giovedì 16 agosto 2012

Alastair Crooke - Resistenza. Aspetti essenziali della Rivoluzione Islamica - Parte IV, Capitolo 9 - La natura del potere


Il pensiero della Scuola di Chicago: un'applicazione pratica. (Vignetta di Carlos Latuff, 2004)

- Hai parlato ai capi di Hezbollah?
- Sì.
- E anche con Hamas?
- Sì.
- E hanno detto che volevano la democrazia?
- Sì.
- E tu gli hai creduto?
Questo scambio di battute ci è capitato durante una discussione con un individuo appartenente ad un rispettato think tank specializzato in politica estera e basato a Washington.
Il mordace scetticismo di queste parole era deliberato, pernicioso e in nessun modo inusuale: tali espressioni di dubbio vengono usate per sottolineare quanto sia pazzescamente ingenuo credere a quello che gli islamici dicono.
Esso sta a significare il convincimento ideologico che gli islamici non abbiano “nulla da dire” e che quando dicono qualche cosa si tratti o di farfugliamenti o di inganni.
Questa deliberata manipolazione viene giustificata portando a pretesto il fatto che il linguaggio degli islamici è oscuro, impenetrabile e codificato, laddove quello dell’Occidente è trasparente, accessibile e schietto. Quando gli occidentali dicono che sostengono la democrazia, la cosa è vera; quando la stessa cosa la dicono gli islamici, sono dei bugiardi.
In separata sede, un leader di Hamas così restituì la pariglia: “Questo atteggiamento porta a concludere che se ogni volta che noi diciamo che siamo per la democrazia l’Occidente risponde che stiamo mentendo, allora quando l’Occidente dice di star promuovendo la democrazia dovremo tener conto del fatto che il significato dell’espressione è tutt’altro”.
L’idea che le culture non occidentali siano istintive, introverse ed etnocentriche ha una lunga storia nel pensiero colonialista europeo. Come abbiamo già visto, le grandi potenze europee hanno deliberatamente provato ad infrangere l’unità del popolo arabo quando hanno tracciato le nuove frontiere durante gli anni Venti del secolo scorso. Le grandi potenze temevano il sorgere di un qualunque sentire panarabo basato sull’Islam che minacciasse i loro interessi nella regione.
Per prevenire questo fatto il fattore etnico, un’etnicità a volte inventata, è stato utilizzato per definire il nucleo di una famiglia nazionale unitaria, e mettendo i gruppi etnici in contrasto gli uni con gli altri per facilitare la laicizzazione della società. I nazionalismi etnici sono stati messi in competizione con la umma transnazionale. Le potenze coloniali hanno tentato di dividere il mondo arabo e musulmano in enclave etniche le cui frontiere sono state tracciate in modo arbitrario e a volte idiota, come se a stabilirle fossero stati dei funzionari imperiali che giocherellavano con le matite su una mappa della regione. Il “nazionalismo stabilito per decreto” rappresentò fin dall’inizio una politica consapevolmente diretta alla protezione dello status quo, intimamente collegata alla conservazione di interessi imperiali e dinastici.
Nelle sue colonie nordafricane la Francia stabilì una distinzione in termini di legge tra berbero ed arabo. Governando i berberi secondo una legge consuetudinaria e gli arabi con una legge religiosa, trasformarono berberi ed arabi in due entità mutualmente escludentesi. Ai giorni d’oggi l’essere o meno berbero, nonché la percentuale della popolazione del Marocco che è adesso berbera, è una questione di carattere profondamente politico, foriera di altrettanto profonde divisioni. Prima che la Francia imponesse i suoi criteri etnici, non lo era affatto.
Dal momento che rendeva il fattore etnico una caratteristica sulla quale si definiva questo nuovo mondo di nazioni arabe, negli Stati Uniti l’etnocentricità spinta che le potenze occidentali avevano promosso iniziò ad essere considerata essa stessa una minaccia ai valori americani da parte di alcuni conservatori, secondo i quali questa era la conseguenza di un “liberalismo” occidentale mal diretto.
Allan Bloom, nel suo The Closing of the American Mind, che è una critica del sistema universitario statunitense scritta come risposta all’inquietudine percepita dai conservatori per la “mancanza di patriottismo” dimostrata dai giovani durante la guerra in Vietnam, scrisse che questa mancata disponibilità a combattere per il loro paese mostrava che i valori occidentali stavano perdendo terreno tra i giovani americani. Le università stavano sminuendo il valore del contributo dato dal pensiero occidentale.
Questo fenomeno erosivo sarebbe stato essenzialmente il risultato di un mal inteso multiculturalismo, diffuso nelle università: questo multiculturalismo aveva lo scopo di costringere gli studenti a riconoscere l’esistenza di altri modi di pensare. “Ma se gli studenti avessero davvero bisogno di sapere qualche cosa della mentalità di queste culture non occidentali, cosa che non è affatto vera, troverebbero che ciascuna di queste culture è per proprio conto una cultura etnocentrica”, scrisse Bloom1.
L’idea che le culture non occidentali siano istintive, chiuse ed etnocentriche è profondamente radicata nello stesso retaggio greco antico che ci ha dato Platone ed Aristotele. Dai greci ci viene infatti anche la parola barbaro, perché i popoli incivili delle loro coste venivano considerati gente che balbettava, che parlava linguaggi incomprensibili, che letteralmente “babbava” o era balbuziente, e così non riusciva a farsi capire.
I greci, anticipando il “nuovo orientalismo” occidentale, fecero presto un uso politico della cosa, accusando i loro nemici persiano di rifiutare i valori promossi dalla città stato, in cui i cittadini potevano vivere liberi in pace ed in sicurezza, laddove i persiani vivevano come schiavi di un tiranno: erano loro i barbari che vivevano fuori dei confini della civiltà.
L’incapacità degli americani di considerare le altre culture come qualcosa di diverso da istinti legati alla tradizione o ai legami tribali che immobilizzano i non europei nelle loro società cristallizzzate è stata rimessa in circolo da Popper, che ne ha realizzata una versione al passo coi tempi. Poi, versioni semplificate di questa narrativa sono entrate nell’uso corrente dei circoli politici occidentali, e sono stati fatti propri da molti pubblici ufficiali statunitensi in modo quasi inconscio. Sulla base di queste credenze essi vedono il discorso islamico prigioniero di una cultura arretrata, privo di sostanza o di significato nel mondo moderno e laico. Ascoltarlo non è necessario, basta “capire”, facendo riferimento a Popper, che società come questa hanno una sola ambizione, quella di porre un freno alle libertà delle società “aperte”.
Quando ad un addetto del settore antiterrorismo dell’FBI statunitense è stato chiesto cosa pensasse di quello che si vedeva in un video di Al Qaeda, ha risposto con un’alzata di spalle: “è sempre la solita rigmarole [tiritera] jihadista”. Il vocabolo rigmarole è gergale; è stato usato per la prima volta verso la fine degli anni Settanta del XVIII secolo e deriva da ragman roll, il nome di un gioco di bambini pieno di parole incomprensibili. Quello che Ayman Zawahiri stava dicendo in quel video non aveva alcuna importanza: era un barbaro, stava emettendo soltanto un balbettio.
La certezza che il linguaggio islamico sia privo di qualsiasi contenuto è arrivata al punto che perfino le più fondamentali delle caratteristiche dell’Islam vengono ritenute cose di poco significato reale. Nel 2006, quando l’inviato del New York Times Jeff Stein chiese ad un certo numero di ufficiali superiori statunitensi e di membri del Congresso direttamente coinvolti in attività antiterrorismo o di politica mediorientale se conoscevano la differenza tra un sunnita ed uno sciita, nessuno è stato neppure in grado di abbozzare una risposta2.
Facendo riferimento ad un caso in cui l’imbarazzato capo della sezione antiterrorismo dell’FBI non si era dimostrato in grado di rispondere a poche elementari domande sull’Islam, l’inviato aggiunse che il più alto in grado tra gli ufficiali dell’FBI che si occupavano di questioni musulmane si era limitato a spazzare sotto il tappeto le proprie manchevolezze sostenendo che questi dettagli avevano poca importanza, rispetto a quant ne aveva il fatto che possedeva le qualità per essere un buon manager.
Invece il capo del settore sicurezza dello FBI, il vicepresidente del sottocomitato dell’intelligence della Casa Bianca e quello del sottocomitato che sovrintende alle attività della CIA si sono tutti detti d’accordo che sarebbe in sé una cosa positiva il conoscere la differenza tra sunniti e sciiti, ma hanno anche ammesso che non avevano idea di cosa li differenziasse, ed hanno avuto anche qualche difficoltà a decidere se l’Iran o Hezbollah fossero sciiti o sunniti.
Questa mancanza di conoscenza si accompagnava alla forte convinzione, tutta americana, che non fosse necessario capire e conoscere nei particolari le società da cui provengono i musulmani, perché si è fatta strada l’idea che fosse più importante saperne di più sull’assetto del loro governo, se fosse più vicino alla tirannia o al modello della società libera. Una dicotomia del genere era ritenuta una guida più affidabile del conoscere le tradizioni e la mentalità tipiche di un certo corpo sociale.
Impegnarsi in questo senso non è considerata attività meritoria presso i conservatori americani perché sarebbe un riflesso del fallimenti “liberal” di cercare di capire gli “altri”, mentre i conservatori come Leo Strauss credevano che gli esseri umani fossero, in una maniera particolarmente cogente, definiti e plasmati dal sistema politico nel quale si trovavano a vivere. Era dunque sufficiente conoscere le sue caratteristiche in termini di “aperto” o “chiuso”, “limpido” o “ingannevole” per comprendere il singolo musulmano con cui il singolo pubblico ufficiale aveva volta per volta a che fare.
Oltre a questo, c’era anche la convinzione molto diffusa in Occidente secondo cui gli islamici parlerebbero sempre in maniera ingannatrice e che tentano di ingannare gli occidentali circa le loro vere intenzioni, comunemente ritenute dirette alla distruzione dell’Occidente qualunque cosa essi possano dire.


Convinti di un inganno

L’abituale assunto secondo il quale si tratterebbe di inganni deriva anch’esso dalla classicità, e più in particolare da una reinterpretazione del pensiero di Platone che ha visto un ritorno di popolarità negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, avanzata da pensatori utilitaristi come Allan Bloom o Leo Strauss. I barbari stanno fuori dalle frontiere della civiltà greca, ma Platone ha sostenuto che era nella natura stessa dell’azione politica come viene intesa tra città stato in competizione tra di loro il cercare di indebolire e di distruggere ciascuno i propri rivali. Platone scrisse che usare sotterfugi ed ingannare i rivali circa le propria intenzione di adoperarsi per la loro rovina rappresentava un prerequisito ineludibile di questa politica.
Se dunque le città stato mascherano sempre le loro reali motivazioni, e se la loro inclinazione naturale è quella di cospirare contro i loro nemici, allora è poco quello che i leader politici rivali affermano circa le loro intenzioni che deve emergere con chiarezza. Nel caso dei barbari persiani dominati da un tiranno emerge con chiarezza non poco, ma nulla addirittura. Ecco cosa si desume dalle conclusioni di Platone.
Nel capitolo precedente abbiamo illustrato come l’Occidente abbia alzato il livello di questa “guerra del linguaggio”, facendola diventare qualcosa di ancora più sinistro rispetto alle connotazioni di carattere retorico sulla natura arretrata di una cultura chiusa. Un simile utilizzo del linguaggio rappresenta un’operazione ideologica deliberata, fatta per trarre vantaggio dal paradigma di Popper. Il linguaggio diventa qualcosa che definisce, come Popper, la civiltà nei meri termini della “società aperta”, espressione che viene a sua volta usata come sinonimo di american way of life, e va addirittura oltre statuendo una guerra esistenziale tra la “civiltà” ed il nuovo “nemico” barbaro.
Lo scopo di questo linguaggio non era soltanto quello di escludere la possibilità di cercare una spiegazione razionale o storica per la resistenza, e quello di porre gli islamici al di fuori dei limiti della civiltà, laddove si considera che le leggi e le convenzioni internazionali non abbiano più corso. Era anche quello di trarre i maggiori vantaggi possibile dalla demonizzazione di un nemico.
Dietro il linguaggio c’è il proposito, tutto ideologico, di trasformare la “guerra al terrore” in una “opportunità”, in quello che Naomi Klein ha identificato in The Shock Doctrine come una variante specifica del “capitalismo dei disastri”. Naomi Klein utilizza il concetto di “capitalismo dei disastri” per descrivere il pensiero che considera i disastri, naturali o causati dall’uomo che siano, come opportunità economiche per acquisire posizioni, per privatizzare e per ristrutturare l’economia a tutto vantaggio della ditta America.
Entro certi limiti, sostiene la Klein, non importa quale sia la causa di un disastro, se sia naturale o se sia causato da un’azione militare; quello che importa è che si verifichino cose del genere, affinché l’agenda neoliberale possa procedere sfruttando lo shock e il disorientamento che essi causano per un certo tempo.  La Klein illustra questo concetto con una retrospettiva di oltre trent’anni3.
John Gray ha notato che il neoliberalismo americano è un’ideologia nata a sinistra. Pensa che sia troppo semplice considerare i neoliberali come soggetti che riformulano le teorie di Trotzky in termini di destra, e pensa invece che l’idea trotzkista di rivoluzione permanente secondo cui la società così com’è sarebbe irredimibile e dovrebbe essere distrutta perché un nuovo mondo possa sorgere sia stata riproposta tale e quale dai conservatori neoliberali americani:
Una sorta di ottimismo catastrofico, che anima molto del pensiero di Trotzky, sostiene le politiche neoconservatrici in materia di democrazia da esportazione. Entrambi condividono l’idea che si debbano distruggere le istituzioni esistenti per arrivare ad un cambiamento. Entrambi appoggiano l’uso della violenza a condizioni che porti ad un progresso, ed entrambi insistono sul fatto che la rivoluzione deve essere mondiale4.
L’utilizzo del linguaggio che fa capo al “nuovo orientalismo” ha dunque molteplici scopi. Esso costituisce un potente strumento per indebolire e corrodere il senso di identità degli islamici: serve a dipingerli come tanto estremisti, tanto irrazionali e tanto profondamente antitetici all’Occidente che nessuno abbia voglia di identificarsi con loro o anche solo di incontrarli. Ma la guerra al terrore è stata anche concepita come l’opportunità per estendere gli interessi americani e per installare fantocci occidentali come leader in aree strategiche del mondo. Escludere gli islamici dal novero delle popolazioni civilizzate era necessario per permettere all’amministrazione di George Bush di trarre più vantaggi possibile dalla cosiddetta “guerra al terrore”.


Una inquisizione dei nostri giorni

Qui non stiamo parlando del linguaggio come mezzo di mediazione e di composizione dei conflitti, e neppure come mezzo per conoscere meglio gli altri. Cose del genere sono possibile soltanto quando ciascuna delle parti ha accesso ad un minimo di riconoscimento e di rispetto da parte dell’altra. In questo caso, invece, il linguaggio viene utilizzato deliberatamente per fraintendere, riducendo la multiformità dell’Islam ad una sola cosa, al terrorismo.
Il linguaggio incasella l’Islam in un significato univoco completamente alieno alla sua natura. In questo contesto, è il linguaggio stesso a costituire una sorta di violenta estrazione di un solo elemento, rappresentato dalla violenza, per mascherare il più ampio significato ed il ricco retaggio di pensiero che dell’Islam sono propri.
Questa operazione ideologica è stata condotta con successo perché ha concentrato l’attenzione sulla violenza, su ogni violenza, andando a nutrire il sentimento predominante nella popolazione occidentale secondo cui “ogni violenza è malvagia”. La tenuta della cosa dipende dalla capacità degli occidentali di addomesticare la portata della violenza occidentale e di ritenerla normale in quanto naturale processo di istituzioni statali che stanno facendo al meglio il compito cui sono preposte. In breve, la violenza occidentale viene legittimata al punto di non essere considerata violenza (ad esempio, le sistematiche azioni militari israeliane contro i palestinesi sono considerate legittime perché messe in atto da un esercito, e perché vengono considerate necessarie alla difesa) mentre la resistenza palestinese è considerata terrorismo e come tale delegittimata.
La strategia ha avuto successo anche perché un dialogo poche volte è perfettamente egualitario, ammesso che mai lo sia. Il dialogo riflette le relazioni di potere e risente del fatto che il più potente, o chiunque altro controlli di più i mass media, possa imporre all’altro un “significato principale”. La parte più debole non ha modo di obiettare razionalmente a questa imposizione -in questo caso il “significato principale” è quello di terrore-  perché non si tratta di una imposizione razionale: non è aperta alla discussione. “E’ così”, insiste la parte più forte, “perché dico io che è così”.
Siamo giunti di nuovo alla questione linguaggio perché l’utilizzo di esso al fine di creare ostilità ha ottenuto un inatteso sostegno da parte del pubblico americano ed europeo, perché negli USA si è fatta strada l’opinione secondo cui il “liberalismo” avrebbe rappresentato un fattore capace di alimentare l’estremismo islamico, che la politica è stata “troppo tollerante”, che gli stati-nazione occidentali debbano divenire più “intolleranti” ed avere maggiore autocoscienza nell’identificarsi con lo stato di diritto, in modo da trovare la soluzione decisiva da usare per combattere l’”estremismo” che minaccia le società “aperte” che li caratterizzano.
Questa corrente di opinione, che risale ai tempi dell’ultima guerra europea, può essere identificata come una forte reazione conservatrice alle forze che, secondo quanto abbiamo spiegato nel capitolo precedente, hanno contribuito a plasmare il minaccioso spettro del nazionalismo laico, e a dare forma alla costituzione ed alle istituzioni degli stessi Stati Uniti d’America. 
Se gli ultimi trecento anni di storia europea possono essere pensati come hobbesiani e lockeani, gli ultimi decenni potrebbero essere identificati come un’epoca antihobbesiana. Il ritorno di fiamma contro il “liberalismo”, contro il collettivismo, contro le politiche socialdemocratiche fondate sui diritti. Esso va a sfidare la premessa basilare della innata bontà dell’essere umano che sostiene l’opera di John Locke.
Allan Bloom sosteneva che il “liberalismo” aveva aperto la mente dei giovani americani al multiculturalismo, indebolendo così i valori americani; questa argomentazione adesso viene estesa al punto di suggerire che lo stesso pensiero liberale sia stato colpevole di aver reso troppo tolleranti gli stati occidentali nei confronti dell’Islam e che lo scotto di tanta tolleranza sia rappresentato dall’emergere dell’estremismo islamico.
Queste argomentazioni nascono dal fascino che il conservatorismo americano prova per la scomparsa della repubblica di Weimar in Germania, che i conservatori attribuiscono ad aperture liberali che l’avrebbero resa “troppo tollerante”. Come questa tolleranza aveva reso il governo di Weimar vulnerabile al nazismo, così tendenze troppo liberali avrebbero reso l’Occidente vulnerabile all’estremismo islamico. In altri termini, per i conservatori l’Islam ha rappresentato una leva vantaggiosa con la quale attaccare il liberalismo.
Qui non stiamo tentando di stilare un resoconto sistematico delle molte influenze che hanno plasmato il pensiero americano nel periodo più recente; questo andrebbe oltre lo scopo del libro. Possiamo però rifarci ad un tema specifico per sviscerare un punto importante cui abbiamo fatto cenno nell’introduzione: la natura della politica come essa è oggi intesa in Occidente, e le sue relazioni con il concetto che l’Islam ha di quello che la politica dovrebbe essere.
Abbiamo già detto delle preoccupazioni di Allan Bloom e di altri conservatori circa il fatto che i giovani americani che protestavano contro la guerra in Vietnam avrebbero mostrato mancanza di patriottismo, cosa di cui essi incolpavano le politiche “liberali” introdotte nelle università americane. Per i conservatori che facevano capo all’Università di Chicago –e nell’immediato dopoguerra molti conservatori che rivestivano posizioni importanti era solito riunirsi presso di essa- questa mancanza di patriottismo suonava preoccupante: la vedevano come un segnale ancora più pericoloso di tanti altri, tra quelli che ammonivano sulle pericolose conseguenze che da Hobbes e Locke erano scaturite.
Hobbes, come possiamo ricordare, aveva posto i fondamenti necessari perché il concetto di diritti naturali potesse concretizzarsi. Abbiamo ipotizzato che Locke lo abbia esteso e che le sue idee sul governo, sui diritti, sull’esistenza di un consapevole e sulla bontà innata dell’essere umano abbiano avuto una forte influenza sul pensiero rivoluzionario francese ed americano. Ma il piccolo gruppo di filosofi e di economisti che faceva capo all’Università di Chicago pensava che Hobbes e Locke fossero stati responsabili di aver permesso alla genia del “liberalismo” di avere libero sfogo.
Questi pensatori pensavano che le politiche ispirate da Locke avessero contribuito allo scatenarsi di quelle forze identificabili nella Rivoluzione Francese che avrebbero portato a quel nichilismo in cui alla fine la rivoluzione stessa finì per affondare. In modo simile uno dei progenitori intellettuali del neoliberalismo di questi ultimi anni, Leo Strauss, credeva che il liberalismo derivasse dal pensiero di Hobbes e di Locke, a loro volta padri di quel nichilismo che, in una specie di circolo vizioso, finisce per ritorcersi contro i suoi stessi padri liberali. Strauss scrisse in Diritto naturale e storia: “Dobbiamo dire che Hobbes è stato il fondatore del liberalismo”5.
Strauss ed i suoi colleghi della Scuola di Chicago pensavano che la repubblica di Weimar, in quella Germania che l’ebreo Leo Strauss era stato costretto a lasciare, fosse stata anch’essa una vittima del nichilismo. E ai loro tempi, Strauss e gli altri del Gruppo di Chicago, Allan Bloom compreso, identificarono all’interno del movimento statunitense contro la guerra gli stessi spaventosi sintomi di nichilismo incipiente, portati in America dai germi del liberalismo. La questione che li preoccupava tutti quanti era in che modo fosse possibile proteggere la politica americana di mercantilismo liberale dal contagio del nichilismo.
Collegando liberalismo e nichilismo, Strauss si muoveva su un sentiero che era stato ben tracciato negli ambienti tedeschi: Nietzsche e Heidegger consideravano entrambi il nichilismo come il concetto per definire il disordine moderno, ma fu poi il suo ispiratore ed amico di una vita intera, Carl Schmitt, a dare l’idea di avere molte, se non tutte, le risposte che Strauss ed alcuni dei suoi colleghi del Gruppo di Chicago stavano cercando.


La Scuola di Chicago e l’essenza del potere

Carl Schmitt era nato, figlio di un piccolo uomo d’affari della Westfalia, nel 1888. Aveva studiato legge a Berlino, Monaco e Strasburgo, ed era diventato docente di diritto all’Università di Berlino. Aderì al partito nazionalsocialista e con l’aiuto di Hermann Goering fu nominato presidente della corte suprema. Le argomentazioni legali da lui addotte in difesa della dittatura furono considerate come la giustificazione dello stato del Führer. Schmitt si presentava come antisemita, ma ostentare questo atteggiamento ostentatamente professato i nazisti non gli cedettero e venne denunciato come opportunista e come cattolico sotto mentite spoglie. Perse la carica di presidente, ma mantenne la cattedra. Dopo la guerra e dopo un periodo di internamento continuò ad esercitare una vasta influenza, ricevendo continue visite d a parte di persone che cercavano qualche risposta nelle sue idee sui fallimenti del liberalismo e sulla sua incompatibilità con la democrazia.
Le idee di Strauss furono influenzate dalla critica del liberalismo e dalla ridefinizione della natura del potere e della politica presentate da Schmitt. I due furono amici per tutta la vita. Schmitt sostenne Strauss quando si trattò di accedere alla Fondazione Rockefeller, mentre Strauss restò un fervente ammiratore ed uno studioso che diffuse le opere di Schmitt, molte delle quali vennero pubblicate dalla Chicago University Press e presero a circolare tra i seguaci della cosiddetta “Scuola di Chicago”6. Vi fu un solo aspetto importante in cui le loro strade presero percorsi divergenti: Strauss era ebreo ed aveva abbandonato la Germania alla volta degli Stati Uniti; Schmitt invece era un cattolico devoto, e si era iscritto al Partito Nazionalsocialista nel 1933.
La Teologia Politica di Schmitt, pubblicata nel 1922, aveva un titolo che derivava dalla sua convinzione che ogni concetto significativo compreso nella moderna teoria dello stato non fosse altro che la versione laicizzata di un’idea derivante da temi religiosi; una constatazione che abbiamo fatto anche noi, nei capitoli precedenti a questo. In altre parole, Schmitt sosteneva che la teoria politica abbia sempre considerato lo stato e la questione della sovranità attraverso la stessa ottica con cui la teologia considera Dio, ovvero partendo da principi etici.
Da questo punto di partenza Schmitt sviluppo il suo Il concetto del politico, pubblicato nel 1932, in cui sosteneva che nell’approccio alla questione vi era un errore di fondo perché politica e teologia erano due cose completamente diverse. I filosofi morali ed i teologi possono anche interessarsi di giustizia ed equità, ma la politica non ha nulla a che vedere con la costruzione di un mondo più equo o più giusto perché questo spetta a teologi e filosofi morali; il politico, per Schmitt, è una questione di potere, di sopravvivenza e di niente altro.
Il concetto del politico vero e proprio è rappresentato dall’essenza stessa del potere, si identifica con il potere, ed è dunque altra cosa rispetto alle schermaglie delle politiche di partito. Mentre l’àmbito in cui predominano le chiese è quello della religione e quello in cui predomina la società è quello dell’economia, il campo di ciò che è politico cade sotto il predominio dello stato.
Quello di Schmitt rappresentava un tentativo di definire con precisione che cosa fosse la politica; l’essenza di ciò che è politico è rappresentata dal più intenso ed estremo antagonismo, ha scritto Schmitt. La guerra è la più violenta forma che la politica può assumere, ma anche in assenza di guerra la politica richiede comunque che il tuo oppositore venga considerato un antagonista rispetto a tutto ciò in cui credi. Non si tratta di una questione personale, non è necessario odiare l’avversario, ma si deve essere pronti a distruggerlo se questo si rivela necessario. Schmitt sfidò i liberali ad ammettere che la politica era, alla lettera, una questione di vita e di morte.
Questa distinzione doveva essere considerata nel modo più estremo, quello in cui diviene una questione di vita e di morte, il che significa affermare che il nemico, chiunque esso sia, è qualcuno di diverso e di alieno nel più assoluto dei modi. Un simile nemico non deve neppure appartenere ad una diversa nazionalità: se un conflitto è potenzialmente intenso abbastanza da assumer forme violente tra due diverse entità politiche, qualunque cosa può conferire corporeità all’inimicizia.
Questa esplicita dicotomia tra potere e morale, o tra potere ed obiettivi teologici, rifletteva l’idea di Schmitt secondo la quale i concetti alla base del liberalismo, i diritti umani e la preoccupazione per se stessi, non possono fornire una ragionevole giustificazione al sacrificio di sé in nome dello stato. In altre parole, coloro che protestavano contro la guerra in Vietnam si stavano comportando esattamente come Schmitt avrebbe previsto che si sarebbero comportati in quelle circostanze.
La risposta di Schmitt al liberalismo era triplice. Innanzitutto, separava le considerazioni morali dalla questione del se qualcuno sostenesse o meno lo stato di cui era cittadino. Invocare principi morali per raggiungere un comune obiettivo nazionale non era il modo appropriato di procedere. All’unità nazionale si doveva giungere ridefinendo la politica in termini di opposizione all’Altro. Questo significa che l’unità nazionale andava costruita attorno all’opposizione ad un nemico, ad uno straniero, e non partendo dal senso di responsabilità morale. L’unità nazionale non doveva più basarsi neppure sulla propensione alla ragionevolezza e sulla naturale armonia che Locke vedeva nell’innata bontà dell’essere umano; doveva essere raggiunta con l’avere un nemico, e demonizzando continuamente questo nemico.
La seconda risposta di Schmitt era quella di evidenziare l’importanza del fatto che un governo fosse capace di intraprendere “azioni decisive” senza farsi intralciare dalla dottrina della separazione dei poteri; la sua terza risposta era che per un governo doveva essere possibile invocare lo “stato di eccezione” che secondo Schmitt libera l’esecutivo da ogni limite legale normalmente imposto ai suoi poteri. Va qui sottolineato l’utilizzo del vocabolo “eccezionale”: per Schmitt la sovranità è qualcosa che possiede il potere di instaurare questo stato di eccezione, espandendo così il campo in cui si apre per un governo la possibilità di intraprendere una “azione decisiva” a propria discrezione.
Non è difficile intuire come mai idee come queste possano aver attratto l’interesse dei conservatori americani, preoccupati a causa della scarsa stima che avevano per il liberalismo da loro inteso come “male” delle democrazie, e scioccati dallo scarso patriottismo dimostrato dai contestatori pacifisti degli anni Sessanta.
La mancanza di una mobilitazione pacifista di massa in America contro la “guerra al terrore” fa da contraltare alle precedenti e nutrite proteste contro la guerra in Vietnam; la si potrebbe considerare rappresentativa, almeno in parte, del successo con cui sono stati applicati i principi di Schmitt sulla demonizzazione dell’avversario. Allo stesso modo, i documenti del consiglio speciale per gli affari legali degli Stati Uniti che affermano che la volontà del Presidente non debba tenere conto delle convenzioni di Ginevra sui diritti umani e sulla tortura, il concetto di una Presidenza Unitaria in cui il Preisdente in quanto Comandante in Capo in tempo di guerra può non sottostare alla legge, e la critica giuridica alla dottrina sulla separazione dei poteri, vista come storicamente non accurata e foriera di problemi per la “guerra al terrore”, sono tutte cose che il professore di diritto Scott Horton ha, tra gli altri, considerate basate sugli scritti di Schmitt7.
Schmitt criticava la fiducia dei liberali nei confronti della discussione razionale, e nei confronti dell’apertura mentale come base della democrazia: semplicemente, non è così che funziona la politica. La realtà, ebbe a dire, è quella della politica parlamentare vera e propria, in cui si arriva faticosamente ai risultati con il discutere dei leader di partito in stanze piene di fumo. Partendo da questa osservazione Schmitt prese a considerare la dottrina liberale della separazione dei poteri come non in linea con la concretezza del reale: se c’era davvero una separazione, essa era se mai nella tensione che separa chi comanda da chi è comandato; una cosa che rende la dottrina liberale dei tre poteri una pura fantasia.
Secondo Schmitt i liberali e gli umanisti sono nauseati dall’idea di usare la forza per impedire di emergere alle forze loro antagoniste. Il loro ottimistico concetto della natura umana li porta a credere nella possibilità di una mediazione e di un compromesso basati su una migliore conoscenza dell’Altro. L’ottica conservatrice ha dunque abbandonato l’umanesimo, enfatizzando al suo posto il ruolo che il potere ha nella società moderna8.
Secondo Schmitt, l’essenza dell’identità politica di uno stato-nazione sta in questo. In ulteriore consonanza con il pensiero conservatore contemporaneo negli Stati Uniti, Schmitt affermò che fintato che le persone si muovono nella sfera del politico, esse devono utilizzare la distinzione tra amico e nemico. Nell’istante in cui uno stato-nazione occidentale manca della capacità o della volontà di fare questa distinzione, un popolo cessa di esistere politicamente. Quando un popolo non possiede più la forza necessaria ad agire con decisione per impedire il palesarsi di qualunque fenomeno suscettibile di contestarne il potere, non siamo davanti alla fine della politica, ma davanti alla fine di un popolo debole9.
La distinzione tra potere ed obiettivi morali, e l’insistere di Schmitt sul fatto che i due concetti non debbano essere confusi, si è accordata bene con le parallele concezioni della potenza americana per il XXI secolo. Il New American Century Project, [Progetto per un Nuovo Secolo Americano, n.d.r.], un think tank conservatore, ha insistito sul fatto che l’America deve mantenere la sua assoluta supremazia mondiale. Esisteva un buon grado di accordo tra il tentativo dell’amministrazione Bush di adottare una linea di decisiva autonomia d’azione per il potere esecutivo, di cui potevano anche far parte gli utilizzi dittatoriali della potenza americana esercitati su scala mondiale, ed un relativo schierarsi del Congresso che riprendeva alcuni dei concetti di Schmitt. L’essenza del progetto neoliberale rimaneva tuttavia rappresentata dalla soverchiante convinzione che nulla potesse combattere il travolgente dinamismo del capitalismo liberale.

La vittoria divina e la “guerra al terrore”
La fusione di questo pensiero conservatore da realpolitik con il diritto evangelico americano ha semplicemente rinforzato la fede religiosa di quest’ultimo nei confronti della missione divina che l’America dovrebbe compiere nel mondo; la portata delle idee filosofiche di Schmitt in cui il potere è mezzo diretto ad un fine è stata amplificata tramite questa fiducia nella missione di redenzione divina toccata all’America intera.
L’idea del potere inteso come qualche cosa di distinto dalla moralità è stata fatta propria da Allan Bloom nel 1968, nella sua traduzione ed interpretazione della Repubblica di Platone. In essa tentò di spazzare via come ragnatele le tematiche cristiane e moralizzatrici che nelle sue precedenti opere su Platone affermava di avere identificato. Un’altra figura di spicco fu Albert Wohlstetter, che plasmò su queste linee le linee strategiche della difesa americana, insieme al premio Nobel Milton Friedman. Entrambi erano docenti universitari a Chicago, ma fu Friedman il primo a portare parte di questo pensiero conservatore nel campo della politica concreta.
Per i neoliberali Friedman è diventato una sorta di icona, ma egli non si collocava per intero nel loro campo politico, dal momento che pensava che un governo meno pletorico e meno costoso fosse sempre la cosa migliore per l’economia, e che il governo dovesse interferire il meno possibile nella vita degli individui e nei loro sforzi di produrre ricchezza e di migliorare la loro condizione.
Queste figure chiave del neoliberismo sono rappresentative del pensiero utilitarista che si è coagulato attorno alle idee che avrebbero contribuito a vaccinare l’America contro il liberalismo, e considerano i meccanismi neoliberisti del mercato, che rappresentano una seconda barriera nel programmato piano di contenimento del liberalismo, come qualcosa da esportare in tutto il mondo secondo le linee dell’”ottimismo catastrofico” di Trotzky.
La “guerra al terrore” è al centro di questo progetto ideologico. La guerra al terrore è servita a separare la politica dalle sue basi giuridiche ispirate a Locke e a ridefinirla sottoforma di lotta per la vita contro un Altro che è nemico. La “guerra al terrore” ha a sua volta fornito i mezzi per rafforzare i poteri della Presidenza e le “occasioni” per intromettersi in altre società e cambiarle dalle radici.
Sé è trattato di un utilitarismo in cui i mezzi sono diretti ad un fine: le leggi morali sono state viste solo come strumenti ed il codice morale proprio di una data popolazione è stato considerato soltanto come l’insieme delle regole che quella stessa popolazione considerava utile adottare.
Milton Friedman ha parafrasato il realismo utilitarista affermando che da parte sua non c’era alcun amore ideologico per il libero mercato di per sé e che per quanto lo riguardava sarebbe stato anche socialista, se il socialismo fosse stato capace di raggiungere gli scopi che la maggior parte della gente sembrava voler perseguire.  Karl Popper credeva anche che si dovrebbe trovare il modo di misurare empiricamente tutti i sistemi politici, per verificare fino a che punto riescano a raggiungere i loro obiettivi, e cercare di stabilire i modi migliori per arrivare ad essi.
Questo excursus nelle radici del pensiero contemporaneo americano sul potere non vuol essere un’enumerazione esauriente degli eventi politici che si sono verificati in America negli ultimi anni, che sono assai più complicati. Questo sguardo parziale su di essi serve ad evidenziare a che cosa facciano riferimento gli islamici che chiedono, come ha fatto il nostro religioso iraniano citato all’inizio del libro, quali prospettive abbiano i leader islamici di trovare una qualche comprensione presso i politici occidentali, nel caso fossero d’accordo ad avere dei colloqui con loro.
Da quanto abbiamo esposto risulta chiaro che il significato di politica adottato dagli islamici e quello adottato dai conservatori americani si trovano a poli opposti. Per gli islamici la politica è al servizio dei valori umani; per i conservatori americani gli unici valori sono la sopravvivenza ed il potere, e l’espansione dei meccanismi del mercato rappresenta il loro modo di esprimersi. Tra le due posizioni, per quanto riguarda la filosofia, c’è davvero poco in comune. E la “minaccia islamica” può rivelarsi uno strumento troppo valido nella lotta dei conservatori contro il liberalismo, al punto da metterli in condizioni di doverla abbandonare.


Shock e sgomento

Visto da questa prospettiva, il linguaggio utilizzato per demonizzare gli islamici può essere considerato come qualcosa di puramente utilitario: il linguaggio non serve per comunicare, ma come un mezzo per giungere ad un fine. Il fine  è quello di mettere insieme un clima di unità nazionale agitando lo spettro della paura per l’Altro. L’entusiasmo con cui i politici hanno fatto proprio questo strumento fa pensare tuttavia che esistano delle vulnerabilità di fondo, e non soltanto le mere esigenze della realpolitik, per cui è necessario promuovere la propensione nazionale ad agire “con determinazione”.
Quando gli islamici dicono che il pensiero occidentale non è conciliabile con quello islamico, si riferiscono a questo approccio utilitarista, dal quale deducono la convinzione occidentale che la natura umana possa essere qualitativamente cambiata tramite i mezzi dell’azione umana, che tutto quello che può essere ideato può essere anche trasformato in realtà grazie al denaro ed al potere -senza che vi sia bisogno di comprendere in profondità le società o i popoli che da questo avrebbero da soffrire- che sentimenti, usanze e costumi sono considerati ostacoli che dovrebbero essere e che saranno rimossi dai sistemi del libero mercato, che ogni cosa può diventare una tabula rasa su cui si possono scrivere nuove concezioni con gli strumenti dello shock e del disorientamento, e che, dal momento che l’uomo e la società possono in ogni caso essere portati in contesti preferibili grazie all’utilizzo di tutto questo, considera possibile ogni cosa e aderisce alla prospettiva di un progresso concepito come illimitato10.
Non è difficile distinguere tematiche cristiane e considerazioni conservatrici in merito alla natura della politica e del potere, in un pensiero così strutturato. La cosa è ben rappresentata, nella pratica, dalle politiche economiche propugnate dalla Scuola di Chicago.
La concezione economica neoliberista intesa come antidoto potenziale alla cultura liberale centrata sui diritti e sulla democrazia sociale ereditata da Hobbes e da Locke, nonché agli stessi mali del capitalismo, da molto tempo era presente, ma appartata, tra le pieghe della politica. Soltanto durante i difficili anni Settanta del XX secolo essa ha guadagnato il centro della scena.
Il punto di partenza di questa concezione è rappresentato dal ruolo che essa assegna allo shock ed al disorientamento, che vengono considerati necessari per approdare ad una riforma del sistema economico. L’idea è che le riforme economiche usualmente non sono frutto di una naturale e graduale posa in opera accompagnata da una gestione oculata perché gli “istinti” passivi dei fattori sociali e culturali rappresentano -pace Popper- delle forze potenti contro il cambiamento.
La metafora con cui Friedman indicava l’elemento mancante era quella di “terapia d’urto”, che considerava necessaria all’imposizione delle riforme necessarie al capitalismo e al libero mercato. Gli psichiatri che avevano sperimentato la terapia dell’elettroshock durante gli anni Cinquanta e Sessanta11, ha scritto Naomi Klein, cercavano di disorientare i pazienti e di destrutturarli dal punto di vista psichico. Pensavano di poter creare una sorta di terreno sgombro sul quale impiantare nuove e più salutari strutture. Friedman aveva lo stesso parere per quello che riguarda le riforme economiche: senza un qualche evento traumatico che destabilizzasse le abitudini socialmente condivise e le istituzioni e che disorientasse la popolazione, le riforme non sarebbero mai state accettate.
Il primo esperimento pratico di questo genere ebbe luogo nel Cile di Pinochet nel 1973, dopo un colpo di stato fortemente sostenuto dalla CIA e dal Segretario di Stato Henri Kissinger. In Cile, le idee di Milton Friedman sul libero mercato avevano già messo solide radici prima del colpo di stato del ’73, in parte proprio attraverso i programmi di insegnamento per gli studenti cileni di economia all’Università di Chicago. Friedman fece da consigliere per Pinochet durante il periodo iniziale del suo regime.
I settori della società cilena che si ostinavano a resistere alla trasformazione economica -comunisti, sindacalisti ed altri- dovettero affrontare la tortura ed i massacri. Il Cile di Pinochet si avvalse di tutti e tre gli elementi contemplati dalla “terapia d’urto”: lo shock militare del colpo di stato, quello economico della trasformazione economica neoliberista, e quello sociale della tortura, del carcere, dei massacri.
Nel suo La dottrina dello shock la Klein segue le tracce degli esperimenti neoliberisti in Argentina, nella Gran Bretagna della Thatcher, in Bolivia, nella Polonia di Solidarnosh, in Cina, nel Sud Africa del dopo apartheid e nella Russia di Eltsin, fino ad arrivare allo “shock and awe” messo in atto in Iraq e al tentativo di Paul Bremer di costruirvi un sistema economico neoliberista partendo dalle fondamenta. Il suo obiettivo principale è quello di dimostrare che queste politiche non sono mai state adottate in modo democratico o pacifico, ed arrivare ad affermare che hanno sempre fallito, proprio come l’ingegneria sociale di massa messa in pratica nel XIX secolo per liberalizzare i mercati fallì verso la fine del secolo, e che hanno fallito per la stessa ragione: l’incapacità di rispondere, nel lungo termine, alle necessità degli esseri umani.
I sostenitori della trasformazione neoliberista dicevano che lo shock avrebbe causato la nascita di un “nuovo Medio Oriente”, avrebbe risolto il conflitto israelo-palestinese (“La strada di Gerusalemme passa da Baghdad”) e avrebbe capovolto l’equilibrio dei poteri nelle società musulmane a tutto favore del modello occidentale. Il problema è che l’obiettivo della tabula rasa è stato fallito: in compenso si è riusciti a fare macerie di una società intera, ammucchiando un altro bel po’ di rovine ai piedi dell’angelo della storia dipinto da Paul Klee.


Resistere al progetto americano

Secondo i musulmani esiste una connessione diretta tra il pensiero occidentale che ha sostenuto lo scardinamento massiccio della società, i torbidi ed i rivolgimenti politici nell’Europa ottocentesca al fine di liberalizzare i mercati, la frenesia con cui sono stati realizzati gli stati nazione nel ventesimo secolo che hanno portato ai massacri ed alla pulizia etnica, ed il pensiero che sta dietro le riforme da tabula rasa nel Cile del 1973 e la strategia dello Shock and awe nell’Iraq di trent’anni dopo.
Quando il Segretario Generale di Hezbollah, oppure Khaled Mesha’al invitano i musulmani o i palestinesi ad unirsi per resistere al “progetto americano”, si riferiscono a questo modo di pensare strumentale che ha di proposito escluso la dimensione morale dalle “terapie” a sua disposizione. Terapie applicate ad esseri umani posti in stato di shock in conformità alle strutture del libero mercato, cui fa séguito l’imposizione di qualche uomo forte locale cui viene concessa assistenza economica e miliare in modo che gli sia possibile accumulare ricchezza, comprare o reprimere l’opposizione, ed infliggere ai musulmani il suo sistema, in sedicesimo ma basato sullo shock anch’esso.
Il pessimismo che gli islamici esprimono in merito alla possibilità di un dialogo tra leader politici che abbia il fine di risolvere il conflitto con l’Occidente nasce dal fatto che essi sentono che l’Occidente è stato, e continua ad essere, preda del pensiero “scientifico” utilitarista. Pensano che vi siano poche possibilità che il comportamento degli occidentali cambi, almeno fino a quando questa rimarrà la mentalità dominante. Gli islamici pensano che sia questo modo di pensare il responsabile della cecità degli occidentali rispetto alle conseguenze dei loro comportamenti. L’Occidente non è dunque in grado di accettare le conseguenze delle proprie azioni. I massacri degli armeni, la pulizia etnica del XIX secolo, il razzismo scientifico e gli esperimenti del secolo seguente e le “terapie d’urto” del secolo ventunesimo vengono percepiti come parte di un continuum sostenuto dal pensiero occidentale. Ed è contro questo pensiero che i musulmani si stanno mobilitando. Non si stanno mobilitando contro l’Occidente o contro gli occidentali, ma per reagire ad un modo di pensare che è nocivo.
Se anche i politici occidentali decidessero di intavolare un dialogo con gli islamici, il problema del linguaggio rimarrebbe comunque, perché il pensiero utilitarista ha pervaso di sé l’utilizzo del linguaggio in Occidente, ed anche  il mondo della diplomazia. Schmitt sosteneva che per definizione un liberale non avrebbe mai potuto essere un politico. A suo parere i liberali tendono troppo all’ottimismo, quanto a concezione della natura umana, laddove qualunque teoria genuina parte dall’assunto che gli uomini siano malvagi. Questa concezione ottimista della natura umana porta i liberali a pensare sempre alla possibilità di una mediazione o di un compromesso, basati su una migliore comprensione dell’Altro.
I liberali credono nella possibilità di arrivare ad una comprensione oggettiva che riesca a mediare tra due posizioni conflittuali, mentre per Schmitt una simile neutralità non esiste perché ogni atto di comprensione, anche uno improntato alla più ostentata disponibilità nei confronti della controparte, rappresenta semplicemente la vittoria di una fazione politica sull’altra. Schmitt derubricava il pluralismo a mera illusione, perché nessun potere vero e proprio permetterebbe a qualcun altro, famiglia o chiesa che sia, di avanzare contestazioni. L’essenza della politica è dunque una lotta, una sorta di guerra in cui ci sono soltanto nemici12.


Linguaggio e significati: l’eredità di Schmitt

Che queste idee siano state interiorizzate consapevolmente o meno, che i diplomatici abbiano o meno sentito parlare di Schmitt, il suo pensiero traspare nell’utilizzo contemporaneo del linguaggio e nelle discussioni diplomatiche. Non si tratta di un linguaggio finalizzato alla mediazione o al definire un terreno comune, non si tratta di qualcosa che possa essere inteso come diretto a tracciare una via che porti alla coesistenza.
E’ il linguaggio della diplomazia strumentale: gli stati sovrani si trovano davanti all’ingiunzione di espiare i peccati del passato, di provare concretamente le proprie buone intenzioni nei confronti dell’Occidente, di mostrare trasparenza e di aprire alle ispezioni internazionali. Gli stessi stati sovrani vengono posti davanti ad una falsa alternativa: modificare il proprio comportamento disturbante o accettarne le conseguenze; devono “elevarsi” al mondo moderno o fronteggiare l’isolamento. L’asse del Male deve essere sopraffatto dalle forze della “libertà”. I movimenti devono rinunciare alla violenza e disarmare. Gli stati sovrani devono collaborare alla “guerra al terrore”. Quanti mettano in atto comportamenti non consoni, ed i “terroristi, devono essere eliminati.
Siamo davanti ad una situazione in cui il significato si disintegra perché in questo tipo di scambio ci viene presentata una scelta che è tale a condizione che si faccia la scelta giusta. Agli islamici si ricorda solennemente che possono anche dire di no -e rimanere prigionieri di un’Arabia del settimo secolo- laddove dire di sì significa entrare nel dominio di un sistema totalitario di proibizioni.  Una delle strategie dei regimi totalitari usata anche dalla moderna “diplomazia strumentale” contempla l’adottare una gamma talmente ampia di comportamenti inammissibili che spazia dai diritti umani alla lotta al terrorismo, dalle droghe al riciclaggio del denaro sporco fino al mancato supporto per la politica israeliana che alla lettera tutti finiscono per essere colpevoli di qualche cosa. E se le cose stanno così, è a discrezione anche la piena adesione ad esso; è a discrezione della comunità internazionale apparire indulgente o condannarti ed isolarti. Diceva il religioso iraniano: è una questione di potere, non di giustizia:  per cui fa’ come ti diciamo e porta rispetto: ricordati che in ogni momento noi possiamo
Tutto questo presenta un linguaggio di gesti vuoti, di offerte fatte per essere respinte: la falsa scelta presentata agli stati sovrani che non si comportano come desiderabile serve solo a far intendere che i loro popoli stanno in qualche modo accettando liberamente il risultato di questa falsa scelta, oppure che hanno già fatto la scelta sbagliata riponendo la loro fiducia in un tiranno; in questo caso, quanto gli capiterà di dover passare è soltanto colpa loro. In entrambi i casi si tratta di una falsa scelta, che la comunità internazionale presenta travestita da diplomazia. Va perduta, e si è disintegrata, tutta la complessa rete di regole implicite e non scritte che reggono quelle comunità che devono vivere in condizioni di completa opposizione le une alle altre, e che sono obbligate a riflettere su cosa dire e su come dirlo, se vogliono che le cose con i vicini procedano senza tanti sussulti.
Questo pensiero strumentale, collegato ad un linguaggio che è strumentale anch’esso, mette in discussione i risultati di qualsiasi colloquio, e questo sempre che esista ancora la possibilità di qualche mutamento nei comportamenti e nel linguaggio. Mutamenti del genere si sono storicamente verificati, ma di solito soltanto come risultato di fallimenti o di crisi. Un fallimento sembra comunque inevitabile: una “terapia d’urto” si basa sulle rovine, ed il capitalismo globale è intrinsecamente qualche cosa di instabile. Un libero mercato di dimensioni mondiali non è più in grado di autoregolarsi di quanto non lo fossero i liberi mercati del passato. Esso contiene in sé uno squilibrio strutturale che può rivelarsi troppo grande per essere suscettibile di controllo.
Per il grande ayatollah Fadlallah il cattivo utilizzo del linguaggio è un problema seriamente preoccupante. Formatosi a Najaf e membro del circolo di Najaf, nonché rispettato pensatore islamico, Fadlallah è uno dei pochissimi grandi ayatollah del mondo: un ruolo di massimo rispetto per gli sciiti di tutto il mondo. Come appartenente alla élite sciita, ha centinaia di migliaia di seguaci che aderiscono ai suoi insegnamenti, e presta molta attenzione all’utilizzo del linguaggio.
Fadlallah ha detto:
Possiamo parlare delle differenze tra combattenti per la libertà e terroristi, tra resistenza legittima ed illegittima, e possiamo partecipare a colloqui e dibattiti; nondimeno ogni religione condanna l’assassinio di civili. In Occidente questo lo sanno. Eppure, l’Occidente non si preoccupa di quello che dice, del modo in cui utilizza ed applica le categorizzazioni o del fatto che stia o meno seguendo i suoi stessi principi. Il più grave errore dell’Occidente è di utilizzare troppo precipitosamente certi termini. Dovrebbe essere più ponderato, più attento, più capace di distinguere quando si tratta di utilizzare certi vocaboli.
Siamo davanti ad un caso in cui il linguaggio si svuota di significato. Abbiamo bisogno di comprendere che le parole un significato continuano ad averlo, e che se vengono mal utilizzate possono portare alla violenza13.
Non è sorprendente scoprire che l’ayatollah Fadlallah, ed i musulmani in generale, si sentano tanto coinvolti dalla questione del linguaggio. L’Islam è una religione basata su un testo e sul linguaggio. Un linguaggio di una tale bellezza che il solo impatto estetico di esso è stato sufficiente perché tante persone venissero persuase a cambiare la propria condotta di vita.
Una delle conversioni più drammatiche fu quella di Omar ibn al-Khattab, che era un devoto dell’antico paganesimo e che si oppose accesamente al messaggio di Muhammad, deciso a spazzare via la nuova setta. Omar era però anche un esperto di poesia araba e quando udì per la prima volta le parole del Corano ne venne sopraffatto. Come ebbe a dire, il linguaggio aveva infranto tutte le sue riserve sul messaggio contenuto nella rivelazione: “Quando ho udito il Corano, il mio cuore è diventato tenero: mi sono commosso, e l’Islam è penetrato in me”14.
Il Corano non è un trattato di filosofia: il suo è un approccio pratico e, per quanto radicale possa sembrare, afferma con insistenza che il suo messaggio è soltanto un pratico “ripasso” di quello che tutti già sappiamo. Dio non aveva lasciato l’umanità all’oscuro sul modo in cui avrebbe dovuto vivere; aveva inviato messaggeri a tutti i popoli della terra. Tutti avevano portato ai loro popoli una scrittura divinamente ispirata: potevano esprimere le verità della religione di Dio in modo diverso, ma il messaggio era, nella sua essenza, sempre lo stesso15.
La specifica autenticità del linguaggio coranico sta nella creazione di una nuova forma letteraria e nel fatto che il Corano è di per sé un capolavoro della prosa e della poesia in lingua araba. Nel famoso versetto della sfida il Corano riporta appunto la sfida, rivolta a quanti dubitavano della sua autenticità come parola divina, a produrre qualcosa che si approssimasse ad eguagliarlo per la bellezza del linguaggio.
In altre parole, l’Islam e la ‘umma sono concepibili in termini di testi scritti e di linguaggio sacro. Ogni parola in questo linguaggio viene considerata avere un significato profondo ed i vari racconti che esistono delle vite, degli atti e dei detti del Profeta e dei suoi seguaci sono sempre stati investigati e studiati con attenzione. A volte il desiderio di comprendere ogni espressione del Profeta ricordata in seguito dai suoi compagni può aver portato a degli errori. Il punto è che il linguaggio veniva considerato con rispetto non soltanto per il suo significato letterale, ma anche per il suo contenuto esoterico. Il linguaggio ha conservato un suo potenziale, con la prospettiva di offrire ulteriori possibilità di introspezione in futuro, tramite la contemplazione del significato profondo posseduto dalle parole.
Anche nel caso di quanti non potevano capire l’arabo classico, il linguaggio ha svolto la funzione di unificatore della comunità grazie alla bellezza dei suoni come simbolici di un significato: una purezza dal simbolismo universalmente compreso, al quale tutti potevano avere accesso.
Il linguaggio coranico, anche il linguaggio classico inaccessibile alla maggioranza, portava con sé il concetto di un’idea estranea alla maggior parte del mondo occidentale di oggi: quella della non arbitrarietà del linguaggio. Si trattava alla lettera di una manifestazione della realtà: un legame diretto con la verità. Per esso, l’idea contemporanea secondo la quale un linguaggio vale l’altro fin quando serve ad uno scopo non ha alcun senso. 
L’evoluzione del linguaggio in Occidente lo ha condotto a diventare uno strumento; il linguaggio è stato ridefinito escludendo da esso la conoscenza simbolica, facendone un’espressione di potere fine a se stesso.  La scoperta della manipolazione scientifica del linguaggio attuata dagli interessi commerciali e pubblicitari dell’Occidente ha dimostrato le competenze che esso possiede nel manipolare e nel controllare impercettibilmente le aspirazioni umane, e nel persuadere gli uomini a farsi garanti di questo o quel sistema sociale: anche di quelli che vanno contro ai loro stessi interessi.
Questo utilizzo strumentale del linguaggio si è mostrato capace di creare e di trasformare le necessità e i desideri delle persone, al punto che esse hanno dimostrato di voler sostituire gli interessi loro propri con una felicità fittizia e vicaria, provvisoriamente appagata dalla soddisfazione di quelle aspirazioni che sono state artificialmente impiantate in loro stesse.
Dal punto di vista politico, il controllo scientifico del linguaggio ha conferito agli stati occidentali la capacità di costruire un discorso che è al tempo stesso controllato, selezionato e organizzato secondo varie procedure, la cui funzione principale è quella di distogliere la potenzialità e la pericolosità del linguaggio da quanti posseggano una qualche autorità. I partiti politici hanno sviluppato propri gruppi fabbricatori di risposte, che hanno la funzione di gettare discredito (il più delle volte tramite attacchi personali) su coloro che sollevano qualche critica.


Il linguaggio e l’asimmetria del potere

La sinergia tra il potere e il controllo strumentale del linguaggio per stabilire i parametri di quanto è reputato accettabile nelle pubbliche discussioni e per manipolare le necessità umane ha condotto allo scioglimento dei legami tra linguaggio, verità e significato. L’ayatollah Fadlallah si riferiva a questo, quando suggeriva che l’Occidente avrebbe dovuto fare attenzione al significato delle parole ed alla loro capacità di causare violenze.
Inevitabilmente, la risposta degli islamici nei confronti del linguaggio strumentale è quella di evitare i trabocchetti dell’impegno asimmetrico diretto con un Occidente che è dominatore incontrastato in materia di accesso ai mass media. Gli islamici hanno imparato per esperienza diretta che è impossibile difendere le posizioni sul terreno dei mass media occidentali, ed hanno cercato altri modi per portare avanti questa guerra ideologica del linguaggio. Ad uscirne sconfitta, come notato anche dall’ayatollah Fadlallah, è ogni vera sensibilità verso le conseguenze, ogni empatia verso le vittime di questo gioco di potere internazionale. Da una parte esiste la realtà di persone che trascinano giorno per giorno le proprie condizioni miserevoli; dall’altra il reale definito dagli inesorabili estratti operati dalla narrativa del potere, che cancella ogni comprensione emotiva delle proprie stesse vittime.
Sayyed Hassan Nasrallah ha reagito alle critiche occidentali non tentando si piegare cosa sia Hezbollah agli occidentali, o cercando di mantenere un atteggiamento conciliante con l’Occidente, ma avvertendo i musulmani che gli occidentali “rappresentano una seria sfida per il controllo… della nostra libertà d’azione e del nostro destino”, e che “essi arrivano… con i loro mass media e con i loro soldi per finanziare una guerra diretta”16.
Hamas persegue la propria politica di resistenza rifiutandosi semplicemente di partecipare a trattative basate sulla conditio sine qua non dell’accettazione delle norme e dei parametri occidentali. Hamas comprende perfettamente che accettare le regole del gioco imposte dall’Occidente significa rimanere prigionieri di un processo la cui conclusione verrà determinata tramite l’ottica degli interessi occidentali, e che sarà controllato dalle norme occidentali di legittimazione dello stato nazione, del suo monopolio sulla violenza e delle strutture istituzionali occidentali. Hamas, semplicemente, non crede che una soluzione equa possa emergere da un processo simile, e dunque contesta il diritto occidentale di imporre le regole del gioco.
L’unica possibilità per gli islamici sembra essere quella della resistenza. Si può resistere adottando con insistenza un linguaggio diverso, sottolineando la propria distinta identità e rifiutandosi sistematicamente di prendere in considerazione le false “scelte” che l’Occidente pretenderebbe di imporre.
Il dottor Abdullah Kassir, direttore del canale satellitare al-Manar vicino a Hezbollah, ha detto che il linguaggio intonato alla demonizzazione che arriva dall’Occidente e dai suoi media non è certo frutto dell’ignoranza, quanto di un “utilizzo delle nuove tecnologie finalizzato ad invadere la nostra sfera. Le distorsioni presentate in materia di Islam e di movimenti come Hezbollah sono deliberatamente volute. E sono servite all’Occidente per diffondere l’idea che i musulmani siano caratterizzati da arretratezza, demoralizzazione e disfattismo”.
Secondo Kassir i movimenti come Hezbollah dovrebbero rispondere con dei “mass media di resistenza”. La massiccia occupazione della sfera dell’informazione da parte di coloro che usano un linguaggio ed una narrativa di potere e di oppressione può essere contrastata con una “resistenza mediatica” come quella portata avanti da al-Manar durante la guerra di Israele contro Hezbollah nel 2006.
Kassir sostiene comunque che dei mass media resistenti potrebbero essere fondati soltanto su una giusta causa, e partendo da un impegno che provenga dal basso. In una condizione di potere asimmetrico,
…i mass media resistenti potrebbero avere successo nel combattere il potere e le sue superiori risorse tramite la loro credibilità ed il loro rispetto per l’intelligenza del pubblico. Rispondere a manipolazione con manipolazione non funzionerebbe: occorre essere obiettivi, confutare le idee del nemico con le nostre idee, costruire la propria stima ed il proprio morale17.
Il dottor Kassir ha detto che, paradossalmente, la competizione mediatica ha rappresentato il loro miglior alleato: al-Manar ha costretto gli altri mass media alla difensiva, grazie alla qualità della propria produzione. Ha citato il grande numero di israeliani che durante la guerra del 2006 ha pubblicamente sostenuto che la copertura degli eventi di al-Manar era più credibile di quella dei loro mass media, intenti ad ostentare affermazioni esagerate e prive di concretezza.
I leader politici come Sayyed Hassan Nasrallah fanno uso del linguaggio per disarticolare l’offensiva occidentale, ma fanno anche attenzione a dirigere i loro strali verso coloro che li hanno lanciati per primi, e non contro gli occidentali in generale. Sayyed Nasrallah fa molta attenzione a lasciare sempre una via aperta per la maggioranza degli occidentali che condivide la convinzione islamica che il linguaggio abbia un’importanza troppo grande per essere trattato come uno strumento nei giochi di potere.
Questa doppia politica del reagire e al tempo stesso del mantenere disponibilità al dialogo è difficile da mantenere, e certamente il rischio è che il rispondere rinfocoli passioni suscitate dal linguaggio polarizzato e stimoli un ulteriore ciclo di inasprimento. Ecco perché l’ayatollah Fadlallah ha esortato con tanta insistenza l’Occidente a cercare di capire i rischi impliciti in un certo utilizzo del linguaggio, e ad astenersene. Usare il linguaggio come strumento per minare e demoralizzare un avversario significa rischiare che le volte in cui serve come mezzo di comunicazione non funzioni più, che sia diventato qualche cosa che non ha più alcun significato.
“Sappiamo che in guerra muoiono persone innocenti: questo è nella natura della guerra”, afferma il Grande Ayatollah Fadlallah, “ma questo non rappresenta una giustificazione e non esime nessuno dal fare tutto quello che è possibile per salvaguardare gli innocenti”.
In questo capitolo abbiamo ipotizzato che la demonizzazione degli islamici tramite il linguaggio abbia due obiettivi ideologici principali: il primo è quello di liberarsi dal retaggio di liberalismo e di diritti umani, fondato sul pensiero di Locke, inteso come il polo attorno al quale si costruisce una unità nazionale e di sostituirlo invece con la paura di un nemico altro, che funzioni come elemento in grado di tenere insieme la “famiglia nazionale” americana. Abbiamo poi sostenuto che la “guerra al terrore” sia servita come strumento ideologico all’obiettivo dei conservatori americani che è quello di porre dei limiti al liberalismo e di indebolirlo, perché esso viene percepito come tallone di Achille della democrazia fondata sui meccanismi del mercato.
Abbiamo sostenuto che la “guerra al terrore” sia utile all’indebolimento del liberalismo in due modi diversi: una guerra continuata in tutto il mondo ha fornito agli Stati Uniti la giustificazione per intromettersi ancora di più in altre società ed in altre regioni del mondo, e di utilizzare questa possibilità per conformarle in modo confacente ai loro interessi. In secondo luogo, la “guerra al terrore” ha fornito l’occasione per ampliare la gamma dei contesti e dei casi in cui un Presidente che dispone di poteri allargati può ordinare azioni decisive, meno influenzato in questo dalla dottrina della separazione dei poteri ed al contrario in grado di avvantaggiarsi del principio della legislazione eccezionale.
Il terzo punto dell’azione di contenimento del liberalismo, dopo l’abbandono dell’idea dell’essere umano come buono per natura intesa come premessa generale dell’azione politica e dopo la restituzione ai vertici della politica americana di un potere decisionale privo di autentici limiti, è rappresentato dalla riforma neoliberista del mercato, che è stata concepita per rafforzare un individualismo autosufficiente ed atomizzato e per assestare un colpo mortale al collettivismo, passando per l’indebolimento o per la distruzione delle continuità sociali e culturali.
Abbiamo detto che le conseguenze a breve termine, nel perseguire queste politiche, sono state un fallimento: abbiamo suggerito che un radicale rimodellamento del mondo, compiuto repentinamente e tramite un intervento umano come il mercato neoliberista, rappresenta un’illusione che è già finita per collassare, lasciando dietro di sé soltanto delle società distrutte. Abbiamo sostenuto che il libero mercato non è né in grado di autoregolarsi, né presenta al suo interno un qualche meccanismo che porti in modo naturale ad una tendenza verso l’equilibrio; al contrario, esso racchiude forze che conducono a crescenti squilibri, che finiscono per minacciarlo di crollo, a meno che la prospettiva di un collasso non venga presa in considerazione con un anticipo sufficiente ad introdurre dei correttori prima che esso si verifichi. Il problema che gli Stati Uniti devono affrontare è che hanno plasmato se stressi sulla scorta di idee e di un pensiero che arrivano dai secoli diciassettesimo e diciottesimo, che non sono adatti alla realtà di oggi e che sono rifiutati dalla maggior parte degli abitanti del mondo.
L’altra conseguenza di questa politica è stata la perdita del linguaggio come mezzo per l’espressione di significati, ed abbiamo anche avuto modo di notare l’effetto corrosivo che il pensiero strumentale ha sia nel campo del linguaggio che in quello della diplomazia, sui principi non scritti e sulle convenzioni che sottostanno alla tradizionale comprensione del bisogno di coesistenza dei popoli, fondato sulla cortesia e sul rispetto.  Quando gli stati occidentali si accorgeranno di avere ancora bisogno di queste convenzioni e di questi principi, essi potrebbero non essere più a disposizione. Ecco il nostro ammonimento.
Quello che resta senza spiegazioni in tutto questo è il fatto che i politici europei si sono comportati da collaboratori entusiasti in una operazione di tipo ideologico che aveva tra i suoi obiettivi principali quello di smantellare il liberalismo e la democrazia sociale. Il risultato di questa collaborazione è stato il fatto che il seme dell’odio neoliberista per il multiculturalismo, e quello del nazionalismo che si definisce in opposizione ad un altro sono stati piantati anche in Europa. Un’Europa in cui vivono venti milioni di musulmani.
Nel prossimo capitolo concluderemo con uno sguardo su quello che tutto ciò può significare, e faremo alcune considerazioni su quello che quanti vivono nelle società occidentali potrebbero fare per superare ed elevarsi oltre il mucchio di macerie che giace ai piedi dell’angelo della storia.


1 Allan Bloom, The Closing of the American Mind, New York: Simon and Schuster, 1987, pp. 39–43.
2 Jeff Stein, ‘Can You Tell a Sunni from a Shiite?’, New York Times, 17 October 2006.
3 Naomi Klein, The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism, London and New York: Allen Lane, 2007.
4 John Gray, Black Mass: The Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London: Allen Lane, 2007, p. 123.
5 Leo Strauss, Natural Right and History, Chicago: University of Chicago Press, 1953, pp. 181–82.
6 Scott Horton, The Return of Carl Schmitt, 7 November 2007, URL (consultato ad agosto 2008): http://balkin.blogspot.com/2005/11/return-of-carl-schmitt.html
7 URL (consultato ad agosto 2008): http://en.wikipedia.org/wiki/John_Yoo
8 Alan Wolfe, ‘A Fascist Philosopher Helps us to Understand Contemporary Politics’, The Chronicle Review, 2 Aprile 2004, URL (consultato ad agosto 2008): http://chronicle.com/free/v50/i30/30b01601.htm
9 Passo tratto da Carl Schmitt, Concept of the Political, Piscataway, NJ: Rutgers University Press, 1976 (prima edizione in lingua tedesca,  1927).
10 Jeane Kirkpatrick, Dictatorship and Double Standards: Rationalism and Reason in Politics, New York: Simon and Schuster (for the American Enterprise Institute) 1982, pp. 11, 17–18.
11 Naomi Klein, The Shock Doctrine.
12 Alan Wolfe, ‘A Fascist Philosopher …’.
13 Intervista con l’autore, 2007.
14 Mohammad ibn Ishaq, Sirat Rasul Allah, trad. e ed. da A. Guillaume, The Life of Mohammad, Oxford: Oxford University Press, 1955, p. 158.
15 Karen Armstrong, Islam: A Short History, London: Phoenix, 2001, p. 7.
16 Sayyed Hassan Nasrallah in un discorso tenuto a Beirut il 9 marzo 2007.
17 Conversazione con il Dr Kassir nel corso di una conferenza internazionale a Damasco, nel marzo 2007.

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