione sociale, ed ascritte ad essa. Siamo convinti che questo abbia costituito un ripensamento radicale dell’intera sfera sociale. Il prossimo capitolo prende in esame in che modo queste diverse prospettive hanno influito sul modo in cui gli islamici concepiscono lo stato-nazione.

1 Thomas Macaulay, The History of England, London: Penguin Books, 1986 [1880], p. 51.
2 Ibid., p. 52.
3 Walter Russell Mead, God and Gold: Britain, America and the Making of the Modern World, New York: Random House, 2007, p. 306.
4 Ibid., p. 15.
5 Ibid., p. 52.
6 Reginald Horsman, Race and Manifest Destiny: The Origins of American Anglo-Saxonism, Cambridge, MA: Harvard University Press, 1981, p. 22.
7 Ibid., p. 292.
8 Walter Russell Mead, God and Gold, p. 299.
9 John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London: Allen Lane, 2007, p. 86.
10 Ibid., pp. 86–87.
11 John Gray, False Dawn: The Delusions of Global Capitalism, London: Granta, 2002, p. 213.
12 John Gray, Black Mass, p. 106.
13 Ibid., p. 147.
14 Johann Herder, Philosophical Writings, ed. Michael Forster, Cambridge: Cambridge University Press, 2002, pp. 380–82; cit. in Walter Russell Mead, God and Gold, p. 377.
15 John Gray, Black Mass, p. 147.
16 Corano, 80:11.
17 Ibid., 76:8
18 Ibid., 9:103
19 Ibid., 59:7
20 Michael Bonner, Jihad in Islamic History: Doctrines and Practice, Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006, pp. 28–29.
21 Ali Rahnema, An Islamic Utopian: A Political Biography of Ali Shariati, London: I.B. Tauris, 2000, p. 288.
22 Ibid., p. 285.
23 Ibid., p. 289.
24 Ibid., pp. 288–89.
25 Ibid., p. 279.
26 John Gray, False Dawn, p. 35.
27 ‘Iran: The Spirit of a World without Spirit’, intervista di Claire Briere e Pierre Blanchet, in, Politics, Philosophy and Culture, Interviews and Other Writings 1977–1984, trad. Alan Sheridan, ed. Lawrence Kritzman, New York: Routledge, 1990.
28 Ali Rahnema, An Islamic Utopian, p. 286.

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