Paul Klee, Angelus novus.
Nel nono capitolo del suo Tesi sulla filosofia della storia Walter Benjamin cita un’opera di Paul Klee, Angelus Novus, che “mostra un angelo nell'atteggiamento di chi sta per staccarsi da qualcosa che è oggetto di attenta contemplazione da parte sua. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, le ali spiegate”. Continua poi con queste parole:
Ecco come si potrebbe raffigurare l’angelo della storia. Il suo viso è rivolto verso il passato. E qui riusciamo a percepire la presenza di una catena di eventi: egli contempla tutta una catastrofe, che continua ad ammucchiare macerie e a scagliarle ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe rimanere, svegliare i morti e ricostruire quello che è stato distrutto, Ma un vento tempestoso irrompe, proveniente dal Paradiso; e gonfia a tal punto le ali dell’angelo che esso non può più tenerle chiuse. La tempesta lo spinge verso un futuro a cui esso sta comunque voltando le spalle, mentre il mucchio di rovine che c’è davanti ai suoi occhi diventa sempre più grande. Ecco: quello che è stato chiamato progresso è in realtà questo vento tempestoso1.
Il modo occidentale di intendere le cose è rappresentato con efficacia dall’immagine del vento impetuoso che spira dal Paradiso e che finisce per spazzar via anche l’angelo. Un’immagine consona all’idea di una “vendetta divina” che esplode ricambiando di rabbia. Slavoij Žižek commenta la stessa immagine affermando che “di contro, ad un tanto violento ristabilimento della giustizia si erge la figura della giustizia divisa intesa come qualcosa di ingiusto, come un’esplosione di collera divina all’insegna del capriccio”2.
Slavoij Žižek aggiunge anche che non serve cercare significati simbolici in simili atti retributivi: le cose sono quello che sono, e non hanno alcun significato mistico recondito. Cose come questa sono atti di irragionevole furia scatenata, e non c’è modo di proteggersene se non rispondendo con la stessa forza.
Per gli occidentalisti laici, questa forma di “violenza divina” rappresenta la ragione che si capovolge diventando follia. Un simile atto retributivo di impronta divina, come quello che Edmund Burke identificò nella Rivoluzione Francese, appare come qualcosa di profondamente insano, qualcosa che portaa quel tipo di pratica politica che irrompe attraverso gli strati sedimentati del costume e della tradizione pur di ottenere i propri scopi. E Žižek aggiunge: “Bene… signori… sapete a cosa somiglia questa violenza divina? Ecco, considerate il Terrore, degli anni tra il 1792 ed il 1794: quello era Violenza Divina”3.
Questa idea di furore irragionevole e divinamente ispirato è lo spauracchio attraverso il quale l’Occidente “conosce” il “terrorismo” islamico. Si presenta come un asserita “passione per la morte” che in realtà è soltanto una furente brama di distruzione. Ritratto a queste tinte, esso rappresenta l’idea che soltanto pagando quello che dobbiamo pagare in termini di sangue versato la corruzione e gli eccessi del passato potranno essere spazzati via. Nell’ultimo discorso di Robespierre nel 1794, pronunciato il giorno avanti del suo arresto e della sua esecuzione, egli sottolineò queste esperienze di “purezza” tra i rivoluzionari, l’amore sublime per la patria e quello ancora più sublime per il genere umano, “senza il quale una grande rivoluzione è soltanto un crimine rumoroso che ne distrugge un altro”4. In breve si tratta di un fantasma gonfio di colpa, di giusto castigo e di salvezza finale.
Tutto questo è anche molto cristiano. La relazione tra la divinità ed un violento ricambiare viene dai temi apocalittici del cristianesimo, e più specificamente da Sant’Agostino (354-430). Agostino era all’inizio un seguace del manicheismo, che considerava il male come una caratteristica ineliminabile dal mondo. Mentre Mani, il fondatore della religione manichea, credeva che gli esseri umani fossero coinvolti in una vera guerra che infuriava tra bene e male e che sarebbe durata in eterno, i seguaci di Gesù consideravano dei “tempi ultimi” in cui il male sarebbe stato distrutto per sempre. Sant’Agostino pensava che la natura umana fosse imperfetta in modo irrimediabile, e questa visione basata su un peccato originale, la condizione di colpevolezza cui esso aveva dato luogo ed i ricorrenti tentativi di porre ad essa rimedio divennero una parte fondamentale dell’ortodossia cristiana5.
Col continuare della guerra tra oscurità e luce, gli esseri umani sono stati sopraffatti dal male, e il contraccambiare divino è stato concepito nella forma di un evento apocalittico che misteriosamente conduce non alla catastrofe ma alla salvezza. Per i cristiani moderni come G. K. Chesterton, questa sorta di “violenza divina” muoveva da persone che perdevano la presa sul senso comune e che non erano capaci di vedere le cose come sono realmente; ma per la maggior parte degli occidentalisti laici la violenza dei rivoluzionari francesi e quella degli “estremisti” islamici sono la stessa cosa, la stessa malvagità implacabile e la stessa aggressività.
Essi pensano che sia inutile cercare in essa un qualunque significato, o pretendere che ne abbia uno. Si tratta solo di rancore che diventa furibonda brama di distruzione. Ma la realtà è che i rivoluzionari di Francia non erano mossi da cattive intenzioni, come attesta l’espressione di Robespierre in cui si parla di tenace amore; essi riflettevano piuttosto il tema, caro al primo cristianesimo, dei “tempi ultimi”, intesi in un senso utopistico laico, che avrebbero rifondato la vita umana su basi interamente nuove6.
La necessità di porre un qualche freno all’imperversare della violenza “di ispirazione divina”, che aveva devastato l’Europa durante la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), nel 1851 era di centrale importanza negli scritti di Thomas Hobbes; il tema centrale nel suo Leviatano, un’opera che ebbe vasta influenza, era la condizione di insicurezza in cui gli uomini si trovano rispetto alla paura di una morte violenta e la conseguente necessità di controllare il “fanatismo” religioso. Scrivendo all’epoca della guerra civile inglese, Hobbes difendeva la necessità di un contratto sociale tra l’individuo ed un governo o una monarchia necessariamente “forti” dal quale risultasse che questi ultimi ricambiavano l’obbedienza del singolo individuo garantendo la sua sicurezza. Obbedendo ad un governo del genere gli esseri umani avrebbero potuto superare le paure e le insicurezze derivanti da quanto di capriccioso e mortifero ad ispirazione divina potesse mai scatenarsi.
Il costrutto hobbesiano del contratto sociale tra il governo e l’individuo, in cui la legge naturale e l’autoconservazione vengono considerati la stessa cosa, fu il punto di partenza da cui John Locke (1632-1704) espresse le proprie considerazioni, più ottimistiche di quelle di Hobbes, ed affermò la naturale bontà del genere umano. Locke sostiene che l’ineludibile ricerca della felicità e del piacere, se condotta razionalmente, conduce naturalmente all’armonia; nel lungo periodo la felicità dei singoli e il benessere generale finiscono per coincidere, grazie all’opera della mano invisibile. In questa forma di stato, basata sul contratto sociale, tutte le persone erano uguali e indipendente, e nessuno aveva il diritto di interferire nelle altrui “vita, salute, libertà o proprietà”.
Le idee di Locke hanno informato di sé il pensiero occidentale per i successivi trecento anni. Il sistema di controlli competitivi e di contrappesi nei meccanismi del governo, così come sono delineati nella costituzione degli Stati Uniti, furono ideati da Locke. Il suo concetto di diritti umani che originano naturalmente sottendeva l’utilizzo dei diritti, inteso dai padri fondatori americani, come base attorno alla quale lo stato americano avrebbe dovuto essere costruito.
Nel basare i diritti umani sull’individuo, sulla sua proprietà e sulla sua libertà, Locke fornì però una giustificazione laica ed intellettuale alla mano invisibile ed ai meccanismi del mercato che poi, nei successivi duecento e più anni, si sarebbero tradotti in una sinistra orgia di stati-nazione e di pulizia etnica. Locke incoraggiò anche un concetto di diritti basato sul possidente maschio e di razza bianca, a spese di qualsiasi diritto della comunità nel suo complesso. Il fascino emotivo che nell’Occidente contemporaneo suscitano le violazioni dei diritti del singolo finisce spesso per mascherare le assai peggiori violazioni che continuano a colpire popoli interi e che vengono commesse in nome dell’occidentalizzazione e per conto di essa: valga come esempio la cecità occidentale a cospetto del massacro degli armeni. Tutto questo può essere fatto risalire a Locke.
Locke avanzò l’idea di una tolleranza che consentisse al governo di ergersi al di sopra di una moltitudine di religioni in competizione tra di loro. Il cattolicesimo romano tuttavia era a suo avviso troppo minaccioso, dato che portava con sé il rischio di un ritorno alla comunità sacrale. Avrebbe dovuto essere messo fuori legge in quanto nemico dello stato. E la tolleranza di Locke non si estendeva neppure a coloro che vivevano al di fuori di questa autodefinita condizione umana fatta di razionalità empirica e di autoconsapevolezza individuale; tutti nemici da schiacciare.
Slavoij Žižek aggiunge anche che non serve cercare significati simbolici in simili atti retributivi: le cose sono quello che sono, e non hanno alcun significato mistico recondito. Cose come questa sono atti di irragionevole furia scatenata, e non c’è modo di proteggersene se non rispondendo con la stessa forza.
Per gli occidentalisti laici, questa forma di “violenza divina” rappresenta la ragione che si capovolge diventando follia. Un simile atto retributivo di impronta divina, come quello che Edmund Burke identificò nella Rivoluzione Francese, appare come qualcosa di profondamente insano, qualcosa che portaa quel tipo di pratica politica che irrompe attraverso gli strati sedimentati del costume e della tradizione pur di ottenere i propri scopi. E Žižek aggiunge: “Bene… signori… sapete a cosa somiglia questa violenza divina? Ecco, considerate il Terrore, degli anni tra il 1792 ed il 1794: quello era Violenza Divina”3.
Questa idea di furore irragionevole e divinamente ispirato è lo spauracchio attraverso il quale l’Occidente “conosce” il “terrorismo” islamico. Si presenta come un asserita “passione per la morte” che in realtà è soltanto una furente brama di distruzione. Ritratto a queste tinte, esso rappresenta l’idea che soltanto pagando quello che dobbiamo pagare in termini di sangue versato la corruzione e gli eccessi del passato potranno essere spazzati via. Nell’ultimo discorso di Robespierre nel 1794, pronunciato il giorno avanti del suo arresto e della sua esecuzione, egli sottolineò queste esperienze di “purezza” tra i rivoluzionari, l’amore sublime per la patria e quello ancora più sublime per il genere umano, “senza il quale una grande rivoluzione è soltanto un crimine rumoroso che ne distrugge un altro”4. In breve si tratta di un fantasma gonfio di colpa, di giusto castigo e di salvezza finale.
Tutto questo è anche molto cristiano. La relazione tra la divinità ed un violento ricambiare viene dai temi apocalittici del cristianesimo, e più specificamente da Sant’Agostino (354-430). Agostino era all’inizio un seguace del manicheismo, che considerava il male come una caratteristica ineliminabile dal mondo. Mentre Mani, il fondatore della religione manichea, credeva che gli esseri umani fossero coinvolti in una vera guerra che infuriava tra bene e male e che sarebbe durata in eterno, i seguaci di Gesù consideravano dei “tempi ultimi” in cui il male sarebbe stato distrutto per sempre. Sant’Agostino pensava che la natura umana fosse imperfetta in modo irrimediabile, e questa visione basata su un peccato originale, la condizione di colpevolezza cui esso aveva dato luogo ed i ricorrenti tentativi di porre ad essa rimedio divennero una parte fondamentale dell’ortodossia cristiana5.
Col continuare della guerra tra oscurità e luce, gli esseri umani sono stati sopraffatti dal male, e il contraccambiare divino è stato concepito nella forma di un evento apocalittico che misteriosamente conduce non alla catastrofe ma alla salvezza. Per i cristiani moderni come G. K. Chesterton, questa sorta di “violenza divina” muoveva da persone che perdevano la presa sul senso comune e che non erano capaci di vedere le cose come sono realmente; ma per la maggior parte degli occidentalisti laici la violenza dei rivoluzionari francesi e quella degli “estremisti” islamici sono la stessa cosa, la stessa malvagità implacabile e la stessa aggressività.
Essi pensano che sia inutile cercare in essa un qualunque significato, o pretendere che ne abbia uno. Si tratta solo di rancore che diventa furibonda brama di distruzione. Ma la realtà è che i rivoluzionari di Francia non erano mossi da cattive intenzioni, come attesta l’espressione di Robespierre in cui si parla di tenace amore; essi riflettevano piuttosto il tema, caro al primo cristianesimo, dei “tempi ultimi”, intesi in un senso utopistico laico, che avrebbero rifondato la vita umana su basi interamente nuove6.
La necessità di porre un qualche freno all’imperversare della violenza “di ispirazione divina”, che aveva devastato l’Europa durante la Guerra dei Trent’Anni (1618-1648), nel 1851 era di centrale importanza negli scritti di Thomas Hobbes; il tema centrale nel suo Leviatano, un’opera che ebbe vasta influenza, era la condizione di insicurezza in cui gli uomini si trovano rispetto alla paura di una morte violenta e la conseguente necessità di controllare il “fanatismo” religioso. Scrivendo all’epoca della guerra civile inglese, Hobbes difendeva la necessità di un contratto sociale tra l’individuo ed un governo o una monarchia necessariamente “forti” dal quale risultasse che questi ultimi ricambiavano l’obbedienza del singolo individuo garantendo la sua sicurezza. Obbedendo ad un governo del genere gli esseri umani avrebbero potuto superare le paure e le insicurezze derivanti da quanto di capriccioso e mortifero ad ispirazione divina potesse mai scatenarsi.
Il costrutto hobbesiano del contratto sociale tra il governo e l’individuo, in cui la legge naturale e l’autoconservazione vengono considerati la stessa cosa, fu il punto di partenza da cui John Locke (1632-1704) espresse le proprie considerazioni, più ottimistiche di quelle di Hobbes, ed affermò la naturale bontà del genere umano. Locke sostiene che l’ineludibile ricerca della felicità e del piacere, se condotta razionalmente, conduce naturalmente all’armonia; nel lungo periodo la felicità dei singoli e il benessere generale finiscono per coincidere, grazie all’opera della mano invisibile. In questa forma di stato, basata sul contratto sociale, tutte le persone erano uguali e indipendente, e nessuno aveva il diritto di interferire nelle altrui “vita, salute, libertà o proprietà”.
Le idee di Locke hanno informato di sé il pensiero occidentale per i successivi trecento anni. Il sistema di controlli competitivi e di contrappesi nei meccanismi del governo, così come sono delineati nella costituzione degli Stati Uniti, furono ideati da Locke. Il suo concetto di diritti umani che originano naturalmente sottendeva l’utilizzo dei diritti, inteso dai padri fondatori americani, come base attorno alla quale lo stato americano avrebbe dovuto essere costruito.
Nel basare i diritti umani sull’individuo, sulla sua proprietà e sulla sua libertà, Locke fornì però una giustificazione laica ed intellettuale alla mano invisibile ed ai meccanismi del mercato che poi, nei successivi duecento e più anni, si sarebbero tradotti in una sinistra orgia di stati-nazione e di pulizia etnica. Locke incoraggiò anche un concetto di diritti basato sul possidente maschio e di razza bianca, a spese di qualsiasi diritto della comunità nel suo complesso. Il fascino emotivo che nell’Occidente contemporaneo suscitano le violazioni dei diritti del singolo finisce spesso per mascherare le assai peggiori violazioni che continuano a colpire popoli interi e che vengono commesse in nome dell’occidentalizzazione e per conto di essa: valga come esempio la cecità occidentale a cospetto del massacro degli armeni. Tutto questo può essere fatto risalire a Locke.
Locke avanzò l’idea di una tolleranza che consentisse al governo di ergersi al di sopra di una moltitudine di religioni in competizione tra di loro. Il cattolicesimo romano tuttavia era a suo avviso troppo minaccioso, dato che portava con sé il rischio di un ritorno alla comunità sacrale. Avrebbe dovuto essere messo fuori legge in quanto nemico dello stato. E la tolleranza di Locke non si estendeva neppure a coloro che vivevano al di fuori di questa autodefinita condizione umana fatta di razionalità empirica e di autoconsapevolezza individuale; tutti nemici da schiacciare.
I detriti della storia
Questo concetto di tolleranza polarizzava l’umanità intera: da una parte i civilizzati, dall’altra quelli oltre le frontiere della civiltà, ai quali non dovevano essere estese né tolleranza né protezione. Questo è il concetto che legittima l’esclusione occidentale dei combattenti islamici e dei loro leader politici dalla tutela del diritto internazionale, e che nega ad essi ogni diritto. Il germe di questo modo contemporaneo di affrontare la questione era contenuto sin dal principio nel pensiero dei fondatori degli Stati Uniti d’America. Viene qui alla luce l’ostilità latente contro l’idea di una religiosità condivisa a livello comunitario, che a sua volta è un retaggio delle lotte puritane; un pregiudizio che ancora sottende la società occidentale laicizzata.
Hobbes aveva identificato la basilare ragione di esistere dello stato nei termini di questa implicita ostilità, che si trasformava nella richiesta di emancipazione degli individui dal timore della “violenza divina”, quella violenza divina che aveva tanto segnato l’Europa durante le guerre civili e religiose che aveva attraversato. Il contratto sociale concepito da Hobbes, e la concezione di Locke di un “sé autoconsapevole” e dei diritti naturali dell’individuo singolo hanno costruito la definizione di libertà come essa viene intesa nel mondo moderno7.
In breve, fin dal suo consolidarsi lo stato nazione è stato definito attorno all’idea protestante di una “violenza di ispirazione divina” che si dirige contro singoli individui che ne sono vittime per definizione, ed attorno al perseguimento di diritti di tipo individualista: la legittimità dello stato nazione è stata fatta dipendere da questi concetti. Va da sé che tutto questo ha finito per rappresentare la narrativa storica così come la intendono i vincitori. Il trionfo dell’etica protestante, portato nel contesto della costruzione dell’edificio statale. Nell’epoca contemporanea la portata di questi concetti è stata estesa fino a contemplare un ulteriore “diritto” della “comunità internazionale” di intervenire negli affari di altri stati, se necessario con la forza, per proteggere i diritti individuali.
Non sorprende sapere che il retaggio di Hobbes e di Locke rappresenta il cardine della legittimazione attorno al quale gli stati occidentali hanno fatto gruppo per tutelare se stessi, proprio nel momento in cui lo spettro della “violenza divina” dell’epoca contemporanea compare di nuovo in forma di resistenza islamica armata, oppure come gli atti della minoranza che ha adottato le tattiche di mobilitazione di AlQaeda basate sullo shock e la paura.
Ma torniamo adesso all’Angelus Novus di Paul Klee. In questo caso, non si tratta di furore divino che esplode in rappresaglie rabbiose. Quello che cattura l’angelo contro i suoi vani sforzi di rimanersene saldo, e lo spinge mentre ancora volge indietro lo sguardo ad osservare i crescenti cumuli di macerie prodotti dalla storia, è il vento del progresso laico.
Una seconda scorsa alle affermazioni di Benjamin ci mostra che quella che l’angelo contempla fissamente non è che una singola catastrofe. Laddove noi umani, ciechi davanti alla realtà, riusciamo a percepire soltanto una concatenazione di eventi storici, l’angelo non vede che una catastrofe unica, che continua a provocare macerie e ad ammassarle ai suoi piedi. Il nome della catastrofe è progresso, e l’angelo ne contempla le tragedie; ma nonostante il suo desiderio di rimanere, per poter rendere l’umanità consapevole del disastro e fare in modo che le cose migliorino, arriva l’irruzione del progresso a spazzarlo semplicemente via come con un’ondata di marea, lasciando i suoi ammonimenti allo stato di lettera morta.
Quello di Benjamin non è un racconto di collera divina; è il racconto di una condizione umana che non si cura delle rovine della storia che le si accumulano attorno, trattenuta saldamente com’è dalla brama di progredire. Si tratta di un tutt’uno catastrofico che gli esseri umani non riescono a vedere perché continuano a considerare le rovine non come rovine, ma come una naturale evoluzione degli eventi di tipo darwiniano. Come se si trattasse della storia stessa, in marcia verso il suo culmine.
Nell’ultimo capitolo abbiamo mostrato in che modo i movimenti islamici come Hamas e Hezbollah fondino la propria resistenza su valori umani. Come ha affermato Mesha’al
Hobbes aveva identificato la basilare ragione di esistere dello stato nei termini di questa implicita ostilità, che si trasformava nella richiesta di emancipazione degli individui dal timore della “violenza divina”, quella violenza divina che aveva tanto segnato l’Europa durante le guerre civili e religiose che aveva attraversato. Il contratto sociale concepito da Hobbes, e la concezione di Locke di un “sé autoconsapevole” e dei diritti naturali dell’individuo singolo hanno costruito la definizione di libertà come essa viene intesa nel mondo moderno7.
In breve, fin dal suo consolidarsi lo stato nazione è stato definito attorno all’idea protestante di una “violenza di ispirazione divina” che si dirige contro singoli individui che ne sono vittime per definizione, ed attorno al perseguimento di diritti di tipo individualista: la legittimità dello stato nazione è stata fatta dipendere da questi concetti. Va da sé che tutto questo ha finito per rappresentare la narrativa storica così come la intendono i vincitori. Il trionfo dell’etica protestante, portato nel contesto della costruzione dell’edificio statale. Nell’epoca contemporanea la portata di questi concetti è stata estesa fino a contemplare un ulteriore “diritto” della “comunità internazionale” di intervenire negli affari di altri stati, se necessario con la forza, per proteggere i diritti individuali.
Non sorprende sapere che il retaggio di Hobbes e di Locke rappresenta il cardine della legittimazione attorno al quale gli stati occidentali hanno fatto gruppo per tutelare se stessi, proprio nel momento in cui lo spettro della “violenza divina” dell’epoca contemporanea compare di nuovo in forma di resistenza islamica armata, oppure come gli atti della minoranza che ha adottato le tattiche di mobilitazione di AlQaeda basate sullo shock e la paura.
Ma torniamo adesso all’Angelus Novus di Paul Klee. In questo caso, non si tratta di furore divino che esplode in rappresaglie rabbiose. Quello che cattura l’angelo contro i suoi vani sforzi di rimanersene saldo, e lo spinge mentre ancora volge indietro lo sguardo ad osservare i crescenti cumuli di macerie prodotti dalla storia, è il vento del progresso laico.
Una seconda scorsa alle affermazioni di Benjamin ci mostra che quella che l’angelo contempla fissamente non è che una singola catastrofe. Laddove noi umani, ciechi davanti alla realtà, riusciamo a percepire soltanto una concatenazione di eventi storici, l’angelo non vede che una catastrofe unica, che continua a provocare macerie e ad ammassarle ai suoi piedi. Il nome della catastrofe è progresso, e l’angelo ne contempla le tragedie; ma nonostante il suo desiderio di rimanere, per poter rendere l’umanità consapevole del disastro e fare in modo che le cose migliorino, arriva l’irruzione del progresso a spazzarlo semplicemente via come con un’ondata di marea, lasciando i suoi ammonimenti allo stato di lettera morta.
Quello di Benjamin non è un racconto di collera divina; è il racconto di una condizione umana che non si cura delle rovine della storia che le si accumulano attorno, trattenuta saldamente com’è dalla brama di progredire. Si tratta di un tutt’uno catastrofico che gli esseri umani non riescono a vedere perché continuano a considerare le rovine non come rovine, ma come una naturale evoluzione degli eventi di tipo darwiniano. Come se si trattasse della storia stessa, in marcia verso il suo culmine.
Nell’ultimo capitolo abbiamo mostrato in che modo i movimenti islamici come Hamas e Hezbollah fondino la propria resistenza su valori umani. Come ha affermato Mesha’al
Noi, come tutti gli esseri umani, amiamo la vita, ma amiamo una vita basata su dignità e su solidi principi. Quando diciamo, come palestinesi, come arabi, come musulmani, che per liberare il nostro popolo dalla sua condizione di ingiustizia e di occupazione militare siamo pronti a morire, non lo diciamo perché odiamo la vita, assolutamente, ma perché vogliamo morire in modo che il resto del nostro popolo possa vivere in libertà e dignità. Alcune persone si sacrificano perché le altre possano vivere. Noi sentiamo di avere una precisa responsabilità: non siamo mossi da odio per la vita o dal desiderio di morire di per sé8.
Abbiamo sostenuto anche che l’Islam riconosce in questi valori dei valori essenziali. Il rispetto dell’essere umano, della sua dignità e della sua vita sono tutti aspetti dell’Islam e non vengono considerati come mezzi per conseguire un fine. Hamas definisce la resistenza non come un mezzo per conseguire un fine pragmatico o per “conquistare il potere”; la inquadra in una visione islamica universale che colloca determinati valori prima della politica. Hamas resiste per costringere Israele e tutto l’Occidente a riconoscere questi principi. Non lo fanno per ostinazione ma perché credono che ogni tentativo di risolvere il conflitto che non presti la dovuta attenzione a questi principi di giustizia e di equità sia destinato al fallimento. Gli islamici stanno utilizzando la resistenza per sfidare il paradigma dominante basato sul pensiero strumentale. Stanno resistendo, come suggerisce Mesha’al, per costringere Israele a cambiare comportamento.
Hezbollah fa propria la cultura della resistenza, a nostro parere, non soltanto per difendere la sua gente ma anche per capovolgere la graduatoria delle priorità nella vita delle persone; per elevare oltre il pragmatismo i principi fondamentali, per restituire alla cultura la sua dimensione politica e fare di essa una base da cui cominciare ad “agire politicamente”, e per invertire la tendenza occidentale a privilegiare l’individuo a scapito della collettività. Hamas sta così proponendo anche un modello per un mutamento comportamentale.
Hezbollah agisce come qualcuno che ricordi all’Occidente certe antiche verità “che tutti conoscevano”, come specifica il Corano: verità secondo le quali gli esseri umani devono comportarsi secondo giustizia, rispetto, equità e compassione9. In quanto islamici, essi guardano le rovine degli ultimi due secoli di storia, con tutti i genocidi, i massacri, le pulizie etniche e le guerre, e chiedono che le “antiche verità” tornino ad agire.
Purtroppo, la loro voce non trova ascoltatori, proprio come l’angelo della storia che cerca di fermare la montante catastrofe della modernità laica. La Hubris, semplicemente, ammucchia tragedie sempre nuove ai piedi dell’angelo.
Non si tratta di rabbia vendicativa di origine divina: sono voci umane quelle che fanno eco alla disperazione dell’angelo. I leader di Hamas non ricevono indicazioni da Dio, ma capiscono che nel messaggio finale di Dio agli uomini, Dio comandò che essi si comportassero gli uni con gli altri in modo diverso. La resistenza rappresenta il rifiuto di considerare l’ingiustizia come un fatto normale. Rappresenta il rifiuto di continuare a subire in silenzio.
Hezbollah fa propria la cultura della resistenza, a nostro parere, non soltanto per difendere la sua gente ma anche per capovolgere la graduatoria delle priorità nella vita delle persone; per elevare oltre il pragmatismo i principi fondamentali, per restituire alla cultura la sua dimensione politica e fare di essa una base da cui cominciare ad “agire politicamente”, e per invertire la tendenza occidentale a privilegiare l’individuo a scapito della collettività. Hamas sta così proponendo anche un modello per un mutamento comportamentale.
Hezbollah agisce come qualcuno che ricordi all’Occidente certe antiche verità “che tutti conoscevano”, come specifica il Corano: verità secondo le quali gli esseri umani devono comportarsi secondo giustizia, rispetto, equità e compassione9. In quanto islamici, essi guardano le rovine degli ultimi due secoli di storia, con tutti i genocidi, i massacri, le pulizie etniche e le guerre, e chiedono che le “antiche verità” tornino ad agire.
Purtroppo, la loro voce non trova ascoltatori, proprio come l’angelo della storia che cerca di fermare la montante catastrofe della modernità laica. La Hubris, semplicemente, ammucchia tragedie sempre nuove ai piedi dell’angelo.
Non si tratta di rabbia vendicativa di origine divina: sono voci umane quelle che fanno eco alla disperazione dell’angelo. I leader di Hamas non ricevono indicazioni da Dio, ma capiscono che nel messaggio finale di Dio agli uomini, Dio comandò che essi si comportassero gli uni con gli altri in modo diverso. La resistenza rappresenta il rifiuto di considerare l’ingiustizia come un fatto normale. Rappresenta il rifiuto di continuare a subire in silenzio.
Il significato di resistere
Il principale filone della resistenza islamica non ha l’obiettivo di risolvere le cose con la forza, ma di rivelare e di mettere in mostra le cause del mucchio di macerie che cresce ai piedi dell’angelo, di sensibilizzare la consapevolezza delle persone che sono capaci di intendere, e di trovare la strada verso un differente modo di vivere. Si tratta dunque di definire il futuro, non di dare sfogo all’odio, nonostante chiari sentimenti di odio persistano in piccoli gruppi che il continuo aumentare del mucchio di rovine ha condotto ad abbracciare una visione escatologica delle cose.
Il nostro religioso iraniano, quello che abbiamo presentato all’inizio di questo libro, riassumeva in questo modo il motivo del martirio e della resistenza.
Il nostro religioso iraniano, quello che abbiamo presentato all’inizio di questo libro, riassumeva in questo modo il motivo del martirio e della resistenza.
Quando i nostri valori ed i nostri principi vengono messi al palo o vengono infranti, noi offriamo in sacrificio il nostro corpo di uomini: il nostro spirito, comunque, resta a preservarli.
E’ il linguaggio dei valori, tratto dal repertorio dell’esperienza umana, che stabilisce una relazione universale tra noi e gli altri pensatori del mondo. Se vogliamo capire il perché di un cattivo utilizzo del linguaggio, dobbiamo prima considerare la definizione stessa di essere umano. Se siamo intenzionati ad utilizzare il linguaggio nel modo corretto, dobbiamo prima cominciare da concetti comuni e sui quali esiste accordo. Fino a quando non si fa questo, non ci sarà dialogo che possa avere successo.
Come è possibile discutere di questi profondi valori carichi di implicazioni, con qualcuno che non possiede alcuna coscienza morale o con qualcuno che ha completamente eliminato la razionalità dai suoi calcoli? Secondo me, un dialogo sui valori etici con una persona che crede che la forza e la potenza sono i valori più importanti non ha alcuna rilevanza. Pace e giustizia sono assiomatiche solo per chi le riconosce come valori ultimi e definitivi.
Per riassumere, io credo che per avere un fruttuoso dialogo con l’Occidente, dobbiamo prima considerare il significato ed il concetto espresso dai valori morali. Dobbiamo mostrare che nel corrente utilizzo occidentale concetti come libertà, giustizia e benessere comune hanno poca sostanza e poco valore morale; e se vogliamo comprendere questi concetti e restituire loro un significato, dobbiamo iniziare ridefinendo il concetto di essere umano e dei valori che gli sono propri. Arbitro ultimo in questo dialogo è la ragione. Un giudizio finale va sottoposto all’intelletto umano, e l’umana coscienza dovrebbe costituire il fondamento da cui muovere per la comprensione di questi concetti.
Noi pensiamo che invece di dialogare con dei politici o con delle persone tendenziose, dovremmo rivolgerci a persone che hanno mentalità improntate al senso di giustizia ed alle vere coscienze del mondo occidentale. Io credo che se uniamo i nostri sforzi e ci prendiamo il tempo necessario a creare un vocabolario comune dei concetti che ci interessano, alla fine ci saranno molte persone disposte ad ascoltarci.
Credo che ci sia bisogno di esprimere con chiarezza questi valori e l’ideologia che li accompagna. Purtroppo il monopolio dei mass media occidentali non ci mette in condizioni di poterlo fare.
La resistenza si rivela uno strumento in grado di portare alla luce l’aspetto essenziale del conflitto: il portare l’attenzione su principi dimenticati. La scelta di resistere riflette un vero paradosso: la necessità di adottare la resistenza con fini provocatori, per giungere ad un dialogo autentico. Il fatto che l’Occidente detenga il monopolio dei mass media, come riferito dal religioso, non è l’unico problema. Il problema è ancora più profondo: in Occidente si è mal utilizzato il linguaggio per fini ideologici: il linguaggio è stato plasmato in modo da ridicolizzare l’islam come se fosse un istinto reazionario che resiste alla modernità o che è incapace di accoglierla, a seconda dei casi.
Il linguaggio è stato oggetto di sforzi diretti a mettere fuori questione ogni possibilità di dibattito e di formulazione del pensiero, trasmettendo la certezza che quando gli islamici parlano non hanno comunque nulla da dire, e che quando ce l’hanno si tratta o di roba senza senso o di menzogne. Se non c’è modo di ascoltare gli islamici in mezzo al soverchiante clamore della denigrazione, la resistenza diventa l’inevitabile risultato cui conduce la politica occidentale. Essa tira la volata alla resistenza, che diventa lo strumento per emancipare il genere umano da una manipolazione ideologica che contribuisce a rendere invisibili le macerie prodotte dalla storia.
La formulazione hobbesiana che si trova nel Leviatano, abbiamo detto, può essere vista come prodotta dai vincitori. Mettendo insieme una narrativa partendo dalla Guerra dei Trent’Anni, Hobbes ritrae un individuo che vive nel costante timore per la propria vita a causa della violenza del fanatismo religioso. Hobbes isola da tutto il resto il luogo comune del conflitto, ovvero che le vittime di esso siano per lo più individui vulnerabili, per costruire una giustificazione al contratto sociale che lega gli individui ad un governo forte.
Questa è un’operazione ideologica che implica un’opposizione essenziale tra una visione della religiosità vissuta all’interno di una comunità sacralizzzata da una parte, e gli interessi dei suoi singoli appartenenti intesi come individui dall’altra. Il tutto nasconde le vere basi del conflitto, che aveva luogo tra la comunità cattolica da una parte ed i protestanti dall’altra. I protestanti vinsero, e non sorprende che Hobbes distorca l’individualismo protestante fino a farne un principio che si erge in opposizione alla collettività. Questo meccanismo viene utilizzato per giustificare l’individualizzazione della società e per sostituire alla sovranità divina la sovranità di un governo.
Il fatto che la messa a punto della narrativa hobbesiana fosse un’operazione ideologica è chiaro dal titolo del libro, il Leviatano, che nella Bibbia è un mostro acquatico, probabilmente un coccodrillo, una balena o un drago. Era un simbolo di quel male che il potere del bene avrebbe sconfitto definitivamente10. A diventare invisibile in questo costrutto è però la base stessa della guerra: la violenza dei protestanti aveva la stessa “ispirazione divina” di quella dei cattolici.
Entrambi le parti in conflitto usarono principi religiosi per giustificare la violenza che mettevano in atto. Ritrarre la vittoria protestante come se fosse stata il risultato di una lotta contro una violenza di ispirazione divina significa operare una distorsione ideologica. Questo pone sul tavolo anche un’altra questione, ossia se la preoccupazione degli occidentali nei confronti della violenza di ispirazione divina abbia davvero un significato: sia lo stato-nazione di Hobbes che i diritti umani naturali di Locke originarono, come abbiamo visto, dal pensiero protestante.
La definizione di Locke del sé come naturalmente autoconsapevole, cosciente di piacere e dolore, capace di felicità o di tristezza e quindi essenzialmente preoccupato di se stesso, un sé che nasce come tabula rasa, su cui man mano le idee si accumulano come iscrizioni derivando dalla diretta esperienza sensibile, è qualche cosa che sta in opposizione diretta a quello che secondo gli islamici è il concetto di “essenza dell’essere umano”.
Entrambi i concetti riflettono introspezioni di tipo religioso: è forse appropriato considerare la difesa di queste introspezioni religiose, la resistenza islamica, come se si trattasse di una furia ad ispirazione divina, e al tempo stesso considerare puramente e semplicemente “legittimo uso della forza” il sistematico utilizzo della violenza sulla base delle introspezioni di Locke? I due concetti sono o non sono entrambi radicati nell’introspezione religiosa?
La fissità stupita dell’angelo, centrata su quella che è tutta una catastrofe che gli esseri umani sminuiscono considerandola tra le perdite conseguenza naturale dell’evoluzione, riflette la perdurante invisibilità della violenza sistematica che accompagna la vita confortevole che Locke stava tratteggiando per gli inglesi e per i padri fondatori dell’America.
Il linguaggio è stato oggetto di sforzi diretti a mettere fuori questione ogni possibilità di dibattito e di formulazione del pensiero, trasmettendo la certezza che quando gli islamici parlano non hanno comunque nulla da dire, e che quando ce l’hanno si tratta o di roba senza senso o di menzogne. Se non c’è modo di ascoltare gli islamici in mezzo al soverchiante clamore della denigrazione, la resistenza diventa l’inevitabile risultato cui conduce la politica occidentale. Essa tira la volata alla resistenza, che diventa lo strumento per emancipare il genere umano da una manipolazione ideologica che contribuisce a rendere invisibili le macerie prodotte dalla storia.
La formulazione hobbesiana che si trova nel Leviatano, abbiamo detto, può essere vista come prodotta dai vincitori. Mettendo insieme una narrativa partendo dalla Guerra dei Trent’Anni, Hobbes ritrae un individuo che vive nel costante timore per la propria vita a causa della violenza del fanatismo religioso. Hobbes isola da tutto il resto il luogo comune del conflitto, ovvero che le vittime di esso siano per lo più individui vulnerabili, per costruire una giustificazione al contratto sociale che lega gli individui ad un governo forte.
Questa è un’operazione ideologica che implica un’opposizione essenziale tra una visione della religiosità vissuta all’interno di una comunità sacralizzzata da una parte, e gli interessi dei suoi singoli appartenenti intesi come individui dall’altra. Il tutto nasconde le vere basi del conflitto, che aveva luogo tra la comunità cattolica da una parte ed i protestanti dall’altra. I protestanti vinsero, e non sorprende che Hobbes distorca l’individualismo protestante fino a farne un principio che si erge in opposizione alla collettività. Questo meccanismo viene utilizzato per giustificare l’individualizzazione della società e per sostituire alla sovranità divina la sovranità di un governo.
Il fatto che la messa a punto della narrativa hobbesiana fosse un’operazione ideologica è chiaro dal titolo del libro, il Leviatano, che nella Bibbia è un mostro acquatico, probabilmente un coccodrillo, una balena o un drago. Era un simbolo di quel male che il potere del bene avrebbe sconfitto definitivamente10. A diventare invisibile in questo costrutto è però la base stessa della guerra: la violenza dei protestanti aveva la stessa “ispirazione divina” di quella dei cattolici.
Entrambi le parti in conflitto usarono principi religiosi per giustificare la violenza che mettevano in atto. Ritrarre la vittoria protestante come se fosse stata il risultato di una lotta contro una violenza di ispirazione divina significa operare una distorsione ideologica. Questo pone sul tavolo anche un’altra questione, ossia se la preoccupazione degli occidentali nei confronti della violenza di ispirazione divina abbia davvero un significato: sia lo stato-nazione di Hobbes che i diritti umani naturali di Locke originarono, come abbiamo visto, dal pensiero protestante.
La definizione di Locke del sé come naturalmente autoconsapevole, cosciente di piacere e dolore, capace di felicità o di tristezza e quindi essenzialmente preoccupato di se stesso, un sé che nasce come tabula rasa, su cui man mano le idee si accumulano come iscrizioni derivando dalla diretta esperienza sensibile, è qualche cosa che sta in opposizione diretta a quello che secondo gli islamici è il concetto di “essenza dell’essere umano”.
Entrambi i concetti riflettono introspezioni di tipo religioso: è forse appropriato considerare la difesa di queste introspezioni religiose, la resistenza islamica, come se si trattasse di una furia ad ispirazione divina, e al tempo stesso considerare puramente e semplicemente “legittimo uso della forza” il sistematico utilizzo della violenza sulla base delle introspezioni di Locke? I due concetti sono o non sono entrambi radicati nell’introspezione religiosa?
La fissità stupita dell’angelo, centrata su quella che è tutta una catastrofe che gli esseri umani sminuiscono considerandola tra le perdite conseguenza naturale dell’evoluzione, riflette la perdurante invisibilità della violenza sistematica che accompagna la vita confortevole che Locke stava tratteggiando per gli inglesi e per i padri fondatori dell’America.
Il nazionalismo e la trasformazione della moralità laica
Benedict Anderson ha sostenuto che l’alba dell’era dei nazionalismi, che Hobbes e Locke simboleggiano, ha segnato anche l’eclissi del pensiero religioso: “Il secolo dei Lumi, del laicismo razionalista, ha portato con sé una sua moderna oscurità”11.
“La disintegrazione del paradiso… non c’è nulla [più della prospettiva del vuoto] che renda la mortalità più arbitraria… niente che renda più necessaria una qualche altra forma di continuità”12 . In breve, come anche Hobbes aveva riconosciuto nei suoi scritti, la sicurezza e l’ordine sono segni, in piena eclissi dei valori religiosi, del permanere nonostante tutto del desiderio umano di respingere l’ancor più spaventoso disordine che la morte rappresenta.
Occorreva allora che il concetto di mortalità si trasformasse, laicamente, in continuità; e quello di immanenza in significato.
“La disintegrazione del paradiso… non c’è nulla [più della prospettiva del vuoto] che renda la mortalità più arbitraria… niente che renda più necessaria una qualche altra forma di continuità”12 . In breve, come anche Hobbes aveva riconosciuto nei suoi scritti, la sicurezza e l’ordine sono segni, in piena eclissi dei valori religiosi, del permanere nonostante tutto del desiderio umano di respingere l’ancor più spaventoso disordine che la morte rappresenta.
Occorreva allora che il concetto di mortalità si trasformasse, laicamente, in continuità; e quello di immanenza in significato.
Se è diffusa l’usanza di classificare come “nuovi” o “storici” gli stati-nazione, le nazioni a cui essi forniscono espressione politica spesso appaiono come provenienti da un passato distante nella memoria, e, cosa ancora più importante, come dirette verso un futuro indistinto. La magia del nazionalismo sta nel trasformare una possibilità in un destino. Potremmo dire, con Debray, “Sì, che io sia nato francese è più che altro un caso; ma dopotutto, è la Francia ad essere eterna”13.
In assenza di una coscienza religiosa siamo, secondo la definizione del Professor Eagleton, “da cima a fondo coperti dallo scandalo della nostra stessa non indispensabilità”. Dal momento che si tratta di una condizione potenzialmente debilitante, il nazionalismo come ideologia ha ragione di esistere perché riesce a convincerci che siamo tutti necessari e che la nostra esistenza ha un qualche scopo. Cosa più importante, il nazionalismo serve a conferire all’esistenza uno scopo che non sia l’esistere di per sé.
In questo modo lo stato-nazione sostituisce l’aldilà svanito con il senso di continuità della nazione. Lo stato si addossa le funzioni che un tempo appartenevano all’àmbito del sacro, e la nazione fa propria la “legittimità degli scopi” in precedenza attribuita a Dio.
Il nazionalismo diventa una costruzione simbolica fatta di caratteristiche trascendentali:
In questo modo lo stato-nazione sostituisce l’aldilà svanito con il senso di continuità della nazione. Lo stato si addossa le funzioni che un tempo appartenevano all’àmbito del sacro, e la nazione fa propria la “legittimità degli scopi” in precedenza attribuita a Dio.
Il nazionalismo diventa una costruzione simbolica fatta di caratteristiche trascendentali:
La nazione è immortale, indivisibile, invisibile e al tempo stesso onnicomprensiva, senza origine né fine, degna del nostro amore più fervido, e base stessa del nostro essere.
Come Dio, anche la sua esistenza è una questione di fede collettiva. Non ci sarebbe una nazione se non avessimo creduto che ne esistesse una14.
La violenza che si è manifestata prima dello stato-nazione non cessa dopo la fondazione dello stato. Essa assume semplicemente una nuova identità: quello che prima era soltanto violenza diventa compito dell’esercito, e le forze di sicurezza diventano forze legittime. Delle sue caratteristiche temibili e distruttive si fanno carico l’ufficialità e la familiarità. Il nuovo ordine arriva a comprendere quella violenza che gli era prima esterna e minacciosa e a porla al suo centro, come violenza istituzionalizzata, facendone il primo simbolo dell’orgoglio nazionalista e della sovranità.
Questa legittimazione dei motivi alla base dell’azione dello stato ha fatto sì che le conseguenze della violenza sistematica ed istituzionalizzata dallo stato scomparissero alla vista, mentre la violenza dei singoli e le catastrofi naturali assumono sempre più le vesti di preoccupazioni collettive dal carattere ossessivo.
L’epoca contemporanea è un’epoca post politica che aspira ad elevarsi al di sopra delle divisioni ideologiche, in un mondo dominato da una docilità autopacificata stabilita in armonia con uno stile di vita centrato sui piaceri, in cui il futuro non è altro che un estendersi della ricerca di comodità e sicurezza; in essa, ogni violenza che minacci la vulnerabilità e la sicura amministrazione della vita viene percepita come spaventosa, sia che si tratti di un disastro naturale sia che si tratti della violenza esercitata da un Altro irrazionale.
Nelle società contemporanee i preoccupati ed ansiosi occidentali sono spesso disposti a definirsi come contrari ad ogni violenza, facendo pensare che non esistano violenze buone e violenze cattive. Poi però sono pronti ad appoggiare la violenza continuamente messa in atto dalle forze armate dello stato, considerando la cosa come legittima e dotata di uno scopo. Pensano che questa legittimazione derivi dal fatto che tale violenza fornisce il suo necessario contributo all’armonia e all’ordine. E questo ideale di armonia diventa qualcosa che si colloca al di sopra delle preoccupazioni circa la violenza messa in campo per giungere alla sua instaurazione.
In nome del progresso, delle riforme necessarie al libero mercato e della diffusione della democrazia vengono dunque tollerate, e velocemente dimenticate, cose come i genocidi, i massacri e la pulizia etnica. Esiste, come ha notato Terry Eagleton, qualche cosa di patologico nella frenesia tutta occidentale con cui si instaurano gli stati-nazione; ricorda una primaria e feroce compulsione che è l’esatto opposto della libertà. Uno dei nomi di questa cosa è fondamentalismo; nel desiderio di conseguire uno stato di sicurezza assoluta, si devastano città intere facendo per vittime dei civili senza colpa15.
I liberali diventano stranamente illiberali ed incuranti delle vittime vulnerabili dei loro progetti di modernizzazione, in acuta contraddizione con la preoccupazione premurosa che ostentano verso coloro che rimangono vittime di disastri naturali. Ma gli altri che continuano ad esistere al di fuori dell’ordine naturale delle cose, come ha suggerito Locke nei suoi saggi sulla tolleranza, non possono essere tollerati in alcun modo non appena diano segno di comportarsi come degli ostacoli. Le reazioni smodate sembrano riflettere il timore che i muri simbolici di protezione eretti per tenere gli altri alla debita distanza possano cedere. La tolleranza occidentale sembra essere inversamente correlata all’estensione della “distanza di sicurezza” che c’è tra gli occidentali e gli altri16.
Negli anni trascorsi da quando Edward Said ha pubblicato la sua opera sull’orientalismo in Occidente, diventata ormai un classico, l’Occidente ha trasformato l’orientalismo in qualcosa di molto più serio di uno strumento per “addomesticare” l’Islam, che era poi la funzione dell’orientalismo identificata da Said. L’orientalismo è diventato un progetto inesorabile e fine a se stesso: la guerra al terrorismo ha trasformato l’orientalismo di Said dal suo iniziale scopo eurocentrico di rendere più docili i musulmani ad un nuovo paradigma che ridefinisce in modo nuovo la netta frontiera che Locke aveva stabilito tra civiltà e barbarie.
Questa legittimazione dei motivi alla base dell’azione dello stato ha fatto sì che le conseguenze della violenza sistematica ed istituzionalizzata dallo stato scomparissero alla vista, mentre la violenza dei singoli e le catastrofi naturali assumono sempre più le vesti di preoccupazioni collettive dal carattere ossessivo.
L’epoca contemporanea è un’epoca post politica che aspira ad elevarsi al di sopra delle divisioni ideologiche, in un mondo dominato da una docilità autopacificata stabilita in armonia con uno stile di vita centrato sui piaceri, in cui il futuro non è altro che un estendersi della ricerca di comodità e sicurezza; in essa, ogni violenza che minacci la vulnerabilità e la sicura amministrazione della vita viene percepita come spaventosa, sia che si tratti di un disastro naturale sia che si tratti della violenza esercitata da un Altro irrazionale.
Nelle società contemporanee i preoccupati ed ansiosi occidentali sono spesso disposti a definirsi come contrari ad ogni violenza, facendo pensare che non esistano violenze buone e violenze cattive. Poi però sono pronti ad appoggiare la violenza continuamente messa in atto dalle forze armate dello stato, considerando la cosa come legittima e dotata di uno scopo. Pensano che questa legittimazione derivi dal fatto che tale violenza fornisce il suo necessario contributo all’armonia e all’ordine. E questo ideale di armonia diventa qualcosa che si colloca al di sopra delle preoccupazioni circa la violenza messa in campo per giungere alla sua instaurazione.
In nome del progresso, delle riforme necessarie al libero mercato e della diffusione della democrazia vengono dunque tollerate, e velocemente dimenticate, cose come i genocidi, i massacri e la pulizia etnica. Esiste, come ha notato Terry Eagleton, qualche cosa di patologico nella frenesia tutta occidentale con cui si instaurano gli stati-nazione; ricorda una primaria e feroce compulsione che è l’esatto opposto della libertà. Uno dei nomi di questa cosa è fondamentalismo; nel desiderio di conseguire uno stato di sicurezza assoluta, si devastano città intere facendo per vittime dei civili senza colpa15.
I liberali diventano stranamente illiberali ed incuranti delle vittime vulnerabili dei loro progetti di modernizzazione, in acuta contraddizione con la preoccupazione premurosa che ostentano verso coloro che rimangono vittime di disastri naturali. Ma gli altri che continuano ad esistere al di fuori dell’ordine naturale delle cose, come ha suggerito Locke nei suoi saggi sulla tolleranza, non possono essere tollerati in alcun modo non appena diano segno di comportarsi come degli ostacoli. Le reazioni smodate sembrano riflettere il timore che i muri simbolici di protezione eretti per tenere gli altri alla debita distanza possano cedere. La tolleranza occidentale sembra essere inversamente correlata all’estensione della “distanza di sicurezza” che c’è tra gli occidentali e gli altri16.
Negli anni trascorsi da quando Edward Said ha pubblicato la sua opera sull’orientalismo in Occidente, diventata ormai un classico, l’Occidente ha trasformato l’orientalismo in qualcosa di molto più serio di uno strumento per “addomesticare” l’Islam, che era poi la funzione dell’orientalismo identificata da Said. L’orientalismo è diventato un progetto inesorabile e fine a se stesso: la guerra al terrorismo ha trasformato l’orientalismo di Said dal suo iniziale scopo eurocentrico di rendere più docili i musulmani ad un nuovo paradigma che ridefinisce in modo nuovo la netta frontiera che Locke aveva stabilito tra civiltà e barbarie.
Il nuovo orientalismo
Questo nuovo orientalismo ha provocato la nascita di un diverso strumentario politico. Non ci sono più soltanto gli strumenti utili ad imprimere sui colonizzati l’attestazione “oggettiva” del fatto che sono culturalmente dei primitivi. Ce ne sono anche altri, che definiscono in modo acuto quello che si intende per civiltà. Un politico israeliano ha paragonato Israele, inteso come simbolo della civiltà occidentale, ad una villa, ad un’oasi di vita civile, trasferita ai margini della giungla17. Con Gaza controllata da Hamas, ha scritto un giornalista israeliano, i tentacoli della giungla ed il suo crescere strisciante stavano arrampicandosi sui muri del giardino. La sua immagine sembrava suggerire che se uno fosse rimasto in silenzio avrebbe potuto sentire distintamente i versi degli animali della giungla dall’altra parte dei muri della villa. Gli altri stavano silenziosamente superando sia la distanza di sicurezza sia i limiti della tolleranza!
I “nuovi barbari” islamici sono così definiti perché vivono al di là delle mura del giardino, al di là della portata della civiltà; non c’è dunque bisogno di applicare le regole civili nei loro confronti. Se loro vincono le elezioni, non possono comunque essere parte di noi, dell’Occidente civilizzato. Quelli di loro che ricoprono cariche pubbliche o siedono nei pubblici consessi possono essere prelevati e posti in detenzione senza che si levi un fiato, gli appartenenti ai movimenti “barbari” possono essere arrestati e portati via, in carcere e alla tortura in altri paesi; e i capi barbari, legittimamente eletti oppure no, possono essere assassinati secondo il gradimento dei capi occidentali.
La violenza praticata dallo stato-nazione rappresenta la “legittima” risposta della civiltà, mentre la violenza praticata dagli attori non statali rappresenta una minaccia per la civiltà. Nel lessico del nuovo orientalismo non si ammette che i barbari possano possedere un movimento di resistenza: essi non stanno combattendo per la loro liberazione e non stanno combattendo contro l’oppressione. Ammettere tutto questo significherebbe ammettere che l’Occidente si comporta da oppressore e questo non può assolutamente essere. I capi politici come Blair indicano considerazioni come queste con espressioni come “falsi pretesti”, e pretendono che i musulmani britannici denuncino alle autorità questi pretesti immaginari. I musulmani possono anche andare a dire in giro che stanno combattendo per le loro case e per la loro terra, ma questa non è la verità. La loro vera motivazione è l’estremismo.
Quelli che resistono con le armi, ora definiti “terroristi” vengono banditi due volte: non soltanto vengono collocati al di fuori delle frontiere della civiltà, ma dal momento che non meritano che nei loro confronti si applichino le regole civili (come quella del rispetto per i rappresentanti eletti) devono essere esclusi anche dalla tutela del diritto internazionale.
Se l’Occidente non applica loro le regole civili ed è pronto ad utilizzare contro di loro una forza militare scatenata, c’è da sorprendersi se esiste una minoranza che si è messa a rispondere per le rime? E’ in questo senso che il “nuovo orientalismo” si è rivelato fine a se stesso. Il nuovo orientalismo ha alimentato le posizioni radicali ed ha dato spazio e ossigeno a quei movimenti minoritari del salafismo sunnita che pensano che sia impossibile venire a patti con l’Occidente e che ci sono poche altre scelte oltre a quella di incendiare il sistema, ossia i retaggi ancora esistenti del colonialismo, per cancellarlo con la violenza e per permettere ad uno stato islamico di emergere dalle ceneri.
Occorre distinguere tra il ramo principale della resistenza secondo la prospettiva islamica, che si concentra sul cercare di mettere alla luce le radici del conflitto e sul rifiuto di permettere una normalizzazione dell’ingiustizia, ed i rami rappresentati da coloro che negano che sia possibile venire a patti con un Occidente in trincea. Questi elementi minoritari, che pensano di far implodere l’intero edificio coloniale con qualche atto eclatante, si comportano in modo assai poco differente da quello che i politici occidentali hanno tentato di fare: anzi, le loro azioni sarebbero in paragone ben poca cosa.
I “nuovi barbari” islamici sono così definiti perché vivono al di là delle mura del giardino, al di là della portata della civiltà; non c’è dunque bisogno di applicare le regole civili nei loro confronti. Se loro vincono le elezioni, non possono comunque essere parte di noi, dell’Occidente civilizzato. Quelli di loro che ricoprono cariche pubbliche o siedono nei pubblici consessi possono essere prelevati e posti in detenzione senza che si levi un fiato, gli appartenenti ai movimenti “barbari” possono essere arrestati e portati via, in carcere e alla tortura in altri paesi; e i capi barbari, legittimamente eletti oppure no, possono essere assassinati secondo il gradimento dei capi occidentali.
La violenza praticata dallo stato-nazione rappresenta la “legittima” risposta della civiltà, mentre la violenza praticata dagli attori non statali rappresenta una minaccia per la civiltà. Nel lessico del nuovo orientalismo non si ammette che i barbari possano possedere un movimento di resistenza: essi non stanno combattendo per la loro liberazione e non stanno combattendo contro l’oppressione. Ammettere tutto questo significherebbe ammettere che l’Occidente si comporta da oppressore e questo non può assolutamente essere. I capi politici come Blair indicano considerazioni come queste con espressioni come “falsi pretesti”, e pretendono che i musulmani britannici denuncino alle autorità questi pretesti immaginari. I musulmani possono anche andare a dire in giro che stanno combattendo per le loro case e per la loro terra, ma questa non è la verità. La loro vera motivazione è l’estremismo.
Quelli che resistono con le armi, ora definiti “terroristi” vengono banditi due volte: non soltanto vengono collocati al di fuori delle frontiere della civiltà, ma dal momento che non meritano che nei loro confronti si applichino le regole civili (come quella del rispetto per i rappresentanti eletti) devono essere esclusi anche dalla tutela del diritto internazionale.
Se l’Occidente non applica loro le regole civili ed è pronto ad utilizzare contro di loro una forza militare scatenata, c’è da sorprendersi se esiste una minoranza che si è messa a rispondere per le rime? E’ in questo senso che il “nuovo orientalismo” si è rivelato fine a se stesso. Il nuovo orientalismo ha alimentato le posizioni radicali ed ha dato spazio e ossigeno a quei movimenti minoritari del salafismo sunnita che pensano che sia impossibile venire a patti con l’Occidente e che ci sono poche altre scelte oltre a quella di incendiare il sistema, ossia i retaggi ancora esistenti del colonialismo, per cancellarlo con la violenza e per permettere ad uno stato islamico di emergere dalle ceneri.
Occorre distinguere tra il ramo principale della resistenza secondo la prospettiva islamica, che si concentra sul cercare di mettere alla luce le radici del conflitto e sul rifiuto di permettere una normalizzazione dell’ingiustizia, ed i rami rappresentati da coloro che negano che sia possibile venire a patti con un Occidente in trincea. Questi elementi minoritari, che pensano di far implodere l’intero edificio coloniale con qualche atto eclatante, si comportano in modo assai poco differente da quello che i politici occidentali hanno tentato di fare: anzi, le loro azioni sarebbero in paragone ben poca cosa.
Un vento di nome progresso
La difesa a spada tratta che Milton Friedman fa della sua idea, quella di fare tabula rasa della mentalità collettiva di una nazione intera tramite un massiccio e disorientante shock che ne spazzi via i vecchi schemi di comportamento economico e sociale e permetta ai nuovi schemi di registrarsi in cervelli ripuliti è vicina, dal punto di vista concettuale, alle idee di Al Qaeda.
L’angelo della storia, comunque, continua a guardare. E mentre osserva le nuove rovine che si accumulano ai suoi piedi, prodotte da questa “guerra al terrore”, il suo sguardo fisso deve riflettere una sempre più profonda preoccupazione ed una sempre più profonda disperazione. Mentre cerca di capire quali siano le cause di quest’ultimo ammasso di macerie, deve riflettere su come certi esseri umani, che del progresso laico avevano fatto una specie di dogma, sembrino ancora guidati da un bisogno compulsivo di dimostrare come la religione non sia affatto necessaria al benessere dell’uomo.
Abbiamo visto nelle filosofie illuministiche che hanno informato di sé gli ultimi due secoli che questo moto ha le sue radici nella rivolta religiosa protestante, che a sua volta si verificò in coincidenza con due potenti processi, con i quali ebbe dei legami: la nascita delle nuove tecnologie, come quella della stampa, ed il capitalismo del libero mercato.
Nonostante affondi le proprie radici in una reinterpretazione puritana della storia del patriarca Abramo, questo impulso fu infine trasformato in uno strumentalismo laico basato sulla “fede laica” nel progresso e nei meccanismi del libero mercato, grazie alle opere di scrittori come John Locke, Thomas Paine e Hobbes.
Queste nuovi “fedi” superavano nella loro essenza i confini del contesto puritano in cui erano nate, e rendevano la religione un aspetto secondario o comunque derivato. Questo, fino al loro più recente incontro con il cristianesimo evangelico americano. Nella sua versione laica, la religione diventava una specie di aspetto sussidiario della vita umana, destinato a scomparire o a diventare parte del retroterra culturale dello stile di vita scelto da ogni singolo individuo. Una volta sradicata la povertà, mentre l’educazione diffondeva le idee laiche di progresso e di scienza e intanto che il libero mercato portava prosperità materiale e consumismo a tutti, i singoli individui si sarebbero elevati al di sopra dei loro istinti tradizionali e della loro cultura. Il mondo sarebbe diventato più pacifico e più armonioso.
Coloro che davvero credono in questi concetti hanno interpretato il crollo del comunismo come il segno di una tendenza inesorabile, e i neoliberisti hanno salutato i pochi anni di supremazia americana che sono seguiti ad esso come se fossero una nuova epoca storica. A sottolineare questa certezza c’era la decisa volontà di provare che la religione, nella sua forma di “vecchia” religione, quella comunitaria, quella della rivelazione intuitiva, del vivere secondo quello che Dio voleva dagli uomini, rappresentava qualcosa di non necessario per la vita moderna. I protestanti avevano vinto una precedente lotta per provare la non necessità di vivere secondo uno spirito comunitario basato su principi religiosi, ed oggi i loro successori volevano intravedere, nelle doglie del parto di questa nuova epoca, nella quale i vecchi “istinti regressivi della religione” sarebbero stati completamente sopraffatti dalla supremazia della scienza e del libero mercato.
Sembra che una religiosità recrudescente sia emersa proprio nel momento culminante di questo trionfo; non nella forma di un risveglio del quiescente “vecchio nemico” cattolicesimo, ma nella forma di un rinascimento islamico.
E’ difficile non scorgere, nella foga con cui si cerca di dimostrare che l’estremismo islamico rappresenta la principale minaccia per la libertà, qualcosa di diverso da un ossessivo impulso ad escludere anche la possibilità che possa esistere una spiegazione di tipo storico per la rinascita dell’Islam. Nel suo respingere ogni analisi di tipo razionale, che è lo scopo cui tende l’utilizzo di un linguaggio dai termini perentori, questa concezione mostra con chiarezza da che parte si trovi davvero il fondamentalismo.
Ogni tentativo di spiegazione viene considerato come un giustificativo o un segno di approvazione. I resoconti ponderati mascherano inganni e la “verità” che vi si nasconde dietro. La resistenza islamica è soltanto qualcosa di surreale, una transitoria esplosione di rabbia e di risentimento. Si respingono tutti i tentativi di compiere un’attribuzione causale della crescente resistenza, o si afferma che essa è causata da null’altro che dall’invidia per la libertà americana.
Questi dogmi di fede, spinti al punto che finiscono per indurre una forma di terrore in quell’umanità che essa vorrebbe redimere, fanno pensare ad una feroce e primitiva compulsione che è l’esatto opposto del concetto di libertà. La paranoia spesso rappresenta un atto di protesta contro l’assenza di significato, contro quello scandalo che è la nostra vuotezza. La condizione di vuoto è potenzialmente debilitante, specialmente se viene palesata da un avversario che si pensava di aver messo da lungo tempo in condizioni di non nuocere.
L’angelo della storia, comunque, continua a guardare. E mentre osserva le nuove rovine che si accumulano ai suoi piedi, prodotte da questa “guerra al terrore”, il suo sguardo fisso deve riflettere una sempre più profonda preoccupazione ed una sempre più profonda disperazione. Mentre cerca di capire quali siano le cause di quest’ultimo ammasso di macerie, deve riflettere su come certi esseri umani, che del progresso laico avevano fatto una specie di dogma, sembrino ancora guidati da un bisogno compulsivo di dimostrare come la religione non sia affatto necessaria al benessere dell’uomo.
Abbiamo visto nelle filosofie illuministiche che hanno informato di sé gli ultimi due secoli che questo moto ha le sue radici nella rivolta religiosa protestante, che a sua volta si verificò in coincidenza con due potenti processi, con i quali ebbe dei legami: la nascita delle nuove tecnologie, come quella della stampa, ed il capitalismo del libero mercato.
Nonostante affondi le proprie radici in una reinterpretazione puritana della storia del patriarca Abramo, questo impulso fu infine trasformato in uno strumentalismo laico basato sulla “fede laica” nel progresso e nei meccanismi del libero mercato, grazie alle opere di scrittori come John Locke, Thomas Paine e Hobbes.
Queste nuovi “fedi” superavano nella loro essenza i confini del contesto puritano in cui erano nate, e rendevano la religione un aspetto secondario o comunque derivato. Questo, fino al loro più recente incontro con il cristianesimo evangelico americano. Nella sua versione laica, la religione diventava una specie di aspetto sussidiario della vita umana, destinato a scomparire o a diventare parte del retroterra culturale dello stile di vita scelto da ogni singolo individuo. Una volta sradicata la povertà, mentre l’educazione diffondeva le idee laiche di progresso e di scienza e intanto che il libero mercato portava prosperità materiale e consumismo a tutti, i singoli individui si sarebbero elevati al di sopra dei loro istinti tradizionali e della loro cultura. Il mondo sarebbe diventato più pacifico e più armonioso.
Coloro che davvero credono in questi concetti hanno interpretato il crollo del comunismo come il segno di una tendenza inesorabile, e i neoliberisti hanno salutato i pochi anni di supremazia americana che sono seguiti ad esso come se fossero una nuova epoca storica. A sottolineare questa certezza c’era la decisa volontà di provare che la religione, nella sua forma di “vecchia” religione, quella comunitaria, quella della rivelazione intuitiva, del vivere secondo quello che Dio voleva dagli uomini, rappresentava qualcosa di non necessario per la vita moderna. I protestanti avevano vinto una precedente lotta per provare la non necessità di vivere secondo uno spirito comunitario basato su principi religiosi, ed oggi i loro successori volevano intravedere, nelle doglie del parto di questa nuova epoca, nella quale i vecchi “istinti regressivi della religione” sarebbero stati completamente sopraffatti dalla supremazia della scienza e del libero mercato.
Sembra che una religiosità recrudescente sia emersa proprio nel momento culminante di questo trionfo; non nella forma di un risveglio del quiescente “vecchio nemico” cattolicesimo, ma nella forma di un rinascimento islamico.
E’ difficile non scorgere, nella foga con cui si cerca di dimostrare che l’estremismo islamico rappresenta la principale minaccia per la libertà, qualcosa di diverso da un ossessivo impulso ad escludere anche la possibilità che possa esistere una spiegazione di tipo storico per la rinascita dell’Islam. Nel suo respingere ogni analisi di tipo razionale, che è lo scopo cui tende l’utilizzo di un linguaggio dai termini perentori, questa concezione mostra con chiarezza da che parte si trovi davvero il fondamentalismo.
Ogni tentativo di spiegazione viene considerato come un giustificativo o un segno di approvazione. I resoconti ponderati mascherano inganni e la “verità” che vi si nasconde dietro. La resistenza islamica è soltanto qualcosa di surreale, una transitoria esplosione di rabbia e di risentimento. Si respingono tutti i tentativi di compiere un’attribuzione causale della crescente resistenza, o si afferma che essa è causata da null’altro che dall’invidia per la libertà americana.
Questi dogmi di fede, spinti al punto che finiscono per indurre una forma di terrore in quell’umanità che essa vorrebbe redimere, fanno pensare ad una feroce e primitiva compulsione che è l’esatto opposto del concetto di libertà. La paranoia spesso rappresenta un atto di protesta contro l’assenza di significato, contro quello scandalo che è la nostra vuotezza. La condizione di vuoto è potenzialmente debilitante, specialmente se viene palesata da un avversario che si pensava di aver messo da lungo tempo in condizioni di non nuocere.
Come il protagonista di una tragedia [un paranoico] può scivolare attraverso una qualche invisibile frontiera oltre la quale ogni cosa, per lui, crolla riducendosi a nulla. E questo non è comunque un limite assoluto. Gli è possibile anche… desiderare questo nulla, e questo è quello che noi conosciamo come il male18.
Il vento chiamato progresso sta forse soffiando tanto forte da impedire all’angelo di spiegare le sue ali, spazzandolo via nonostante egli non voglia?
Nel suo God and Gold, Walter Russell Mead cita G.K. Chesterton: “le vacche possono anche condurre un’esistenza puramente economica, nel senso che non possiamo vederle fare molto altro oltre al pascolare; è per questo che una storia delle vacche in dodici volumi non sarebbe una lettura molto avvincente”19. Russell Mead continua poi:
Nel suo God and Gold, Walter Russell Mead cita G.K. Chesterton: “le vacche possono anche condurre un’esistenza puramente economica, nel senso che non possiamo vederle fare molto altro oltre al pascolare; è per questo che una storia delle vacche in dodici volumi non sarebbe una lettura molto avvincente”19. Russell Mead continua poi:
…I manzi sono tutti uguali; i tori possono contendersi la supremazia di questa o quella mandria, ma non esistono tra le vacche razze oppresse o caste che rimuginano su quello che hanno dovuto soffrire nel corso della storia e che tramano per rovesciare qualche tiranno bovino. Le vacche di Guernsey non invidiano le Angus, i bovi non fanno manifestazioni per i loro diritti; le Hereford non si risentono per una condizione speciale delle Brahma, e le Texas Longhorn non impensieriscono o offendono le altre razze con le loro imprevedibili manifestazioni di unilateralismo in politica estera.
“Tutto questo è molto consolante”, afferma Russell Mead, “ma fino a che punto gli esseri umani vogliono essere simili ai manzi”20?
Tutto questo rafforzare questa utopia laica ,che ha avuto luogo negli ultimi due secoli, soffre di una contraddizione intrinseca: quella di essere di per sé una versione deformata di quelle stesse spinte di tipo profondamente religioso che ha in fin dei conti cercato di mostrare prive di ogni significato. Il suo scopo era quello di dimostrare che il pensiero empirico, la scienza ed i meccanismi del mercato erano di per sé sufficienti a garantire la felicità umana.
Tutto questo rafforzare questa utopia laica ,che ha avuto luogo negli ultimi due secoli, soffre di una contraddizione intrinseca: quella di essere di per sé una versione deformata di quelle stesse spinte di tipo profondamente religioso che ha in fin dei conti cercato di mostrare prive di ogni significato. Il suo scopo era quello di dimostrare che il pensiero empirico, la scienza ed i meccanismi del mercato erano di per sé sufficienti a garantire la felicità umana.
La fiducia nel laicismo
Il laicismo emerge non tanto come visione del mondo quanto come dottrina politica. In questo senso uno stato laico è uno stato che bandisce la religione dalla vita pubblica mentre lascia le persone credere in quello che vogliono. Un laicismo così inteso può benissimo coesistere con le credenze religiose. Gli evangelici americani possono fare propri gli obiettivi dei fautori militanti del libero mercato perché condividono con essi una forte identificazione con il modello abramitico, che viene inteso come il prendere le decisioni giuste in tutta una serie di scelte personali che si presenta nel corso della vita, come il successo economico inteso come segno di grazia divina, come l’abbracciare i cambiamenti, il credere nella missione divina dell’America nel mondo e come un’opposizione senza compromessi all’idea che ogni altra religione diversa da quella cristiana protestante possa essere vera.
L’obiettivo politico di questa utopia era quello di portare alla fine delle divisioni politiche e degli antagonismi sociali, nonché quello di laicizzare la politica stessa. La vita moderna era destinata ad essere più sicura: sarebbe stata del tutto privata della sfera politica, nonché destinata ad essere vissuta come un confortevole ambiente fatto di agi e di sicurezza. Nel perseguire questa utopia gli esseri umani hanno finito per ritrovarsi un mondo soggetto a supervisione, in cui essi vivono senza pene, senza pericoli… e senza stimoli.
L’obiettivo politico di questa utopia era quello di portare alla fine delle divisioni politiche e degli antagonismi sociali, nonché quello di laicizzare la politica stessa. La vita moderna era destinata ad essere più sicura: sarebbe stata del tutto privata della sfera politica, nonché destinata ad essere vissuta come un confortevole ambiente fatto di agi e di sicurezza. Nel perseguire questa utopia gli esseri umani hanno finito per ritrovarsi un mondo soggetto a supervisione, in cui essi vivono senza pene, senza pericoli… e senza stimoli.
Siamo al punto che l’umanità è diventata come le vacche, e come gli abitanti dell’utopia immaginata da John Lennon, non ha nulla per cui uccidere o per cui morire. Il mondo è diventato un enorme centro commerciale, e noi siamo quelli che passano il tempo a farci spese… per sempre. Nietzsche chiamò gli abitanti di questo pacifico paradiso dello shopping gli ultimi uomini e dedicò alcune delle sue considerazioni polemiche più aspre proprio alla specie di uomo che si sarebbe trovato bene in un mondo come questo21.
Paradossalmente, la vita reale è la grande sconfitta che emerge dal progressivo tradursi in realtà di questi articoli di fede. Il perseguimento radicale della laicizzazione e l’economia neoliberale trasformano la vita stessa in una sorta di astratto processo anemico22.
Quello che rende la vita degna di essere vissuta è la consapevolezza che esiste qualcosa per cui è degno rischiare la vita stessa: ecco che cosa continuano a ricordarci i leader islamici. Non c’è allora da sorprendersi se la resistenza islamica, che continua a rifarsi ad “antiche verità” e ai principi essenziali della vita ha fatto sì che venisse accolto con rabbiosa repulsione chiunque suggerisse che essa poteva avere qualche cosa di valido da dire, che potesse offrire l’introspezione necessaria e la possibilità di una spiegazione storica per le macerie con cui deve fare i conti l’angelo della storia. Tanta foga non fa forse altro che confermare che l’Islam è diventata una delle poche sedi dalle quali è possibile trovare una simile spiegazione storica?
Nel terzo capitolo abbiamo considerato come il concetto di “difesa dell’Islam” sia nato dopo la morte del Profeta, attorno all’ottavo secolo. Questo non significa che il Profeta stesso non fosse direttamente coinvolto nella lotta in difesa del suo messaggio: lo era. Come abbiamo già visto, il Corano non avanzava alcuna argomentazione filosofica in favore del monoteismo. Il suo era un approccio pratico: il comportamento umano era uscito di strada. Esistevano un malessere spirituale, una situazione continua di guerra ed un’ingiustizia diffusa. Il Corano esortava a cambiare il modo in cui gli uomini si comportavano gli uni con gli altri.
La primissima comunità che si formò alla Mecca, attorno a Muhammad e ai suoi insegnamenti, non dovette mettere in atto alcuna azione di resistenza; la migrazione, o egira, del 622 cambiò tutto. L’egira, per i musulmani, è diventata simbolo di trasformazione e di disponibilità ad abbracciare i cambiamenti allo stesso modo in cui l’interpretazione della storia di Abramo lo è diventata per i protestanti. L’egira è stata un evento rivoluzionario, non certo una specie di trasloco. Nell’Arabia preislamica la tribù era sacra. Voltare le spalle al gruppo cui appartenevi per nascita e unirsi ad un altro gruppo era un fatto inaudito, e diventare capo di una comunità tenuta assieme non da legami di sangue ma da un’ideologia condivisa era un’innovazione sensazionale. La tribù del Profeta si mosse per sterminare la comunità alla Mecca23. La comunità fondata a Medina da un patto venne chiaramente fondata per resistere con le armi più che per qualsiasi altro motivo.
La seconda parte della vita di Muhammad, tra il 622 ed il 632, fu così in gran parte occupata dalla guerra, e rappresenta un vero contrasto rispetto al periodo della Mecca, nel quale predominava in essa la scoperta di un Dio trascendente. L’ultimo periodo fu un periodo in cui l’impegno in battaglia finì per identificarsi con il nucleo stesso della missione del Profeta24.
Molti dei primi credenti si convertirono in forza della bellezza assoluta del Corano, che riecheggiava le loro più profonde aspirazioni facendosi strada attraverso i loro preconcetti intellettuali come solo la grande arte riesce a fare, ed ispirandoli, ad un livello più profondo di quello puramente mentale, a trasformare per intero la loro condotta di vita. Esso li trasformò anche attraverso il combattimento attivo a difesa del messaggio che portava.
Quando i musulmani di oggi prendono le armi contro l’oppressione e l’ingiustizia, che nel Corano vengono identificati come le cose contro cui i musulmani devono combattere, non si tratta, come si ritiene spesso in Occidente, di qualcosa che contraddice lo spirito della religione. Ammesso che il loro intento sia sincero, coloro che appartengono alla resistenza islamica stanno seguendo le orme del Profeta stesso.
L’importanza originariamente attribuita al benessere della Umma era tanto importante per l’Islam che se la comunità islamica veniva umiliata da nemici apparentemente irreligiosi, o colpita dall’ingiustizia, un musulmano poteva percepire che era la sua fede stessa ad essere in pericolo. Ogni sforzo doveva essere compiuto per rimettere di nuovo la politica sul giusto percorso, o l’intera impresa religiosa sarebbe fallita e la vita stessa avrebbe perduto il suo significato25.
Abbiamo detto che lo scopo della resistenza islamica è quello di fare quello che l’angelo della storia sta cercando di fare, prima che un’altra esplosione di modernità lo spazzi via definitivamente e senza più rimedio. La resistenza islamica non è dunque l’irrazionale ed incomprensibile imperversare di una “capricciosità divina”. E’ una violenza sinceramente volta all’emancipazione, che vuole esporre l’essenza delle questioni ed invitare gli uomini a cambiare fin dalle basi il proprio comportamento. Abbiamo sostenuto che essa non è più efferata, in termini di “violenza divina”, di quanto non lo sia la violenza del sistema, praticata sotto il nome di “legittimo uso della forza” che è stato fatta propria dall’Occidente per il perseguimento dei punti fermi alla base delle sue credenze; entrambe poi hanno le loro radici nell’introspezione religiosa.
Abbiamo detto che la reazione dell’Occidente alla resistenza islamica ha portato al rifiuto di ogni possibile spiegazione storica e razionale della resistenza, e a precludere ad essa i mezzi di comunicazione. Abbiamo sostenuto che questo modo di fare mette in luce la vacuità dell’intento della modernità laica di perfezionare la vittoria protestante contro le comunità religiose, cui essa vorrebbe giungere dimostrando la non necessità della religione per il benessere umano. Abbiamo anche evidenziato la contraddizione tra questo obiettivo e le radici stesse della modernità laica, che affondano in tematiche di tipo protestante. Questo senso di vuoto, pensiamo, nasce dall’assenza di scopi della vita incolore a cui questo percorso ha alla fine portato.
Nel prossimo capitolo considereremo i modi in cui il “linguaggio strumentale” e l’opera di realizzazione da parte dell’America del proprio concetto di potenza e di politica hanno formato una combinazione capace di creare un intera linea di pensiero, che noi rapportiamo direttamente alla rovina che negli ultimi anni l’angelo di Paul Klee ha potuto contemplare manifestando tutta la sua impotenza e tutta la sua disperazione.
Quello che rende la vita degna di essere vissuta è la consapevolezza che esiste qualcosa per cui è degno rischiare la vita stessa: ecco che cosa continuano a ricordarci i leader islamici. Non c’è allora da sorprendersi se la resistenza islamica, che continua a rifarsi ad “antiche verità” e ai principi essenziali della vita ha fatto sì che venisse accolto con rabbiosa repulsione chiunque suggerisse che essa poteva avere qualche cosa di valido da dire, che potesse offrire l’introspezione necessaria e la possibilità di una spiegazione storica per le macerie con cui deve fare i conti l’angelo della storia. Tanta foga non fa forse altro che confermare che l’Islam è diventata una delle poche sedi dalle quali è possibile trovare una simile spiegazione storica?
Nel terzo capitolo abbiamo considerato come il concetto di “difesa dell’Islam” sia nato dopo la morte del Profeta, attorno all’ottavo secolo. Questo non significa che il Profeta stesso non fosse direttamente coinvolto nella lotta in difesa del suo messaggio: lo era. Come abbiamo già visto, il Corano non avanzava alcuna argomentazione filosofica in favore del monoteismo. Il suo era un approccio pratico: il comportamento umano era uscito di strada. Esistevano un malessere spirituale, una situazione continua di guerra ed un’ingiustizia diffusa. Il Corano esortava a cambiare il modo in cui gli uomini si comportavano gli uni con gli altri.
La primissima comunità che si formò alla Mecca, attorno a Muhammad e ai suoi insegnamenti, non dovette mettere in atto alcuna azione di resistenza; la migrazione, o egira, del 622 cambiò tutto. L’egira, per i musulmani, è diventata simbolo di trasformazione e di disponibilità ad abbracciare i cambiamenti allo stesso modo in cui l’interpretazione della storia di Abramo lo è diventata per i protestanti. L’egira è stata un evento rivoluzionario, non certo una specie di trasloco. Nell’Arabia preislamica la tribù era sacra. Voltare le spalle al gruppo cui appartenevi per nascita e unirsi ad un altro gruppo era un fatto inaudito, e diventare capo di una comunità tenuta assieme non da legami di sangue ma da un’ideologia condivisa era un’innovazione sensazionale. La tribù del Profeta si mosse per sterminare la comunità alla Mecca23. La comunità fondata a Medina da un patto venne chiaramente fondata per resistere con le armi più che per qualsiasi altro motivo.
La seconda parte della vita di Muhammad, tra il 622 ed il 632, fu così in gran parte occupata dalla guerra, e rappresenta un vero contrasto rispetto al periodo della Mecca, nel quale predominava in essa la scoperta di un Dio trascendente. L’ultimo periodo fu un periodo in cui l’impegno in battaglia finì per identificarsi con il nucleo stesso della missione del Profeta24.
Molti dei primi credenti si convertirono in forza della bellezza assoluta del Corano, che riecheggiava le loro più profonde aspirazioni facendosi strada attraverso i loro preconcetti intellettuali come solo la grande arte riesce a fare, ed ispirandoli, ad un livello più profondo di quello puramente mentale, a trasformare per intero la loro condotta di vita. Esso li trasformò anche attraverso il combattimento attivo a difesa del messaggio che portava.
Quando i musulmani di oggi prendono le armi contro l’oppressione e l’ingiustizia, che nel Corano vengono identificati come le cose contro cui i musulmani devono combattere, non si tratta, come si ritiene spesso in Occidente, di qualcosa che contraddice lo spirito della religione. Ammesso che il loro intento sia sincero, coloro che appartengono alla resistenza islamica stanno seguendo le orme del Profeta stesso.
L’importanza originariamente attribuita al benessere della Umma era tanto importante per l’Islam che se la comunità islamica veniva umiliata da nemici apparentemente irreligiosi, o colpita dall’ingiustizia, un musulmano poteva percepire che era la sua fede stessa ad essere in pericolo. Ogni sforzo doveva essere compiuto per rimettere di nuovo la politica sul giusto percorso, o l’intera impresa religiosa sarebbe fallita e la vita stessa avrebbe perduto il suo significato25.
Abbiamo detto che lo scopo della resistenza islamica è quello di fare quello che l’angelo della storia sta cercando di fare, prima che un’altra esplosione di modernità lo spazzi via definitivamente e senza più rimedio. La resistenza islamica non è dunque l’irrazionale ed incomprensibile imperversare di una “capricciosità divina”. E’ una violenza sinceramente volta all’emancipazione, che vuole esporre l’essenza delle questioni ed invitare gli uomini a cambiare fin dalle basi il proprio comportamento. Abbiamo sostenuto che essa non è più efferata, in termini di “violenza divina”, di quanto non lo sia la violenza del sistema, praticata sotto il nome di “legittimo uso della forza” che è stato fatta propria dall’Occidente per il perseguimento dei punti fermi alla base delle sue credenze; entrambe poi hanno le loro radici nell’introspezione religiosa.
Abbiamo detto che la reazione dell’Occidente alla resistenza islamica ha portato al rifiuto di ogni possibile spiegazione storica e razionale della resistenza, e a precludere ad essa i mezzi di comunicazione. Abbiamo sostenuto che questo modo di fare mette in luce la vacuità dell’intento della modernità laica di perfezionare la vittoria protestante contro le comunità religiose, cui essa vorrebbe giungere dimostrando la non necessità della religione per il benessere umano. Abbiamo anche evidenziato la contraddizione tra questo obiettivo e le radici stesse della modernità laica, che affondano in tematiche di tipo protestante. Questo senso di vuoto, pensiamo, nasce dall’assenza di scopi della vita incolore a cui questo percorso ha alla fine portato.
Nel prossimo capitolo considereremo i modi in cui il “linguaggio strumentale” e l’opera di realizzazione da parte dell’America del proprio concetto di potenza e di politica hanno formato una combinazione capace di creare un intera linea di pensiero, che noi rapportiamo direttamente alla rovina che negli ultimi anni l’angelo di Paul Klee ha potuto contemplare manifestando tutta la sua impotenza e tutta la sua disperazione.
1 Walter Benjamin, Theses on the Philosophy of History, New York: Schocken Books, 1968, Tesi IX.
2 Slavoj Žižek, Violence, London: Profile Books, 2008, p. 152.
3 Ibid., p. 167
4 Maximilien Robespierre, Virtue and Terror, London: Verso, 2007, p. 129.
5 John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London: Allen Lane, 2007, p. 4.
6 Ibid., p. 184.
7 John Gray, Black Mass, p. 169.
8 Khaled Mesha’al intervistato da Hugh Spanner a Damasco nel giugno 2008 per the Third Way, trascrizione allo URL (consultato nel novembre 2008): http://www.thirdwaymagazine.com/354
9 Corano, 80:11.
10 The Columbia Electronic Encyclopaedia, 2004, Columbia University Press, URL (consultato ad agosto 2008): http://www.reference.com/browse/columbia/leviathan
11 Benedict Anderson, Imagined Communities, London: Verso, 1983, p. 11.
12 Ibid., p. 11.
13 Ibid., p. 12.
14 Terry Eagleton, Holy Terror, Oxford: Oxford University Press, 2005, p. 94.
15 Ibid., p. 12.
16 Slavoj Žižek, Violence, p. 49.
17 D. Rosenblum, ‘It’s a Jungle Out There’, Ha’aretz 16 June 2007.
18 Terry Eagleton, Holy Terror, p. 115.
19 G.K. Chesterton, The Everlasting Man, New York: Image Books, 1955, p. 137.
20 Walter Russell Mead, God and Gold: Britain, America and the Making of the Modern World, New York: Alfred Knopf, Random House, 2007, pp. 407–8.
21 Walter Russell Mead, God and Gold, pp. 407–8.
22 Slavoj Žižek, Welcome to the Desert of the Real, London: Verso, 2002, p. 88.
23 Karen Armstrong, Islam: A Short History, London: Phoenix, 2001, p. 12.
24 Michael Bonner, Jihad in Islamic History: Doctrines and Practice, Princeton, NJ: Princeton University Press, 2006, pp. 39–41.
25 Karen Armstrong, Islam, p. XI.
Nessun commento:
Posta un commento